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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA NELLE STRUTTURE PRIVATE Alessandro Bucarelli

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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA NELLE STRUTTURE PRIVATE

Alessandro Bucarelli*

Le questioni giuridiche e disciplinari attinenti alla responsabilità dei medici dipendenti pubblici del Servizio Sanitario Nazionale o di strutture private hanno assunto in questi ultimi anni un interesse sempre crescente.

Ciò in primis in conseguenza di una maggiore attenzione per il fondamentale obiettivo, costituzionalmente sancito, in tema di Sanità Pubblica, ovvero il diritto alla salute.

Il progressivo aumento dei procedimenti penali e di quelli civili contro medici è solamente la logica conseguenza di una maturata coscienza sociale su questi argomenti.

Il fenomeno è ancora lontano dai livelli allarmistici che caratterizzano soprattutto gli Stati Uniti d’America, dove – per i trattamenti sanitari – vige ormai una sorta di obbligo di risultato; anche nel nostro Paese sta sorgendo una sorta di americanizzazione su questo aspetto, stante l’indirizzo della giurisprudenza, se si fa riferimento alla recente sentenza della Corte di Cassazione (III Sezione Civile n. 589 del 22.01.1999) che ha stabilito che quando un paziente viene ricoverato in una struttura (in questo caso si trattava di una struttura ospedaliera, ma per analogia si può fare riferimento anche alla struttura privata) nasce, a carico dei medici, l’obbligo giuridico di effettuare tutte le prestazioni sanitarie a con la dovuta diligenza.

Quest’ultima, puntualizza la Corte, non deve essere quella “comune”, bensì qualcosa di più. Deve essere quella del professionista altamente qualificato, al quale fa capo l’obbligo giuridico di curare nel modo migliore il paziente

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e tutelarlo anche dal punto di vista del rispetto delle norme che difendono la dignità umana. Sulla base di questo principio quindi, ribadisce sempre la Corte che, di fronte ad un danno iatrogeno, si ha la presunzione di colpa, qualora detto danno sia derivato da un intervento di non particolare gravità.

Stante detto principio quindi si ha l’inversione della prova e dunque il medico dovrà rispondere sempre di danno, dovendo poi dimostrare di aver effettuato la propria prestazione lege artis e pertanto dovrà confermare la non responsabilità circa detta azione giudicata presuntivamente colposa per inadempienza dell’obbligazione contrattuale, res ipsa loquitur.

Ma la pressione di alcune forze sociali anche nel nostro Paese (vedasi, ad esempio, la costituzione dei Tribunali per i Diritti del Malato e il martellante messaggio di straordinaria efficacia delle competenze mediche e chirurgiche date da stampa pseudo-scientifica o dai programmi televisivi di trattazione sanitaria) è tale da imporre una risposta adeguata all’opinione pubblica in merito alla qualità sia delle cure, sia dell’assistenza. Infatti l’attesa dell’utenza è ormai non solo estremamente “informata”, ma è particolarmente esigente e comunque la stessa utenza è ben consapevole – o meglio è marcatamente sensibilizzata - che un eventuale insuccesso terapeutico o un semplice risultato non soddisfacente può trovare facile compensazione economica. Non va sottovalutata, a tale proposito, la pubblicità su comuni periodici e la divulgazione dei contratti assicurativi per responsabilità professionale, ed inoltre la consapevolezza da parte dell’utenza sanitaria di poter ottenere tutto e gratuitamente: la qual cosa dà al paziente insoddisfatto l’impressione di essere creditore di un diritto non goduto.

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Questo ha portato ad un aumento costante del contenzioso giudiziario nei confronti dei sanitari in genere, al di là di precise e sempre sanzionabili effettive responsabilità degli operatori sanitari. Dice in proposito il Fiori nel suo recentissimo lavoro enciclopedico “Medicina Legale della Responsabilità Medica” – Giuffrè 1999 – “Le conseguenze sociali attuali e future dell’impressionante fenomeno conflittuale tra società e medici, canalizzato nei processi penali e civili, non sono oggi appieno valutabili né tanto meno prevedibili per il futuro. Esse includono un insieme di intricati effetti a carattere psicologico – e conseguentemente socio-comportamentale – destinate a coinvolgere globalmente la medicina e i suoi rapporti con la società intera”.

Da un lato si accentua il discredito nei confronti delle strutture sanitarie in genere e, dall’altro, aumenta la preoccupazione dei medici per un paventato, troppo facile intervento della Magistratura per un qualsiasi esito non prevedibile del loro operato.

