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384/2019 Pensare la violenza / Nuove forme di sorveglianza

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384

dicembre 2019

PENSARE LA VIOLENZA

Premessa [Sanja M. Bojanic´, Damiano Cantone] 3 Judith Butler Interpretare la non violenza 9 Sergia Adamo Violenza, non violenza,

vulnerabilità 33

Sanja M. Bojanic´ Retorica dell’emancipazione vs. retorica della misoginia 43 Adriana Zaharijevic´ Vedere la violenza:

immagini e critica 58

Massimo Palma Violenza ascetica.

Note sul lavoro in Weber 77

Petar Bojanic´, Gazela Pudar Draško Che cos’è la polizia? L’istituzione della violenza

universale e la violenza dell’universale 94 Bas¸ak Ertür Note sulla difficoltà di scrivere

a proposito della violenza di Stato 113 Peter Fenves Il diritto e la violenza:

da Kant a Benjamin 127

NUOVE FORME DI SORVEGLIANZA Premessa [Alessandro Dal Lago, Matteo

F.N. Giglioli] 141

Alvaro Bedoya, Cindy Cohn “Non ho nulla da nascondere” è un altro modo di dire

“Sono privilegiato” 146

Cory Doctorow Il culmine del negazionismo 158 Mark Andrejevic L’automazione della

sorveglianza 163

Matteo F.N. Giglioli Diffidenza generalizzata e diffidenza specifica nell’epoca della

sorveglianza informatica 178

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951

direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN

: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Stampa: Galli Thierry, Milano

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Finito di stampare in novembre 2019

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aut aut, 384, 2019, 3-8

Pensare la violenza

Q uali dovrebbero essere oggi gli obietti- vi di una critica della violenza? A qua- si cento anni dalla stesura del celebre saggio di Walter Benjamin che analizzava i rapporti tra violen- za e giustizia, la domanda è quanto mai attuale. La violenza po- litica, verbale, identitaria che pervade i linguaggi e le azioni del- le istituzioni, anche quelle destinate a evitarla, impone di rico- minciare a riflettere sugli strumenti critici che vogliamo mettere in campo per affrontarla. Un approccio filosofico a tale questio- ne non può evitare di misurarsi con – e dunque anche di tentare di definire quali sono – le forme della violenza contemporanea e in che cosa si distinguano dalle sue forme storiche. E inoltre: so- no possibili delle azioni efficaci contro l’uso della violenza, e in che termini? A partire da questa premessa, è stata organizzata la summer school internazionale di Rijeka (Fiume) intitolata Criti- que of Violence Now: From Thinking to Acting against Violence, che ha visto come momento più importante la lectio magistralis di Judith Bulter dedicata al tema della non violenza e pubblica- ta qui per la prima volta.

Nell’impostazione data al problema da parte della pensatri-

ce americana, la violenza appare strettamente correlata a una

pratica e a un’etica della non violenza. A partire dall’analisi del

mito fondatore della teoria politica moderna, quello dello stato

di natura che sta alla base del contrattualismo, Butler propone

una serie di osservazioni critiche che mettono in luce il carat-

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tere violento e al tempo stesso irriflesso dei presupposti del di- scorso politico stesso. Il più importante, in relazione agli effet- ti di senso che comporta, è quello che riguarda l’esistenza di in- dividui separati gli uni dagli altri, i cui rapporti dovrebbero es- sere regolati dal diritto. Il saggio ci spinge invece a pensare, nei termini dei processi di individuazione, la condizione reale delle nostre esistenze che sono costantemente correlate alle esistenze degli altri e in costante scambio con l’ambiente sociale, cultura- le e politico nel quale si svolgono – nel corso della vita – le no- stre esperienze.

Dunque, una politica della non violenza deve partire da un’affermazione radicale dell’uguaglianza di tutte le vite, una ri- vendicazione della stessa dignità e valore: “Una vita deve esse- re degna di lutto, cioè la sua perdita deve essere considerata una perdita, affinché un’ingiunzione contro la violenza e la distru- zione possa interessare quella vita che deve essere protetta con- tro la violenza. Se seguiamo la concezione per cui la perdita di alcune vite è più dolorosa della perdita di altre vite, la condizio- ne di uguaglianza non potrà mai essere raggiunta”.

1

Il saggio di Sergia Adamo riprende le riflessioni di Butler concentrandosi in particolare sul concetto di vulnerabilità. Se si vuole evitare che questa parola perda il suo significato e la sua forza, venendo consegnata al vocabolario insipido della po- litical correctness, bisogna ripensarla proprio nel suo rapporto con la violenza. La semplice contrapposizione di questi due ter- mini non esaurisce affatto la ricchezza della loro articolazione:

c’è anzi una possibile violenza della vulnerabilità, iscritta in es- sa come sua possibilità più autentica, quando viene rivendica- ta per giudicare politiche di difesa e resistenza all’altro. Soltan- to una politica della vulnerabilità – ovvero la consapevolezza che tale termine acquista valenze diverse a seconda di chi lo adotta e in quale contesto – permette dunque un uso della vulnerabilità in un’ottica di critica della violenza, ovvero di un atteggiamento

“che tenga sempre presente il nesso tra vulnerabilità e aggressi-

1. J. Butler, Interpretare la non violenza, in questo fascicolo.

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vità, il fatto che, sì, siamo tutti/e sempre vulnerabili, ma la misu- ra del privilegio consiste proprio nelle difese che si possono ave- re rispetto agli impedimenti originati dalla vulnerabilità stessa”.

2

Sempre sulla linea di Butler, Sanja Bojanic´ analizza il percor- so storico dell’emancipazione femminile e di quella che potrem- mo definire la sua ombra, ovvero la persistente misoginia laten- te al fondo dei discorsi del potere. Nel corso della storia, la voce femminile ha decisamente faticato a farsi sentire all’interno dei discorsi – sempre maschili – che la riguardavano. Anche a par- tire dalla Rivoluzione francese, nel momento in cui l’idea dei di- ritti universali dell’uomo cominciò a trovare una sua traduzio- ne politica, il femminile rimase in una posizione ambigua a metà tra l’inclusione e l’esclusione. Ogni passo fatto in direzione del- la sua uguaglianza in termini di diritti e opportunità sociali ha provocato un movimento analogo e contrario in direzione della sua esclusione dal discorso pubblico e questo – conclude ama- ramente Sanja Bojanic´ – sembra accadere ancora oggi.

Il tema della violenza delle immagini e del loro impatto sullo spettatore della nostra società ipermediale è il tema della rifles- sione di Adriana Zaharijevic´, che ci conduce in un interessan- te itinerario filosofico attraverso le considerazioni di due grandi scrittrici contemporanee, Virginia Woolf e Susan Sontag. La do- manda di partenza è se le immagini disturbanti e potenti degli orrori della guerra e della violenza abbiano ancora la capacità di destare la coscienza critica degli spettatori – come sosteneva Woolf nel 1937 – oppure se, in un’epoca iper-mediatizzata co- me la nostra, la fotografia scioccante non sia di alcuna utilità per comprendere i fenomeni da cui è tratta, ma anzi – come ritiene Sontag – essa ci “perseguiti come uno spettro”, laddove invece ci sarebbe bisogno di integrarla in una narrazione più comples- sa. Sebbene la fotografia non sia più in grado da sola di parlare universalmente a tutti allo stesso modo, generando in ciascuno le reazioni morali che potrebbero portare alla “fine di tutte le guerre”, sarebbe cinico e sbagliato considerarla come una sem-

2. S. Adamo, Violenza, non violenza, vulnerabilità, in questo fascicolo.

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plice finzione, una rappresentazione costruita di una realtà che non ci riguarda.

Il confronto con il pensiero di Weber guida il saggio di Mas- simo Palma. L’autore sottopone l’opera del pensatore tedesco a una doppia reazione: da una parte, lo fa reagire con la sua anali- si psicologica, caratterizzata dalla propensione per il freddo del masochismo, quella freddezza che costituisce il cuore dell’azio- ne burocratica cui è sottoposto il lavoratore salariato; e, dall’al- tra, con la produzione di Andy Wahrol e la sua estetizzazione dell’alienazione e della serialità, che costituisce la cifra del lavo- ro e delle forme di espressione – anche artistiche – della nostra epoca. Ne emerge un’analisi della forma del potere burocratico e della violenza a esso collegata: una volenza anonima, legale, li- vellatrice o, per usare le parole dell’autore, “l’elemento della co- azione e il suo necessario incarnarsi in un’‘istituzione coattiva universalistica’ che neghi la legittimità di ogni formazione coat- tiva particolaristica”.

