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Il danno da lucro cessante e l’evoluzione dei criteri risarcitori attraverso gli orientamenti della giurisprudenza

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Il danno da lucro cessante e l’evoluzione dei criteri risarcitori attraverso gli orientamenti della giurisprudenza

Avv. Carlo Di Giacomo*

Possiamo ben affermare che il danno può essere visto come la lesione di un interesse (suscettibile di valutazione patrimoniale) o la distruzione di un bene, fino alla lesione dell'integrità fisica o morale della persona, cui consegue l'obbligo per il responsabile al risarcimento.

Per potere dar luogo al risarcimento, occorre che il danno ("certo") si sia verificato e che sia effettivo (cioè non meramente eventuale), oltre che attuale.

Il concetto di danno patrimoniale riguarda sia l'illecito extracontrattuale che l'inadempimento contrattuale, tanto che la Cassazione insegna che si distinguono le due forme di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, soltanto per la natura della norma violata.

Alla base di tale assunto vi è il tenore letterale della norma regolatrice del risarcimento del danno per responsabilità da fatto illecito ed i rinvii normativi in essa contenuti (art. 2056 Cod. Civ.: Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227).

L'art. 2056 c.c. conferma, in effetti, l'esistenza di una serie di regole uniformi, valide sia per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale che da fatto illecito, tra le quali si individuano la risarcibilità del danno emergente e del lucro cessante nei limiti delle conseguenze immediate e dirette, e la possibilità di ricorrere alla valutazione equitativa del Giudice, al fine di determinare l'ammontare del risarcimento.

Si rileva, peraltro, che l'art. 2056 c.c. non richiama l'art. 1225 c.c. (Se l'inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione.). Questa norma contiene una limitazione di responsabilità, operante a favore del debitore colposamente inadempiente: a costui verranno infatti attribuite tra tutte le conseguenze pregiudizievoli solo quelle prevedibili al momento in cui è sorta l'obbligazione. In caso di inadempimento doloso non vi sarà alcuna limitazione, ed il danno verrà risarcito per intero.

Si potrebbe allora affermare che in materia di illecito aquiliano il danno va sempre risarcito completamente, qualunque sia dolo o colpa il titolo di responsabilità del convenuto, poiché nell'illecito extracontrattuale manca una precedente obbligazione cui fare riferimento ai fini della valutazione circa la prevedibilità o meno del danno.

Ma la dottrina (Cendon, Bigliazzi Geri, Busnelli, Natoli) riduce la portata di questo elemento di diversità fra risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, sul presupposto che il limite di responsabilità viene fatto valere, all'interno della responsabilità extracontrattuale, attraverso uno spostamento del criterio dell'imprevedibilità dal danno all'evento dannoso: l'imprevedibilità di quest'ultimo può costituire un indice della mancanza di colpa, ed è quindi suscettibile di determinare l'esclusione totale della responsabilità e quindi dell'obbligo risarcitorio.

Nell'ambito del fatto lesivo, il danno patrimoniale assume rilievo quantitativo, che si dimensiona quindi secondo quelle conseguenze dannose che dalla lesione si propagano secondo un rapporto di causalità che le qualifichi come "immediate e dirette". Secondo

* Avvocato Giurista, Milano

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la legge, nell'ambito del danno patrimoniale distinguiamo poi tra danno emergente e lucro cessante, dove il primo consiste nella effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato; ed il secondo nella perdita di utilità che sarebbero state acquisite al patrimonio del medesimo se non si fosse verificato il fatto dannoso (inadempimento o fatto illecito).

Lo Scognamiglio (Voce Risarcimento del danno, in Noviss. Digesto, Torino 1976) dava già conto di "difficoltà e divergenze manifestate talora riguardo alla definizione, o ancora al criterio e al limite della rilevanza, del lucro cessante". Ma rilevava anche che il dibattito non ha una sua ragione di essere, ove si consideri ancora che, se qui (in sede di analisi del concetto di lucro cessante) ci si trova per un verso di fronte a conseguenze ipotetiche, esse tuttavia non appaiono meno vere nel quadro della dimensione umana, e della rilevanza giuridica, del danno; alla cui stregua non può non attribuirsi un adeguato rilievo alla perdita di una aspettativa del leso, legittima e fondata. Osserva ancora l'Autore che particolari difficoltà sorgono riguardo all'accertamento e misurazione di conseguenze dannose, che non trovano un riscontro abbastanza sicuro ed illuminante nella realtà fenomenica. Ma al riguardo basta osservare che tutte le difficoltà di tal genere possono essere sempre risolte in forza dei poteri di valutazione e decisione spettanti al Giudice; ai quali l'art. 2056 cpv. cod. civ. fa esplicito richiamo in materia, statuendo che il lucro cessante è valutato dal Giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.