Questo, se sul piano penale determina una evidente e preoccupante, ingravescente focalizzazione da parte dei medici, dall’altro, sul piano civile-risarcitorio, vi è un preoccupante incremento delle spese per la responsabilità civile sanitaria che diventa insostenibile per le stesse compagnie assicurative. Lo ha ammesso recentemente anche Riccardo Lamperti, Vice Presidente della sezione RC dell’ANIA e Presidente della neonata commissione area medica, in un’intervista al settimanale Panorama nel luglio scorso: “il rapporto tra premi e sinistri è di 1 a 3. In Italia, le compagnie incassano 300 miliardi con le polizze di responsabilità civile stipulate da strutture sanitarie pubbliche e private o da singoli medici.

Pagano risarcimenti per 900 miliardi l’anno”.

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È chiaro che vi è una precipua responsabilità autonoma da parte della classe medica: tutta la medicina moderna, più proiettata verso forme assistenziali e sociali complesse, ha finito per trascurare il tradizionale rapporto di fiducia medico-paziente. Ciò nonostante non va mai dimenticato quale sia l’approccio tra i contraenti, perché il bene formante oggetto del contratto professionale è un bene di importanza capitale: la salute. Essa costituisce un diritto assoluto e come tale tutelabile “erga omnes”.

Sia nel rapporto libero che nell’ambito della medicina di équipe, il medico deve sempre tener presente che la sua attività professionale deve mantenersi entro limiti ben precisi. Sono limiti oggettivi: il possesso di una preparazione valida e aggiornata anche di carattere pratico; l’utilità del trattamento; la valida attrezzatura e strutture adeguate. Sono limiti soggettivi: il rispetto del malato, l’informazione, il consenso e il segreto professionale.

Ma il processo di trasformazione della Sanità, in Italia e nel mondo, ha comunque col tempo modificato il quadro generale della responsabilità medica, imprimendogli un ritmo di evoluzione proporzionato, e in un certo senso parallelo allo stesso progresso scientifico. Legislazioni che datano da più anni sono infatti ancorate alla disciplina del contratto d’opera intellettuale basato sul danno, sulla colpa e sull’esistenza del nesso di causalità.

Questi concetti portano a ridurre tutto il problema della responsabilità alla negligenza personale sanitaria.

La medicina moderna sta orientando la professione medica verso la socializzazione, le specializzazioni e il lavoro di équipe, di modo che

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vengano rimescolati i rapporti tradizionali che vedono medico e paziente impegnati reciprocamente ed isolatamente.

La complessità delle organizzazioni, sia pubbliche che private, che prendono in cura un paziente, talora anche con l’intermediazione dello Stato o di un Ente assicuratore, accresce la necessità di cautelare il malato e assicurargli un risarcimento civile anche nei casi in cui non è possibile evidenziare il sanitario responsabile della colpa.

D'altronde è fondamentalmente corretto giudicare il danno subito dal paziente come punto centrale del capitolo della responsabilità, assicurando a questi comunque un risarcimento anche se la responsabilità possa venire individuata solo nel complesso sistema organizzativo di una struttura, laddove concorrono al trattamento assistenziale medici e sanitari diplomati (dal febbraio di quest’anno, con la legge 42 non possono più essere chiamati ausiliari), oltreché aspetti organizzativi sanitari ed amministrativi.

Il sistema codicistico si dimostra - nella legislazione italiana - decisamente inadeguato alle più recenti esigenze, proprio perché l’argomento di cui trattiamo è legato alla tradizionale cognizione della professione liberale.

Ne viene di conseguenza danneggiato il paziente, dal momento che la colpa del medico è considerata presupposto ineliminabile ai fini del risarcimento e il semplice errore professionale senza colpa non concretizza il reato.

Francia, Germania e Regno Unito, dopo che la Svezia, per prima, ha già legiferato in tema, stanno orientando i propri Codici e la propria Giurisprudenza in maniera che la responsabilità nei riguardi del paziente

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non sia edificata soltanto sulla colpa del medico ma sia inquadrata in una forma mista di responsabilità oggettiva e soggettiva.

Si prospetta, quindi, la possibilità che nel nostro Paese si dia opera ad un provvedimento legislativo che preveda una sorta di Assicurazione Obbligatoria non per danni da responsabilità civile, ma da semplice e generico danno iatrogeno. Ciò trova giustificazione nel diritto costituzionalmente sancito della salute, nonché nella tutelata solidaristica per compensare l’attuale incresciosa situazione in cui versano numerosi istituti ospedalieri che non riescono a trovare copertura assicurativa per il rischio danni ai pazienti. Ciò consentirebbe di integrare l’aspetto solidaristico della invalidità civile, e di costituire un effettivo presidio sociale di tutela dei più indifesi e soprattutto dei più danneggiati, a seguito di complicanza od esito negativo di trattamenti sanitari, al di là della individuazione della colpa.

