• Non ci sono risultati.

LA GIURISPRUDENZA E IL MOBBING: UN INCONTRO PROBLEMATICO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "LA GIURISPRUDENZA E IL MOBBING: UN INCONTRO PROBLEMATICO"

Copied!
7
0
0

Testo completo

(1)

LA GIURISPRUDENZA E IL MOBBING: UN INCONTRO PROBLEMATICO

Dr. Giancarlo Girolami

Parte prima: considerazioni generali

Quando mi è stato chiesto di relazionare a questo convegno, anzitutto mi sono chiesto: che cos’è il mobbing?

La domanda non era solo retorica, sia perché in concreto scarsi sono stati, ad oggi, gli approcci al problema da parte della giurisprudenza torinese, soprattutto quella di secondo grado, a tale fenomeno, sia perché, soprattutto, è una tematica comunque relativamente nuova -ed ancora poco sviluppata- sotto il profilo normativo e giurisprudenziale.

Per lo più l’analisi parte (o soprattutto, partiva, nei primi tentativi di approccio alla fattispecie) da studi di carattere medico (per lo più psichiatrici), rovesciando così i termini della questione: accertata l’esistenza di una determinata patologia, individuata l’azienda in cui lavorano –o lavoravano- i soggetti colpiti, si cercava di risalirne alle cause attraverso gli elementi concreti forniti dagli stessi soggetti vittime del “supposto mobbing”.

In questo modo però venivano individuati molteplici comportamenti che avrebbero potuto fungere da causa di quella patologia, e ciò a prescindere dalla rilevanza giuridica dei medesimi comportamenti (il rischio di non approfondire altre ipotetiche cause sussiste ed è consistente: posto che un soggetto è ammalato – per lo più si tratta di malattie di carattere psichico- e che lavora in un determinato ambiente, con la presenza di determinati comportamenti, si arriva all’equazione di causa ed effetto che potrebbero da sole essere state sufficienti a cagionare quella patologia).

L’approccio del giurista alla fattispecie giuridicamente rilevanti è, in genere, diverso: da un comportamento rilevante in ambito giuridico –es.

azione di percosse ai danni di tizio- tenuto in violazione di una norma – art.

581 c.p.- si esaminano gli effetti-condanna o meno dell’autore- e le conseguenze risarcitorie – diritto o meno di tizio al risarcimento del danno, previa prova della sussistenza di tale danno e della sua entità.

Di qui l’importanza di definire previamente e con precisione i termini della questione.

Occorre individuare quali sono i comportamenti che possono assumere rilevanza ai fini di integrare chiaramente la fattispecie, e quindi al fine di condurre ad una affermazione di responsabilità (civile ma eventualmente non solo) dell’autore di tali comportamenti e, successivamente, occorrerebbe forse anche valutare la necessità di rispondere e porre rimedio a tali comportamenti (al danno conseguente) con strumenti giuridici già esistenti

(2)

ovvero creando nuove fattispecie normative che regolino quei comportamenti, altrimenti privi di regolamentazione.

La risposta a questo secondo dubbio pare più semplice e va nel senso dell'esigenza di individuare con chiarezza una nuova fattispecie, idonea alla piena tutela del lavoratore per comportamenti “mobbizzanti” sul luogo di lavoro, in quanto, come si vedrà, il fenomeno nel suo complesso, se a volte si estrinseca in condotte di per se già autonomamente previste dalle leggi vigenti ( e magari anche punite dal codice penale), altre volte ( ed è la maggioranza dei casi) si tratta di uno stillicidio di atti o di comportamenti di per se, e singolarmente esaminati, privi di rilievo giuridico, ai quali le prime possono accompagnarsi ma in via del tutto marginale (per quanto attiene alla rilevanza costitutiva della fattispecie), nel senso che comportamenti tipici per il diritto (trasferimento ingiustificato, demansionamento, ecc) trovano già autonoma regolamentazione e sanzione giuridica e possono concorrere (ma non esaurire o rivestire rilievo predominante) nella formazione della fattispecie giuridica solamente se accompagnati dagli altri (atti o comportamenti), che a loro volta dovranno essere caratterizzati sia sotto l’aspetto soggettivo che temporale (reiterazione, durata ecc. come si dirà in seguito).