Noi riteniamo che indipendentemente dal "taglio" che ciascuno può imporre al proprio lavoro di indagine non possa prescindersi dal dato normativo, per cui appare scontato affermare che fino a quando esisterà nel nostro ordinamento il regime dettato dalle norme più sopra richiamate, il danno da lucro cessante come autonoma componente del danno patrimoniale continuerà ad esservi ricompreso a pieno titolo.

E' peraltro vero che certi orientamenti ed alcune interpretazioni delle norme sulle assicurazioni obbligatorie potrebbero fare propendere per una generale ed "oggettiva"

esistenza (e quindi, per la risarcibilità) del danno da lucro cessante: si tratta di particolari aspetti, frutto di complesse ed a volte ardite elaborazione dei principi di base che, prima di essere esaminati, richiedono una breve analisi di quegli stessi principi che informano l'istituto del tipo di danno in esame.

Il danno da lucro cessante: la prova degli elementi costitutivi e i poteri del giudice. Casi particolari.

1. Sappiamo come il lucro cessante consista nella mancata acquisizione di beni, guadagni, vantaggi o utilità di cui il danneggiato avrebbe avuto la disponibilità se non fosse intervenuto ad impedirlo il fatto generatore del danno.

In altri termini, il lucro cessante non è un dato di fatto, ma rappresenta un qualche cosa che non si è verificato, anzi che non potrà più realizzarsi. Si tratta così di ricostruire, secondo criteri di ragionevole prevedibilità, ciò che il danneggiato avrebbe "guadagnato" se non si fosse verificato il fatto dannoso.

In questi casi il Giudice, come in ogni valutazione del danno, deve compiere un processo logico che si articola in due fasi distinte: la prima relativa alla certezza del danno, la seconda relativa alla sua quantificazione.

Quando il danno deriva dalla perdita di un bene o, comunque, dal venir meno di una situazione di vantaggio, la certezza della sua esistenza è in re ipsa, per cui resta solo il problema della sua concreta determinazione, per la quale il Giudice deve trarre argomento dalle prove dedotte ricorrendo, se del caso, a criteri equitativi; ma quando si tratta di danni consistenti nel mancato sorgere di una situazione di

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vantaggio, anche il problema dell'esistenza del danno deve essere risolto sul piano della prova (Cass. Sez. I, 3.4.1973).

La costante giurisprudenza della Corte di Cassazione ha più volte affermato, in tema di danno da lucro cessante, che esso deve essere determinato con esclusivo riferimento alle concrete ed effettive possibilità che non si siano attuate, e deve sempre risultare positivamente dimostrato e, cioè, deve potersi ritenere che un determinato lucro si sarebbe avuto ed invece è mancato a causa del fatto illecito (Cass. Sez. III, sent. n. 4609/1985); la prova di ciò va desunta dalla ricostruzione ideale di quanto il creditore avrebbe conseguito per normale successione di eventi in base ad una ragionevole e fondata attendibilità e tale ricostruzione non può essere suffragata sul solo piano ipotetico dell'astratta possibilità di lucro, bensì deve muovere da una situazione concreta, che consenta di ritenere fondata ed attendibile questa possibilità (Cass. Sez. II, 15 genn. 1980), ancorché non certa ma pur sempre basata su di una ragionevole previsione.

2. Muovendo da criteri analoghi a quelli utilizzati per l'individuazione del danno da lucro cessante, è stata attribuita rilevanza giuridica anche al c. d. "danno futuro"

fondato non su una pura e semplice eventualità ma su di una situazione obiettiva ed inevitabile, che tragga origine da una causa efficiente già in atto (Cass. Sez. III, 26 ott. 1968) di fatto non ancora realizzatasi e quindi non attuale o, meglio, in cui il concretizzarsi del danno sia temporalmente differito nel tempo, al realizzarsi di determinate circostanze non solo ipotetiche ma attendibilmente probabili. Per dirla con il Bonvicini (La Resp. Civile, Milano, 1971, II, 928): si tratta della continuazione prognostica del danno attuale, nel cui processo la prognosi riveli attributi di certezza, sia pure relativa, fondata su una ragionevole probabilità circa gli sviluppi che il danno presente potrà avere nel futuro se rapportato agli attributi economico-sociali del soggetto. Ove manchino i ridetti requisiti si parlerà del c. d. "danno potenziale", che si basa su mere ipotesi di circostanze future rispetto al verificarsi (poco probabile) delle quali resta subordinato l'avverarsi del danno: dottrina e giurisprudenza non riconoscono la risarcibilità di tale "tipo" di danno (così è stato negato il riconoscimento di danno da lucro cessante, sotto l'aspetto del mancato guadagno, ad una società calcistica che aveva perduto un proprio calciatore deceduto per il fatto di un terzo. La Corte di Cassazione (Sez. III, sent. n. 1459/1978) ha sostenuto che il ricavo, che una società calcistica potrebbe ricevere dalla cessione ad altri del rapporto di lavoro subordinato con un giocatore professionista, non configura un valore attinente alle prestazioni del giocatore stesso, bensì un valore meramente eventuale del rapporto giuridico con il giocatore, acquisibile dalla società soltanto per il caso di cessione non gratuita del giocatore. Pertanto, nell'ambito del danno derivante a detta società dalla perdita delle prestazioni di quel giocatore, per fatto illecito altrui che ne abbia cagionato la morte, non può essere inclusa, ancorché in via potenziale, la perdita dell'indicato ricavo essendo ancora inesistente il relativo valore e così mancando il nocumento del patrimonio sociale).

