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Il telefono suonò alle sei in punto. Cercai di recuperare l’ultimo brandello di un sogno in cui mi trovavo a una festa con un levriero italiano che sedeva al centro della stanza rivestito di un foglio di alluminio, mentre sentivo Bay che registrava i suoi auguri di buon Natale insieme a Marlena.
Cantavano Blue Christmas, poi Bay diceva che Marlena per colazione stava preparando il cozonac10.
«Dice che è meglio del sesso».
Rimasi a fissare il ventilatore sul soffitto con in testa l’immagine curiosa del vecchio che avevo visto all’aero- porto un mese prima. Un vecchio debole e grigio come la cenere, accasciato nella sua sedia a rotelle nell’area di im- barco al gate C-9, e sua moglie in piedi dietro di lui che leg- geva un polpettone in edizione economica e aveva appeso borsa e vari altri bagagli al collo dell’infermo. Mi aspettavo di vedere fastidio e disappunto sul suo volto, almeno risen- timento per quel trattamento da bestia da soma, ma in faccia gli avevo letto solo rassegnazione.
Squillò il telefono di nuovo. Mio padre. Mi chiedeva dov’ero.
«Ti sto aspettando qui fuori. Da quarantacinque minu- ti!».
«Papà, ti ho detto alle undici, non alle sette. Sarò da te alle nove. Per caso non è che lì da te hai qualche pacchetto di biscotti?».
10 Dolce tipico della gastronomia rumena, bulgara e albanese, preparato in occasione delle festività natalizie. I principali ingredienti sono uvetta, farina, noci e latte; generalmente si aromatizza con vaniglia e cannella.
«Ma ti ascolti mai mentre parli?».
Il dottor Milton Hamburger ha diagnosticato a mio padre l’Alzheimer. Mio padre dice che ha solo chiuso l’ufficio, il che dimostra che non ha ancora perso la sua capacità me- taforica e ha ancora momenti di lucidità. Il suo è un dentro e fuori che fai fatica a seguire. Ricorda cosa ha mangiato per colazione il 15 giugno 1944 a Guam, ma non che ha aperto il gas e non l’ha acceso. Così ho dovuto affidarlo ad una struttura di assistenza anziani. Almost Home, in Sylvan Gardens.
Più tardi io e papà eravamo al Buy-N-Bye a Palm, mer- cato A-rab11 lo chiamava lui, e Venise chiamò per sapere dove cavolo eravamo. Uscii fuori per risponderle e mi fer- mai davanti all’insegna degli alimentimediorientali.
Erano solo le dieci, ero riuscito a recuperare gli ultimi due pacchetti di biscotti al burro e l’unico talco per bam- bini di tutta la contea di Everglades, e credevo le avrebbe fatto piacere, ma la risposta era stata che, se per quello, suo marito Oliver di biscotti poteva spazzolarsene una scatola intera da solo.
Mentre parlavo, papà si dedicava al suo shopping nata- lizio dell’ultimo minuto: biglietti della Lotteria e ricariche telefoniche per tutti.
«Buon Natale, Venise».
«Dobbiamo mettere il cibo in forno».
«Non serve. Ho comprato prosciutto affumicato al mie- le. Taglia e servi».
«Cazzate! Il prosciutto va bene a Pasqua. A Natale si mangiano l’oca, il tacchino, l’anatra. E poi io non mangerò carne fredda a Natale!» strillò.
Pedalando su una bicicletta senza parafanghi sul cui se- dile aveva applicato uno squat12, un vecchio allampanato
11 Gioco di parole fra Mercato Arabo e Rab Store che vende materiale idro- repellente.
12 Attrezzo ginnico per rinforzare i glutei.
con in testa un berretto da Santa Claus mi rasentò pericolo- samente e mi salutò con la mano: ciao!
«Fatti un drink, Venise. Metti su i canti di Natale e rilas- sati. Sarò lì in un attimo».
Quando arrivammo, Oliver indossava ancora il suo pi- giama di flanella grigio. Mi strappò di mano il barattolo del talco, ringraziò e sparì. Venise mise il prosciutto su uno strato di biscotti e lo infilò nel forno. Così lo avrebbe ro- vinato, le feci notare. Non sapevo nemmeno di cosa stavo parlando, disse lei.
