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LA GIURISPRUDENZA E IL MOBBING: PROFILI GIURISPRUDENZIALI

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Academic year: 2022

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LA GIURISPRUDENZA E IL MOBBING: PROFILI GIURISPRUDENZIALI

Dott.ssa Federica Lanza

Parte seconda: profili giurisprudenziali

Nella mia relazione mi occuperò delle pronunzie giurisprudenziali rese sulla materia, pronunzie esaminate dal punto di vista del giudice del lavoro;

la “carrellata” sui precedenti non ha alcuna pretesa di completezza, tra l’altro è da osservare come sul “mobbing” è stato scritto molto dalla dottrina giuridica e medico legale ma la giurisprudenza del lavoro si è espressa con un numero ancora esiguo di sentenze, che, in molti casi, pagano lo scotto dell’assenza di una normativa sul punto, e necessariamente fanno ricorso ad istituti già esistenti, quali i vizi del consenso (violenza o dolo), il dovere posto dall’art. 2087 c.c., il più generale principio del neminem laedere di cui all’art.

2043 c.c. e 2049 c.c. (responsabilità di padroni e committenti), il divieto di demansionamento di cui all’art. 2103 c.c. ecc.. Anche il più generale principio dell’art. 32 Cost. (tutela della salute), spesso richiamato, deve poi necessariamente essere calato nella realtà giudiziaria.

Voglio ancora premettere che, a mio avviso, la giurisprudenza sta alla dottrina come l’artigiano sta all’artista: il giudice, infatti, non ha, e non deve avere, la pretesa di fornire soluzioni de iure condendo, non può sostenere interpretazioni innovative delle norme esistenti, non può e non deve creare diritto positivo ma solo interpretare la legge – può avere sue opinioni personali!- e, pronunziando sentenze in nome del popolo italiano deve applicare la legge, comunque restando vincolato alla prospettazione delle parti, alla fattispecie concreta dedotta in causa, alle eventuali decadenze verificatesi dal punto di vista processuale.

Infatti la realtà processuale non necessariamente coincide con la realtà

“reale”, cioè a dire i fatti quali ricostruiti nel processo civile non sempre coincidono con i fatti quali realmente avvenuti, e la sentenza viene pronunziata sulla realtà processuale, queste sono regole!

Voglio sottolineare che la sentenza è pronunziata in nome del popolo italiano, e dunque, oltre a essere conforme allo stretto diritto, deve a mio avviso tentare di salvaguardare, come sommo bene, quello della certezza del diritto (anche se spesso l’annaspare giurisprudenziale su certi argomenti dipende dalla poca chiarezza del legislatore, si pensi alle norme in materia previdenziale…), e non può, senza una norma precisa sul punto, pronunziare secondo una “moda” o più o meno comune sentire, o secondo quanto egli reputa sarebbe più rispondente ad esigenze politiche o sociali…Sembrano banalità, ma non lo sono: penso, al riguardo, al clamore di recente sorto sui giornali alla lettura del dispositivo della sentenza sui lavoratori di Porto

Giudice Del Lavoro presso il Tribunale di Torino

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Marghera, sentenza che apparentemente configge con il “comune sentire” di una intera comunità, ma che probabilmente –spero- è stata resa secondo diritto, e secondo le strette regole che devono improntare il processo.

Infatti, non vi sono solo le esigenze di tutela, che evolvendosi La civiltà e la società si fanno giustamente e per fortuna più pressanti, ma vi sono anche i diritti di chi vuole sapere in anticipo quali sono esattamente i suoi doveri, per potersi comportare secondo la legge senza rischiare condanne o risarcimenti non previsti.

E’ il caso, qui in esame, del datore di lavoro che viene convenuto in giudizio per risarcire il dipendente che si reputa vittima di mobbing posto in essere da altri colleghi: il problema del rilievo, ai fini di individuare la colpa del datore di lavoro, e dei limiti dell’obbligo di sorveglianza (nonché di garantire la

“salubrità” del luogo di lavoro) è a mio avviso, il più grosso problema, insieme a quello sulla sussistenza e prova del danno, che dispone nelle controversie giudiziali su questa materia.