Tornando ai rapporti tra lucro cessante e danno futuro, a nostro modo di vedere è ancora attuale e condivisibile l'impostazione tradizionale (De Cupis, Il danno, cit.) per cui le nozioni di lucro cessante e danno futuro non coincidono, dato che il danno presente è quello già esistente al momento della liquidazione, e quello futuro non è ancora esistente in tale momento: quindi sia il danno presente che quello futuro possono essere, in relazione al momento del giudizio, o danno emergente o lucro cessante.

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Il principio si trova sovente applicato nella prassi giurisprudenziale di cui si riferiscono alcuni esempi.

Il Tribunale di Trieste (sent. 14 sett. 1993, in Resp. Civ. e Prev. 1994, 500 ss.), nel caso della morte di un minore in occasione di un incidente stradale, ha riconosciuto ai genitori il risarcimento del danno patrimoniale come danno futuro da lucro cessante, tenendo conto che la morte del figlio, soggetto agli obblighi alimentari nei confronti dei genitori determina per questi ultimi la perdita di un possibile aiuto in caso di futuro stato di bisogno.

Di recente, il Tribunale di Firenze (26 genn. 1996, in Resp. Civ. e Prev., 1996, 589 ss.; v. anche Cass. n. 23/1988 e Cass. Sez. Un. n. 6651/1982), in un caso di morte di un padre di famiglia ha stabilito che il riconoscimento di un danno patrimoniale da lucro cessante in ipotesi di morte di un congiunto implica la valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, per accertare se da esse debba desumersi con carattere di probabilità e verosimiglianza l'esistenza, come conseguenza logica alla stregua di un criterio di normalità (utilizzando le presunzioni e gli elementi ricavati dal notorio e dalla comune esperienza), di danni costituiti dal venir meno in futuro di legittime aspettative alle quali possa assegnarsi un apprezzabile valore economico. Si noti al proposito come sia avvertibile il progressivo ampliarsi dell'area tutelata dal risarcimento: dalla lesione riduttiva del diritto che doveva comunque essere suscettibile di apprezzamento economico, giungiamo alla rilevanza del mancato verificarsi di "legittime aspettative" per il soggetto leso dall'illecito extracontrattuale (è pur vero che l'art. 2043 cod. civ. non richiede che quale conseguenza del danno ingiusto, ai fini risarcitori, vi debba essere necessariamente la lesione di un diritto).

3. Si è posto il problema dei confini, sulla base dell'applicazione (e dell'evoluzione) dei principi appena illustrati, tra il danno da lucro cessante e quello per la perdita di chances, essendo queste inizialmente intese (in particolare dalla dottrina francese) come quel lucro i cui elementi costitutivi rimangono nella sfera dell'eventuale.

Come s'è visto, secondo le regole dettate dalla nostra Corte di legittimità, per essere risarcito il danno da lucro cessante deve sempre risultare dimostrato nella sua probabilità, mentre si esclude laddove è fondato su elementi meramente ipotetici: su queste basi e per quello che si è detto più sopra la perdita di una chance non poteva in alcun modo essere risarcita.

Su impulso della dottrina (Busnelli, Perdita di una chance e risarcimento del danno, in Foro It. 1965, IV, 47; Bocchiola, Perdita di una chance e certezza del danno, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1976, 55), si è cominciato a prospettare la perdita di una chance come "danno presente" in quanto la perdita avviene nel momento stesso in cui si verifica il fatto dannoso, con ciò aprendo la strada all'assunzione della fattispecie non più nella categoria del "lucro cessante" ma in quella più propria del "danno emergente", fino a configurare tale perdita come danno suscettibile di autonoma valutazione economica e, quindi, risarcibile.

In questo solco, ormai consolidato, si sono poste le pronunce della Corte di Cassazione (Sez. Lav., sent. n. 65060 del 19 dic. 1985, in Foro It., 1986, I, 383), della Corte di Appello di Roma (Sez. III, 17 febbr. 1988, in Giur. It. 1991, II, 640) e, da ultimo, del Tribunale di Monza (21 febbr. 1992, in Resp. Civ e Prev., 1993, 859), dalle quali si ricava una soddisfacente definizione della perdita di chance, come lesione del diritto all'integrità del proprio patrimonio, un danno certo (anche se non tale nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale, e non di un futuro risultato; (...)

