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Lucro Cessante e Danno Biologico: ipotesi residuale? di Rodolfo Berti

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Lucro Cessante e Danno Biologico: ipotesi residuale?

di Rodolfo Berti*

Premessa

Il quesito, pur essendo suggestivo è in ogni caso scontato dal momento che il lucro cessante è una partita di danno che non può sparire dal panorama risarcitorio del danno illecito essendo la sua fun- zione destinata ad eliminare i pregiudizi di natura economica quali conseguenze della lesione alla per- sona.

D'altra parte il danno da lucro cessante è espressamente disciplinato dagli artt. 1223 e 2056 c.c.

per cui impossibile sarebbe la sua eliminazione senza uno specifico intervento del legislatore.

Dunque il tema riguarda in realtà l'ambito di applicazione di questo danno e quindi se la sua fun- zione risarcitoria abbia subito modificazioni a seguito dell'evoluzione dei concetti del risarcimento del danno alla persona che negli ultimi venti anni si è arricchito di un nuovo titolo che quindi si è aggiun- to al tradizionale sistema c.d. bipolare: mi riferisco, come è ovvio, a quello che è comunemente, an- che se impropriamente, chiamato danno biologico.

Anamnesi Storica

Quindi per valutare lo "stato di salute" attuale del danno da lucro cessante, parafrasando il titolo del dibattito di Brescia del 19951, è necessario procedere ad una anamnesi storica per confrontare come era e come è diventato. Inevitabile è quindi un pur veloce riferimento alla ormai arcinota "rego- la del calzolaio" del buon Melchiorre Gioia perché, pur con tutti i suoi limiti e le sue ingenuità, que- sta costituisce il primo criterio liquidativo del danno da lucro cessante in quanto tesa a ripristinare, con la corresponsione di una somma di denaro equivalente alla perdita di produzione e quindi di red- dito, la situazione patrimoniale quotante. Il valore di quella scarpa ed 1/4, moltiplicato per il numero dei giorni ancora da vivere, dedotti i festivi, è il capostipite dell'attuale sistema risarcitorio del danno patrimoniale. E pensare che il Gioia fu attaccato violentemente dai giuristi dell’epoca, ed in particolar modo dallo Scalamandrè e dal Vignali 2, che lo accusavano di aver limitato l’esame “della vasta ma- teria di danni e del risarcimento”, solo a quelli dipendenti dall’ingiuria, cioè dai delitti, sulla scorta dell’allora già desueto diritto germanico e barbarico senza tener conto delle ipotesi dannose da quasi delitto (cioè la colpa), che quindi sarebbero risultate irrisarcibili. Nonostante ciò questa regola, per la sua praticità, ha caratterizzato il criterio liquidativo del danno alla persona per più di un secolo e, so- stanzialmente, per alcuni versi lo condiziona ancora benché in modo assai più limitato ed eventuale essendosi, come prima dicevo, l'ordinamento giuridico arricchito della nuova figura risarcitoria del danno alla salute che ha colmato quelle lacune che avevano indotto a stimare l'uomo non già come persona ma esclusivamente come produttore di reddito.

Non dobbiamo di molto risalire indietro nel tempo perché è sufficiente fermarsi a riesaminare quello che i più famosi giuristi tra gli anni '40 e '50 affermavano, per avvertire, perché già arricchiti dei loro insegnamenti e illuminati dalle nuove scoperte, lo sforzo di compensare attraverso un equo e congruo risarcimento il danno che la persona, nella sua "integrità fisiopsichica, in sé e per sé conside- rata", per dirla con il Gerin3, subisce a seguito di una lesione.

In quegli anni infatti, cioè pressappoco quando entrò in vigore l'attuale codice civile, si cominciò ad avvertire l'esigenza di codificare i criteri risarcitori del danno alla persona in modo più determina- to, perché prima le cose non erano sostanzialmente cambiate, nonostante il trascorrere dei secoli, ri-

* Avvocato Giurista, Ancona

1 Lo stato di salute del danno alla salute - Tavola Rotonda -Dibattito - Brescia 27.10.1995.

2 Commentario del Codice Civile Italiano, Napoli 1889, Vol. IV, 628.

3 Gerin - La valutazione medico-legale ecc. in Atti giornate medico-legali triestine pag. 28-36.

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spetto al principio giustinianeo del damnum iniuria datum. Per i romani infatti l'uomo libero non era patibile di una valutazione in denaro, riconosciuta invece per lo schiavo che, quale bene produttivo, aveva un costo di mercato, per cui nel caso di lesioni venivano ripagate solo le spese di cura mediche e di assistenza ma non la menomazione fisica patita dalla vittima la quale aveva solo l'unica soddisfa- zione di vedere punito, in modo peraltro assai severo, il reo.

L'actio legis aquiliae era per Gaio un'azione eminentemente penale e tale impostazione, che aveva natura preventiva e punitiva, ha più o meno influenzato la storia del diritto durante tutti i secoli, ca- ratterizzando anche il diritto germanico e il Codice Napoleonico fino a trovar sede anche nell'abroga- to nostro codice del 1865 nel quale l'art. 1151 si limitava a definire il leso quale soggetto passivo del danno e titolare dell'azione di risarcimento, senza però stabilire l'ambito di applicazione di questo di- ritto e la sua veste giuridica.

Dovrebbero ormai costituire reperti archeologici alcune sentenze "fin de siecle" e dei primi anni del nuovo, ma invece sono delle vere e proprie curiosità storiche perché in pratica regolano il risar- cimento del danno da colpa civile, come allora era definita la responsabilità da fatto illecito o contrat- tuale, più o meno allo stesso modo di oggi, con tutte le stesse contraddizioni sia in merito alla preve- dibilità delle conseguenze dannose che al nesso causale con il fatto illecito4. Interessantissima per la sua attualità è una sentenza della Corte di Appello di Torino del 20 gennaio 18895, che in un caso di omicidio riconosceva il diritto degli eredi a percepire, a titolo di indennità, sia i danni materiali, sotto l’aspetto del danno emergente e del lucro cessante, che quelli morali, introducendo il principio della capitalizzazione del danno. Leggendo la motivazione di questa antica sentenza, il tempo si annulla in quanto, al di là del lessico ottocentesco, i concetti sono attualissimi in quanto si fa riferimento solo alla patrimonialità del danno subito dagli eredi per effetto del lucro cessante patito per la perdita del produttore di reddito deceduto.

D'altra parte l'antico retaggio penalistico del danno da illecito lo troviamo ancora oggi nel combi- nato disposto degli artt. 185 c.p. e 2059 c.c., cioè nella speciale figura del danno morale, quale esclu- siva conseguenza del reato. Non è quindi singolare che la regoletta del calzolaio dal 1840 sia stata l'unica attraverso la quale cercare di compensare le perdite patrimoniali dovute alle conseguenze in- validanti subite dalla persona a seguito della lesione ingiusta.

Ecco perché ritengo che la storia del danno da lucro cessante possa senz'altro partire da mezzo secolo fa, cioè da quando il legislatore, sull'onda di interpretazioni dottrinarie e pronunce giurispru- denziali, codificò l'esigenza del diritto al risarcimento del danno patrimoniale negli articoli sopra ri- chiamati, pur nulla disponendo in merito ad una regolamentazione dei criteri, e quindi delle tecniche risarcitorie, lasciando al giudice ed all'interprete di risolvere tutti i problemi connessi a tale materia intorno ai quali ancor oggi ci si dibatte tanto da chiedersi: "esiste ancora il danno da lucro cessante?"

Concezione Mercantile

Il punto di partenza è che il danno alla persona veniva considerato esclusivamente per le sue ri- percussioni patrimoniali, reali o presunte, ovviamente prescindendo dall'aspetto extra patrimoniale che veniva riconosciuto al danno morale quale conseguenza del reato. Oggi questo sistema è definito

"bipolare" per distinguerlo da quello complesso contenente il danno alla salute. In questa concezione mercantile del valore uomo era quindi inevitabile far riferimento solo alle ripercussioni economiche che la lesione poteva causare, non essendo concepibile una diversa valutazione dell'uomo come entità a sé stante.