Ciò premesso, mi piace riportare subito una sentenza del Tribunale di Milano quale giudice di appello, pronunziata in data 20.05.2000, ove, trattando il caso di una lavoratrice che denunziava una serie di vicende persecutorie costituenti violazione dell’art. 2087 c.c. e fonte di danno risarcibile costituito da una sindrome ansioso depressiva, l’estensore ( e presidente dott. Mannaccio), nel respingere la domanda in quanto i fatti così come dedotti risultavano provati solo in minima parte e dunque risultavano

“privi di potenzialità lesiva”, ha affermato che “il fatto che il mobbing sia stato oggetto di attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliano collegare conseguenze giuridiche in termini di risarcimento del danno”.

Questa affermazione, a mio parere, rispecchia in pieno l’atteggiamento istituzionale del giudice nel momento della decisione della controversia; la sentenza prosegue rilevando che il caso do specie, quale risultante dell’esito della esperita istruttoria, era caratterizzato da assenza di sistematicità degli episodi asseritamene dannosi (mobbizzanti…) e da una complessiva scarsità degli episodi stessi, e precisando che “il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva che è anche luogo di aggregazione, di contatto e di scontro umano” fa sì che i comportamenti lamentati non possano essere considerati dolosi.

Infine, rileva il relatore, “manca ogni attendibile rapporto di causa ad effetto tra la pochezza qualitativa e quantitativa degli episodi stessi e ciò che essi avrebbero prodotto”.

Tali considerazioni permettono di porre alcuni punti fermi: ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno subito dal lavoratore per episodi di mobbing e formulata nei confronti del datore di lavoro occorre dedurre provare:

1) l’evento lesivo;

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2) l’esistenza del danno (il danno psichico è riconosciuto ormai dalla giurisprudenza);

3) il nesso di causalità tra evento lesivo e danno;

4) la riconducibilità al datore di lavoro della responsabilità patrimoniale conseguente, e cioè la colpa del datore stesso.

La giurisprudenza ha da tempo affrontato questi problemi, risolvendoli in base ai principi generali sopra ricordati: l’art. 2043 c.c. che dispone

“qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto risarcire il danno”, l’art. 2049 c.c. “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti”; l’art. 2087 c.c. “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’intergità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, l’art. 2103 c.c. “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto…”, gli artt. 1427 e seguenti c.c. sui vizi del consenso (rilevante soprattutto in tema di annullamento delle dimissioni indotte o estorte).

Sub 1), rimanendo a quanto hanno esposto gli altri relatori: la realtà è molto spesso superiore alla fantasia, e i casi che si possono presentare nelle aule giudiziarie, sottoposte all’esame del giudice, sono i più svariati: dal caso, presentatosi in questo Tribunale, del datore che vessava la segretaria costringendola a utilizzare scarpe con i tacchi alti, e non altre, nonché a nutrire la mascotte aziendale, un pitone, somministrandogli settimanalmente un topo vivo, a quello in cui il datore sottoponga il lavoratore a continue visite mediche di controllo nonostante il lavoratore presentasse il certificato del medico curante e la malattia fosse già accertata da controlli precedenti (comportamento ritenuto lesivo da Cass. 19.09.99 n. 475). Altri casi riconosciuti dalla giurisprudenza sono, a titolo esemplificativo: la particolare attenzione della direzione aziendale nei confronti di un lavoratore sindacalmente molto attivo, e giudizialmente molto attivo, fatto oggetto di controlli che ne limitavano la libertà di movimento in azienda sia come cittadino al lavoro sia come sindacalista (così il Pretore di Milano, 14.12.1995); nella famosa sentenza del giudice di Torino, dott. Ciocchetti, in data 16.11.99 (passata in giudicato, a quanto consta), si è dato rilievo a gravi atti di persecuzione da parte del diritto superiore che oltre a molestare sessualmente la lavoratrice, l’aveva scientemente e stabilmente collocata ad una macchina chiusa tra altre macchine e cassoni di lavorazione, sì da impedirle possibili contatti durante l’orario di lavoro con i colleghi, e usava nei suoi confronti un contegno irritante ed arrogante, ed un linguaggio incivile e offensivo; nella sentenza 30.12.99 sempre del dott. Ciocchetti Tribunale di Torio, si è affermato concretare mobbing il comportamento del datore di

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lavoro che, dopo avere fatto pressione sulla dipendente perché rassegnasse le dimissioni, l'aveva sostituita con un’altra impiegata, trasferendola dagli uffici amministrativi al magazzino, con variazioni in peius delle mansioni.