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essendo la chance un bene patrimoniale, una entità economicamente e giuridicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile (...) assumendo come parametro di valutazione l'utile economico realizzabile diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e, laddove la liquidazione del danno in base a tale criterio non risultasse praticabile, ben può farsi ricorso la parametro equitativo ex art. 1226 cod. civ..

4. Il criterio del ricorso alla valutazione del danno in via equitativa è richiamato anche dall'art. 2056 cod. civ., quando stabilisce che "il lucro cessante è valutato dal Giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso". Ciò non implica un potere del Giudice di sostituirsi all'attore nel rinvenire idonei elementi di prova per la determinazione del danno da lucro cessante, poiché resta sempre onere dell'attore fornire la prova dell'esistenza del danno stesso: l'intervento del Giudice potrà esplicarsi solo al momento dell'eventuale integrazione delle risultanze istruttorie, in ordine alla determinazione dell'entità del danno ed alla sua liquidazione (vale la pena ricordare che, comunque, la norma non consente una pronuncia secondo equità, bensì una estensione del suo potere di apprezzamento [Scognamiglio, cit.]).

Inoltre, nel momento della misurazione del danno da lucro cessante, il Giudice dovrà avvalersi di un criterio necessariamente soggettivo, con riguardo alla situazione ed all'interesse del soggetto leso.

Numerose sono le pronunce sull'argomento, che hanno tracciato le linee guida per l'applicazione dei principi suesposti. Tra le altre, la Cassazione (Sez. Lav. n.

6029/1986) ha affermato che quando occorra procedere alla liquidazione di un danno futuro non determinabile con assoluta precisione, il Giudice, relativamente al lucro cessante, deve attenersi a calcoli di probabilità da compiersi con equo apprezzamento delle circostanze del caso. E da ultimo la stessa Corte (Sez. III, n. 188/1996) ha ribadito che il ricorso alla liquidazione del danno con criteri equitativi, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., è ammissibile qualora l'attività istruttoria svolta non consenta di dare certezza alla misura del danno stesso, come avviene quando, essendone certa l'esistenza, risulti impossibile (o molto difficile) provare la precisa durata del pregiudizio economico subito. Peraltro, si è pure precisato che il potere discrezionale del Giudice di procedere alla liquidazione equitativa del quantum del danno risarcibile, è circoscritto all'ipotesi in cui la prova dell'entità di esso appaia impossibile o sommamente difficile e presuppone la certezza acquisita al processo circa l'esistenza del danno stesso (Cass. 12 genn. 1977, in Arch. Circ., 1977, 416).

Il ricorso alla determinazione equitativa trova particolari applicazioni nella pratica giudiziaria nel caso di liquidazione di danno da lucro cessante ai congiunti di persona deceduta per fatto illecito altrui (Cass., 11 luglio 1977, n. 3106, in Mass.Giur. It.

1977, 663: allorquando si tratti di determinare, nei riguardi dei figli di persona deceduta per fatto illecito altrui, il danno da lucro cessante agli stessi derivato dall'essere venuto meno il concreto e sicuro beneficio economico ad essi apportato dal genitore, il criterio normale di liquidazione non può essere che quello equitativo, stante la pratica impossibilità di procedere alla relativa determinazione con assoluta precisione) ovvero nella determinazione del futuro reddito del minore superstite (Trib. Spoleto, 23 febbr. 1987, in Arch. Circ. 1987, 881).

5. Qualche problema di metodo si rileva confrontando invece l'evoluzione della giurisprudenza nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante a particolari figure - prive di reddito - che abbiano riportato lesioni da cui sia derivata una riduzione della capacità lavorativa generica.

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Se è vero che, in caso di lesioni alla persona, il soggetto danneggiato può cumulare il risarcimento del c.d. "danno biologico" con quello da lucro cessante, quale pregiudizio patrimoniale ricollegabile a quelle lesioni (v. da ult. Trib. Milano, Sez. IV civ., sent. n. 9988/1995), è altrettanto vero che le "conseguenze pratiche"

dell'applicazione di tale corretto principio lasciano a volte perplessi. Si riporta - per il peculiare sviluppo logico che ha portato alla determinazione del criterio risarcitorio adottato in quella sede una decisione del Tribunale di Crema (8 giugno 1989, in Inf.

Prev. 1990, 632) che ha stabilito: nella valutazione del danno alla persona, un danno biologico sempre e comunque va liquidato mentre ad esso possono cumularsi un danno patrimoniale da lucro cessante e un danno morale solo se ricorrono i presupposti per esso previsti. Nella valutazione dell'incidenza negativa sul reddito per la diminuita capacità lavorativa, attuale o potenziale, deve aversi riguardo alla capacità lavorativa specifica o in mansioni affini e confacenti, non alla capacità lavorativa generica. Quando la riduzione della capacità lavorativa specifica, pur non comportando nell'immediato una diminuzione di reddito sia tale o di tale natura da fare fondatamente prevedere una perdita o diminuzione futura di reddito, o riferendosi ad un soggetto non percettore di reddito (minore, disoccupato, casalinga, studente ecc.) incida nella sfera attitudinale del soggetto in misura da condizionarne negativamente le "chances" lavorative future, allora non può negarsi l'emergenza anche di un danno patrimoniale da lucro cessante seppure in termini di più o meno forte probabilità, onde non può esigersene una prova rigorosa.