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L’analisi di Petar Bojanic´ e Gazela Pudar Draško è invece de- dicata al problema della violenza legittima, che nelle società mo- derne pertiene solo allo Stato attraverso l’istituzione della poli- zia. Gli autori si interrogano sulla genesi del significato moder- no del termine polizia, che in origine non era legato semplice- mente al tema dell’ordine pubblico. Oggi infatti essa è esperita come una sorta di “ordine esterno” che regola la vita dei citta- dini, ma ci si dovrebbe ricordare che la polizia appartiene fon- damentalmente alla società civile, non allo Stato. Ripercorren- do la lettura del tema che Hegel – in contrapposizione a Fichte – offre nelle sue lezioni di filosofia del diritto, Bojanic´ e Pudar Draško chiariscono come la polizia stia dalla parte della polis, sia la forza civile del popolo e non quella repressiva dello Stato.

Soprattutto ne vengono invocati due limiti: quello della “Torre di Babele”, lo sforzo della costruzione dell’universale senza isti- tuzione e dunque destinato a fallire – la condizione dell’assenza della polizia – e lo ius provocationis all’interno del diritto roma-

3. M. Palma, Violenza ascetica. Note sul lavoro in Weber, in questo fascicolo.

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7

no. Si tratta della possibilità che era offerta al cittadino romano di “chiamare la polizia”, ovvero di contestare una decisione a lui sfavorevole, di rivolgersi al popolo per opporsi a una decisio- ne di un magistrato o di un giudice – dunque anche a quello che oggi definiremmo ordine pubblico. Accogliendo l’invito di He- gel a ripensare il rapporto tra polizia e vita in comune, gli autori concludono che “solo una tale consapevolezza comune di tutti gli individui e della loro attività individuale e comune, il cui sco- po è la vita comune, può ridurre e distruggere i vari protocolli violenti sempre e per sempre”.

4

Il lavoro di Bas¸ak Ertür prende in esame il concetto di “vio- lenza di Stato”, ovvero il fatto che l’uso legittimo della violenza da parte dello Stato comporti sempre degli elementi di oscuri- tà, un’impenetrabilità dell’azione di polizia al diritto che ne ren- de complessa e ambigua la definizione. In pratica, nello scrive- re sulla violenza di Stato, ci si trova sempre alle prese con il pa- radosso di tentare di razionalizzare un nucleo di potere che è in se stesso irrazionale. Per mostrarne il funzionamento, l’autrice ri- percorre alcuni aspetti del processo Ergenekon, istruito in Tur- chia a seguito del fallito tentativo di golpe ai danni del premier Erdogan. Il processo si è concluso il 1° luglio 2019 (e quindi do- po la stesura dell’articolo) con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Il caso è esemplare, poiché si è dimostrato come l’intero impian- to accusatorio dello Stato sia nato solo dal sospetto, dalla para- noia e dalla delazione, alimentato dal clima di caccia alle streghe successivo al fallito colpo di Stato. E ci permette di “sperimenta- re momenti in cui ci si riesce a librare al di sopra del proprio og- getto di riflessione per raggiungere livelli da cui è possibile avere il controllo e che consentono una chiara comprensione del mec- canismo stesso della violenza di Stato e del suo intricato operare (il ‘sistema’)”.

5

Seguendo la traccia di un saggio di Christoph Menke, Recht

4. P. Bojanic´, G. Pudar Draško, Che cos’è la polizia? L’istituzione della violenza univer- sale e la violenza dell’universale, in questo fascicolo.

5. B. Ertür, Note sulla difficoltà di scrivere a proposito della violenza di Stato, in que-

sto fascicolo.

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und Gewalt, Peter Fenves costruisce un dialogo fra le teorie del- la violenza di Kant e le riflessioni di Benjamin. La posta in gio- co è come vada specificamente intesa la parola tedesca Gewalt, che Kant legge ora nel suo significato latino di potestas ora in quello di violentia. Non si tratta semplicemente di un’ambiguità lessicale, ma del paradosso del “concetto di una forza giuridica che emerge, come per magia, dalla sua controparte fisica nell’at- to della riflessione”.

6

Per Benjamin, che da tale riflessione pren- de le mosse, si tratta di ammettere che è impossibile una conce- zione “pura” della violenza, ovvero di una violenza che prescin- da dalle proprie caratteristiche empiriche ed esperienziali. Cosa potrebbe essere dunque un concetto puro di Gewalt? Quello di una forza o di un “bene” che si sottrae nel momento stesso del- la propria manifestazione empirica. [Sanja M. Bojanic´, Damiano Cantone]

6. P. Fenves, Il diritto e la violenza: da Kant a Benjamin, in questo fascicolo.

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aut aut, 384, 2019, 9-32

Interpretare la non violenza

JUDITH BUTLER

S e la non violenza ha un senso in termi- ni etici e politici, essa non può semplice- mente consistere nel reprimere l’aggressi- vità o eliminarne l’esistenza; piuttosto, la non violenza dovrebbe emergere nella sua pienezza di significato proprio laddove la di- struzione è più probabile o addirittura appare certa.

Propongo come primo punto di concepire un’etica della non violenza che presuppone forme di dipendenza e interdipenden- za ingestibili o fonti di conflitto e aggressività. In secondo luo- go, che la nostra concezione dell’uguaglianza si colleghi all’etica e alla politica della non violenza. Affinché tale connessione ab- bia senso, dovremmo ammettere, nella nostra idea di uguaglian- za politica, l’uguaglianza delle vite. Solo una presa di distanza da un individualismo dato per scontato ci farà comprendere la possibilità di una non violenza aggressiva, che emerge nel mez- zo del conflitto, che si impone nel campo di forza della violen- za stessa.

Un approccio completamente egualitario alla conservazione

della vita inserisce la questione etica sul modo migliore di pra-

ticare la non violenza in una prospettiva di democrazia radica-

le. Non c’è differenza tra vite degne di essere preservate e vite

degne di lutto, il che significa che la capacità di provocare dolo-

re determina la gestione delle creature viventi e si dimostra par-

te integrante della biopolitica, del modo di pensare l’uguaglian-

za tra i viventi. Questa argomentazione a favore dell’uguaglian-

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za riguarda direttamente l’etica e la politica della non violenza.

Una pratica non violenta può certamente includere un divieto di uccidere, ma non può essere riducibile a tale divieto. La vita istituzionale della violenza non sarà abbattuta da un divieto, ma solo da un ethos e una pratica contro-istituzionali.

Voglio ringraziare tutti voi riuniti qui questa sera. Allo stesso tempo, sarebbe saggio, credo, non dare per scontato che ci sia un “noi” unificato che si è riunito qui questa sera. E se ipotizzassi che il “noi” che si è riunito qui, quello a cui e di cui sto parlando, presuppone la divisione, il multilinguismo, forse il conflitto, fin dall’inizio? Noi che ci riuniamo qui, chiunque siamo, iniziamo col chiederci se ci capiremo l’un l’altro, se qualcosa sarà comu- nicato. Ci guardiamo intorno, e forse siamo venuti qui volonta- riamente, ma questo non significa che sappiamo chi siamo. Noi che ci incontriamo qui non siamo identificabili con una città, una regione, una nazione, uno Stato, eppure, in qualche modo, tutte queste entità dipendono da noi. Anche il potere autoritario, ci dice Arendt, funziona solo presupponendo che il popolo possa essere controllato, o che la volontà popolare possa essere creata e, in caso contrario, negata o sconfitta. Quindi, chiunque siamo, sia- mo per così dire in conflitto e perseguiamo obiettivi contrastanti.