Molto interessante, a mio avviso, sono i casi di cui Cas. 16.02.2000 n.

1749 e Cas. 08.01.2000 n. 143, in quanto ivi la denuncia di atti persecutori si è rivoltata a danno del denunciante, risultando alla fine che la vittima era il superiore poi ingiustamente accusato: nel primo caso un dipendente aveva denunciato il direttore generale per comportamenti distorsivi nei propri confronti e poi aveva divulgato la notizia della denuncia tra i colleghi, nel secondo caso una lavoratrice aveva inviato all’azienda una lettera di diffida lamentando di essere destinataria di comportamenti vessatori e discriminatori posti in essere dal proprio responsabile, nonché di essere stata oggetto di molestie sessuali da parte dello stesso (accusate e poi non provate), e poi aveva divulgato a mezzo stampa questi fatti come notizia millantata di fonti sindacali con la “complicità” del marito esponente sindacale. La Corte si è pronunziata sulla legittimità dei licenziamenti irrogati ai due lavoratori, nell’ambito del principio di proporzionalità, dunque in questo caso non vi è stata tutela diretta nei confronti del “mobbizzato”, perché non richiesta, ma è stato affermato il citato principio di diritto.

Ancora, la dequalificazione di dipendente d’istituto bancario, retrocesso da “responsabile di agenzia” a “funzionario addetto”, è stata riconosciuta quale produttrice di danno psichici di apprezzabile entità dal Tribunale di Torino, 07.07.2000, est. Dott. Dilani, a quanto consta inedita.

Ancora, l’evento lesivo può consistere nel lasciare il lavoratore …senza lavoro, cioè non affidargli particolari mansioni o compiti specifici (comportamenti denunciati soprattutto in casi di impiegati presso grandi aziende), fatto che evidentemente produce una notevolissima frustrazione.

Quello che deve essere però messo subito in chiaro, è che l’evento, o meglio il comportamento denunciato, deve essere illegittimo, cioè contrario a norme di diritto.

Anche la violazione delle elementari regole di civile convivenza tra le persone (c.d. “buona educazione”!) può considerarsi violazione di norma, ad esempio data la ripetizione, la sistematicità e la frequenza di un atteggiamento sgarbato. In ogni caso, riterrei certamente illeciti i comportamenti offensivi, violenti anche solo verbalmente, persecutori ecc.; di questo aspetto parlerò in seguito, al punto 4 sulla responsabilità del datore.

Sub 2), il lavoratore “mobbizzato” deve allegare e provare il danno; una delle prime sentenze che ha affermato la risarcibilità del danno psichico è la già citata Pretura di Milano 14.12.95 ove si fa riferimento al danno e all’integrità fisica e psichica del lavoratore (c.d. danno biologico) e, più in particolare ad un disagio nevrotico con nuclei di somatizzazioni a carico della sfera gastrica, emerso a causa di pressioni ansiogene esterne che devono

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aver soverchiato le pur valide capacità difensive del nesso di causalità tra evento e danno.

Qui occorre ancora mettere luce come la giurisprudenza abbia anche riconosciuto la categoria del danno “esistenziale”, avente natura di danno non patrimoniale non soggetto ai limiti di cui all’art. 2059 c.c. (“il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”), tutelabile e risarcibile in quanto relativo a situazioni soggettive costituzionalmente garantite, definito danno che potenzialmente ostacola le attività realizzatrici della persona umana: così Cassazione 07.06.2000 n.