Questa massima è sintomatica della "confusione" (da un punto di vista concettuale giuridico) che regna da tempo in questo settore. Invero, si ha un bel darsi da fare ad elaborare concetti e principi, ad interpretare correttamente norme obsolete per

"adeguarle" ad una realtà distante anni luce da quella in cui le stesse sono state emanate, ad invocare il rigore logico e metodologico per giungere ad una parvenza di

"certezza del diritto", se poi, in un unico provvedimento, vediamo accomunati concetti tra di loro incompatibili (secondo un certo modo forse anch'esso superato? di pensare) quali il "danno potenziale" o la "perdita di chances" con il lucro cessante, o la "riduzione della capacità lavorativa specifica" con "soggetti non percettori di reddito"! Il tutto, poi, senza chiedere neppure tanto rigore probatorio.

6. Per completare la ricognizione, prendiamo in esame la vicenda legata al risarcimento del danno alla casalinga, ricca di interessanti spunti.

Recentemente, il Tribunale di Treviso (sent. 11 aprile 1996, in Resp. Civ. e Prev., 1996, 958 ss.), nello stabilire che il risarcimento del danno da lucro cessante della casalinga deve essere determinato assumendo come parametro il corrente costo di una collaboratrice domestica, motivava tale conclusione argomentando che, ancorché il CTU avesse riconosciuto l'incidenza delle lesioni sulla capacità lavorativa generica ed accertato peraltro che la danneggiata svolgeva part time l'attività di casalinga, si doveva reputare esservi stato un danno alla capacità di lavoro specifica sotto questo profilo, nel senso che l'attrice anche per il futuro potrà svolgere le mansioni di casalinga con consistenti limiti.

Tale pronuncia si pone nella scia degli interventi succedutisi copiosi dopo l'elaborazione del c. d. "reddito figurativo", quando peraltro era ancora ben lontana la configurazione del "danno biologico" ed ogni danno ai soggetti privi di reddito veniva valutato secondo rigidi meccanismi legati alla capacità lavorativa. Ma oggi, con l'ormai unanimemente accettata introduzione del concetto del danno alla salute come "danno-evento" e riduzione del danno patrimoniale (nelle sue componenti del danno emergente e del lucro cessante) a "danno-conseguenza" o danno eventuale

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(cioè, autonomamente risarcibile se ed in quanto provato nella sua dipendenza causale ed entità), tali liquidazioni (in base alle argomentazioni riportate) non hanno più (se mai l'hanno avuto) alcun fondamento giuridico.

Rimandando a quanto brevemente accennato nelle pagine che precedono in ordine agli elementi costitutivi del danno da lucro cessante, nel caso di invalidità della casalinga pare veramente arduo provare quale sia la conseguente perdita o diminuzione di guadagno o di utilità da risarcire, attesa la natura squisitamente patrimoniale di tale voce di danno e l'incontestabile "gratuità" della attività della casalinga che, in quanto non retribuita, non costituisce capacità lavorativa specifica.

Correttamente è stato sostenuto (G. Miotto, Il danno alla persona della casalinga e quello dei suoi prossimi congiunti, in Resp. Civ. e Prev. 1996, 966) che, poiché il lavoro casalingo trova origine nel matrimonio e la sua causa è costituita dalla solidarietà familiare (di qui la sua gratuità), quanto alla sua valutazione economica esso è svolto a titolo gratuito e non dà luogo per la casalinga ad un guadagno suscettibile d'essere perduto o diminuito. Cosicché, conclude l'Autore, qualora quest'utilità venga meno o venga ridotta, potrà parlarsi di aggravamento del danno biologico della casalinga ed eventualmente di danno emergente dei suoi familiari, ma non certo di lucro cessante della casalinga stessa.

La Corte di Cassazione, in tempi non troppo lontani dalla sentenza trevigiana (Sez. III, sent. 19 marzo 1993, n. 3260, in Dir. Econ. Ass. 1993, 637), sosteneva che la riduzione della capacità lavorativa generica costituisce lesione di un generico modo di essere del soggetto che non comporta alcun rilievo sul piano della produzione di reddito e quindi si sostanzia in una menomazione della salute in senso lato, risarcibile perciò in quanto tale e, cioè, come danno biologico (costituendo la capacità lavorativa generica uno dei profili del danno biologico), concludendo che affermare l'autonoma risarcibilità della capacità lavorativa generica significherebbe duplicare, ai fini risarcitori, la valenza dello stesso fatto, considerato per un verso danno alla salute e, per l'altro, danno patrimoniale.