Non possiamo presumere un’unità – anche se siete gentilmente venuti a incontrarvi qui –, questo incontro è un’unità provvisoria e internamente articolata, minacciata da quelli che mancano o se ne sono andati, ma forse anche potenziale, il primo di una serie di incontri a venire.

Alcuni esponenti della storia del pensiero politico liberale

vorrebbero farci credere che entriamo in questo mondo socia-

le e politico a partire da uno stato di natura. E in quello stato di

natura siamo già, per qualche motivo, individui, e siamo in con-

flitto l’uno con l’altro. Non ci viene spiegato come siamo sta-

ti individuati, né ci viene detto precisamente perché il conflit-

to è il primo dei nostri rapporti di base, piuttosto che la dipen-

denza o l’attaccamento. Hobbes, che è stato il più influente nel

plasmare la nostra comprensione del contrattualismo politico, ci

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dice che un individuo vuole ciò che un altro ha, o che entrambi gli individui rivendicano lo stesso territorio, e che combattono l’uno contro l’altro per perseguire i propri scopi egoistici e sta- bilire il loro diritto personale alla proprietà, al dominio della na- tura e della società. Ovviamente, lo stato di natura si è sempre rivelato una finzione, come ammetteva apertamente Rousseau, ma è stata una finzione potente. Ci ha dato una condizione con- trofattuale per valutare la nostra situazione presente; offriva un punto di vista, come fa la fantascienza, che permetteva di ve- dere la specificità e la contingenza dell’organizzazione dello spazio e del tempo nel presente. Riferendosi a Rousseau, Jean Starobinski ha detto che l’unica ragione per cui nello stato di natura può essere ipotizzata l’uguaglianza assoluta è perché è una scena priva di individui. In effetti, dove non c’è nessuno si può affermare un’uguaglianza assoluta; ma una volta che gli es- seri umani entrano in scena, il problema dell’uguaglianza diven- ta più intricato. Perché è così?

Marx ha contestato proprio la parte dell’ipotesi dello stato di natura che pone l’individuo come primario. Nei manoscritti del 1844, con grande ironia, ridicolizzò l’idea che all’inizio gli uma- ni fossero, come Robinson Crusoe, soli su un’isola, autonomi per quanto riguarda il loro sostentamento, capaci di vivere sen- za dipendere dagli altri, senza sistemi di lavoro e senza alcuna organizzazione comune della vita politica ed economica. Marx scrive: “Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza. Un uomo, che vive della gra- zia altrui, si considera come un essere dipendente”.

1

Marx pen- sava di poter eliminare la finzione a vantaggio del fatto concre- to, ma ciò non gli impedì di usare quelle finzioni per sviluppare la sua critica dell’economia politica. Non rappresentano la real- tà, ma se sappiamo come interpretarle producono una riflessio- ne sulla realtà concreta che altrimenti non saremmo in grado di

1. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), trad. di N. Bobbio, Ei-

naudi, Torino 1968, p. 123.

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Violenza, non violenza, vulnerabilità

SERGIA ADAMO

3 marzo 1991: Rodney King viene arrestato a Los Angeles e picchia- to dalla polizia. Poco più di un anno più tardi, durante il processo ai poliziotti incriminati per la violenza commessa su di lui, viene mostrato un video da cui risulta chiaro che King è stato, come ha scritto Judith Butler, “brutalmente e ripetutamente picchiato senza opporre evidente resistenza”.

1

Eppure questo video venne usato, ha notato ancora Butler qualche anno dopo, come prova del fatto che il corpo di King era fonte di violenza, minaccia di pericolo nei confronti dei poliziotti (armati), che quel corpo con la sua stessa esistenza e presenza in quel contesto portava con sé l’intenzione di ferire, di vulnerare. Ciò che l’inquadratura del video mostrava venne incorniciato e reinquadrato nella situazione processuale ma anche nella messa in onda televisiva di quello stesso video per fare di King, letteralmente, un agente di violenza. La capacità di agire violentemente di King, nel momento della sua massima vulnerabili- tà, poté essere costruita come implicazione, come antecedente dato per scontato rispetto alle cornici che definivano lo spettro del vi- sibile. Da qui, da questa costruzione di “intellegibilità narrativa”,

2

sarebbe derivata la tesi della legittima difesa da parte dei poliziotti che lo avevano picchiato e la loro conseguente assoluzione. Cosa che, a sua volta, avrebbe dato seguito tra l’aprile e il maggio 1992

1. J. Butler, Tra razzismo e paranoia bianca: il pericolo di chi mette in pericolo (1993), trad. di S. Adamo, “Multiverso”, 7, 2007, pp. 15-22.

2. Ibidem.

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ai riots di Los Angeles, il cosiddetto Rodney King Uprising, forse la prima esplosione di rivolta post-1989 in cui la violenza occupò la scena metropolitana.

Sono lontani nel tempo quei giorni; ma le costruzioni di intel- ligibilità narrativa che l’analisi di Butler aveva allora messo in lu- ce sembrano più presenti e vicine che mai. Penso a immagini di corpi vulnerabili e vulnerati, resi incapaci di agire qualunque ti- po di violenza per il fatto di trovarsi in una condizione di estre- ma vulnerabilità, narrati e resi intellegibili attraverso la definizio- ne di una cornice in cui quegli stessi corpi presuppongono il peri- colo della violenza, costituiscono una minaccia, diventano pronti a esercitare la violenza che subiscono. Sono le immagini che in al- cune occasioni raggiungono le pagine dei mezzi di informazione in Italia, nell’estate del 2019, mentre vaghe percezioni di numeri (sempre nell’ordine delle centinaia) vengono fatte passare al gran- de pubblico: si tratta delle persone morte nel Mediterraneo, ca- daveri, corpi in condizioni di vulnerabilità totale, di assoluta im- possibilità di vulnerare. Difficile descriverli più intensamente di quanto ha fatto Alessandro Leogrande, nel suo La frontiera, rac- contando un recupero di corpi al largo di Lampedusa:

Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero. Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei ve- stiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso. Sono tutti neri, tutti giovani.

3

Di nuovo, corpi; come quello di Rodney King. Corpi che portano i segni di una violenza che nelle sue articolazioni ha molteplici

3. A. Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015, p. 5.

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forme, cause, origini. E che però vengono narrati come portatori di minacce, di un pericolo. Leogrande stesso aveva preso nota di quanto era accaduto il 30 giugno del 2016, in occasione del recupero dei corpi delle vittime di un naufragio avvenuto a po- che miglia dalle coste della Libia (700 i corpi dispersi, 700…):

l’opinione pubblica italiana si era scatenata, soprattutto alla radio, producendo un profluvio di dichiarazioni violente contro quei corpi sentendosi offesa per le spese che lo Stato italiano aveva deciso di sostenere per il loro recupero.

4

Lo schema si ripete: il corpo vulnerabile, razzializzato e marginalizzato nella condizione di minorità (economica, prima di tutto, di classe), diventa la di- mensione in cui la violenza si sente in pericolo e allo stesso tempo, come dice Butler, “colpisce” tramutandosi nello “spettro della sua stessa rabbia”.

5

Una violenza che si dissocia da se stessa per legit- timare la sua azione brutalizzante nei confronti di questo spettro.

Una forma di paranoia, “che proietta l’intenzione di offendere che essa stessa mette in atto”,

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una paranoia di difficile lettura, di difficile individuazione, ma di grande impatto nel momento in cui si legittima iterativamente nel discorso pubblico e nel senso comune, finché non arriva a infiltrare l’auto-rappresentazione delle istituzioni.

Mi pare che ciò che queste considerazioni continuano a dir- ci sia proprio che opporsi alla violenza, resistere alla violenza, significa anche impegnarsi a osservare e descrivere le modalità, variegate, complesse e non scontate, attraverso cui essa funzio- na. E tra queste modalità il fantasma della paranoia che evoca razzismo, preoccupazioni demografiche e supposte costruzioni di vulnerabilità è quello che spesso legittima la violenza di Sta- to proprio nei confronti di chi è già più esposto/a a essa. Cer- to, si tratta solo di uno dei dispositivi che costruiscono i discorsi della violenza e le cornici che poi contribuiscono a renderla rea- le, sia fisicamente, sia verbalmente e a livello delle rappresenta-

4. Id., Tutta la città straparla, “minima et moralia”, 7 agosto 2016, <minimaetmoralia.

it/wp/tutta-la-citta-straparla> (consultato il 20 luglio 2019).