7713. (esempi in materia non giuslavoristica: danno da perdita di un congiunto, Trib. Milano 15.06.2000 in Resp. Civ. prev. 2001, 461, e Trib.

Torino 08.08.95, danno da lesione dell’identità personale, Trib. Verona 26.02.1996 in Dir, Informazione 1997, 1436, danno da nascita indesiderata Trib. Locri sez. pen. 06.10.2000 in giur. It. 2001, 735, danno da stress temporaneo per illegittimo protesto, Trib. Milano 08.06.2000 in Resp. Civ.

prev. 2001 pag. 926).

Infine, ritengo personalmente che debba essere dedotto e provato anche il danno da illegittimo demansionamento, anche se parte della giurisprudenza di merito ha affermato che ove il lavoratore sia addetto a mansioni dequalificanti in quanto proprie di un livello a quello riconosciuto il danno sia in re ipsa, in quanto danno alla professionalità (Pret. Firenze 08.04.94); altre pronunzie ritengono consentito il ricorso a presunzioni semplici (art. 2729 c.c.

“le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”), mentre la Cassazione ancora ritiene necessaria la prova del danno affermato, sia in termini di danno alla salute, che di perdita di professionalità, o di chances.

3) nesso di casualità tra danno ed evento lesivo.

Qui il discorso si fa spinoso…

Ho già citato la sentenza del Pretore di Milano, ove è dato atto che le pressioni ansiogene esterne avevano soverchiato le pur valide capacità difensive del soggetto.

Ciò significa che il soggetto non era già depresso o angosciato prima, che non aveva una personalità labile, che, insomma, presentava prima, la capacità di reazione e di adattamento della persona sana. Se il concetto di persona sana, o normale, esista nella disciplina medico legale, e quali siano i suoi precisi contorni è questione, credo, molto complessa nella quale non mi avventuro: ciò che mi preme sottolineare è che il danno deve essere clinicamente e giuridicamente apprezzabile, oltre che sicuramente riconducibile all’evento denunciato; i giudici devono valutare con estremo rigore il nesso di causalità tra la patologia o la grave situazione di stress denunciata e il comportamento illegittimo del datore (o di altro soggetto), che

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deve aver agito come causa determinante, o, quantomeno, come concausa ex art. 41 c.p.

E in particolare, i medici –legali, che per primi visitano il soggetto che intende agire in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno da mobbing, nel redigere la consulenza di parte devono porre dei paletti ben precisi al fine di descrivere la lesione denunciata, precisando quanta parte il comportamento illegittimo denunciato ha avuto nella produzione del danno;

non credo basti allegare una situazione di stress, un disagio emotivo, una difficoltà di adattamento alla situazione lavorativa. Dico questo, perché il primo filtro, da quello che mi hanno riferito gli avvocati circa una sorta di

“moda” del mobbing, che induce il cliente a rivolgersi al legale al primo stormir di fronda in azienda, al primo disagio, alla prima ripicca, il primo filtro , dicevo, deve venire dal medico legale, che deve valutare la serietà di quanto dedotto, e soprattutto l’insussistenza di pregresse situazioni clinicamente rilevanti.

Al riguardo, si richiama la sentenza del dott. Ciocchetti 16.11.99, ove afferma che è provato in causa che la ricorrente non aveva mai manifestato prima dei fatti di causa e anche nel corso dei pregressi rapporti di lavoro alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale.

Ciò è tanto più rilevante se si considera che con decreto legislativo 23.02.00 n. 38, l’INAIL è tenuto a risarcire anche il c.d. danno biologico, cioè

“danno alla integrità psico fisica della persona suscettibile di valutazione medico legale” ove insorga una invalidità permanente superiore al 6%: in materia di rendita per malattia professionale è copiosissima la giurisprudenza sulla necessità di fornire rigorosamente la prova del nesso di causalità, quantomeno per le malattie non gabellate ex TU 1124/65 (e il danno psichico è sicuramente una malattia non gabellata!).