Nell'ottica di questo postulato uomo-reddito, venivano dunque ricomprese tutte quelle voci di danno che, pur non afferendo al puro ambito reddituale, in qualche modo pregiudicassero le esplica- zioni vitali dell'individuo leso. E infatti il danno da vita di relazione, il danno da incapacità lavorativa

4 App. Milano 17.4.1894 in Monit. dei Trib., 1894, 429; App. Venezia 20.4.1911 in Foro Ven. 1911, 399; Cass. Civ.

9.4.1929 in Giust. It. 1929 v. Colpa Civile, 176, 98.

5 In Giur. It. 1893, 229.

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generica, la perdita di chances, venivano tutti ricompresi nell'unico criterio liquidativo che prendeva a parametro il reddito, vero o presunto, del leso, senza tener conto se effettivamente la lesione avesse causato una menomazione tale da produrre perdite, presenti e future, nel reddito o se, pur essendoci la menomazione quale entità medico-legale, vi fosse stata o vi sarebbe stata una corrispondente per- dita economica.

Il Rovelli6, pur riconoscendo che "il bene della integrità personale non ha natura patrimoniale", af- fermava che in ogni caso erano risarcibili con una somma di denaro le ripercussioni patrimoniali cau- sate dalla lesione.

Sosteneva l'Autore che il danno patrimoniale, da lucro cessante o emergente, andava in ogni caso risarcito sia per invalidità totale che parziale "senza tener conto se il leso ha lavorato o si è astenuto dal lavoro" perché "il risarcimento [è] commisurato alla riduzione di efficienza lavorativa". Partiva quindi dal presupposto che vi era una distinzione concettuale tra lesione giuridica e conseguenze del- la lesione, per cui queste ultime non potevano non essere che di natura patrimoniale o extra patrimo- niale.

Conseguiva da questa considerazione che il lavoratore, quand'anche dipendente pubblico (allora la stabilità nel rapporto di lavoro esisteva solo per gli impiegati statali non essendovi ancora la L.

300/70), dovesse essere risarcito delle conseguenze delle lesioni subite con una somma di danaro calcolata sul suo stipendio, pur avendolo ugualmente percepito durante la malattia e continuando a percepirlo anche in futuro, perché il risarcimento andava commisurato non già alla riduzione o perdi- ta di reddito, ma alla diminuzione di efficienza lavorativa.

A ciò non era d'ostacolo il principio della compensatio lucri cum damno, perché la giurisprudenza riteneva che in simili ipotesi tale principio non trovasse applicazione dal momento che gli arricchi- menti percepiti dal lavoratore leso traevano origine da titoli diversi, l'uno contrattuale con il datore di lavoro, e l'altro extra contrattuale per il fatto illecito.

In più non vi era al tempo la possibilità per il datore di lavoro, che avesse comunque pagato lo stipendio al proprio dipendente inabile per la lesione subita per fatto di terzi, di rivalersi nei confronti del danneggiante, dato che il danno da costui subito era di natura mediata ed indiretta e quindi non rientrante nelle ipotesi della responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 in relazione all'art. 1223 c.c.7.

Peraltro qualche voce di contrasto c'era e, a mio avviso, antesignana di quello che poi sarebbe di- venuto l'ambito di applicazione del danno da lucro cessante.

Il Bonvicini8 affermava in pratica che il danno patrimoniale non andava riferito al danno origina- rio (oggi lo chiameremmo danno evento) bensì agli effetti di questo a seconda che si ripercuotessero fuori o dentro il patrimonio, perché dalla lesione potevano derivare delle conseguenze di valenza pa- trimoniale, che quindi andavano risarcite come danno emergente o come lucro cessante, oppure di valenza extra patrimoniale (nei limiti della specialità prevista dagli artt. 185 c.p. e 2059 c.c.), e quindi il risarcimento sarebbe avvenuto a titolo di danno morale.

In pratica l'Autore, partendo dal presupposto romanistico della teoria dell’id quod interest, cioè l'obbligazione a rifondere con il proprio patrimonio un valore rappresentativo dell'interesse altrui danneggiato, giungeva alla conclusione che lo scopo del risarcimento del danno, quale conseguenza della lesione, era quello di ripristinare lo statu quo ante attraverso l'istituto della restitutio in inte- grum, oppure attraverso il risarcimento di un valore economico equivalente.

Quindi quello che andava risarcito, cioè reintegrato, era solo il pregiudizio economico quale con- seguenza della lesione patita per cui, se tale pregiudizio non vi era o era limitato nel tempo e nel mo- do, non veniva risarcito nel primo caso o solo proporzionalmente nel secondo. In pratica quindi per il Bonvicini dovevano essere risarcite solo le conseguenze patrimoniali immediate e dirette causate dal fatto lesivo. Tale rigore era però stemperato allorquando si parlava del lucro cessante quale danno

6 Il risarcimento del danno alla persona - UTET 1963, 11.

7 Cass. Civ. 3.7.1959 in Arc. Resp. Civ. 1961, 272; Cass. Civ. 19.11.1955 in Resp. Civ. Prev. 1956, 30; Cass. Civ.

29.1.1954 in Resp. Civ. Prev. 1954, 149.

8 Bonvicini - Il danno a persona - Giuffrè - 1958.

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futuro che quindi, costituendo un'ipotesi di prevedibilità seppure valutata attraverso i criteri accerta- tivi della medicina legale, in ogni caso mancava di quella certezza assoluta.

Essendo impossibile determinare con certezza di quanto la lesione permanente avrebbe impoverito il leso nel futuro era inevitabile il ricorso al principio dell’id quod plerunque accidit e cioè a quella probabilità di alto grado che, secondo la comune esperienza suffragata dalle nozioni di medicina legale in relazione alla specifica situazione economica e sociale dell'individuo, facesse con sufficiente certezza ritenere in futuro la perdita di reddito.

Non a caso, in contrasto con la giurisprudenza che in qualche modo seguiva l'indirizzo del Rovelli, vi era quella che invece adottava i principi del Bonvicini, per la quale era necessario che il danneggia- to, ai fini della valutazione del danno, dimostrasse sia i fatti che ne costituivano il fondamento, in par- ticolar modo il genere di attività professionale esercitata, sia la sussistenza di un pregiudizio econo- mico quale conseguenza della invalidità permanente accertata9. Addirittura si è negato il risarcimento del danno in mancanza di prova per lo meno generica dell'esistenza del danno stesso10. Non sorpren- de, costituendo il trait d’union giurisprudenziale tra gli inizi del secolo ed oggi, una decisione della Suprema Corte del 9.7.1947 la quale affermava che l'apprezzamento del magistrato circa l'esistenza del danno prodotto dalla lesione del diritto, poteva anche avvenire "su ragionevoli presunzioni di probabilità"11.

Dunque continuava il dibattito sul dubbio tra la pretesa di prova dell'esistenza del danno di natura patrimoniale, quale conseguenza del fatto illecito lesivo, e liquidazione in ogni caso del risarcimento anche senza l’effettiva prova della perdita.

Le presunzioni e le Fictio Juris

E' proprio dal contrasto di queste diverse teorie che emerge più forte quella esigenza, allora non pienamente avvertita, di risarcire in ogni caso il danno che la persona, quale entità di per sé valutata, abbia subito per la lesione illecita e quindi si comprende perché, fino all'introduzione nel nostro si- stema risarcitorio del danno biologico, si siano sempre risarciti i danni da lucro cessante anche quan- do il lucro non fosse cessato, attraverso quelle fictio juris e con il ricorso a presunzioni juris et de jure che consentivano di risarcire, secondo la teoria del Rovelli, non già l'entità della perdita di pa- trimonio, ma l’invalidità fisica subita dalla persona e quindi lo sforzo in più che il leso era costretto a fare per riuscire a produrre la stessa quantità di lavoro e quindi mantenere inalterato il proprio reddi- to.