5. J. Butler, Tra razzismo e paranoia bianca, cit.

6. Ibid.

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Retorica dell’emancipazione vs. retorica della misoginia

SANJA M. BOJANIC´

I l titolo del mio articolo indica un particola- re tipo di opposizione binaria (versus, come nei processi), tipico della filosofia, che an- drebbe analizzato scrupolosamente. Innanzitutto, il tipo di rela- zione tra i termini in questione è inusuale: la nozione di emanci- pazione difficilmente può essere paragonata, resa complementa- re o opposta alla misoginia. Nello specifico del XX secolo, il con- cetto di emancipazione è stato particolarmente apprezzato, di- ventando un termine che viene di solito associato ad altre parole positive che descrivono un vasto ambito di diritti umani, eguali- tarismo, solidarietà, parità ecc. Ha avuto un ruolo – e continua ad averlo – nelle teorie sui fenomeni sociali, o nelle riflessioni su molti movimenti sociali collegati all’indipendenza dal dominio coloniale, alla liberazione delle donne dal dominio maschile e al- la liberazione delle classi lavoratrici dallo sfruttamento capitali- sta. Sposando la tesi che la libertà sia strettamente connessa alla libertà dall’oppressione, i sostenitori della tradizione emancipa- toria si distinguono dai liberali, che tendono a concepire la liber- tà come assenza da interferenze esterne.

Non esistono tuttavia strutture concettuali privilegiate che non debbano venire analizzate, criticate e decostruite. Iniziamo dalle parole e dal linguaggio per tentare di mappare ed enume-

Sanja M. Bojanic´ insegna all’Accademia delle arti applicate e dirige il Centro di studi avan-

zati dell’Europa sud-orientale dell’Università di Rijeka (Fiume).

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rare ciò che funziona e ciò che non funziona nell’espressione di atteggiamenti e pensieri e per mettere in luce la retorica con la quale affrontiamo le questioni importanti. Ognuna delle nostre vite è stata contrassegnata da una forte influenza di affetti ed emozioni, che sono però troppo individuali e differenti gli uni dalle altre. Nella teoria e nella filosofia, al contrario, i paradig- mi raramente cambiano e c’è sempre una forte tendenza a pro- clamare universali valori che sono validi per la maggioranza del- le persone.

Quindi è impossibile descrivere l’emancipazione delle donne o la misoginia in quanto tali, isolatamente; devono essere inte- se, innanzitutto, come fenomeni reciprocamente interdipenden- ti. La mia strategia è quella di rifiutarmi di riconoscerle come ideologie pienamente formate, ognuna con i suoi corpora di si- gnificati già stabiliti. Piuttosto, le considero come strutture fun- zionali che avviano politiche e forme di gestione tra loro diffe- renti. Le politiche e le forme di gestione in questione, tuttavia, non sono necessariamente agli antipodi dello spettro politico e tendono a scadere in schemi noti e piuttosto apolitici. Per dimo- strare la mia argomentazione, farò riferimento a quattro elemen- ti: parlerò di (in)capacità linguistica, ponendo l’accento sui modi di articolare i problemi rispetto ai temi dell’emancipazione e del- la misoginia delle donne, così come sui modi di comunicare pub- blicamente questi fenomeni, spesso scottanti e con un forte im- patto emotivo. La mia intenzione è di presentare alcune pratiche opposte di emancipazione e – per alcune di esse – la loro inestir- pabile misoginia. Comincio con il linguaggio, ma passo rapida- mente alla voce. Il diritto dell’opinione pubblica di esprimere at- teggiamenti, pensieri e sentimenti è un primo argomento ricor- rente nei testi e nei dibattiti sulla tematizzazione dell’emancipa- zione delle donne. Seguono alcuni dettagli tecnici per giustifica- re il mio approccio, dal momento che ho bisogno di esplicitare i motivi per cui determinati mezzi e tipi di discorso (posizione, di- chiarazione, annuncio) diventano strumenti politici e ideologici.

La domanda con cui affronto l’intera questione è se sia possibi-

le pensare separatamente l’emancipazione delle donne e la miso-

(17)

45

ginia e, in caso affermativo, a quali condizioni? È possibile pen- sare all’emancipazione al di fuori della cornice data di questa op- posizione manichea?

1. Entimemi

Seguendo Barbara Cassin

1

e le sue osservazioni sulla differenza tra la retorica del topos (luogo, posizione) e la retorica del kairos (tempistica), “la buona retorica deve ancora essere inventata”.

Cassin commenta il Gorgia di Platone, e poi il Fedro (261b; 266b), scrivendo che la retorica dovrebbe mirare non a persuadere ma a elevare l’anima, e per farlo deve diventare “dialettica”. Idealmente, la retorica dovrebbe essere “l’arte di dividere e riunire”. Un’elabo- razione di “buona retorica” consiste nel rifiutare o addirittura nel vietare un certo tipo di retorica a favore di un’altra. Molto spesso

“priva di arte e ragione (alogon pragma)”, la retorica da rifiutare si occupa del discorso “affrettato” ex tempore, di un’improvvisazione con argomenti invertiti. Questa retorica manipolatrice del kairos che non attinge al contenuto dell’argomento, ma rappresenta solo il “momento opportuno”, introduce l’affetto nel discorso, sconvolgendo l’ordine oggettivo delle cose. La buona retorica, al contrario, dovrebbe privilegiare la stabilità del significato rispetto agli effetti dirompenti del significante o del gioco di parole. Cosa distingue il “momento opportuno”, questo privilegio del tempo (che quindi introduce contingenza) dal topos?

Cos’è il topos? Aristotele ci assicura che la persuasione deve basarsi su un metodo: dobbiamo sapere perché alcune cose so- no persuasive e altre no. Sono possibili solo tre mezzi tecnici di persuasione. Il primo risiede nel carattere e nella credibilità del relatore, il secondo nello stato emotivo/affettivo dell’ascoltatore.

Il successo degli sforzi persuasivi dipende dalla disposizione emo- tiva e affettiva del pubblico. Il terzo modo è nell’argomento (lo- goi, cioè il ragionamento) stesso. Il topos è uno stoicheion: un ele- mento degli entimemi. E un entimema è ciò che ha la funzione

1. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book Milano

2002, p. 181.

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aut aut, 384, 2019, 58-76

Vedere la violenza: immagini e critica

ADRIANA ZAHARIJEVIC´

Q uesto mio testo deve molto alla lettura di Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag.

1

Il trafiletto che si trova nel fron- tespizio dell’edizione inglese del libro – “un’analisi acuta della no- stra insensibilità di fronte alle immagini dell’orrore” – e ha quasi la funzione di un sottotitolo mi ha spinto a iniziare a pensare a che cosa significhi diventare insensibili di fronte a un’immagine, essere criticamente inebetiti e inebetite, perderne il senso o farsi paraliz- zare da essa. Naturalmente, il piccolo libro di Sontag non rappre- senta l’unica possibilità di accesso al mondo delle immagini. L’am- bito della fotografia è stato ampiamente discusso fin dalla prima introduzione dei fotogrammi nella nostra realtà ottica e discorsi- va. Lo stesso vale per l’altra dimensione cui il testo fa riferimento, la violenza, altro tema infinitamente dibattuto. Tuttavia, Davanti al dolore degli altri pone due domande significative per una riflessio- ne che unisce le immagini con la critica e fornisce risposte preci- se, per quanto discutibili. La prima domanda è: a partire da qua- li posizioni reagiamo alle immagini della violenza? La seconda, ar- ticolata in maniera leggermente manichea, è: che cosa fanno le im- magini? Ci perseguitano o hanno la capacità di farci comprendere qualcosa e forse di produrre una risposta critica?

Adriana Zaharijevic´ è ricercatrice all’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado.

1. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri (2003), trad. di P. Dilonardo, Mondadori, Mi-

lano 2003.