La decisione dei Giudici di Treviso si pone così apertamente in contrasto con tali precetti, per di più adottando una motivazione sbrigativa ed insoddisfacente, in particolare nel passaggio in cui "muta" in "capacità di lavoro specifica" (della casalinga part time) l'accertata incidenza in sede di CTU dell'invalidità sulla sola

"capacità generica" .

Riteniamo pertanto che così come la giurisprudenza ha avuto un ruolo determinante nel rendere aderente ai tempi tutto il sistema risarcitorio da lesioni in presenza di un colpevole vuoto normativo, ancor più ingiustificabile se si pensa alla rilevanza sociale del problema dei sinistri (infortuni sul lavoro, incidenti stradali) con danni alla persona, sia ora oltremodo pericoloso insistere nell'ampliare tali confini oltre quanto consentito dai principi normativi del nostro ordinamento, con forzature interpretative che sono in palese contrasto con gli stessi e non fanno altro che alimentare (inutili) incertezze interpretative ed aumentare i costi per tutti gli operatori e gli utenti del mercato assicurativo e, quindi, per la collettività.

L’art. 4 della L. n. 39/1977

A. Si ritiene a questo punto opportuno introdurre una breve analisi dell' art. 4 della L. 26 febbraio 1977 N. 39 che, secondo alcune interpretazioni, è suscettibile di incidere

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significativamente su tutto l'impianto risarcitorio del danno patrimoniale nei casi di sinistri con lesioni alla persona. Per comodità del lettore se ne riporta il testo, limitatamente ai commi 1 e 3.

Art. 4

1 - Nel caso di danno alle persone, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l'incidenza dell'inabilità temporanea o dell'invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque quantificabile, tale reddito si determina per il lavoro dipendente sulla base del reddito di lavoro maggiorato dei redditi esenti e delle detrazioni di legge, e per il lavoro autonomo sulla base del reddito netto risultante tra quello più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche degli ultimi tre anni ovvero, nei casi previsti dalla legge, dall'apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro.

2 - (...)

3 - In tutti gli altri casi, il reddito che occorre considerare ai fini del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale.

E' stato a lungo ritenuto che la norma costituisse una limitazione del principio dispositivo, che riserva alla parte la facoltà di scelta dei mezzi di prova reputati più idonei tra quelli consentiti dall'ordinamento (Cass. Sez. III, sent. n. 1094/1991), ponendosi così come norma di carattere processuale che va ad incidere direttamente sulla disciplina della prova. Di recente, però, la nota sentenza n. 445/95 della Corte Costituzionale (v. ampiamente infra) ha chiarito che il primo comma dell'art. 4 non limita la disponibilità dei mezzi di prova e che il danneggiato può omettere l'allegazione della documentazione fiscale fornendo con altri mezzi la prova del proprio reddito, specificando che ciò che non è consentito al lavoratore è il rifiuto di esibire le dichiarazioni fiscali allo scopo di sottrarsi all'onere di provare il reddito effettivo invocando la liquidazione del reddito minimo forfetario indicato nel terzo comma.

Nell'aspetto che qui maggiormente interessa, si potrebbe affermare che tale norma rappresenta una sorta di metodo legale per la determinazione del danno patrimoniale da lucro cessante in un soggetto percettore (e non?) di reddito che abbia riportato lesioni (che abbiano cagionato inabilità temporanea o invalidità permanente) da fatto illecito derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti: in realtà, sin dalla sua entrata in vigore la disposizione ha suscitato dubbi interpretativi e perplessità applicative, e la magistratura è stata chiamata a più riprese a pronunciarsi sulla reale portata di essa.

B. La "specialità" della norma è stata espressamente dichiarata sia dalla giurisprudenza di merito (v. per tutte la nota decisione del Tribunale di Palermo 22 nov. 1983, in Riv.

Giur. Circ. e Trasp., 1984, 704) che di legittimità (Cass. Sez. III, sent. nn. 2428/1981 e 2280/1988).

Si è posto quindi il problema della validità della norma nei rapporti tra danneggiato e danneggiante, e le magistrature di merito (v. Trib. Palermo, cit.) e la Suprema Corte (Sez. III, sent. nn. 2428/1981, 2280/1988 e 5672/1990) hanno più volte ribadito che essa si applica soltanto all'ipotesi dell'azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore, e non anche nel rapporto tra danneggiato e danneggiante, che è indipendente dal contratto assicurativo. Questa interpretazione, per quanto astrattamente coerente con la rubrica della Legge, in realtà lascia perplessi se solo si consideri che assicuratore e danneggiante sono obbligati in solido nei confronti del danneggiato.

C. Si è quindi dibattuto sui soggetti cui la norma poteva essere applicata, cercando di chiarire la portata dell'inciso al c. 3: "In tutti gli altri casi...".