Evidente è che in queste teorie c'era già il germe del danno per lesione del diritto alla salute solo che, essendo ancora vincolato il nostro ordinamento alle schematiche teorie della valutazione mer- cantile del danno nell'esclusivo rapporto uomo-reddito, non si riusciva a valutare il danno psicofisico in sé stesso quale evento costituito dalla lesione stessa.

Risarcibilità del danno alla persona

Che la lesione alla persona sia per sua natura irrisarcibile, nei limiti imposti dalla dicotomia conte- nuta nell'art. 2058 c.c., è del tutto evidente perché la funzionalità di un braccio amputato, nonostante le protesi o il rempianto chirurgico, non potrà mai essere del tutto ripristinata così come la perdita di un bulbo oculare o l'indebolimento permanente di un qualsiasi organo. Né la riparazione per equiva- lente può soddisfare totalmente l'invalido perché certamente infiniti saranno i suoi rimpianti per ciò che era e non potrà più essere, nonostante tutto l'oro del mondo. Per questa naturale impossibilità si era ritenuto, e ancora oggi in qualche caso si ritiene, che l'unica forma risarcitoria del danno alla per- sona fosse quella patrimoniale e, in modo specifico, attraverso la figura del lucro cessante. E' eviden-

9 Cass. Civ. 18.2.1952 in Resp. Civ. Prev. 1953, 18.

10 Cass. Civ. 14.7.1954 n.2496 in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1955, 59.

11 in Mass. Giur. It. 1947, 305 n.1090.

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te quindi che la rigorosa equazione risarcimento = perdita economica, trovasse applicazione anche laddove perdita non vi fosse stata pur sussistendo una grave menomazione psicofisica, onde evitare di lasciare irrisarciti danni fisici gravi. E allora ecco le fictio juris attraverso le quali veniva comun- que preso a parametro il reddito e calcolato sulla percentuale di inabilità permanente, moltiplicato con il coefficiente tratto dalle tabelle per la capitalizzazione delle rendite vitalizie del 1922 e dedotto lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa per quindi liquidare il risarcimento con buona pace degli ar- ricchimenti senza causa, delle duplicazioni e soprattutto della illegittimità che si veniva a creare per il fatto che uno stesso tipo di lesione subita da due persone diverse, venisse calcolata in modo diverso perché in proporzione ai diversi redditi, come se la perdita di un braccio valesse di più per il ricco che per il povero, per il professionista che per l'operaio.

In ogni caso la dottrina del tempo, pur avvertendo indubbiamente l'esigenza di risarcire nel modo più congruo ed equo possibile la lesione alla persona, non riusciva a liberarsi dal riferimento patrimo- niale. Il De Cupis, per esempio12, affermava che il concetto della patrimonialità era giustificato come rispondenza ad un bisogno economico essendo bene patrimoniale qualsiasi bene capace di classificar- si nell'ordine della ricchezza patrimoniale, tradizionalmente valutabile in danaro, e quindi esprimeva un giudizio rigorosamente patrimonialistico del danno, escludendo qualsiasi valore giuridico ai con- cetti di patrimonio di salute o patrimonio di bellezza perché non corrispondenti a valutazioni mercan- tili essendo danni immateriali. Insomma per questi Autori il danno alla persona non poteva che rife- rirsi al pregiudizio di natura economica che il soggetto pativa per la lesione.

Più o meno tutti quindi ritenevano che la qualifica di patrimoniale dovesse essere attribuita ad un bene dalla cui lesione ne discendeva il danno.

Ma qualche voce di dissenso da questa interpretazione puramente economica del concetto del danno patrimoniale già si ha con Gerin, Ciolla e Cazzaniga, non a caso medici-legali, e quindi più sensibili ai riflessi della lesione sull'essere uomo, perché riconoscono che non sempre il danno colpi- sce il patrimonio quale congerie di beni valutabili economicamente, ma anche l'interesse che a quei beni l'individuo attribuisce. In pratica il Ciolla13 concordava con la teoria dell'id quod interest seguita anche dal Bonvicini, e dunque distingueva il danno di natura patrimoniale, quale pregiudizio per il valore del patrimonio (perdita di reddito), di fronte al quale vi sarebbe diritto al risarcimento del con- seguente danno da lucro cessante od emergente, dal danno di interesse nel quale comprendeva anche la scemata integrità personale che non avesse comportato diminuzioni patrimoniali. Ecco un'altra e- nunciazione quindi della esigenza di una figura risarcitoria del bene primario che è rappresentato dal- la salute dell'individuo per sé stesso considerato, non più quindi in relazione alla sua produttività.

L’id quod plerunque accidit

La giurisprudenza, come prima ho accennato, si dibatteva tra una concezione rigorosa della sussi- stenza del danno patrimoniale da lucro cessante solo di fronte alla sua affermazione probatoria, e quella più ampia presuntiva, che comunque ha avuto maggior applicazione determinando quindi quei criteri liquidativi del danno puramente ipotetici e senza riferimento alla effettività delle perdite: pen- siamo per esempio ai danni futuri da lucro cessante, costituendo le perdite avvenute nel periodo di malattia un danno facilmente accertabile. Per questi danni invece, sia che fossero valutati in propor- zione ad una menomazione psicofisica tale da far ritenere certa la invalidità lavorativa futura, sia che invece non incidessero sul reddito direttamente ma determinassero una usura più affrettata del lavo- ratore, sia infine che fossero patiti da soggetto non lavoratore (fanciullo, casalinga, pensionato, di- soccupato ecc.), la pretesa probatoria era limitata soltanto all'id quod plerunque accidit cioè alla prevedibilità secondo i principi della normale causalità.

Si riteneva quindi che i danni futuri potessero essere liquidati «equitativamente purché avessero il

12 Il danno - Teoria della responsabilità civile - Giuffrè - 1946.

13 Valutazione del danno alla persona nella responsabilità civile - Giuffrè - 1957.

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carattere di certezza o di grande probabilità»14 o che si dovesse risarcire anche il «danno futuro cor- rispondente alla soppressione di tutte quelle legittime aspettative presumibili secondo l'id quod ple- runque accidit, esclusa la semplice speranza o la mera eventualità di ipotetica realizzazione»15. Non sembra che la giurisprudenza di allora tenesse in debita considerazione le effettive perdite di guada- gno ma piuttosto i pregiudizi, valutati sotto l'aspetto economico, che la lesione avrebbe comportato alla integrità dell'individuo genericamente interpretata, sempre però con riferimento alla sua potenzia- le capacità produttiva.