Senza entrare nel merito di qualificare sul piano dottrinario e giurisprudenziale il concetto assai complesso della responsabilità professionale tout-court, entriamo nell’ambito ristretto della nostra competenza: la responsabilità nell’ambito delle strutture private.

Mi sia consentita solo una considerazione di massima: il regime della responsabilità, così come oggi è applicato dalla giurisprudenza, nelle fattispecie in cui si esamina il comportamento del medico, non varia a seconda che il rapporto si radichi in ambito contrattuale o in ambito extracontrattuale: se si deve operare una valutazione con maggiore rigore, si tenderà, in ambito contrattuale, a limitare le possibilità di esonero da parte del medico, e quindi ad aggravare il suo onus probandi; in campo extracontrattuale, si opererà sempre sulla nozione di colpa, agevolando

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l’onere probatorio del paziente danneggiato; se si vuole ricorrere invece alla giurisprudenza tradizionale, più permissiva, nel primo caso si sarà più disposti nell’apprezzare le eccezioni offerte dal medico, e nel secondo si sarà più rigorosi nell’esaminare la sussistenza dei presupposti dell’atto illecito.

Vediamo quindi di esaminare i limiti del rapporto medico-paziente nell’ambito delle strutture private.

Bisogna prima di tutto ricordare che gli istituti, enti ed ospedali che non hanno chiesto od ottenuto la “classificazione” ai sensi della legge di riforma ospedaliera del 1968, nonché le istituzioni a carattere privato (case di cura) che abbiano un ordinamento dei servizi ospedalieri corrispondenti a quelli degli ospedali gestiti direttamente dalle aziende USL, hanno potuto ottenere dalla Regione di competenza di essere considerati, ai fini dell’assistenza sanitaria, presidi della stessa azienda.

A differenza però degli istituti (anche privati) “convenzionati obbligatori” – che erano mediante convenzione “dovuta” presidi della azienda USL solo a condizione che il presidio sanitario regionale ne sanzionasse, anche in riferimento alle caratteristiche tecniche specialistiche, la opportunità – necessita di un convenzionamento.

In proprio le case di cura possono essere definite come stabilimenti sanitari gestiti da privati (persone fisiche o giuridiche) dotati di reparti di degenza e di servizi, che provvedono al ricovero ed eventualmente all’assistenza sanitaria ambulatoriale in regime di degenza diurna di cittadini italiani e stranieri a fini di diagnosi, cura e riabilitazione.

Oltre a soddisfare le esigenze dell’igiene e della tecnica ospedaliera, le case di cura private debbono o possono presentare (in correlazione con la

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tipologia) numerosi servizi di diagnosi e cura, servizi di accettazione (per la prima visita, registrazione ed eventuale osservazione dei malati), nonché tutta una serie di servizi specialistici di diagnosi, di cura, e di assistenza, al fine di assicurare comunque un servizio adeguato alle esigenze del servizio sanitario nazionale.

Vediamo adesso il rapporto tra medico e struttura sanitaria e la responsabilità della struttura sanitaria, con particolare riguardo a quella di natura privatistica: il rapporto ha natura diversa e quindi da esso nascono responsabilità di tipo diverso a seconda che la struttura sia pubblica oppure privata. Se pubblica il rapporto è di dipendenza, nel senso che il medico è considerato impiegato civile dello Stato, anche se destinatario di una disciplina speciale; se privata, il rapporto ha natura privata, contrattuale (di volta in volta di consulenza, di opera intellettuale, etc.).

Tralasciando quindi il rapporto del medico con la struttura sanitaria pubblica, vediamo il rapporto del medico con la struttura sanitaria privata.