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Da alcune Corti territoriali si è sostenuto che l'art. 4 in esame garantisce anche ai c.d.

redditi virtuali o figurativi la liquidazione del lucro cessante da invalidità lavorativa, sempre che si sia in concreto adempiuto all'onere probatorio e cioè si dimostri un concreto impedimento, riduzione o comunque pregiudizio di una attività lavorativa del danneggiato suscettibile di essere economicamente valutata, o della capacità di guadagno anche futura del minore; in tal caso deve essere sempre garantito un importo pari a tre volte la pensione sociale, quale importo minimo assunto a base del lucro cessante, anche quando si tratti di attività rivolta a proprio vantaggio o a vantaggio dei propri familiari o quando non sia possibile quantificare esattamente il reddito lavorativo del danneggiato (Trib. Mondovì, 28 nov. 1988, in Arch. Circ., 1989, 699).

Con sentenza n. 2280/1988 (cit.) la Suprema Corte stabiliva dapprima che l'art. 4 in esame non è comunque applicabile allorché il danneggiato non percepisca alcun reddito.

Successivamente, tale orientamento veniva confermato con almeno altre due pronunce (n. 645/1990 e 10269/1994) in cui si precisava che l'inciso "in tutti gli altri casi", di cui al terzo comma dell'articolo, va riferito alle ipotesi in cui il reddito da lavoro non risulti in base ai criteri indicati nei due commi precedenti e non anche nelle ipotesi in cui il soggetto sia privo di un reddito.

Per cui, in sostanza, si dovrebbe concludere che il Giudice che dovesse decidere sulla domanda di risarcimento del danno da lucro cessante proposta da danneggiato privo di reddito (minore/studente, disoccupato, lavoratore saltuario, ecc.) possa esclusivamente rifarsi ai criteri equitativi sussistendo la prova dell'esistenza del danno del codice, senza potersi avvalere in quella valutazione dei principi del terzo comma dell'art. 4 in esame, in quanto norma speciale e quindi non suscettibile di applicabilità in via analogica.

Finché, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della norma per un preteso contrasto col principio d'uguaglianza, è intervenuta sull'argomento la Corte Costituzionale che, con la sentenza 18-24 ottobre 1995 n. 445 (in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1996, I, 101) ha stabilito espressamente che il terzo comma dell'art. 4, oltre alle fattispecie individuate dalla Corte di Cassazione in cui il danno futuro incide su soggetti nell'attualità privi di reddito da lavoro, ma potenzialmente idonei a produrlo (Sez. III, 10 giugno 1994 n.

5669, in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1994, 824; Sez. III, 30 maggio 1995 n. 6074, in Riv.

Giur. Circ. e Trasp., 1996, 157) , è applicabile anche ai lavoratori dipendenti o autonomi (...) in tutte le ipotesi di reddito, anche positivo, con caratteristiche (esiguità, discontinuità o precarietà del lavoro) tali da escludere che esso possa costituire la componente di base del calcolo probabilistico delle possibilità di reddito futuro, e sempre che il materiale probatorio non fornisca altri elementi di calcolo più favorevole di quello operato sulla base convenzionale del triplo della pensione sociale (sul solco tracciato da questa pronuncia, v. Cass. Sez. III, 9 ott. 1996 n. 8817, in Assicurazioni, 1996, 104).

Tale interpretazione dovrebbe consentire di evitare, in futuro, di trovarsi di fronte a pronunce quali quella del Tribunale di Savona (3 agosto 1995 n. 481, in Riv. Giur. Circ.

Trasp. 1996, 560) che, afferma che il legislatore, con il terzo comma dell'art. 4 oggetto del nostro esame, ha voluto ricomprendere tra i soggetti risarcibili per la diminuzione della capacità lavorativa tanto i lavoratori dipendenti quanto i soggetti non percettori di alcun reddito, avendo così inteso prescindere dalla effettiva ed accertabile diminuzione del guadagno, commisurando al reddito, reale o figurativo, di volta in volta, le diminuite possibilità di carriere o di espansione dell'attività professionale, la maggiore usura delle energie lavorative, se suscettibile di ripercuotersi sulla conservazione o lo sviluppo della attività, la ripercussione dei postumi invalidanti sulla scelta e sullo svolgimento di una attività lavorativa solo ipotizzata. O come quella del Tribunale di Pisa (16 gennaio 1985) citata dallo stesso giudice savonese, per cui una volta accertata l'incidenza

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negativa della invalidità sulla attitudine del danneggiato a svolgere una qualche attività di rilievo economico, deve essere sempre garantito un importo pari a tre volte la pensione sociale quale importo minimo assunto base del lucro cessante anche quando si tratti di attività rivolta a proprio vantaggio o a vantaggio dei propri familiari, oppure quando non sia possibile quantificare esattamente il reddito lavorativo del danneggiato.