Il mobbing è definito comunemente come una “forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti dei colleghi e dei datori di lavoro” (e si parla, appunto, di mobbing

“orizzontale” oppure di mobbing “verticale” – o bossing).

Lo scopo del mobbing è di eliminare un collega – o un sottoposto, o un dipendente- che per le ragioni più varie può essere divenuto “scomodo” (o antipatico): eliminarlo portandolo al punto da costringerlo alle dimissioni o da provocarne il licenziamento.

Da altri è stato anche definito come “l’arte strisciante della calunnia, dello sgambetto tra le scrivanie e della pugnalata alle spalle in nome della carriera”; si può concretamente manifestare nelle forme e con i comportamenti più svariati, in una gamma enorme sia di manifestazioni concrete che di diversa intensità (o di diversa consapevolezza psicologica), basti pensar, ad es. alle pressioni psicologiche di vario genere, aggressioni verbali, segnalazioni anonime, isolamento del soggetto da parte del gruppo, critiche esagerate anche se fondate, piccole continue vessazioni, piccole

“minacce”, quando non direttamente insulti o peggio.

Su tratta, come appare evidente e come è emerso anche nel corso di questo convegno, di fati o di comportamenti che possono, di per se, assumere rilievo giuridico (ad esempio di comportamenti in violazione di norme giuridiche e, a volte, specificamente di norme penali –es. moinacce ed insulti- o anche solamente inosservanza voluta di doveri giuridici o sociali) e che, invece, apparentemente si presentano come giuridicamente “neutri” o irrilevanti.

(3)

Nel disegno di legge giacente alla camera dei deputati (presentato il 30.09.1999- progetto n. 6410, si tratta di uno dei numerosi, almeno 6, disegni di legge presentati in materia nel corso della passata legislatura) si legge all’art. 1 comma 1, la seguente definizione:

“La presente legge è diretta a tutelare i lavoratori da atti e comportamenti ostili che assumono le caratteristiche della violenza e della persecuzione psicologica, nell’ambito dei rapporti di lavoro”

Ed al secondo comma si precisa che:

“…per violenza e persecuzione psicologica si intendono gli atti posti in essere e i comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione sovraordinata o pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare quest’ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e duraturo e con palese predeterminazione”.

L’art. 1 della proposta di legge 1813 (presentata il 09.07.1996) affermava che “chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta tesa ad instaurare una fora di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro è condannato alla reclusione da 1 a 3 anni…”; la condotta delittuosa di cui al comma 1 si realizza attraverso molestie, minacce, calunnie e ogni altro atteggiamento vessatorio che conduca il lavoratore all’emarginazione, alla disuguaglianza di trattamento economico e di condizioni lavorative, all’assegnazione di compiti o funzioni dequalificanti”.

Il disegno di legge n. 4265 (XII legislatura, comunicato il 13.10.1999), dopo aver dichiarato l’intenzione di tutelare qualsiasi lavoratore da violenze morali e persecuzioni psicologiche, perpetrate in ambito lavorativo mediante azioni definite nel successivo art. 2, all’art. 2 precisava:

“ai fini della presente legge vengono considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche, nell’ambito dell’attività lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore. Tali azioni devono essere svolte con carattere sistematico, duraturo ed intenso.

Gli atti vessatori…per avere il carattere della violenza morale e delle persecuzioni psicologiche, devono mirare a discriminare, screditare o comunque danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale, grado di influenza sugli altri ecc….”.