Per prima cosa è necessario verificare l’esatta natura del rapporto negoziale tra medico e struttura sanitaria privata: si tratta di verificare prima di tutto se detto medico è legato alla struttura con rapporto di dipendenza oppure in regime di libera professione convenzionata; inoltre, nel caso in cui fosse dipendente, va valutato nella sua modalità di attività lavorativa e cioè se la stessa si svolge in maniera autonoma e quindi ne risponde direttamente al suo datore di lavoro o se invece, in qualità di dipendente, costituisca un capo équipe con collaboratori che tuttavia siano svincolati da un rapporto contrattualistico con la struttura suddetta, ma invece facciano esclusivamente capo, come collaboratori esterni o comunque incaricati esclusivamente, al capo équipe: basti soltanto la

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differenza che sussiste tra un operatore specialista ostetrico, per esempio, ed uno chirurgico, dove il secondo necessita chiaramente di tutta una serie di collaboratori di riferimento che non sempre sono di dipendenza anch’essi dalla struttura in cui lavorano. Tutto ciò è necessario al fine di differenziare l’attività sanitaria, se vada inquadrata sotto l’aspetto della attività congiunta, delegata o complementare, al fine di stabilire se l’eventuale responsabilità derivante da trattamento incongruo possa essere qualificata in ambito di extracontrattualità ex art. 2055 del c.c. o in ambito contrattuale ex art. 1307 c.c., per qualificare la responsabilità plurima oppure quella di gruppo.

Si tratta in ogni caso di un rapporto di natura privatistica, sicché, mentre nei riguardi del paziente la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale, per eventuale responsabilità di un dipendente sanitario diplomato (ex art.

1228 c.c., per responsabilità del committente per utilizzo di terzi), o per il fatto di un dipendente (ex art. 2049 c.c., per responsabilità della struttura ad opera di un proprio dipendete), il medico risponde verso il paziente a titolo extracontrattuale (ex Art. 2043 c.c.), a meno che abbia istituito un rapporto contrattuale diretto con questo, e allora nasce il problema del possibile coinvolgimento nel giudizio di responsabilità da parte della struttura privata che semplicemente abbia messo a disposizione locali e arredi, strumenti e laboratori fruiti dal medico, rimanendo il rapporto circoscritto al medico e non estendendosi anche al paziente. In questo caso quindi la casa di cura potrà rispondere se il danno sia conseguito a carenze strutturali della casa di cura medesima, “… delle altre prestazione relative al vitto e all’alloggio di tutte le prestazioni accessorie di cura e assistenza successive allo

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svolgimento dell’intervento…” (v. A. ed S. Baldassari – La responsabilità civile del professionista Milano 1993, p. 733).

Ciò vale in linea di principio, ma in linea di diritto non è sempre così:

non si dimentichi che, come ricorda l’avv. Alberto Polotti di Zumaglia (Tagete V, 2, 45), l’art. 43 L. n. 83/78 affida alle regioni anche la vigilanza sulle istituzioni sanitarie di carattere privato, le cui caratteristiche funzionali devono “… assicurare i livelli di prestazione sanitaria non inferiori a quelli erogati dai corrispondenti presidi e servizi di USL…”, mentre l’art. 8 co. 4 D. lgs. N. 502/92 prevede i requisiti strutturali tecnologici ed organizzativi minimi richiesti per l’esercizio dell’attività sanitaria.

Riguardo al problema del rapporto tra le case di cura e il medico non dipendente, è da ricordare come ad esempio in un caso di una partoriente ricoverata presso una casa di cura su richiesta dell’ostetrica che ne aveva seguita la gravidanza, si precisa che “… la natura autonoma della prestazione costruita da un attività libero-professionale, volta alla realizzazione di interventi o terapie mediche autonomamente programmati e svolte dall’operatore nell’ambito di una casa di cura e l’intuitus personae che lega, come nel caso de quo il paziente all’ostetrica, non impedisca di ravvisare in tale fattispecie un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra committente e preposto…” tale da giustificare la pronuncia di responsabilità solidale tra casa di cura ed operatore (così in motivazione Trib. Napoli 18.04.1996 n. 3705 Cerichiaro e Piemonte c. Casa di Cura Villa Cinzia inedita).

Una tale conclusione è stata motivata nella suddetta sentenza osservando che “l’attività che un libero professionista svolge in un casa di cura privata,

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quanto meno in virtù di un non occasionale rapporto di esecuzione d’opera… comporta per la sua natura un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra casa di cura e committente e il preposto; ne consegue che in casi di danni derivanti da un intervento erroneamente eseguito per imperizia dell’operatore… oltre alla responsabilità di colui verso il paziente per il fatto illecito (ex art. 2043 c.c.) sussiste con vincolo solidale, la responsabilità contrattuale (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2049 c.c.) della predetta casa di cura (c.f.r. Trib.

Roma 28.06.1982 in Temi Romani 1982.601)”.

Come ribadisce sempre l’avv. Polotti, “tanto per altro non sembra potersi applicare nel caso di un medico che solo occasionalmente ricoveri e curi i propri clienti presso una casa di cura nel qual caso quest’ultima non dovrebbe venir considerata solidale con il primo in presenza di solo suo errore professionale.