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59

Per questo, il fulcro del mio interesse qui punta su ciò che le immagini dell’orrore possono produrre. Che cosa succede alla ra- gione nel confronto con l’immagine di qualcosa che supera i po- teri di una spiegazione o di una riconciliazione razionale con ciò che viene visto? Supponendo che i fotogrammi dell’orrore – che in modi diversi presentano e rappresentano la violenza – eserci- tino ugualmente su di noi una certa forma di violenza, mi chiedo proprio in quale parte di noi questa violenza abbia luogo. Ma che cosa succede se vogliamo utilizzare, come in effetti molti e molte hanno voluto fare, proprio queste immagini come strumento per una critica o, a volerci spingere oltre, per lo sviluppo di una posi- zione etico-politica forte? È possibile essere insensibili e allo stes- so tempo critici? Che cos’è la critica e quali sono le nostre capacità critiche quando esse vengono filtrate attraverso immagini violen- te – immagini di violenza e immagini che esercitano la violenza?

Quale ruolo giocano gli affetti nel nostro essere “catturate/i” e che cosa c’è – se davvero qualcosa c’è – che ci spinge ad agire violente- mente e, pur essendo esposte ed esposti a essa, contro la violenza?

Messaggi grezzi per gli occhi

Cominciamo, seguendo i passi di Sontag, con la lunghissima risposta di Virginia Woolf alla domanda: “Secondo voi, come si può impedire la guerra?”. Scritta tra il 1936 e il 1937, nel pieno della Guerra civile spagnola, la lettera di Woolf inizia con qualche esitazione – esitazione forse in qualche modo appropriata per una rappresentante della classe delle “figlie di uomini istruiti”, una classe che prende forma all’inizio di Le tre ghinee (il testo in questione) per introdurre innumerevoli differenze all’interno di un “noi” ampiamente enfatizzato. La differenza deve essere sottolineata, dal momento che “in tutto il corso della storia si contano sulle dita di una mano gli esseri umani uccisi dal fucile di una donna”;

2

e questo ha poi un impatto sul modo in cui “noi”

possiamo ragionare sulla guerra. Ma se si passa dal ragionare sulla guerra al vedere la guerra, allora forse la differenza potrebbe essere

2. V. Woolf, Le tre ghinee (1936), trad. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano 1992, p. 25.

(20)

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annullata? “Vediamo dunque”, dice Woolf, “se guardando le stesse fotografie proviamo gli stessi sentimenti.”

3

Non sono piacevoli da guardare; per la maggior parte sono fotografie di cadaveri. Tra quelle arrivate stamani ce n’è una in cui si vede il corpo di un uomo, o forse di una donna, non si capisce bene; è così mutilato che potrebbe benissimo essere anche il corpo di un maiale. Ma non c’è dubbio che quelli laggiù sono corpi di bambini morti, e quella là è la sezione di una casa spaccata a metà da una bomba; in quello che doveva essere il suo salotto sta ancora appesa la gabbia degli uccelli…

4

Una tale immagine non costituisce un’argomentazione, ma un messaggio grezzo che si rivolge agli occhi, dice Woolf. Nella sua crudezza è così potente che chiunque lo riceva – chiunque sia, a qualunque classe o sesso appartenga – ha la stessa reazione. Ciò che si pensava di sapere e ciò che si sente ora si fondono insieme, e in questa coalescenza del passato e del presente rimane solo un sentire uguale per tutti e tutte, ugualmente potente. Una prima conclusione potrebbe essere: se fossimo collettivamente esposte ed esposti alle immagini dei fatti, a cadaveri di bambini, bambine o maiali incastrati tra gabbie per uccelli e rovine di un soggiorno, potremmo essere in grado di prevenire la guerra. Non questa o quella guerra, ma la guerra in generale.

Tale ipotesi può basarsi sul fatto che le immagini che vedia- mo semplificano, vale a dire che dissolvono indefinitamente la complessità (la storicità, la socialità) di ciò che viene visto. Un corpo mutilato non è altro che una testimonianza di ciò che una volta era vivo, di una persona che non è più, di cui non sappia- mo e di cui non abbiamo bisogno di sapere più nulla, che svani- sce davanti ai nostri occhi come qualcosa che è privo di durata al di fuori dell’inquadratura in cui è stato catturato. In una serie infinita di immagini simili le une alle altre, si perde la singolarità

3. Corsivo mio.

4. Ivi, p. 30.

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aut aut, 384, 2019, 77-93

Violenza ascetica.

Note sul lavoro in Weber

MASSIMO PALMA

Lei ha ragione, non si può gridare, in un’aula del genere, la parola

“ascesi”.

Max Weber a Theodor Heuss

1. Weber o Masoch?

È possibile una lettura masochistica del lavoro in Weber? È plau- sibile sostenere che il concetto di ascesi, centrale nei suoi studi di sociologia delle religioni, ma anche nella sua dottrina “profes- sionale” della scienza e riflesso nelle vesti ufficiali del burocrate, presenti sfumature masochistiche?

Certo, Weber aveva sei anni quando Leopold von Sacher-Ma- soch pubblicò la sua Venere in pelliccia nel 1870. E non è nem- meno il caso di evincere conclusioni frettolose da aspetti della biografia personale di Weber nel torrenziale epilogo della sua esistenza, che sono stati recentemente discussi anche nella pub- blicistica meno avvertita (alludendo alla relazione intrecciata con Mina Tobler e alle pratiche masochistiche sperimentate con Else Jaffè, la donna emancipata a lungo concupita, poi abbandonata e infine riamata intensamente in quegli ultimi mesi di vita, deno- minata, oltre che Goldene Else – un rinvio alla Siegessäule ber- linese –, Herrin anche in questa chiave).

1

Così come si può solo alludere alla nevrosi che ha portato Weber all’erudizione massi- ma e all’inarrivabile produttività scientifica: una terapia di lavo- ro e ancora lavoro. È più opportuno cercare di verificare in al-

Massimo Palma è ricercatore di Filosofia politica e morale all’Università Suor Orsola di Napoli.

1. Cfr. J. Kaube, Max Weber. Ein Leben zwischen den Epochen, Rowohlt, Berlin 2014,

pp. 398-405. Per un quadro equilibrato, con prelievi dai biografi di Weber e dai recensori

dei volumi del tardo epistolario weberiano cfr. V. Cotesta, Modernità e capitalismo. Saggio

su Max Weber e la Cina, Armando, Roma 2015, pp. 100-109.

(22)

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cuni tratti caratteristici del tipo burocrate-scienziato una qualità masochistica generale.

La sua insistenza sulla freddezza della burocrazia, che ha contraddistinto analisi che precedono di decenni le derive bu- rocratiche delle violenze dei totalitarismi novecenteschi, è un indizio dell’approfondimento socio-psicologico di un tipo di dominio che in Weber procede di pari passo con un’autoana- lisi che radica nell’ascetismo professionale la condotta di vita di chi, come lui, si ritiene “scienziato”. Ed è un indizio, unito al ruolo del fattore temporale – l’ingiunzione dell’attesa, la so- spensione di cui vive tanto il consociato in attesa dell’atto am- ministrativo quanto lo scienziato prima della falsificazione del- la propria tesi –, dai tratti masochistici. L’insistenza sul freddo nel tipo masochista è stata lungamente discussa da Deleuze nel suo studio dedicato a Sacher-Masoch.

2

Ed è un tratto prezioso, che va salvato allorché si cerchi di individuare l’elemento vio- lento in un tipo di Herrschaft che prende il nome di burocra- zia, ma ancor più nel generale concetto weberiano di “ascesi”, che è il modo in cui Weber definisce l’attitudine del suo stes- so mestiere, la condotta di vita della classe sociale di cui si sen- te membro e in generale il modo di porsi all’interno del secolo di chiunque costruisca un’etica a partire dai precetti pratici del proprio credo.

2. Work come Warhol

Cent’anni dopo la nascita di Weber, un artista ebreo newyorkese di nome Lou Reed riprese il libro di Masoch per farne un brano eponimo dove a farla da padrone era la viola del suo sodale, il polistrumentista John Cale, allievo del musicista d’avanguardia La Monte Young. A breve i due formarono un nuovo gruppo, i Velvet Underground, e pochi mesi dopo Andy Warhol li scelse come lato

2. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), trad. di G. De Col,

SE

, Milano 1996. Sull’e-

lemento di freddezza che idealizza la sentimentalità contro la sensualità, cfr. soprattutto

ivi, pp. 51-63.