In pratica, come abbiamo già detto, dimostrata l'esistenza dell'evento lesivo, la sua connessione etio- logica con il danno, valutato quest'ultimo secondo la metodica medico-legale, era sufficiente deter- minare il reddito dell'individuo per quantificarne il risarcimento. Se questo criterio liquidativo per i lavoratori era in qualche modo legato a presupposti di certezza, per esempio la denuncia Vanoni, av- veniva invece che per i soggetti non percettori di reddito si ricorresse ai più strampalati e difformi criteri per patrimonializzare anche quelle perdite che assolutamente non si riferivano ad un bene eco- nomico, bensì alla persona e così abbiamo che per il risarcimento del danno subito da un fanciullo veniva preso come base liquidativa il suo "presumibile guadagno futuro capitalizzato secondo le ta- belle del R.D. 9.10.1922 n.1403, con decurtazione dal capitale degli interessi relativi all'anticipazio- ne"16. Quello che non stupisce, perché in pratica è un criterio ancora attuale, è che il reddito di un fanciullo dovesse essere quantificato su una presunzione futura di guadagno secondo un'attività lavo- rativa che, tenendo conto dell'ambiente sociale, dell'avviamento scolastico e dei precedenti familiari, sarebbe apparsa la più probabile. Per la casalinga, per esempio, si prendeva a parametro il salario mensile di una domestica17. Peraltro è curioso l'anacronismo sociale che balza agli occhi leggendo queste sentenze. Quella sopra citata valutava il danno della casalinga alla stessa stregua di una colf, quale titolare di un salario normale, perché appartenente alla "bassa borghesia", mentre per il Tribu- nale di Torino18 “il lavoro di una madre di famiglia della media borghesia non deve essere confuso con quello di una semplice donna di servizio" e quindi il danno da costei patito deve essere valutato in modo maggiore rispetto al salario tradizionale. Nel 1939 il Tribunale di Milano19 valutò il danno da incapacità fisica di una “giovane donna di bell’aspetto ed agiata, in via equitativa, indipendente- mente dalla prova dell'attività domestica", facendo quindi esclusivo riferimento al censo ed al rango.

Decisioni più recenti comunque non si discostano di molto da questi criteri empirici e assoluta- mente discrezionali, perché per esempio per il danno subito da uno studente si dovrà calcolare il ri- sarcimento considerando quegli effetti pregiudizievoli che siano ricollegabili all'evento secondo crite- ri di normalità causale, tenendo conto dell'incidenza dell'invalidità permanente sulla futura attività la- vorativa a cui gli studi lo avrebbero condotto, e del ritardato ingresso nel mondo del lavoro20.

Tra gli anni 60 e 70 la situazione è rimasta invariata perché per esempio al lavoratore dipendente che avesse continuato a percepire la retribuzione, sia durante la malattia che dopo lo stabilizzamento dei postumi permanenti, la giurisprudenza riconosceva comunque il diritto al risarcimento del danno sul presupposto che non sussistesse "un nesso tra la corresponsione di tale retribuzione ed il fatto dal quale deriva l'obbligo di risarcimento" per cui, anche nella proiezione futura del danno, l'indennizzo doveva essere diretto ad eliminare gli effetti della diminuita idoneità al lavoro, secondo l'id quod ple- runque accidit, che potessero essere negativi sull'ulteriore sviluppo della carriera, sulla percezione di speciali retribuzioni assegnate in rapporto ad una più intensa e proficua prestazione di lavoro21.

Da quanto detto, emerge chiaramente la conferma che il danno alla persona veniva risarcito con

14 Cass. Civ. 24.2.1942 in Rep. Foro It. 1942, 1222, 183 - 184.

15 Cass. Civ. 13.7.1939 in Mass. Giur. It. 1939, 683, 2526.

16 Cass. Civ. 21.10.1952 n.3044 in Resp. Civ. Prev. 1953, 15.

17 Appello Milano 10.12.1954 in Resp. Civ. Prev. 1954, 539.

18 2.3.1942 in Rep. Foro It. 1942, 1223 n.195.

19 25.1.1939 in Resp. Civ. Prev. 1939, 34.

20 Cass. Civ. Sez. III 11.5.1989 n.2150 in La liquidazione del danno alla persona da incidente stradale - Bellagamba, Cariti - Giuffrè - 1995, 87.

21 Cass. Civ. Sez. III 2.4.1963 n.810; op. cit. nota 19, 66.

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prestazioni di puro valore patrimoniale in proporzione al reddito quand'anche questo non fosse stato pregiudicato dalla lesione o addirittura in caso di mancanza di reddito. E' quindi a mio avviso eviden- te che, in mancanza di un idoneo strumento, con il lucro cessante, quale danno patrimoniale, si risar- cisse attraverso quelle fictio juris non solo il danno da perdite economiche ma quello "in ogni caso"

patito quale evento lesivo per la integrità psicofisica della persona.

Il danno biologico: danno base o tertium genus

Se tutelabile era l'interesse al patrimonio, comprensivo di tutti quegli aspetti anche non economi- camente apprezzabili del tipo vita di relazione, danno estetico, sociale ecc., e l’invalidità alle varie at- tività che l'individuo poteva compiere nella sua vita e quindi comprensive anche delle più significative espressioni dell'essere uomo, si deve necessariamente comprendere perché alla metà degli anni '70 la giurisprudenza di merito genovese22 cominciò a parlare del diritto alla salute, quale bene costituzio- nalmente protetto, della lesione alla integrità psicofisica e del danno biologico, sino ad arrivare alla sentenza della Corte Costituzionale n.184 del 198623.

Da quel momento in poi quella esigenza di strumenti idonei a ripagare le lesioni alla integrità della persona, come entità individuale in sé stessa considerata per le perdite di attività vitali, era colmato per cui necessariamente il panorama dell'istituto del risarcimento del danno alla persona veniva modi- ficato sostanzialmente essendosi enucleato dal sistema bipolare, rappresentato tradizionalmente dal danno patrimoniale ed extra patrimoniale, il terzo aspetto o, per dirla con Gennaro Giannini, il danno base di tutti i danni e cioè quello alla salute come puro danno alla persona24.

Ne doveva conseguire, ma come vedremo non è così, che ogni categoria di danno dovesse essere destinata a tutelare il corrispondente diritto leso determinando in tal modo un'equilibrio perfetto at- traverso il quale il danno illecito trovasse completa riparazione.

Peraltro giova ricordare che la stessa Corte Costituzionale con la sentenza 184 del 1986 aveva e- spressamente marcato l’insuperabile confine sul piano ontologico tra il danno patrimoniale da lucro cessante ed il danno biologico mettendo in rilievo la diversa natura dei due danni e quindi il diverso fine cui il rispettivo risarcimento è destinato.

Sarebbe dovuto risultare quindi che ognuno dei tre aspetti risarcitori del danno alla persona ha il suo precipuo e stabilito ambito di applicazione e non sarebbero in teoria possibili sconfinamenti du- plicativi. Infatti per il danno morale credo non vi possa più essere discussione dopo le reiterate e ri- petitive decisioni della Corte Costituzionale circa il suo ambito di applicazione25 essendo ormai paci- fico che questo danno esiste solo se dipendente da un fatto potenzialmente inquadrabile come reato.

Il danno biologico è destinato a risarcire la lesione alla integrità psicofisica e quindi al di fuori di ogni equazione patrimoniale e di ogni riferimento al reddito essendo danno evento e cioè esistente in ogni caso di lesione per il semplice fatto di riguardare l’integrità dell'individuo quale entità di per sé stessa considerata. Dunque il margine di applicazione del danno patrimoniale, nel precipuo aspetto di lucro cessante, dovrebbe risultare ben netto ed assolutamente non confondibile con gli altri, in quan- to sfrondato di quegli aspetti non riguardanti il patrimonio che invece, con le fictio iuris e le presun- zioni, trovavano ingresso nel suo ambito risarcitorio. Pur tuttavia, così come si è cercato di allargare i confini del danno biologico sovrapponendolo a quello morale o viceversa26, in alcuni casi lo stesso è avvenuto per il danno da lucro cessante che è stato riconosciuto, per esempio, anche laddove non vi

22 Trib. Genova 25.5.1974 in Giur. It. 1975, I, 2; Trib. Genova 30.5.1974 in Resp. Civ. Prev. 1975, 416; Trib. Genova 20.9.1974 in Dir. Prat. Sin. Strad. 1974, 166; Trib. Genova 20.10.1975, ibidem, 1976, 466; Trib. Genova 15.12.1975 in Foro It., 1976, I, 1977.

23 Corte Cost. 14.7.1986 n.184 in Foro It. 1986, I, 2053 con nota di Polzanelli.

24 G. Giannini "Il danno alla persona come danno biologico", Giuffrè, 1986, 81.

25 Corte Cost. 27.10.1994 n.372 in Corr. Giur. 1994, 12, 1455; Corte Cost. 22.7.1996 n.293 (ord.) in Resp. Civ. Prev.

1996, 909.