Il piano terra di Venise è un open-space con il bancone che separa la cucina dalla zona pranzo. Nel soggiorno col pavimento in travertino e i muri rosa troneggiano un divano La-Z-Boy13 e una poltrona imbottita messi di fronte a un televisore a schermo piatto su un tavolino di vetro. Come sempre, quando nostro padre è in visita, Venise aveva rico- perto il divano con un foglio di vinile dato che lì sopra già altre volte papà aveva perso il controllo della vescica. Così feci sedere papà sul divano e spensi il televisore.
«Riaccendi. Sto guardando Bad Santa» strillò Venise.
«Non possiamo ascoltare un po’ di musica natalizia?».
«Riaccendi!».
Papà prese un centesimo dalla tasca della giacca e iniziò a grattare un biglietto della lotteria, poi lo depose sul tavolo.
«Era il tuo» disse.
«Ti va un drink?».
«Un gadabber e un bing bagger14».
«Che ne diresti di una birra?».
«E uno stravecchio!» aggiunse.
«Ecco».
Venise e Oliver vivono nella casa dove Oliver è cresciuto.
La stanza di Oliver esattamente come l’ha lasciata il giorno in cui è partito per il college, non molto diversa da quando frequentava la scuola elementare. Letto a castello, foto di
13 Lazy boy: ragazzo pigro.
14 Cocktails a base di tequila e cherry brandy.
Hopalong Cassidy, Mary Hartline e Albert Einstein appese al muro accanto al bersaglio delle freccette e al puzzle di un collie. I suoi giocattoli sono riposti nelle loro scatole origi- nali, impilate ordinatamente sullo scaffale. Stessa credenza di pino e stesso specchio, stessa sveglia Roy Rogers e stessa lampada con sul paralume marchi di bestiame. Oliver dor- me nella sua camera. Venise nella vecchia camera da letto dei genitori di Oliver, il che le va bene perché l’ombelico di Oliver, il suo apparato riproduttivo e le ascelle puzzano di rancido, dice Venise. La cosa va bene anche a Oliver per- ché Venise soffre di apnea notturna, russa come un cavallo asmatico e soffre di incubi notturni. Se viene svegliata di colpo per un rumore o qualcuno la tocca, comincia a urlare e dimenarsi.
Devo dire che Venise pesa centocinquanta chili e rotti.
Due anni prima si è sottoposta a una riduzione dello stoma- co, ma da allora mangia più di prima. Sulle prime non ca- pivo come fosse possibile. Forse le graffe si sono staccate.
Oliver mangia a sazietà ma continua a esser magro e la cosa manda ai pazzi Venise.
Suonò il campanello. Venise e Oliver avevano invitato la cugina di Oliver, Patience Firestone, per favorire un possi- bile incontro romantico con me, sospettavo. A Venise dava fastidio che vivessi da solo. La solitudine è egoistica e in- naturale, diceva.
Patience era minuta e aveva gli occhi azzurri, i capelli neri striati di grigio, dritti, tagliati a frangia. Indossava una camicetta bianca senza maniche e colletto rialzato, gonna turchese, calze nere e scarpe da corsa bianche. Sul brac- cio destro un tatuaggio che andava dal polso alla spalla era un intricato disegno geometrico di stelle e diamanti in stile islamico. Aveva portato un piatto di stufato che misi al cen- tro della tavola. Ci presentammo. Patience mi ricordò che c’eravamo incontrati al matrimonio di Venise e Oliver.
«Ricordo che sembravi depresso».
Diede a Venise un grosso bacio e un bouquet di rose
bianche. Avrebbe gradito un Bloody Mary, certo, lo adora- va. Ne preparai due. La presentai a papà e lui disse che al suo ricovero per anziani di Pazienti ce n’erano molte. Le al- lungò un biglietto della lotteria e un cent. Un altro perdente.
Oliver ci raggiunse. Indossava pantaloni da fitness color arancio e verde, infradito, la t-shirt con la foto di Oliver Hardy in bombetta e cravatta, e la scritta i’mwithstanley15. I capelli nocciola ancora umidi e tirati all’indietro, profu- mava di borotalco e dopobarba. Baciò Patience sulla guan- cia e lei starnutì. Si preparò un White Russian e si lasciò cadere sul suo La-Z-Boy. Al telegiornale parlavano della tragedia Halliday e Perdita Curry era lì dietro al portavoce del dipartimento di polizia. Venise aveva messo una mano sulla spalla di Oliver e scuoteva la testa.