Questo diffuso orientamento della giurisprudenza di merito (di cui si sono voluti dare alcuni sintomatici esempi) porta ad allargare sempre di più l'ambito risarcitorio conseguente a lesioni personali, rielaborando e dilatando il concetto di "lucro cessante"

fino quasi a farlo diventare componente costante delle voci di danno da risarcire. E' da notare come queste sentenze portino immutabilmente formale omaggio ai canonici principi di diritto in materia di lucro cessante (il Tribunale di Savona ribadisce che il danno andrà liquidato allorché, sulla base di tutte le circostanze di fatto valutabili e delle osservazioni del Consulente Tecnico, e soprattutto dell'entità dei postumi e della loro natura, in relazione all'attività esercitata o esercitabile in futuro, possano riconoscersi alla lesione dell'integrità psicofisica del soggetto conseguenze direttamente o indirettamente patrimoniali, da valutarsi equitativamente; v. anche Trib. Mondovì, cit.), salvo poi riconoscere che i presupposti per la liquidazione del danno ... esistono sempre e che l'art. 4 della L. n. 39/77 è comunque applicabile ... a tutti!

D. A nostro avviso, invece, la lettura della norma che ne ha dato la Corte Costituzionale non può più consentire tali disinvolture, dovendo concludersi che i criteri risarcitori di cui all'art. 4 si applicano in presenza dei presupposti che seguono:

a) in caso di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante a soggetto che svolga (o che sia idoneo a svolgere) attività lavorativa redditizia e che abbia riportato lesioni personali in occasione di sinistro automobilistico, una volta che sia stato assolto l'onere della prova in ordine alla sussistenza del danno diverso ed ulteriore (invalidità specifica) rispetto alla lesione del diritto alla salute ed alla permanenza di invalidità generica;

b) quando il danneggiato sia un soggetto che abbia un reddito, da lavoro dipendente o autonomo, dimostrabile (c. 1); o, in alternativa (c. 3: in tutti gli altri casi ...),

c) quando, a causa di particolari e contingenti circostanze (attività lavorativa appena iniziata, soggetto da poco senza lavoro, lavoratore occasionale o saltuario) il reddito del danneggiato (con esclusioni di rilevanza di ipotesi quali il c. d. reddito figurativo) non possa essere dimostrato secondo le prescritte rilevanze fiscali.

Conclusioni

Concludiamo quindi nel rilevare come il danno da lucro cessante esista ancora e paia attraversare una "seconda giovinezza".

Ci auguriamo di essere stati in grado di evidenziare, come gran parte delle pronunce dei Giudici di merito (ben più numerose di quelle poche di cui si è dato conto nel presente lavoro) siano peraltro condizionate dalla disordinata commistione di concetti giuridici tra di loro difficilmente compatibili, dove ancora troppo spazio al di là della vuota ripetizione di enunciazioni di principio apparentemente valide viene lasciato alle

"presunzioni", o ai c. d. "dati dell'esperienza", ovvero ancora ad intenti egualitari di giustizia sostanziale (secondo le opinioni degli estensori), così che la "duplicazione"

delle voci di danno risarcibile sempre escluse dai proclami di principio viene poi di fatto realizzata attraverso forzature interpretative.

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L'applicazione del diritto è anche riconoscere che a situazioni soggettivamente diverse devono corrispondere criteri risarcitori diversi, per cui non è commendevole riconoscere che in presenza di due soggetti portatori di una lesione della stessa natura, l'uno può subire per quella causa una effettiva riduzione del guadagno e l'altro no, perché di fatto il suo reddito reale non viene intaccato, nessuna rilevanza potendo assumere artificiose ed apodittiche ricostruzioni di ipotesi "prognostiche". Ed è ingiusto, quindi, riconoscere ad entrambi l'applicazione di medesimi criteri risarcitori del danno patrimoniale, poiché in conclusione si viola il principio per cui il Giudice non può sostituirsi all'attore nella prova della sussistenza del danno da lucro cessante (che viene invece data, in questi casi, per assunta in via presuntiva o automatica) potendo intervenire solo nel momento della quantificazione (anche in via equitativa, ove non sussistano diversi criteri stabiliti dalla legge) del danno medesimo.

Anche alla luce dell'intervento chiarificatore della Corte Costituzionale, auspichiamo pertanto che abbia termine la (mai troppo lamentata) automatica liquidazione del lucro cessante "presunto", basata su concetti quali l'usura delle forze lavorative di riserva, il maggiore dispendio di energie, il reddito figurativo. Come dice Giannini (Danno biologico e danno patrimoniale, in Il Danno, Milano 1995, 95): o le conseguenze invalidanti delle lesioni comportano una effettiva e dimostrata (non in base a mere supposizioni o astratte ricostruzioni) riduzione del reddito e allora sussiste ed è risarcibile il danno patrimoniale; oppure, accertato il venire meno di soli vantaggi ipotetici, il tutto si riduce a lesione dei diritti della persona, risarcibile come danno biologico. E questo significa giudicare secondo diritto.

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