26 Trib. Firenze Sez. I, Ord. 10.11.1993 n.2879 in Corr. Giur. 1/94, 103 con commento di Ponzanelli; Trib. Bologna Sez. III, 13.6.1995 in Corr. Giur. 9/95, 1093 con commento di Ponzanelli.

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era una perdita di reddito attuale e per di più in costanza di rendita INAIL27.

Art. 4 L. 26 Febbraio 1977 n.39

A questo punto, per rispondere in modo conclusivo al quesito circa l'esistenza attuale del danno da lucro cessante, è necessario esaminare come dottrina e giurisprudenza, oggi rispetto a ieri, si regolino in proposito.

Avevo accennato che il sistema risarcitorio del danno patrimoniale risultava carente, pur nella co- dificazione del 1942, di norme regolatrici e tale carenza è stata rilevata tanto che si è introdotto, per cercare di ovviarvi, l'art. 4 della L. 26.2.1977 n.39, di conversione del D.L. 23.12.1976 n.857, che ha determinato i criteri risarcitori del lucro cessante. Dalla lettura dell'articolo risulterebbe evidente co- me il legislatore abbia voluto in qualche modo disciplinare le ipotesi risarcitorie per lucro cessante, riferendosi la norma all'incidenza dell'inabilità temporanea o invalidità permanente sul reddito di lavo- ro in caso di danno alla persona. Prevede infatti l'articolo in esame che la determinazione del guada- gno debba avvenire attraverso la dichiarazione dei redditi da lavoro dipendente ed autonomo.

E' peraltro ammessa anche la prova contraria, cioè la prova per dimostrare che il reddito reale è maggiore o comunque diverso rispetto a quello dichiarato, ma in tal caso il giudice lo deve segnalare al competente Ufficio delle Imposte Dirette qualora tale differenza sia dovuta ad evasione fiscale.

Fermiamoci per ora all'esame di questa prima parte della norma che in pratica ratifica quello che già la precedente giurisprudenza aveva stabilito circa il valore probatorio delle dichiarazioni di reddi- to al fine di determinare il guadagno del danneggiato. Si riteneva infatti che la denuncia “Vanoni” a- vesse valore confessorio stragiudiziale ex art. 2735 c.c. e quindi efficacia di prova contro chi l'aveva effettuata28, ma la maggior parte delle decisioni invece riteneva che la denuncia dei redditi non po- tesse essere presa come sicura base probatoria perché spesse volte non veritiera29, avendo scopi pu- ramente fiscali30.

Oggi, nonostante l'introduzione dell'art. 4, peraltro ancora in qualche sentenza si prevede la non completa applicabilità dei criteri desuntivi del reddito dalle denunce, proprio perché si è consentita la prova contraria, sebbene sottoposta all'alea dell'accertamento fiscale.

Cioè, in pratica, il legislatore prendendo atto che le denunce dei redditi il più delle volte non sono veritiere, non ha voluto limitare il diritto al risarcimento a quanto da detti incombenti risultava, rico- noscendo implicitamente l'esistenza di un endemico fenomeno di evasione fiscale.

Però, a prescindere da queste considerazioni, quello che più stupisce nella norma in esame è che questa è stata introdotta proprio quando già si parlava del danno biologico e quindi sembrerebbe del tutto in ritardo la codificazione di regole risarcitorie del lucro cessante secondo le quali tale danno sussisterebbe anche per il lavoratore dipendente che, per la stabilità del rapporto di lavoro introdotta dalla Legge n.300 del 1970, il posto non lo perde o il salario non gli diminuisce.

Abbiamo infatti detto che l'ambito di applicazione dei tre tipi di danno è ben determinato e distin- to, per cui se perdita di reddito non vi è stata, come avviene sempre da parte del lavoratore dipen- dente a meno che non sia stato costretto a un prepensionamento o ad una dimissione precoce per l'e- levato grado della invalidità subita, la norma di cui all'art. 4 dovrebbe risultare inapplicabile. E tale dubbio viene reso ancor più evidente dal comma III che prevede addirittura che "in tutti gli altri ca- si" il reddito da considerare non può essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale, il che significherebbe, per alcuni, che laddove non vi siano le dichiarazioni dei redditi, perché reddito non c'è mai stato, perché non c'è un rapporto di lavoro, perché non c'è più reddito, come nel caso del pensionato, della casalinga, del minore, del disoccupato o dell'evasore fiscale totale, si debba considerare un reddito fittizio.

27 Trib. Ancona 4.12.1996 n.1096 - inedita.

28 Trib. Genova 26.10.1944 in Mass. De l'Ass. Co.It.; Trib. Milano 26.5.1957.

29 App. Genova 15.7.1938 in Resp. Civ. Prev. 1939, 339.

30 Trib. Roma 3.12.1952 in Dir. Autom. 1952, 681.

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Secondo Schepis31 la dizione "in tutti gli altri casi" non si riferisce alle ipotesi di mancanza di red- dito lavorativo, perché allora non vi sarebbe danno, bensì ai casi in cui il lavoratore leso, dipendente od autonomo, non abbia prodotto, non possa, o non voglia produrre, la denuncia dei redditi. Il Po- gliani32 invece afferma che il III comma dell'art. 4 in pratica costituirebbe il limite minimo sotto il quale il giudice non può scendere per liquidare il danno patrimoniale nel caso in cui, dalle dichiara- zioni dei redditi prodotte, risulti un reddito inferiore a tre volte la pensione sociale.

Io non sono pienamente d'accordo con queste interpretazioni, perché ritengo invece che laddove non venga documentata l'entità del reddito, pur in costanza di un rapporto di lavoro o di una attività lavorativa autonoma, si avrebbe difetto di prova, che quindi comporterebbe la reiezione della do- manda per violazione dell’onere probatorio. Credo invece che la norma sia stata concepita quando di danno biologico ancora non se ne parlava e che fosse quindi destinata, nell'intenzione della commis- sione di studio della proposta di legge, a regolamentare tutte quelle ipotesi di danno patito da perso- ne non produttive onde in qualche modo determinare parametri risarcitori equi e congrui, pur nel- l'ambito patrimoniale del danno alla persona secondo la vecchia impostazione.

Questa mia convinzione è suffragata dal fatto che il III comma dell'art. 4 è stato preso, come an- cora viene in qualche caso, quale base del calcolo liquidativo del danno biologico, anche se per ana- logica applicazione essendo evidente la non patrimonialità di questo danno.

La Corte Costituzionale con la sentenza 24.10.1995 n.445 (Foro It. 1996, I, 27) ha ritenuto la co- stituzionalità dell’art. 4, respingendo il rinvio della Corte di Appello di Trieste, affermando che “il I comma dell’art. 4 agevola al danneggiato l’assolvimento dell’onere della prova attribuendo valore di presunzione legale (juris tantum) alle risultanze delle dichiarazioni rese dal sostituto d’imposta o dal lavoratore ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche” e che la prova contraria è ammessa qualora sia necessaria la “dimostrazione di un reddito più elevato di quello dichiarato, sia nel senso della dimostrazione di circostanze contingenti ed eccezionali che hanno inciso negativamente sulla attività produttivo del reddito nel periodo di riferimento, rendendolo inattendibile come parametro di determinazione della base di calcolo”. Ha ritenuto la Corte regolatrice che il danneggiato può omet- tere l’allegazione della documentazione fiscale “fornendo con altri mezzi la prova del proprio reddi- to”, come avviene nel caso dell’evasore totale (che verrà perseguito dall’accertamento fiscale) o nel caso del titolare di un reddito inferiore al minimo imponibile o di un neo lavoratore che non abbia po- tuto iniziare il rapporto di lavoro a causa della lesione ma “ciò che al lavoratore non è consentito è il rifiuto di esibire le dichiarazioni fiscali allo scopo di sottrarsi all’onere di provare il reddito effettivo invocando la liquidazione del risarcimento sulla base del reddito minimo forfetario indicato nel III comma” perché in tal caso, oltre che nell’ipotesi in cui la prova non avvenga con i mezzi normali previsti dal II comma dell’art. 4, “nessun risarcimento potrà essergli liquidato a titolo di lucro cessan- te per il periodo trascorso di inabilità temporanea e solo a certe condizioni, tali da giustificarne l’equiparazione a soggetti attualmente privi di reddito di lavoro, potrà essere applicato il III comma per la liquidazione del danno futuro derivante da un eventuale residuo di invalidità permanente”. E’