«In nome di Dio, cosa può spingere un uomo a uccidere la propria famiglia?».
«Forse non l’ha fatto lui».
«Ma se dicono che è stato lui! Non hai sentito?».
«La vigilia di Natale!».
Oliver scuoteva la testa con sufficienza.
«Ero là ieri notte» dissi.
Patience mi chiese come mai. Oliver continuava a ripete- re che non riusciva a capire come un uomo potesse uccidere i propri figli. Papà disse che di ragioni potevano essercene parecchie. Patience disse che aveva letto qualcosa su un pa- rassita acquatico che mentre nuoti ti entra dalle orecchie fin nel cervello e si mangia la tua materia grigia finché non diventi pazzo. Cominci a ubbidire agli ordini dei parassiti e sei capace di orribili, inspiegabili violenze.
Papà diceva: «Molti di loro sono ingrati».
Oliver diceva: «La moglie aveva una relazione extraco- niugale, lui l’ha scoperta e gli sono saltati i nervi. Fine della storia».
Mi faceva strano che il portavoce della polizia suggeris- se uno scenario di omicidio-suicidio dato che proprio per
15 iostoconstanlio.
legge era troppo presto. E se aveva ragione, malgrado le mie riserve, avrebbe dovuto essere almeno un po’ più cauto.
Papà disse: «Tu li metti al mondo, tu li distruggi».
Venise aveva messo in tavola quindici tipi di senape.
Creola, Digione, inglese, Meaux, bavarese, cinese, al miele, ball park, al rafano, al chili, Bahamas, wasabi, deli, Dussel- dorf e Sarepta. Tagliai il prosciutto rinsecchito e ne servii una fetta su ogni piatto e Oliver grattugiò del cioccolato al latte sul gratin di patate dolci. Venise aveva tolto il volume al televisore ma si teneva vicino il telecomando. Per pren- dere altri biscotti papà rovesciò il suo vino rosso e Patience si affrettò ad assorbirlo con una spugna.
«Dovrò buttare la tovaglia» decise Venise.
Ci fece alzare i piatti per raccogliere la tovaglia e buttar- la nella spazzatura.
«Come fossi piena di soldi!» sbuffò.
«Lascia andare, Venise» disse Oliver.
Patience fece i complimenti a Venise per il purè all’aglio e Venise ci informò dell’imminente colonscopia e della sua ansia per i necessari preparativi gastrointestinali.
«Il regalo di Natale di Oliver» disse.
«Il regalo della buona salute» disse Oliver.
«Ne ho sempre desiderata una» fece Venise.
«E tu, Oliver, cos’hai ricevuto?» chiesi.
«Cosa puoi dare a uno che ha già tutto?» disse Venise.
«Niente» disse papà.
Patience disse: «Beh, è un pensiero carino, la colonsco- pia, se ci pensi».
Oliver sorrise.
«In verità mi ha regalato uno scooter».
«Così non mi dirà più che da Publix non ce n’è mai uno disponibile» disse Venise.
«Tre ruote. Elettrico. Silenzioso. Un sussurro. Cestino di paglia davanti» disse Oliver. «Modello Celebrity».
«E l’abbonamento al Golf club» aggiunse Venise.
«Giochi a golf?» chiesi.
«Non ancora».
Si stava proprio godendo la pensione, disse.
«La scelta più azzeccata dopo quella di lavorare alle Po- ste».
Oliver aveva lasciato la scuola superiore per via di certi attacchi di panico incontrollabili, ma poi era riuscito a otte- nere una borsa di studio al mit per una macchina in grado di leggere il linguaggio Braille che aveva costruito e un pun- teggio di 800 all’esame di ammissione. Ma all’ultimo anno, dopo un altro punteggio altissimo all’esame del servizio civile, aveva lasciato l’università ed era entrato alle Poste.
Lì, con il futuro assicurato, Oliver aveva iniziato a tranquil- lizzarsi. Alle Poste passava la maggior parte del tempo di lavoro a giocare a Worldwide Scrabble16 e a fare acquisti su e-Bay. Aveva appena vinto lo scudo di Tesla. Il ciondolo che ti crea intorno un campo di energia positiva.
«All’interno c’è il frammento preso da un meteorite del diametro di mezzo metro».
Le sue proprietà erano in accordo con i principi della geometria sacra, energia punto zero, ergonomia, frequenze armoniche di luce.