Il disegno di legge 4313 (novembre 1999) poneva l’accento sulla caratteristica della violenza psicologica di essere foriera di danno per il lavoratore (qualsiasi atto o comportamento da chiunque esercitato, allo scopo di provocare in ambito lavorativo un danno al lavoratore, purchè svolto con carattere sistematico e continuativo).

Come si vede, si tratta sempre di definizioni caratterizzate, più che in ogni altra fattispecie giuridica, da una accentuazione dell’elemento

“soggettivo” e del fine perseguito dall’autore di tali comportamenti, cosa che rende ancor più arduo sia la loro concreta e specifica individuazione sia la loro collocazione in predeterminate categorie giuridiche.

(4)

Il secondo elemento che si ritrova sempre nelle definizioni di mobbing è quello “temporale”, vale a dire della reiterazione nel tempo del comportamento –o dei comportamenti- della sua sistematicità e della ripetitività costante.

Le difficoltà, ovviamente, aumentano (non basta che il “mobber” voglia porre in essere –e concretamente ponga in essere- dei comportamenti atti – e finalizzati- ad emarginare un soggetto- collega o sottoposto- a danneggiarlo e, in ultima analisi, ad escluderlo dall’ambiente, ma occorre anche che tali comportamenti vengano posti in essere con continuità e per un tempo significativo: qualcuno in Italia ha parlato di “almeno 6 mesi” qualcun altro ipotizza durate annuali, altri ritengono opportuna una valutazione specifica dei singoli casi).

Infine deve, ovviamente, esservi un danno, ma di questo parleranno altri relatori.

La giurisprudenza ha comunque già avuto modo di elaborare significativi principi in riferimento a fattispecie di discriminazione sul luogo di lavoro ( a cui in fondo il mobbing si ricollega), ad esempio in relazione alla legge 125 sulle discriminazioni per sesso ed alla legge sulle pari opportunità producendo in materia orientamenti sicuramente utili ed utilizzabili nell’approccio al fenomeno di cui stiamo parlando.

Non va dimenticato che, per lo più, caratteristica dei fenomeni di mobbing è quella di essere più o meno “occulti”, comunque non palesi, un fenomeno per lo più sommerso e quindi si pone il problema di come

“individuare” quei comportamenti, di come poter arrivare a dire che dietro quei comportamenti c’è un’azione di mobbing.

Arriviamo dunque al problema dell’onere della prova.

L’onere della prova, inevitabilmente, in conformità con i nostri principi giuridici e con i principi di rito, è della parte che propone un’azione giudiziaria volta ad ottenere “qualcosa”, dunque è del lavoratore che assume di aver subito un danno da condotte di “mobbing” (dovrà ovviamente provare anzitutto la esistenza materiale della condotta o delle condotte, poi l’elemento soggettivo che le sorregge, poi la loro natura e contenuto, poi la patologia ed il conseguente danno, infine il rapporto di causalità tra questi e quelle).

Allora, l’esigenza di una definizione certa e concretamente enucleabile del “mobbing” diventa imprescindibile al fine di non trasformare questo onere in una probatio diabolica (come purtroppo accade in molti casi) ed al fine di indirizzare la stessa azione giudiziaria del soggetto che si ritiene danneggiato.

L’unica (finora) pronuncia resa in materia della Corte d’Appello di Torino può rilevare sia in punto onere della prova sia più generale, per cui un accenno ad essa verrà fatto in seguito.

Riferimenti normativi sono poi, da taluno, individuati in norme del codice civile:

(5)

l’art. 2087 c.c. è quello da più parti individuato ed invocato (L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”).

Lo scopo –ed anche il timore letterale- di tale norma pare essere di altro genere e difficilmente adattabile; può essere invocato (e lo è stato da alcuni) per individuare la responsabilità del datore di lavoro che non abbia adeguatamente tutelato il lavoratore sottoposto ad azione di mobbing, ma non risolve affatto il problema - necessariamente antecedente - della esatta individuazione della fattispecie “mobbing” proprio al fine di poterne ritenere sussistenti gli elementi costitutivi.