quindi evidente che i giudici della Consulta hanno ritenuto che la funzione dell’art. 4 nel risarcimento del danno patrimoniale sia quella di rendere proporzionale l’equivalente monetario all’effettivo danno patrimoniale subito, e solo in certi determinati casi, ed “a certe condizioni”, si può ricorrere al crite- rio forfetario indicato nel III comma della norma in esame. La Corte enumera le ipotesi di “tutti gli altri casi” in cui può essere applicato il reddito figurativo o virtuale, espressamente richiamando le ipotesi in cui il reddito sia esiguo, discontinuo o precario, o le mansioni svolte siano al di sotto delle effettive capacità professionali del lavoratore: insomma specifica quelle condizioni particolari nelle quali la dichiarazione dei redditi sia impossibile o assolutamente non indicativa della effettiva capacità reddituale futura del leso secondo un criterio di normale causalità.

Quindi il contrasto giurisprudenziale è stato così definitivamente risolto per intervento della Corte regolatrice benché, in tutti gli altri casi diversi da quelli oggetto della interpretazione della Consulta,

31 nota a sentenza Trib. Trieste 14.7.1983 in Resp. Civ. e Prev. 1984, 125.

32 Risarcimento del danno secondo la miniriforma assicurativa in Resp. Civ. e Prev. 1977, 504.

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resti sempre da stabilire se il III comma dell’art. 4 trovi applicazione sostitutiva laddove effettive perdite di reddito non vi siano state oppure non sia possibile fornire la prova di una certa perdita di reddito e quindi si sostituisca all’art. 1224 del codice civile33.

Ritengo che così non possa essere dal momento che il ricorso all’equità è amministrabile solo se il danno è certo ma indimostrabile nel suo quantum, per cui nell’ipotesi di soggetti non percettori di reddito, quali la casalinga, il pensionato o il grande invalido, e per certi versi il fanciullo, il danno che potrà essere loro risarcito sarà solo quello di natura biologica liquidabile appunto ad equità.

Criteri attuali

E' indubbio che dopo la nascita del danno biologico, che ha determinato l'"anarchia del dopo prin- cipio" come felicemente il Busnelli ha definito il dissidio sorto immediatamente dopo34, si sia persa di vista tutta la problematica del lucro cessante perché ci si è occupati esclusivamente degli ambiti ap- plicativi della nuova figura risarcitoria nei quali potevano confluire finalmente tutti quegli aspetti del danno psicofisico della persona che sino ad allora erano stati contrabbandati nell'ambito patrimoniale.

La Cassazione stessa nel 1978 pronunciò una decisione che Giannini ha definito "storica"35 nella quale per la prima volta afferma che il dipendente pubblico o privato, retribuito durante il periodo di invalidità temporanea, in realtà non subisce alcun danno di natura patrimoniale e quindi non ha diritto al risarcimento di un lucro cessante36.

E' evidente che questa prima enunciazione limitata agli aspetti lesivi temporanei può benissimo trovare applicazione per analogia anche alle ipotesi di lesioni permanenti subite da un lavoratore di- pendente. Quindi un principio si stava affermando di fronte alla introduzione nel sistema risarcitorio del danno alla persona del terzo aspetto, e cioè il danno biologico, del quale la giurisprudenza in pratica ha delineato la demarcazione netta con il danno eminentemente patrimoniale da lucro cessan- te essendo già evidente la differenza con il danno morale, così come confermato dalla Consulta.

Sul punto la giurisprudenza è ormai costante perché ritiene che la riduzione della attitudine del le- so alle esplicazioni future delle sue energie psicofisiche, integri un pregiudizio generalmente definito come riduzione della capacità lavorativa generica che corrisponde ad uno dei molteplici aspetti delle esplicazioni vitali dell'individuo che compongono il danno biologico37.

D'altra parte risarcire al leso perdite patrimoniali non patite e, per la stessa lesione, anche le perdi- te di integrità vitale per danno biologico, significherebbe duplicargli illegittimamente il compenso del danno.

Dobbiamo infatti ricordare come a tal proposito significative siano le avvertenze della Suprema Corte che richiamano l'attenzione sul rischio delle duplicazioni o sovrapposizioni di danno38.

Differenza tra danno patrimoniale e danno biologico

La prima conseguenza che possiamo quindi trarre è che la lesione subita da chi comunque seguiti a percepire un reddito invariato, debba essere risarcita non più in proporzione alla sua capacità di guadagno, rimasta invariata, ma all'entità della lesione stessa che ha pregiudicato la sua integrità psi- cofisica ledendo il diritto alla salute quale bene primario costituzionalmente protetto, limitandolo in quelle esplicazioni vitali dell'essere uomo e quindi nell'ambito relazionale, ricreativo, sociale, affetti- vo, sessuale ecc.

33 Cass. Civ. Sez. III 9.11.1994 n.10539 in Riv. Giur. Circ. e Trasp., 1995, 573 ; Cass. Civ. Sez. III 3.6.1994 n.5380 in Riv. Giur. Circ. e Trasp. 1994, 891.

34 Danno biologico e danno alla salute in Valutazione del danno alla salute - Bargagna e Busnelli - CEDAM, 1986.

35 G. Giannini, “Il danno biologico, patrimoniale, morale”, Giuffrè, 80.

36 Cass. Civ. Sez. III 11.7.1978 n.3504 in Giust. Civ. 1978, I, 2018.

37 Cass. Civ. Sez. III 28.12.1995 n.13146 in Guida al diritto 23.3.1996, 20.

38 Cass. Civ. Sez. III 24.9.1996 n.8443 in Gius. 1996, 3645; Cass. Civ. Sez. III 19.4.1996 n.3727 in Danno e Resp., IPSOA, 1996, 784; Cass. Civ. Sez. III 29.11.1995 n. 12390 in Gius. 1996, 6, 796.

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Dunque lo sforzo in più che il lavoratore compie per produrre lo stesso reddito non potrà più es- sere valutato come riteneva il Rovelli una diminuzione di efficienza lavorativa e quindi risarcito con parametri reddituali, bensì quale incapacità lavorativa generica e quindi quale danno biologico. Si è così individuato il vero valore della lesione alla persona attraverso questa pura voce di danno che colpisce l'individuo quale entità per sé stesso valutato e non più attraverso fittizi parametri redditua- li.

La giurisprudenza più attuale afferma che il danno biologico è ontologicamente diverso da quello dipendente dalla diminuita capacità lavorativa e deve essere risarcito autonomamente39, e così anche la dottrina concorda con questa impostazione40.

Stabilito questo principio, che è servito a colmare quella esigenza avvertita dagli antichi autori e dalla vecchia giurisprudenza di cui prima si parlava, ne consegue che il danno effettivamente patri- moniale, cioè quello che ha determinato, o determinerà, pregiudizi patrimoniali, deve essere esamina- to separatamente ed in modo del tutto autonomo rispetto al puro danno alla persona che, quale even- to inevitabile in ogni caso di lesione, va sempre risarcito per il solo fatto di aver minato l'integrità psicofisica dell'individuo. Ecco la differenza fondamentale che si è determinata subito con il nuovo danno: questo è un danno evento, mentre quello patrimoniale è solo una conseguenza eventuale della lesione perché è indubitabile che la perdita patrimoniale possa anche non avvenire laddove la lesione non incida sulla capacità reddituale o non abbia determinato perdite o costi.