(23)

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musicale del suo progetto artistico e ne divenne il produttore. Uno dei suoi brani preferiti era Venus in Furs.

In quegli anni l’oggettività della cinepresa di Warhol tocca- va vertici di freddezza burocratica. La camera fissa che nei primi film (Eat, Sleep) riprendeva gli oggetti umani vivere le loro fun- zioni vitali, non appena conosce la sceneggiatura e il montaggio (come in Chelsea Girls) li inquadra perlopiù in atti vari di nevrosi sadica e masochistica (litigi, frustate, sessualità repressa, assun- zione di droghe, recite di sottomissione). Non solo, il gelido bu- rocrate di un’arte che inquadrava la vita mentre si infligge lesioni era un asceta che lavorava ovunque, sempre, producendo valore.

Parlando del clima che si respirava alla Factory di Andy Warhol negli anni sessanta, proprio Lou Reed affermò che “una delle cose che si possono imparare stando alla Factory è che, qualsiasi cosa uno voglia fare, deve lavorare moltissimo. […] Andy lavora più di qualsiasi altra persona che conosca”.

3

Di fronte all’imma- gine tràdita di lascive superstar nullafacenti riprese notte e gior- no da Warhol e dai suoi collaboratori, questa convinta asserzio- ne di un principio lavoristico nella prassi quotidiana della Fac- tory potrebbe sorprendere. Eppure, proprio nel libro provoca- toriamente chiamato la sua “filosofia”, Andy Warhol dedica al lavoro un capitolo molto importante. L’enunciato fondamentale della sezione è l’onnipresenza del lavoro come carattere ontologi- co dell’esistente: “Già essere vivi è lavorare duro su qualcosa che non vuoi sempre fare. Nascere è come esser rapiti. E poi vendu- ti in schiavitù. Le persone lavorano ogni minuto. Anche quando dormono”.

4

Se lo sfondo ontologico dell’umano sembra irrimediabilmente consegnato al lavoro, Warhol – a detta di tutti – da questo prin- cipio teorico ha costruito una precisa condotta etica con risvol- ti economici rilevanti. Sono ancora Lou Reed e John Cale a svol- gere il nesso tra etica e lavoro in un pezzo dell’album Songs for

3. V. Bockris, G. Malanga, Velvet. I Velvet Underground e la New York di Andy Warhol (1983), trad. di D. Caroli, Giunti, Firenze 1996, p. 99.

4. A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, Penguin, New York 1975, p. 96.

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aut aut, 384, 2019, 94-112

Che cos’è la polizia?

L’istituzione della violenza universale e la violenza dell’universale

PETAR BOJANIC´

GAZELA PUDAR DRAŠKO

N el suo celebre testo del 1921, Per la cri- tica della violenza, parlando dell’istitu- zione della polizia all’interno di una complessa rassegna delle varie classificazioni della violenza (Ge- walt), Walter Benjamin definisce due caratteristiche molto im- portanti della violenza della polizia.

1

La prima di queste, quel- la fondamentale, è che la polizia è sempre connessa alla violenza, ma il suo ruolo nello Stato è difficile da individuare, visto che la polizia è “un’istituzione dello Stato moderno”. La nostra inten- zione nelle pagine che seguono è quella di mostrare che la vio- lenza della polizia è una conseguenza della deformazione dell’i- stituzione della polizia stessa o della deformazione della violen- za. Vale a dire che la polizia non pertiene propriamente alla sfe- ra dello Stato, ma piuttosto a quella della società civile. Poiché la polizia comprende diversi tipi di violenza (la violenza che mi- naccia, la violenza che pone e la violenza che conserva il dirit- to), ne consegue che essa è “una mescolanza in certo qual modo spettrale” (gespenstischen Vermischung). Quindi, la violenza del- la polizia è “informe come la sua apparizione è spettrale” (seine

Petar Bojanic´ è direttore dell’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgra- do e lavora al Centro di studi avanzati dell’Europa sud-orientale dell’Università di Rijeka (Fiume). Gazela Pudar Draško è ricercatrice dell’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’U- niversità di Belgrado.

1. W. Benjamin, “Per la critica della violenza” (1921), trad. di R. Solmi, in Angelus No-

vus, Einaudi, Torino 1995, pp. 15-16.

(25)

95

Gewalt ist gestaltlos; gespenstische Erscheinung), e le considerazio- ni che si possono fare sullo “spirito” della polizia (Benjamin usa proprio il termine Geist) non consistono assolutamente “in nul- la di sostanziale”.

2

La seconda affermazione di Benjamin sulla polizia e la sua violenza si riferisce a momenti specifici; egli sottolinea in parti- colare il fatto che la democrazia implica “la massima degenera- zione concepibile della violenza” (die denkbar größte Entartung der Gewalt bezeugt). Queste circostanze si verificano effettiva- mente quando la polizia diverge dal diritto (cioè, lo Stato, dal momento che Benjamin equipara il diritto e lo Stato), creando il “diritto” della polizia (das “Recht” der Polizei), ovvero il fat- to che “la polizia interviene ‘per ragioni di sicurezza’, in innume- revoli casi in cui non sussiste una chiara situazione giuridica”.

3

Secondo Benjamin, la debolezza dello Stato consente alla po- lizia, ovvero a un’entità completamente a sé stante, che è al di là del controllo dei cittadini e degli Stati, di esercitare una for- ma di terrore basato sul “diritto” della polizia sui cittadini stes- si. Com’è possibile che accada questo? Più specificamente, qual è la natura dell’autorità della polizia? Chi o che cosa autorizza la polizia ad agire? Chi usa la polizia per monopolizzare la coerci- zione o la violenza? Quando la polizia sorveglia, spia o picchia i suoi cittadini, qual è il momento in cui oltrepassa la sua stessa autorità?

Un tentativo di fornire un quadro generale della degenerazio- ne o della deformazione di questa istituzione, che è essenzialmen- te civile, potrebbe iniziare immaginando il momento in cui il pre- sidente o il sovrano di uno Stato fa un uso brutale della polizia contro i cittadini che protestano per la corruzione o, per esem- pio, l’aumento delle tasse sul carburante. La nostra tesi è che uno scarso impegno sociale da parte dei cittadini, un’organizzazione cooperativa debole, la mancanza di occasioni di lavoro in comune e un’insufficiente produzione di azioni sociali comportino neces-

2. Ivi, p. 16.

3. Ibidem.

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sariamente l’esistenza di un’istanza di professionalizzazione della polizia fondata sulla capacità di proteggere lo spazio pubblico, di compiere atti coercitivi (il termine usato da Hans Kelsen a questo proposito è Zwangakte) o di imporre l’ordine con la forza. Se i cit- tadini non si controllano e non si correggono a vicenda, non pro- teggono e non si prendono cura dello spazio e del tempo in cui vivono, se non regolano la comunicazione e la circolazione di re- lazioni, connessioni, denaro e oggetti tra di loro – vale a dire se i cittadini non agiscono come cittadini, non si prendono cura del- le “azioni di polizia” civili generali – allora, prevedibilmente, si costituisce una qualche istanza che punta alla coalescenza e alla sussistenza di un monopolio dell’uso professionalizzato della vio- lenza. Il sovrano quindi, in certe circostanze, userà questa istanza (che è entrata così in quella che potremmo chiamare la fase dello

“Stato”): nel momento in cui ferma le proteste, difende le strade e le piazze, difende l’universale, il sovrano sta davvero difenden- do il proprio status.

Qual è la connessione tra impegno e azione collettiva dei cit- tadini da una parte e polizia dall’altra? In che misura un proto- collo di polizia fa parte di un’azione collettiva che considera il bene generale o l’interesse di tutti? Com’è possibile che il con- trollo e la riduzione della libertà individuale, che è la caratteri- stica fondamentale della polizia, protegga necessariamente il be- ne comune?