«E cosa fa?» gli chiesi.
«Ti preserva dall’invecchiamento, dalle malattie. Ti ren- de più forte. Un sacco di cose. Il dna è un’antenna che capta energia, lo sai no?».
Io e Patience sparecchiammo e mettemmo in ordine mentre Venise e Oliver collegavano il karaoke e papà va- gava per la casa aprendo porte qua e là. Gli chiesi cosa cer- cava ma non se lo ricordava. Lo riportai al divano e al suo drink. Patience caricava la lavastoviglie. Una della vecchia guardia che sciacquava le stoviglie prima di metterle in macchina. Papà cantava senza entusiasmo un We wish you a Merry Christmas in cui infilava versi come “portaci anche un budino e una bottiglia di birra”.
16 Scarabeo mondiale.
Patience mi stava dicendo che si sentiva attratta da uo- mini sulla sedia a rotelle, non sapeva bene perché. Era anormale? Solo uomini su sedia a rotelle? Ultimamente era così. Tornai al mio ricordo della mattina, il vecchio all’ae- roporto con tutti quei bagagli appesi al collo. A come da un po’quelle sincronie sembravano capitarmi sempre più spes- so. Come quando avevo sognato il tipo con cui avevo lavo- rato trent’anni prima e il giorno dopo avevo letto sul gior- nale che suo padre era morto. E il fatto che se mi colpiva l’aspetto di una persona, un comportamento, un cappello, il modo di camminare di una donna, dovevo aspettarmi di rivedere quella persona il giorno stesso, magari nel vicolo vicino a Publix o nella macchina di fianco alla mia al sema- foro, o mentre correva sui roller sul marciapiedi.
Per circa un mese, non importa dove andavo, mi ero ri- trovato infinite volte fermo a un semaforo dietro la stes- sa Ford Focus con la targa della Florida: fla*pgh, come la stessi seguendo.
Pensavo a quel genere di cose mentre raschiavo via gli avanzi nel tritarifiuti e continuavo a mettere ordine con Pa- tience.
«E quando ti sei accorta di provare questo tipo di attra- zione?».
«Quando ho rivisto La finestra sul cortile con James Stewart, credo, un paio d’anni fa. Sembro pazza, eh?».
Venise cantava “Oh Santa Notte” ad alta voce.
Patience chiese se volevo unirmi al coro e cantammo Good King Wenceslaus, poi ci scambiammo i regali.
A papà un lettore cd portatile e una scatola di cd di vec- chi programmi radiofonici. Jack Berry, Fred Allen, Fibber McGee. A Venise e Oliver un buono per il loro ristorante brasiliano preferito. Papà ci distribuì le ricariche telefoni- che ma subito dopo assunse un’espressione tirata.
Si era dimenticato di indossare il pannolone. Venise si mise a urlare e si rifugiò in camera sua. Portai mio padre in bagno, lo misi sotto la doccia e gli dissi di lavarsi per bene.
Misi una salvietta dove poteva raggiungerla e lo ammonii di non sprecare tutta l’acqua calda di Venise. Cacciai i vesti- ti in un sacco della spazzatura che portai in macchina.
Mentre mettevo i vestiti nel baule mi chiamò Carlos.
Proponeva di incontrarci lunedì a pranzo, all’Oppenheimer.
Oliver mi allungò dei pantaloni da tuta in poliestere co- lor cheddar e una casacca verde oliva di velluto per papà.
«Che roba è?» chiesi.
«T-shirt di spugna da accappatoio. Ultimo grido casual».
Quando tornai in bagno papà era in piedi con addosso il pannolone e si stava succhiando il pollice nella parodia del neonato.
«Uèèè!».
Mentre lo aiutavo a vestirsi, sghignazzava. Uscimmo a salutare ma Venise si era chiusa nella sua stanza con l’emi- crania. Patience baciò papà sulla guancia. Le dissi che al matrimonio di Oliver e Venise non ero depresso, ma solo infelice. Poi, in macchina papà continuava a dire che si era sentito inumidito. Ripeteva la parola e scuoteva la testa.
«No. Non inumidito!».
«Umiliato?».
«Bingo!».
«Fermiamoci a bere qualcosa, ti va?».
«Non c’è niente di aperto a Natale».
«Il Wayside è aperto».