Allora il modo di individuare il danno è sostanzialmente cambiato rispetto a prima, perché il primo compito che si dovrà affrontare è quello di stabilire l'entità della lesione, con le metodiche della me- dicina legale, al fine di determinare la parte statica del danno biologico per poi, attraverso i mezzi probatori più comuni, rappresentarne anche gli aspetti dinamici, cioè quelli che derivano dal danno base quantificato e che incidono nelle attività vitali dell'individuo. Se poi quella lesione ha determina- to una invalidità ad attendere al lavoro specifico, allora si dovrà dimostrare la perdita e la potenzialità pregiudizievole che tale invalidità determinerà in futuro nell'ambito lavorativo specifico.

Ed è sotto questo aspetto che il danno da lucro cessante in pratica, pur se limitato alle sole ipotesi in cui effettivamente esso si verifica, di fatto non è sostanzialmente cambiato rispetto a prima conser- vando peraltro le stesse difficoltà di accertamento dell'effettiva diminuzione reddituale futura, e quin- di di rapportargli il quantum da liquidare che ancora oggi sono alla base di un sistema che per certi versi seguita a ricorrere a presunzioni e all'id quod plerunque accidit. Però quello che più rileva è che, rispetto a prima, oggi il danno alla persona non viene risarcito in ogni caso come danno patri- moniale, bensì è vero il contrario, che il danno alla persona viene risarcito in ogni caso di lesioni co- me danno biologico, mentre il danno patrimoniale, quale conseguenza eventuale della lesione, solo nelle ipotesi in cui vi sia prova che si è determinata una invalidità lavorativa che diminuisce, con con- creta probabilità, la capacità reddituale futura41.

Presunzioni e probabilità nel danno futuro

Peraltro il ricorso all'id quod plerunque accidit è ancora oggi ritenuto l'unico sistema per poter in qualche modo ovviare a quelle inevitabili conseguenze pregiudizievoli che la malattia permanente produrrà in futuro sulla capacità reddituale dell'individuo, non essendo tecnicamente possibile in certi casi quantificare l'esistenza di un'effettiva perdita. Pensiamo al caso del lavoratore dipendente che sia impedito dalla lesione permanente a svolgere quelle attività per le quali riceveva indennità particolari per trasferte, vacazioni, rischi, straordinari, ecc.

Oltre alla determinazione della perdita già subita e di quella inevitabile, entrambe facilmente do- cumentabili, si dovrà però tener conto che il mancato espletamento di quelle mansioni speciali influirà

39 Cass. Civ. Sez. III 17.3.1995 n.319 in Mass. Foro It. 1995, 405.

40 Polotti di Zumaglia - Relazione al Congresso "ADDITO SALIS GRANO" Montecatini 1996; Giannini, op. cit. nota 23.

41 Cass. Civ. Sez. II 27.12.1994 n.11202 in Giust. Civ. Mass. 1994, fasc. 12; Cass. Civ. Sez. II 3.9.1994 n.7647 in Giust. Civ. Mass. 1994, 11028; Cass. Civ. Sez. III 5.11.1994 n.9170 in Giust. Civ. Mass. 1994 fasc. 11.

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indubbiamente nella carriera futura del lavoratore, impedendogli per esempio il passaggio di catego- ria per mancanza di punteggi o qualifiche.

Se vi è certezza di tale impossibilità, non vi è però certezza di quando tale situazione determinerà perdite né della quantità di queste. In questi casi la giurisprudenza ritiene applicabile il ricorso alle presunzioni che abbiano però carattere di concreta probabilità.

Si pensi al caso del professionista che afflitto da una cervico-patologia, indubbiamente seguiterà ad effettuare la sua attività lavorativa che, per un determinato tempo gli consentirà di godere non so- lo dello stesso reddito, ma addirittura di incrementarlo secondo la normalità causale, ma in futuro ta- le patologia usurerà a tal punto la sua efficienza da fargli scemare sempre di più la capacità lavorati- va, costringendolo ad allontanarsi sempre più spesso per cicli di cure sino ad abbandonare comple- tamente il lavoro.

Pur essendo evidente il certus an, rimane sempre l'incertus quandum, per cui la giurisprudenza ri- tiene che anche in queste ipotesi si debba ricorrere all'id quod plerunque accidit.

Indagine medico-legale

Tutto sta quindi a stabilire la riferibilità della incapacità lavorativa specifica alla lesione per deter- minare se questa sarà in futuro usurante ed in che grado. Il gioco quindi è in mano al medico-legale che dovrà, tenendo conto dell'attività lavorativa specifica svolta dal periziando, stabilire se quel tipo di lesione possa, ed in che misura, affliggere diminuendola la sua capacità lavorativa futura, determi- nare il minor tempo di durata della sua efficienza lavorativa per la usura che la malattia comporta.

E’ quindi fondamentale, a mio giudizio, che la consulenza medico-legale venga disposta dal Giu- dice dopo che sono state fornite tutte le prove necessarie ad avere una visione completa della situa- zione del danneggiato sia per ciò che riguarda la sua specifica attività lavorativa sia per ciò che ri- guarda le possibilità di carriera che quella specifica attività lavorativa gli avrebbe permesso se fosse rimasta invariata. Ma non basta, perché si dovrà anche far riferimento al contratto nazionale di cate- goria per stabilire se, per esempio, il non poter più effettuare incarichi a rischio o trasferte, per il so- pravvenuto indebolimento della deambulazione o dell’uso delle braccia, può influire negativamente sulla carriera. Insomma quello che voglio dire è che vi sono gli elementi che da una parte e dall’altra possono essere portati, attraverso il filtro della perizia medico-legale, al giudice per giudicare se quella lesione permanente potrà, quando e in che quantità, influire negativamente nell’ambito reddi- tuale. Solo quella parte di reddito che con concreta probabilità verrà a mancare, o a non essere mai percepita, dovrà essere calcolata per la quantificazione del danno da lucro cessante qualora sia certo che lo stipendio base resterà in ogni caso invariato. Quindi a mio avviso il principio dell’id quod ple- runque accidit appartiene al C.T.U. medico-legale e non al giudice nel senso che, sulla scorta degli elementi che la parte ha fornito, il tecnico potrà stabilire in che modo, anche se con approssimazione, quella determinata lesione potrà influire nei futuri aspetti reddituali del leso. A tal fine non occorre- rebbe neanche la quantificazione dei postumi, perché se verrà dimostrata la parte di reddito perduto, basterà calcolare questa per la presumibile durata del rapporto di lavoro e calcolarla altresì anche per gli aspetti pensionistici indubbiamente influenzati da tale diminutio patrimoni, mentre il calcolo per- centualistico secondo le tabelle determina errori di valutazione talmente gravi da influire negativa- mente sul concetto di equità e congruità del danno.

Sulle risultanze dell'indagine medico-legale il giudice dovrà poi, valutate le prove fornite dalla par- te, determinare il quantum del risarcimento e per farlo dovrà in ogni caso stare bene attento a non duplicare, anche se in parte, il danno biologico che in ogni caso spetta per via della lesione all'integri- tà psicofisica. La sovrapposizione infatti tra la incapacità lavorativa specifica e quella generica, che appartiene al danno biologico, avviene molto spesso ed è questo il punto cruciale al quale, a mio av- viso, non si fa mai sufficiente attenzione. Se per certi specifici casi l'accertamento medico-legale è semplice, come per esempio nel caso di una grave menomazione di ordine psichico, per cui è facile comprendere che la malattia mentale indubbiamente farà scemare le possibilità di reddito, nella mag-

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gior parte dei casi invece le indagini sono superficiali e avvengono secondo un criterio di probabilità che di scientifico ha ben poco. Quante volte infatti ci capita di leggere una relazione medico-legale nella quale, senza far alcun riferimento specifico al tipo di lavoro effettuato dal periziando, si afferma che "il tipo di lesione affliggerà in futuro il p. incidendo negativamente nella sua capacità di lavoro specifica nella misura di ...". A tale superficialità corrisponde poi la superficialità della decisione del giudice che liquida la percentuale sulla scorta di un reddito senza tener conto che quella superficiale affermazione riguarda indubbiamente la capacità generica lavorativa del danneggiato che quindi è già stata compensata sotto forma di danno biologico.