Solo venticinque anni separano due modi di pensare la poli- zia da parte di due dei più grandi istituzionalisti dell’inizio del

XIX secolo, Saint-Just e Hegel. Il primo spiega dettagliatamente

perché la polizia è fondata su falsi principi (di cui uno è che il

suo lavoro sia di fatto quello di spiare), perché è violenta e cor-

rotta, perché opera contro il popolo e lo spirito generale (l’esprit

public), spesso anche a favore del nemico. Quando dice che “‘spi-

rito’ non è la parola giusta” da usare in questo caso (l’esprit n’est

pas le mot), poiché lo spirito generale sta solo nelle nostre teste,

che non sono tutte ugualmente dotate di intelligenza e chiarez-

za, Saint-Just è comunque irremovibile: “Il faut s’attacher à for-

mer une conscience publique; voilà la meilleure police!” (“Abbia-

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113

aut aut, 384, 2019, 113-126

Note sulla difficoltà di scrivere a proposito della violenza di Stato

BAS¸AK ERTÜR

I n che cosa consiste, oggi, il compito di scri- vere e teorizzare in relazione alla violenza di Stato? Come possiamo studiare le articola- zioni contemporanee tra violenza giuridica, extra-giuridica e am- ministrativa senza normalizzarle e senza contribuire al loro radi- camento, se la scrittura ha davvero degli effetti sul suo stesso og- getto? Come possiamo calibrare il nostro pensiero sulle attuali costellazioni della violenza di Stato in modi che tendano al disin- vestimento, all’alienazione e alla riparazione, vale a dire in modi che resistano all’attenzione carica di attrazione e al fascino che la violenza e i discorsi violenti cercano di suscitare? Sono questioni che potrebbe valere la pena ripensare alla luce del momento at- tuale, in cui, da un lato, la violenza di Stato nelle democrazie li- berali assume sempre più forme legalizzate e amministrativamen- te ammesse, mentre, da un altro lato, riecheggia ampiamente il fa- scino di ciò che non è legalizzato, come promessa di una possi- bilità di agire trasgressiva e associata al potere sovrano, in modi che sembrano contribuire all’ascesa del populismo di destra e del neofascismo. Mi avvicino a queste domande dopo aver cercato di dare un senso alla violenza di Stato extra-giuridica nel conte- sto turco con il suo cosiddetto “Stato profondo” (deep State); co- sa che mi ha imposto di confrontarmi non solo con le solite que- stioni relative alla modalità, allo stile e alla voce che emergono

Bas¸ak Ertür insegna Legge al Birkbeck College, Università di Londra.

(28)

114

ogni volta che ci si accinge alla scrittura, ma anche con una mes- sa in questione del ruolo della mia immaginazione e dei miei in- vestimenti. Potrei formulare in questi termini ciò in cui consiste la sfida fondamentale del pensare alla violenza di Stato: si tratta, alquanto drasticamente, di mettere in campo il rischio di diventa- re complici di essa, nella misura in cui “tentare di pensare lo Sta- to significa correre il rischio di ripensare (o di essere oggetto di ripensamento da parte di) un pensiero dello Stato”.

1

Nelle pagine che seguono, proverò a ragionare ulteriormente su questo rischio e a pensare attraverso le sfide che esso pone in relazione al com- pito di fare ricerca e di scrivere sulla violenza di Stato.

La difficoltà di scrivere sulla violenza viene spesso formula- ta nei termini di una sfida che consiste nel rendere ragionevole ciò che non è ragionevole. La violenza viene intesa come qualcosa che possiede la “qualità dell’eccesso”, cosa che le conferisce la fa- coltà di “sopraffare il significato”;

2

una tendenza a mistificare chi la osserva sino al punto da renderne impossibile il pensiero.

3

La spettacolarità degli atti violenti mette immediatamente in crisi il pensiero, in quanto crea una tensione nel modo in cui la mente cerca di ruotare attorno a una forma o una particolare in- tensità della violenza che minaccia di distruggerla dall’interno. È questa tensione che contribuisce alla tendenza a reificare la vio- lenza “come un’entità, un agente autonomo che sconvolge l’ordi- ne e si oppone alla società, una forza asociale al di là di ciò che è normale e normativo”.

4

Per questo coloro che studiano critica- mente la violenza allenano il loro sguardo a concentrarsi sulle continuità piuttosto che sulle sue caratteristiche di rottura, met- tendo in luce così il rapporto tra violenza indiretta e diretta, tra violenza strutturale e personale, tra violenza oggettiva e soggetti-

1. P. Bourdieu, Rethinking the State: Genesis and Structure of the Bureaucratic Field,

“Sociological Theory”, 12, 1994, p. 1.

2. F. Coronil, J. Skurski, “Introduction: States of violence and the violence of States”, in F. Coronil, J. Skurski (a cura di), States of Violence, University of Michigan Press, Ann Arbor 2006, p. 1.

3. S. Žižek, Violence: Six Sideways Reflections, Profile, London 2009, p. 4.

4. F. Coronil, J. Skurski, “Introduction: States of violence and the violence of States”,

cit., p. 2.

(29)

115

va, oppure le continuità tra le violenze dell’ordine civile e quelle delle sue violazioni.

Per quanto sia vero che scrivere sulla “violenza di Stato” co- stituisce un modo per riflettere sul senso di tali continuità, esi- ste però una diversa gamma di difficoltà legate a questo compito, una delle quali – ed è questo un punto chiave – consiste nel man- tenere una certa chiarezza analitica nei limiti di ciò che la nozio- ne consente. Questo non dipende solo dai limiti che la nozione stessa di “Stato” ha nell’afferrare le forze che ordinano e governa- no le nostre vite, ma anche dal fatto che l’espressione “violenza di Stato” non riesce sempre a dare conto dei modi in cui tale catego- ria quasi sempre esula dai propri confini. E questo perché le sue fonti, i suoi agenti, i suoi effetti e la sua temporalità non possono mai essere circoscritti solo all’interno dello Stato in quanto tale.

Per riprendere il suggerimento di Philip Abrams secondo cui il fatto stesso di studiare lo Stato contribuisce alla sua reificazione,

5

possiamo proporre la seguente ipotesi: che lo studio della violen- za di Stato rischi di contribuire alla reificazione dello Stato stesso attraverso la violenza a esso attribuita.

In realtà, la critica, alquanto circoscritta, che Abrams fa del- le limitazioni analitiche della nozione di “Stato” è stata ripresa in modi che gettano luce sul problema degli eccessi categorici ine- renti alla stessa “violenza di Stato”. Abrams parla da una posizio- ne interna alla teoria marxista dello Stato e in risposta al dibatti- to tra Ralph Miliband e Nicos Poulantzas; la proposta principa- le che egli fa nelle sue Notes on the Difficulty of Studying the State è che lo “Stato” non è uno strumento concettuale efficace (rispet- to, per esempio, alla nozione di “modo di produzione”) e più lo usiamo in quanto tale, più contribuiamo a reificare lo Stato stes- so come una sorta di oscura cosa pubblica, letteralmente come una res publica, che per Abrams è “una rappresentazione collet- tiva distorta”.

6

L’articolo cui faccio riferimento rappresenta un in-

5. P. Abrams, Notes on the Difficulty of Studying the State, “Journal of Historical Sociology”, 1, 1988, pp. 58-89.

6. Ibidem.

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127

aut aut, 384, 2019, 127-139

Il diritto e la violenza:

da Kant a Benjamin

PETER FENVES

A l centro di Recht und Gewalt Christoph Menke riflette sulla possibilità di imple- mentare la legge in modo che la sua su- premazia sia limitata: “Quanto indietro bisogna andare per acce- dere a un modo alternativo di implementazione della costruzio- ne concettuale della legge? L’unica risposta possibile è: al prin- cipio della legge [der Anfang des Rechts]”.

1

Questo breve dialogo costituisce il nodo dell’indagine di Menke sulla relazione tra il diritto e la forza o violenza perché la scoperta di un modo alter- nativo di implementare il diritto porta alla “liberazione dalla do- minazione violenta della legge su ciò che è al di fuori di essa – o non giuridico”.