«Ma se sono conciato come un clown da rodeo del caz- zo!».
«Vai bene lo stesso, papà».
Ci sedemmo a un tavolo vicino al juke-box spento sot- to un poster di LeBron James. Anche la tv sopra il bar era muta. Presi una birra per me e per papà uno stravecchio. La barista aveva in testa un paio di corna felpate e il naso rosso da clown che si accendeva quando le lasciavi una mancia.
Nell’uomo e nella donna seduti al banco del bar rico- nobbi la coppia che vendeva i quotidiani all’angolo tra la Cypress e Main. Passavano così tanto tempo al sole che le
facce abbronzate sembravano di cuoio. Una sigaretta pen- zolava dalle labbra della donna piene di vescicole.
Il Wayside se ne infischia della legge statale per cui non si può fumare nei locali pubblici, ma ha un regolamento appeso all’entrata che riguarda i “Due Boswell”. Solo due dei sei fratelli Boswell possono entrare al bar insieme. Tre è un numero critico per i Boswell, perché ogni volta che sono più di due si prendono a pugni fra loro e prendono a cazzotti chi cerca di fermarli.
Passai a papà il suo drink e brindammo. Un altro anno stava per finire.
Papà mi disse che negli ultimi tempi la mamma e Ca- meron venivano a fargli visita di notte. Lui avrebbe voluto dormire ma loro si rifiutavano di andarsene e continuavano a chiacchierare di stupidaggini tipo il prezzo delle bistecche al Winn-Dixie o le sbronze di Padre Aucoin.
«Però mi piace quando viene a trovarmi Winston».
Winston era il nostro bulldog. Io sono praticamente cre- sciuto con lui.
«Si accuccia ai piedi del letto, si fa fare i grattini dietro le orecchie e scorreggia tutta la notte».
Guardai la barista che parlava al telefono sgranocchian- do noccioline e dissi a papà: «Ancora uno e basta».
Andai al banco e presi due cognac. Porsi il suo a papà, che lo alzò e disse: «Non sono stato capace di renderla fe- lice, tua madre».
«Ci hai provato».
«Ma lei non mi permette di dimenticarmene».
Condussi papà nella sua camera e gli sistemai i regali nell’armadio con lui intorno che diceva: «D’ora in poi mi assumerò io la responsabilità di tutto questo».
La foto della nostra famiglia stava sullo scaffale. Era sta- ta fatta circa venticinque anni prima durante un barbecue di pesce sulla spiaggia. C’eravamo tutti: mamma e papà, Venise e Oliver, Cameron e una ragazza bella, magra e
tormentata, che Cameron frequentava allora, Georgia e io.
Seduti a un lungo tavolo coi bavaglini di plastica, brandi- vamo mazze di legno per granchi. Papà fingeva di colpire mamma con la sua. Mamma indossava un paio di occhiali da sole avvolgenti sopra gli occhiali da vista e sembrava un saldatore. In testa aveva un ampio cappello di paglia e sul naso crema all’ossido di zinco. Le mazze servivano per rompere il carapace dei granchi. Barbecue sfida al “mangia più che puoi”. Venise era magra. In quel giorno c’era stato un terremoto tremendo da qualche parte in Centro America.
Georgia aveva i capelli raccolti in trecce. Mi chiesi se si succhiava ancora il pollice e si addormentava quando viag- giava in auto.
Adesso papà era seduto al tavolo e piangeva battendosi le nocche sulla fronte e tirando su con il naso. Gli chiesi cosa non andava, mi guardò e scosse la testa. Lo presi per un braccio.
«Cosa succede? A cosa stai pensando?».
Mi respinse.
Sono convinto, ma forse è più un desiderio che una cer- tezza, che se si dicesse tutto ciò che ci passa per la mente, se si arrivasse a esprimere tutto quello che si ha nel cuore, a descrivere ogni pensiero o sentimento, tormento e dolore si attenuerebbero. Si tornerebbe alla vita. So perfettamente che nessuno è davvero in grado di farlo. Che per molti le parole non sono strumenti facili da usare. So che è dan- natamente difficile parlare quando il tuo meccanismo si è ingrippato e la morte ti sembra l’unica speranza e le daresti il benvenuto se arrivasse da sola perché sei troppo esausto per inseguirla tu stesso.
Papà disse: «Sono caduto dal letto una notte. E una setti- mana prima di quella ero caduto ancora».