Altrettanto spinoso argomento è quello – sub 4 - relativo alla riconducibilità del comportamento denunciato al datore di lavoro, ove, naturalmente, il comportamento stesso provenga da colleghi, o superiori gerarchici, ma non dal datore di lavoro stesso.

Qui entra in gioco l’art. 2087 c.c. di cui si è già parlato. Attenzione, però:

la responsabilità del datore di lavoro deve essere valutata con grande rigore.

Sulla portata dell’art. 2087 è servito, nel caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale, per giustificare la richiesta di risarcimento del danno biologico oltre a quanto ottenuto dall’INAIL. Infatti, sino al già citato DL 38 del 2000, l’Istituto assicuratore non risarciva il danno biologico, ma solo il danno che comportava inabilità lavorativa (v. Corte Cost. 1987 e successive). Ora, è evidente che è semplice affermare la responsabilità del datore di lavoro che utilizza una pressa non dotata di sistemi di sicurezza, o dalla quale i dispositivi sono stati rimossi per ottenere una produzione maggiore in minor tempo, o che non ha fornito il materiale antinfortunistico al lavoratore, o, ancora, che non ha vigilato sull’osservanza delle disposizioni antinfortunistiche impartite (es. uso dei tappi, cuffie, indumenti ignifughi,

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guanti, occhiali protettivi, ecc), o ha tollerato comportamenti sconsiderati dei lavoratori (classico caso dell’operaio che toglie il dispositivo di protezione della pressa per maggiore comodità, o non si aggancia ala cintura di sicurezza per effettuare lavori ad una certa altezza) senza irrogare pesanti sanzioni disciplinanti, e cioè nel caso di infortunio.

Già più difficile è affermare a responsabilità del datore nel caso di malattia professionale, per lavorazioni potenzialmente pericolose, in quanto è necessaria la dimostrazione che il datore poteva, date le conoscenze tecnico- scientifiche (e dunque doveva) rappresentarsi la nocività della lavorazione (si pensi ai casi di asbestosi o mesotelioma pleurico contratti in lavorazioni svolte negli anni ’50-’60, quando è controversa la consapevolezza, nella comunità scientifica, della nocività di determinate lavorazioni), ovvero è necessaria la dimostrazione dell’esistenza concreta di misure atte a garantire l’incolumità del lavoratore (ad esempio nel caso in cui l’unica misura adatta era la cessazione della lavorazione, e dunque la chiusura dell’impresa).

Si pensi ad esempio, ai casi recentemente affrontati dal Tribunale di Torino sul c.d. fumo passivo (La Stampa e San Paolo), e dal Tribunale rimessi alla Corte Costituzionale, ove i lavoratori non fumatori pretendevano dal datore la messa in atto di ogni dispositivo utile ad eliminare il rischio di tumore ed altre gravi patologie connesse all’inalazione involontaria ed obbligata dell’altrui fumo di sigaretta.

Ciò che è assolutamente escluso dalla giurisprudenza è che l’articolo in questione ponga una ipotesi di responsabilità oggettiva: la colpa del datore va sempre dedotta e provata, e questa impostazione, a mio avviso, deve rimanere tale, in primo luogo perché così dispone la legge, e in secondo luogo in omaggio al principio di certezza del diritto di cui all’inizio ha parlato.

Nel caso di mobbing messo in atto dai superiori, è agevole il collegamenti con l’art. 2049 c.c.; ma nel caso di mobbing orizzontale, assume grande importanza la prova della conoscenza, da parte del datore, dell’illegittimo, o inaccettabile, comportamento del suo dipendente. Cioè a dire, non può il datore rispondere comunque del fatto del suo dipendente, dovendo la responsabilità essere accertata rigorosamente caso per caso.

Resta da discutere, e non è discussione da poco, su chi grava l’onere della prova… se cioè spetta al ricorrente dimostrare che il datore sapeva, e non ha posto rimedio, o se è il datore a doversi sottrarre ad una presunzione di conoscenza, provando il fatto istintivo contrario.

Al riguardo, voglio ricordare Cass. 12717/98 (in causa Fiat Auto/Russo e Tumminiello, udienza 22.04.98 dep. 19.12.98, a quanto consta non pubblicata).