Danno patrimoniale e incapacità futura

Voglio dire che il limite tra danno patrimoniale futuro e incapacità lavorativa generica è talmente labile e sfumato che il più delle volte si sovrappone e quindi determina quell'aspetto di arricchimento indebito assolutamente intollerabile oggi che ci dovrebbe essere una maggior sensibilità nell'indivi- duare la specificità di ogni danno prodotto, quale evento o conseguenza, dalla lesione.

La conferma di tale confusione che ancor oggi regna sovrana, si trova in quei casi in cui non vi sia e non vi sarà reddito alcuno, come nel caso del pensionato, della casalinga, o del disoccupato od an- che del soggetto già inabile al lavoro.

Non potremo certo parlare per questi casi, come si faceva prima, di danno patrimoniale e quindi vanno inquadrati come danni alla integrità psicofisica del soggetto e valutati anche sotto l'aspetto di- namico laddove venga diminuita o preclusa la capacità lavorativa generica, cioè l'attitudine a qualsia- si attività lavorativa, come per esempio per il soggetto oggi disoccupato ma che domani avrebbe po- tuto impiegarsi in una qualsiasi attività. Devo dire che molto più sensibili a tali differenze sono i giu- dici di merito rispetto a quelli di legittimità perché, per esempio, si è negato il risarcimento da lucro cessante al lavoratore dipendente che continuerà a percepire un reddito invariato42.

E' infatti evidente che non si possa liquidare un danno materiale, quale è indubbiamente il danno da lucro cessante, qualora non vi sia certezza, anche se con elevato grado di probabilità, dell'effettiva perdita subita, perché altrimenti si introdurrebbe una forma di arricchimento senza causa a discapito del danneggiante.

Rivalsa INAIL

Si pensi al caso della rendita INAIL che viene erogata al lavoratore infortunato che così viene a ricevere una reintegrazione delle perdite patrimoniali presumibilmente subite. Prescindiamo dalla na- tura della rendita INAIL e da tutta la querelle intorno alle decisioni della Corte Costituzionale degli anni 1990-91 sul danno differenziale e sulle conseguenze in merito al limite della rivalsa rispettiva- mente per il danno morale e per il danno biologico, per riferirci esclusivamente al fatto che il danneg- giante dovrebbe pagare il danno al danneggiato e contemporaneamente restituire all'INAIL l'importo capitalizzato della rendita vitalizia erogata, e quindi vi sarebbe un duplice illecito, quello da arricchi- mento senza causa per il leso, e quello da duplicazione del risarcimento per il danneggiante.

Il principio informatore dell'istituto del risarcimento del danno da responsabilità civile è impronta- to alla congruità ed equità della riparazione risarcitoria, ma il concetto è reciproco nel senso che congruo ed equo deve essere il risarcimento sia per chi lo riceve che per chi lo paga.

42 Trib. Verona 10.11.1989 in Arch. Giur. e Sin. 1991, 47; Trib. Firenze 7.7.1989 ivi 1990, 965; Trib. Trani 25.3.1994 in Giur. Merito 1994, 598; Corte Milano 16.4.1993 in Foro Pad. 1994, I, 334; Trib. Ravenna 11.3.1993 in Arc. Giur.

e Sin. 1993, 801; Trib. Gorizia 21.6.1988 in Dir. e Prat. Ass. 1990, 517; Trib. Udine 4.2.1988 in Arc. Giur. e Sin.

1988, 1073.

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Conclusioni

Il risarcimento del danno è regolato dall'art. 1223 del Codice Civile, richiamato in modo specifico dal successivo art. 2056 sulla valutazione del danno che, per quanto riguarda il lucro cessante, è li- quidato dal giudice con "equo apprezzamento delle circostanze del caso". Questa generica ed addirit- tura infausta dizione non può però autorizzare valutazioni che prescindano dalla effettività delle

"perdite subite" e del "mancato guadagno" dato che il legislatore ne limita la risarcibilità solo "in quanto ne siano [del danno] conseguenza immediata e diretta". Con ciò chiaramente esprimendo un criterio non già di mera probabilità, ma di certezza causale sia per ciò che riguarda l'entità, riferita al mancato guadagno, sia per ciò che riguarda la conseguenza diretta ed immediata della lesione.

E' pur vero che il riferimento ai principi codificati sul risarcimento del danno da fatto illecito può essere controproducente laddove si pensi che la figura primaria di danno, quello biologico, non è co- dificata, ma mentre le prime due appartengono al diritto vigente, e quindi esistono per previsione di legge e nei limiti di questa, la terza è espressione del "diritto vivente", secondo la definizione della sentenza della Corte Costituzionale n.184/8643, come esigenza di giustizia risarcitoria della lesione di un bene tutelato dalla più alta espressione legislativa di un paese civile, cioè la Costituzione. Sembre- rebbe un'assurdo codificare il principio che l'uomo ha diritto alla tutela della propria salute, quando questo è stabilito in via generale dall'art. 32 della Costituzione e in via particolare per i casi dipenden- ti da illecito, dall'art. 2043 del c.c., per cui quello che manca è semmai un criterio liquidativo unifor- me del danno biologico mentre quello per il danno patrimoniale da lucro cessante è già in pratica co- dificato nelle norme sopra richiamate e nell'art. 4 della L. 39/77.

E allora non vedo per quale motivo si debba andare al di là dei principi di certezza che il nostro ordinamento enuncia in modo indubitabile. Il danno subito dalla persona a seguito della lesione ingiu- sta determina in ogni caso il risarcimento del danno biologico quale evento di danno dovuto alla le- sione stessa che affligge l'individuo, quale persona, in tutte le sue esplicazioni vitali. Non sempre la lesione determina perdite economiche, ma laddove vi sia certezza provata che l'individuo, oltre che mutare il proprio modo di essere, ha subito anche una modificazione della propria capacità redditua- le, solo allora, quale conseguenza di ordine patrimoniale che si aggiunge al certo danno biologico, dovrà essere liquidato il danno da lucro cessante facendo anche ricorso, ma in casi eccezionali, non a presunzioni ma alla regola della probabilità concreta per determinare l'entità delle perdite di reddito.

In conclusione si può, a mio avviso, sostenere che il sistema risarcitorio del danno ingiusto ha a- vuto in questi ultimi 50 anni una evoluzione che lo ha profondamente modificato, ma ancora non sempre questa novità viene avvertita.

Se prima si risarcivano le conseguenze dannose della lesione subita dalla persona in ogni caso con criteri patrimoniali, perché non si era ancora rivalutata la persona come individuo di per sé stesso considerato, oggi si dovrebbe risarcire il danno che in ogni caso la persona ha subito per la lesione, mentre tutti gli altri danni che dipendono da quella lesione, o meglio che sono conseguenze di quella lesione, danni a cose, danni al patrimonio e danni morali nei limiti di legge, dovrebbero essere risarci- ti solo se provati.

Ritengo che la certezza del diritto imponga di delimitare l'ambito applicativo di ogni figura di dan- no entro i propri confini peculiari ottenendo così il risultato di risarcire totalmente il leso sia per l'e- vento subito che per le conseguenze che ne sono derivate.

43 v. nota n.23.

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