In ogni caso pare lecita qualche perplessità per l’eccessivo rigore che le conclusioni della giurisprudenza appena citata richiamano nei confronti della casa di cura, soprattutto quando il libero professionista sia un soggetto di chiara fama.

Quanto sin qui detto giustifica ad ogni buon conto l’interesse della casa di cura privata ad assicurare, oltre alla propria responsabilità civile conseguente all’attività esercitata, anche la responsabilità civile diretta dei propri dipendenti, nonché quella dei medici non dipendenti per danni da questi provocati a terzi escludendo il diritto di rivalsa”.

Vediamo a questo punto di qualificare meglio il rapporto del medico privato con il paziente: il rapporto del medico (privato) con il paziente è qualificato dalla gran parte della dottrina e della giurisprudenza in termini

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di contratto d’opera intellettuale o di opera professionale; di recente si è preferito ritenere che si tratti di contratto atipico rientrante nello schema della locatio operis (Galgano, Contratto e Responsabilità Contrattuale dell’Attività Sanitaria, in Riv. Trin. Tir. Proc. Civ. 1984, 710 ss).

Un aspetto particolare, che mi preme sottolineare, è costituto dal caso in cui un paziente subisca lesioni perché curato in una struttura inadeguata, priva, per esempio, delle apparecchiature che sarebbero servite nel caso di specie. Il medico che ha condotto l’intervento può “scaricare” le colpe sulla struttura in cui ha operato, anche quando si tratti di clinica, andando così esente da ogni responsabilità, o è chiamato a rispondere anch’egli (insieme alla struttura) del danno causato? Una recente sentenza della Cassazione (la n. 4852 del 15 maggio di quest’anno), ha affermato chiaramente che, salvo i casi di urgenza, è responsabilità del medico anche preoccuparsi del fatto che la struttura sanitaria in cui lavora sia dotata dei mezzi e degli strumenti tecnici necessari per quella specifica attività sanitaria. Nel caso in cui la struttura non abbia tali mezzi, il medico è tenuto a disporre il trasferimento del paziente in “altra sede idonea” e quindi, se il sanitario non si attiva in tal senso, il malato danneggiato può chiamarlo in giudizio per il risarcimento dei danni. Nella sentenza de quo si trattava di un caso di parto pilotato, cui l’assistenza da parte del ginecologo era stata condizionata dalla mancanza di un monitoraggio automatico del nascituro. La conseguenza dell’impossibilità di evidenziare lo stato di sofferenza del nascituro provocava gravi danni, rilevati sul neonato dopo la nascita. Dopo i due gradi iniziali di giudizio i sanitari della clinica privata furono condannati ad un risarcimento di notevole entità; contro detta sentenza avendo adito alla Corte di Cassazione, nel ricorso gli stessi sanitari si sono visti dare torto e

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quindi si è avuto il riconoscimento del diritto al risarcimento ai genitori del bambino danneggiato.

La Corte di Cassazione ha infatti affermato che la diligenza e la perizia di un medico non vanno valutate solo in base alle sue capacità professionali, ma anche alla scelta di effettuare i suoi interventi solo in sedi adatte, quando cioè sia “tecnicamente possibile”, come sarebbe stato in questo caso.

Per concludere, mi sembra che non possano assolutamente essere individuate linee-guida che configurino con certezza la possibilità di escludere una eventuale responsabilità professionale nell’ambito delle strutture private. Va comunque ricordata la peculiarità che deve connotare l’autonomia professionale del sanitario, parallela sempre all’autonomia del paziente. Per questo mi piace concludere con le parole di Barni (Diritti – Doveri Responsabilità del Medico dalla Bioetica al Bio Diritto – Giuffrè editore, 1999, p. 25): “Nell’alleanza terapeutica la libertà di scelta del medico deve in qualche modo sopravvivere, confrontandosi con le singolarità critiche e deve esprimersi in tutta la sua regolare pienezza nella misura in cui sull’oggettivo paradigma di un felice itinerario tecnico ed etico deontologico autorevolmente predisposto, si stagliano inevitabilmente differenze e tensioni personali non solo del medico ma anche dell’ammalato, che fortunatamente non si placano ormai nello pseudo- rapporto tra paternalismo e fiduciosa soggezione ma tendono ad una temperie possibile, anzi resa possibile dall’autorevolezza di un indirizzo scientificamente predeterminato. Così è possibile attualizzare e rendere ancora credibile uno slogan (scienza e coscienza) antico quanto Ippocrate”.

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