Si trattava di legittimità di un licenziamento per insubordinazione irrogato ad una lavoratrice e il marito, entrambi operai Fiat, i quali avevano atteso un caposquadra all’uscita del turno, al cancello 16, lo avevano insultato e rincorso, minacciando vie di fatto, avevano colpito la macchina nella quale il capo squadra si era rinchiuso, lo avevano ancora inseguito nel

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gorgo del traffico insultandolo e minacciando. Era emerso già dal primo grado, e nel giudizio di appello, che i rapporti tra caposquadra e operai, e in via preminente con la lavoratrice poi licenziata, non erano mai stati improntati a collaborazione e ad una buona educazione: il caposquadra usava con gli operai un linguaggio scurrile, insultava gratuitamente, aveva un atteggiamento arrogante, urlava e sbraitava, offendeva le operaie invitandole a praticare (così la Cassazione) “ripugnanti atti sessuali nell’ambito di pratiche di prostituzione”, se la prendeva con chi era stato in mutua, con chi scioperava, con le donne, con chi non obbediva prontamente; la lavoratrice licenziata era oggetto particolare di tali “attenzioni” (sono provate anche molestie di tipo sessuale), e le venivano spesso assegnate le mansioni più faticose; era anche emerso che l’azienda era a conoscenza delle

“intemperanze” del caposquadra, che più di una volta era stato spostato di reparto e che del problema erano stati informati i sindacati. Un giorno in cui il trattamento del caposquadra è stato più pesante del solito nei confronti della lavoratrice, questa, chiamato il marito, all’uscita ha aggredito il caposquadra.

Il licenziamento è stato dichiarato illegittimo dal Pretore, dal giudice di appello e dalla Corte di Cassazione, sul sostanziale rilievo che di insubordinazione si può parlare quando il lavoratore si ribella al potere gerarchico del datore, legittimamente esercitato, ma non quando tale potere viene usato in maniera distorta ed abnorme, pur avendo i giudici di merito e la Cassazione stigmatizzato l’inammissibile atto di autotutela dei lavoratori.

Per quanto a noi interessa, in questa sentenza la Corte ha esplicitamente affermato che al datore incombe l’obbligo di fornitore le condizioni che escludano la lesione della sfera morale del debitore nello spazio aziendale in cui egli ha l’obbligo di permanere; tale obbligo, discendendo da topografica connessione con questo spazio aziendale, investe ogni fatto ivi riconducibile, qualunque sia la sua natura, anche l’altrui comportamento non casualmente connesso con lo svolgimento della prestazione; la Corte ha fatto discendere tale obbligo dalla previsione di cui all’art. 1175 c.c. (“il debitore w il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”), e io aggiungerei la previsione di cui all’art. 1375, che impone l’esecuzione del contratto secondo buona fede.

Ancora, è da rilevare che ad esempio, nel CCNL industria metalmeccanica privata è prevista una disposizione (all’epoca dei fatti era l’art. 18) che prevede: “i rapporti tra i lavoratore, a tutti i livelli di responsabilità nell’organizzazione aziendale, saranno improntati a reciproca correttezza ed educazione” e (3° comma) “in armonia con la dignità del lavoratore i superiori impronteranno i rapporti con i dipendenti a sensi di collaborazione e urbanità”. Se a ciò si aggiunge che, dopo le note sentenze della Corte Costituzionale in tema di “nonnismo” nelle caserme italiane (v. Corte Cost.

23-31 maggio 19990 n. 278) il superiore non è più tutelato in quanto tale neppure nell’esercito, può darsi che diventi difficile per il datore non rispondere dei comportamenti illegittimi del suo preposto.

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Infine, occorrerebbe trattare, per completezza, del problema della quantificazione del danno risarcibile.

Ritengo tuttavia di terminare qui la mia relazione, in quanto tale problema prospetta tali e tante questioni controverse da richiedere un tempo che sicuramente non mi è più concesso, e che forse esula dal tema specifico di questo incontro. Grazie.

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