L’art. 582 c.p. punisce chiunque cagiona ad altri una lesione personale, volontariamente (dolo): anche azioni volte a cagionare lesioni possono rientrare nell’ambito di un complessivo comportamento di “mobbing”, ma, da un lato, non sono ad esso essenziali e, dall’altro, il semplice “cagionare lesioni personali”, già autonomamente punito dalla norma testè citata, non è sufficiente a fornire elementi ulteriori al fine della definizione del fenomeno.

Analoghe considerazioni potrebbero valere per le norme che puniscono penalmente le ingiurie (594 c.p.) le minacce (612 c.p.) e via dicendo, senza dimenticare il reato di molestie (art. 660 c.p., con caratteristiche peraltro decisamente più circoscritte e scarsamente utilizzabili nel nostro caso).

Altri ancora hanno individuato il riferimento iniziale all’art. 2043 c.c. che impedisce che un lavoratore sia adibito a mansioni inferiori a quelle di competenza (c.d. demansionamento): può trattarsi indubbiamente, di uno degli innumerevoli comportamenti, o di una delle sfaccettature, del “mobbing”, ma il mero demansionamento è comunque già punito da questa norma specifica, cosicchè appare evidente che esso da solo non può essere sufficiente per individuare ed esaurire la fattispecie.

E’ evidente che, delle due categorie di atti o comportamenti in precedenza delineati, l’esigenza di definizione normativa si riferisce alla seconda (atti tipici e giuridicamente irrilevanti che, però, assumono rilievo decisivo, purchè ripetuti e continuativi, proprio al fine di integrare gli elementi essenziali, o almeno quelli che tali dovrebbero essere: è sempre difficile per un giudice fornire indicazioni de iure condendo), in quanto sono proprio questi atti che caratterizzano le fattispecie di mobbing (es. tutti evitano di parlare con quel lavoratore, fanno circolare pettegolezzi penalmente irrilevanti, ridono quando lo vedono camminare ecc…)

Secondo alcuni, peraltro, alla legificazione di principi specifici potrebbe prospettarsi l’alternativa di lasciare che sia la giurisprudenza ad estrapolare dapprima le peculiarità di essa, prima dell’intervento legislativo, cosa che inevitabilmente finirà per accadere se l’intervento legislativo tarderà ancora, in quanto il fenomeno, in concreto, esiste e deve trovare una risposta anche in sede giudiziaria.

(6)

Si può ora, dopo aver tratteggiato i caratteri essenziali e di principio della fattispecie, passare all’esame della giurisprudenza, per il quale cedo la parola alla collega Lanza, limitandomi ancora, unicamente ad illustrare la sentenza della Corte d’Appello di Torino di cui ho parlato.

Si tratta della sentenza n. 746/01 pronunciata il 13.08.2001 nella causa (r.g. 1202/00) Rolando/Ghiglione –Ponasso: l’appellante lamentava la reiezione, da parte del Tribunale di Alessandria, del ricorso con il quale ella aveva chiesto la condanna dei datori di lavoro al risarcimento del danni biologico, danno alla salute, danno professionale all’immagine alla carriera e alla dignità professionale, danno da invalidità incidente sull’attività di lavoro sia specifica che generica e danno per perdita di chance, il tutto nella misura indicata in Lire 100.000.000, nonché delle ulteriori spese mediche; secondo l’appellante –ricorrente in primo grado- i titolari della farmacia presso la quale ella lavorava avrebbero “tollerato che ella fosse sottoposta a continue vessazioni e molestie sul luogo di lavoro da parte del proprio della contitolare Ponasso”.