2

Il mio saggio prende le mosse da questo passag- gio cruciale in quanto, in linea di massima, concorda con l’idea di Menke che solo un’indagine sul principio del diritto nella sua costruzione concettuale garantisce l’accesso a una riconcettualiz- zazione della relazione tra il diritto e la violenza. Ma si discosta dal trattato di Menke poiché, a differenza di Recht und Gewalt, non identifica questo momento iniziale con “l’idea della tragedia [greca]”.

3

Al di là del fatto che “tragedia greca” è un termine al- quanto ampio, che si riferisce anche a centinaia di lavori andati perduti, nessuna delle tragedie che ci sono pervenute per intero

Peter Fenves insegna Letterature comparate alla Northwestern University (Illinois).

1. C. Menke, Rech und Gewalt, August Verlag, Berlin 2011, p. 33.

2. Ivi, p. 34.

3. Ibidem.

(31)

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può essere, a mio avviso, descritta come “il principio della legge nella sua costruzione concettuale”, neppure l’Orestea. È più ef- ficace, come propongo qui, cominciare dove lo stesso Recht und Gewalt comincia e cioè con l’inizio della costruzione della legge in Kant, più precisamente con i paragrafi iniziali del trattato di Kant del 1797 Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre che da questo momento in poi chiamerò La dottrina del diritto.

Questo è uno dei tre trattati dottrinali che Kant produsse come corrispettivi delle prime due Critiche. Non sarà qui pre- sa in considerazione l’ultima di queste opere, Metaphysische An- fangsgründe der Tugendlehre (La dottrina delle virtù). Sono invece d’obbligo alcune premesse sul controverso trattato Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (Primi principi metafisici del- la scienza della natura) che Kant pubblicò undici anni prima, poi- ché le due “dottrine” sono collegate da un concetto affine: il con- cetto di forza nel trattato del 1786 corrisponde a quello di coer- cizione nell’opera del 1797. I Primi principi metafisici della scien- za della natura costruiscono le leggi di natura come un sistema di- namico; La dottrina del diritto costruisce la legge naturale come un sistema coercitivo. Subito dopo aver apparentemente comple- tato La dottrina del diritto – sarà presto chiaro perché dico “appa- rentemente” – Kant annunciò di aver scoperto nel sistema critico una “lacuna” (Lücke) che gli impediva di passare dai Primi princi- pi metafisici della scienza della natura alla “fisica pura”.

4

Anche La dottrina del diritto presenta notevoli lacune; alcune di esse sono indicate dallo stesso Kant nel testo pubblicato, mentre altre, spe- cialmente quelle che costellano i paragrafi iniziali, sono così evi- denti da non richiedere nessuna menzione.

Paragonato al colossale sforzo in cui Kant si prodigò nel cer- care di scoprire il principio della legge nella sua costruzione con- cettuale – sforzo le cui tracce sono visibili in tutto il volume 23 dell’edizione Akademie – costruire la fine della legge, invece, fu

4. Cfr. I. Kant, Gesammelte Schriften, vol. 12, de Gruyter, Berlin 2010, p. 257. Tra gli

studiosi contemporanei il locus classicus per la discussione di questa “lacuna” sono le pagi-

ne di Eckart Föster, Final Synthesis: An Essay on the “Opus postumum”, Harvard Universi-

ty Press, Cambridge (Mass.) 2000, pp. 48-74.

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per lui un gioco da ragazzi. Parecchi anni prima della pubblica- zione della Dottrina del diritto, Kant produsse un trattato in cui proponeva la “pace eterna” tra gli Stati in analogia con la dinami- ca di un “moto perpetuo”. Zum ewigen Frieden (Per la pace per- petua) culmina nel “diritto cosmopolitico”, che corrisponde per- fettamente al carattere sferico della terra: ciascuno ha il diritto di viaggiare ovunque sulla superficie del globo. Per quanto riguarda la costruzione del principio della legge, si tratta di una questio- ne completamente diversa: alla fine della legge si può dimostra- re che ciascuno può viaggiare ovunque ma al principio della leg- ge si deve dimostrare che ciascuno può trascendere la propria sfe- ra legittima originale, che coincide approssimativamente con l’e- stensione del proprio corpo. Riflettendo sulle condizioni del pro- prio corpo, Kant attribuì la sua incapacità di colmare la “lacuna”

nel sistema critico a un fenomeno paragonato a un “crampo cere- brale” (Gehirnkrampf). La tesi iniziale di questo saggio è che tale crampo sia responsabile delle lacune presenti all’inizio della Dot- trina del diritto – e che questa interruzione delle sue capacità co- gnitive, favorita da un’onestà iperbolica, dovrebbe essere conside- rata uno dei suoi risultati più straordinari.

5

Dal principio del diritto nella sua costruzione concettuale…

L’inizio della Dottrina del diritto è, ribadisco, pieno di lacune.

Non è semplicemente la mia opinione. Recentemente alcuni curatori se ne sono accorti ma, sfortunatamente, hanno scelto di nasconderle al pubblico dei lettori. Bernd Ludwig spiega la logica di questo intervento ricostruttivo dicendo che “i filosofi hanno solo interpretato La dottrina del diritto di Kant in vari modi; lo scopo è di cambiarla”.

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Schopenhauer è più onesto, credo, quan-

5. Nei capitoli finali di due libri precedenti ho delineato aspetti della tesi sviluppata in questo saggio: cfr. P. Fenves, Late Kant: Toward the Another Law of the Earth, Routledge, New York 2003, pp. 136-161; e Id., The Messianic Reduction: Walter Benjamin and the Shape of Time, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2011, pp. 187-225.

6. B. Ludwig, Kants Rechtslehre, Meiner, Hamburg 1988, p. 7. L’edizione Meiner della

Rechtslehre preparata da Ludwig naturalmente corrisponde alla sua ricostruzione del testo.

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aut aut, 384, 2019, 141-145

Nuove forme di sorveglianza

Il nostro obiettivo è toccare quota mille [telecamere] nell’arco di poco tempo e sarà un altro traguardo importante per la città. Siamo di gran lunga la città con la più alta concentrazione di telecamere per abitante.

In città c’è una rete di videosorveglianza che può essere utilizzata sia dalla Polizia municipale che dalle forze dell’ordine attraverso il sistema di collegamento tra le centrali operative, che consente ai cittadini di sentirsi più tranquilli e alle forze dell’ordine e alla Polizia municipale di intervenire tempestivamente qualora fosse necessario.

D. Nardella, sindaco di Firenze, 14 agosto 2019

1

I n effetti, se teniamo conto delle innumere- voli telecamere di sorveglianza di cui sono dotati condomini, uffici pubblici e privati, banche e così via, non è esagerato affermare che Firenze è la cit- tà più sorvegliata d’Italia, forse alla pari di veri e propri labora- tori della sorveglianza in Europa come Londra. Che cosa spie- ga l’onnipresenza di questo sguardo pubblico e privato su stra- de e piazze gigliate? È vero che si tratta di un obiettivo turistico tra i primi al mondo, e quindi è necessario proteggere turisti e viaggiatori dalle lunghe dita dei borseggiatori. Ma ogni dato sul- la numerosità dei reati contraddice la sfrenata passione per le vi- deocamere che ha infiammato Nardella e tanti colleghi sindaci.

Nel 2019, per esempio, stupri e rapine sono diminuiti rispettiva- mente del 32 e del 20% rispetto all’anno precedente.

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Se tenia- mo conto inoltre che in Italia il numero annuo di omicidi è pas- sato dai 1300 del 1992 ai 352 del 2019, possiamo affermare che l’Italia è oggi uno dei paesi più sicuri in Europa e nel mondo e che Firenze non fa eccezione. Qual è allora la ragione della dif- fusione della sorveglianza urbana?

1. <comune.fi.it/comunicati-stampa/attivate-63-nuove-telecamere-di-videosorve- glianza-oltre-800-totale-presenti-citta?language_content_entity=it>, consultato il 25 agosto 2019.

2. <stampa.it/cronaca/2019/05/05/news/in-calo-reati-nel-2019-32-stupri-e-20-rapi-

ne-il-pd-attacca-da-salvini-propaganda-sulla-paura-1.33699701>, consultato il 25 agosto

2019.

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