La Corte, respingendo l’appello, ha confermato la sentenza di primo grado anche in punto di motivazione, affermando che, a prescindere dall’esame della natura ed entità delle patologie lamentate dalla appellante e, in secondo luogo, dall’accertamento della loro riferibilità ai maltrattamenti ai quali ella sarebbe stata sottoposta sul luogo di lavoro (oltre alla ulteriore esigenza di quantificazione delle conseguenze patologiche, lasciate nel ricorso alquanto nel vago) si dovesse preliminarmente accertare la sussistenza o meno dei “maltrattamenti” e delle “vessazioni” che la dipendente lamentava posti in essere continuamente nei sui confronti, secondo l’approccio alla problematica in precedenza illustrato.

La Corte ha quindi ritenuto del tutto carente la prova (che ovviamente gravava sulla lavoratrice) anzitutto della effettiva sussistenza di maltrattamenti e vessazioni, in quanto dall’esame delle testimonianze raccolte in primo grado era emerso che, semmai, era la dipendente a porre in essere comportamenti “molesti” e comunque lesivi del prestigio della farmacista titolare, intromettendosi (la ricorrente non era farmacista ma

“commessa”) nelle consulenze dei pazienti, nelle indicazioni di carattere medico e rifiutando, in molte occasioni, di eseguire compiti confacenti alla sua qualifica sol perché ritenuti poco gratificanti; alla luce di ciò, si osservava nella sentenza come fosse provato in alcun modo un particolare accanimento in tali rimproveri.

Significativamente, la Corte osservava poi che “ininfluente, a questo punto, risulta l’esame delle patologie eventualmente portate dalla Rolando, la quale, in assenza di prove concrete ed esaurienti dei presunti

“maltrattamenti” vorrebbe –con la richiesta di consulenza tecnica e la produzione di certificazione medica- venisse condiviso l’assunto secondo cui se ella in precedenza non aveva nulla e dopo aver lavorato per un certo

(7)

e/o psichici, la causa doveva e deve essere, necessariamente ed inevitabilmente, da riscontrarsi in maltrattamenti subiti sul luogo di lavoro: un tale argomentare si presenta talmente privo di fondamento che non abbisogna di ulteriori confutazioni o motivazioni”.

In sostanza, non si può rovesciare l’iter e, partendo dalla coda, accertare la sussistenza della malattia, dopo di che accertare che il soggetto ha lavorato in un determinato ambiente, che prima di tale attività non aveva alcuna patologia, e - senza ulteriori elementi - ritenere provata l’esistenza di comportamenti di “mobbing” ai suoi danni nel luogo di lavoro, ma sarà necessario, comunque, ancorarsi al principio dell’onere della prova anche e soprattutto in punto di sussistenza di comportamenti vessatori, con tutte le loro caratteristiche (natura, intensità, durata, reiterazione, finalità dei medesimi).

Riferimenti

Documenti correlati

La Corte di Cassazione ha perciò proceduto a definire esattamente cosa s’intenda effettivamen- te con il termine “mobbing”, quali siano i suoi elementi identificativi (ad

civ., nella parte in cui non muniva del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni conseguenti a malattia professionale della quale

Stati Generali dell’Innovazione: contribuirà alla disseminazione e valorizzazione delle attività e dei risultati di progetto, dandone risonanza attraverso i propri canali

Per le ragioni suesposte e per l’elevata incidenza statistica di tale fenomeno nella quasi totalità delle gare di appalto di lavori pubblici nella regione Siciliana, va disposta

Il GdL valorizza la lettura e la discussione come strumento di apertura agli altri e di dialogo tra diverse visioni e scritture del mondo”.. Il secondo incontro del gruppo di

del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici ele- menti: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se

MONTUSCHI (Professore Ordinario di diritto del lavoro dell'Università di Bologna), Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, RIDL., 1994, 328. 8 per tutte:

Infine, ritengo personalmente che debba essere dedotto e provato anche il danno da illegittimo demansionamento, anche se parte della giurisprudenza di merito ha affermato che ove