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Antonio Baldacci: Italia e Austria alleate-concorrenti in Albania e Adriatico orientale (1896-1903)

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in Albania e Adriatico orientale (1896-1903)

FRANCESCO

MARTELLONI

Crisi e mutamenti politici dopo Adua

I due saggi di Antonio Baldacci qui considerati erano frutto delle sue esplo-razioni botanico-geografiche e di studi geopolitici1. Ma riguardavano anche la sua ufficiosa attività politica. Il primo, Itinerari albanesi, venne pubblicato tra il 1896 il 1898, nei fascicoli delle Memorie della Società Geografica Italiana2.

1Baldacci (Bologna, 1867-1950) fu viaggiatore, botanico, etnologo, geografo-politico e

“se-mi-diplomatico”. Nel suo giovanile viaggio verso il Montenegro, nel 1885, percorse soltanto, a piedi, il tratto da Zara al confine montenegrino. L’anno successivo però, grazie alla intermedia-zione del barnabita padre Cesare Tondini De’ Quarenghi – studioso del populismo russo nonché di-plomatico del Vaticano e collaboratore dello stesso Leone XIII – avviò un utile rapporto col principe Nicola del Montenegro. Baldacci, dal 1887, studiò veterinaria e botanica presso l’Università di Bolo-gna. I suoi nuovi viaggi scientifici in Montenegro, in Albania, Epiro e Creta trovarono presto il soste-gno della Società Geografica Italiana. Durante questi viaggi – anche avventurosi – raccolse circa cen-tomila piante, talune di varietà allora sconosciute. Laureatosi in «Zooiatria» nel 1891, divenne assi-stente di Federico Delpino presso l’Istituto botanico bolognese, che poi lasciò nel 1902 per insegnare alla Scuola Diplomatico-Coloniale dell’Università di Roma. Le spedizioni scientifiche di Baldacci nei Balcani, grazie alla rete di amicizie che lì seppe tessere, si rivelarono utili anche per gli interessi eco-nomici, politici e militari dei Governi italiani. Insieme ai suoi fratelli (Giovanni e Luigi), tra gli inizi del Novecento e il primo conflitto mondiale, intraprese svariate iniziative imprenditoriali, finanziarie e commerciali. Il Ministero degli Esteri italiano e quello dell’Interno continuarono ad affidargli numero-si incarichi, ora conoscitivi, ora diplomatici. Dal 1915 al 1917, a Valona ormai occupata dall’Italia, fu consulente civile della I Divisione navale presso il Comando della Regia Marina per il settore orienta-le. Tra il 1921 e il 1922, in frequente contatto con Gabriele D’Annunzio, progettò una spedizione di volontari per staccare il Montenegro dal nuovo regno serbo-croato-sloveno. Dal 1922 partecipò alla fondazione di diversi Comitati per l’indipendenza del Montenegro, divenendo presidente di quello ita-liano. Nel 1925 riprese il suo impegno per l’Albania con studi e pubblicazioni, collaborando con la «Banca d’Albania», con la «Società per lo sviluppo economico dell’Albania» e con l’«Istituto per l’Europa orientale». Nel 1926 divenne console generale onorario d’Albania a Bologna. Nel ‘39, con l’annessione dell’Albania al regno – “imperiale” – d’Italia, venne nominato consulente culturale della Luogotenenza generale italiana di Tirana, incarico che mantenne fino alla crisi politico-istituzionale e militare italiana del 1943. Dal 1946 si dedicò allo studio di Svezia, Groenlandia e Islanda.

2A. BALDACCI, Itinerari albanesi, parti 1-3, in «Memorie della Società geografica italiana», vol.

VI, parte I, 1896, pp. 45-79; vol. VI, parte II, 1897, pp. 378-409; vol. VII, parte I, 1898, pp. 15-44.

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Per tale società nel ‘98, al terzo Congresso geografico nazionale, relazionerà ancora sulla stessa materia3. Il secondo scritto4, pure dedicato all’Albania ma più attento alla geopolitica del Mediterraneo e alle sue implicazioni planetarie, apparve nel 1903 sulla rivista «Italia coloniale», quando Baldacci ormai inse-gnava Geografia politica e coloniale per la Scuola Diplomatico-Coloniale an-nessa all’Università di Roma. Questi suoi lavori – quasi “pionieristici” per Al-bania ed Epiro – non avevano soltanto un valore scientifico. Intrecciando inda-gini botaniche, geologiche, idrografiche, orografiche, etnografiche con conside-razioni di carattere economico-commerciale, sociale e geopolitico, Baldacci vo-leva certo contribuire alla conoscenza di questioni che erano sempre più all’at-tenzione dell’opinione pubblica nazionale oltre che a quella degli specialisti (scienziati, diplomatici, militari, imprenditori, ecc.). Ma, insieme a nuove cono-scenze, il geografo forniva suggerimenti politici e strategico-militari – e a que-sti ci limiteremo – finalizzati ad una crescita del ruolo e del preque-stigio interna-zionale dell’Italia, che proprio in Albania e nei Balcani appariva concorrente, se non antagonista, innanzitutto dell’alleato austro-ungarico. L’ultima delle grandi potenze europee si affacciava allora sullo scenario euro-mediterraneo alla ricer-ca di un proprio spazio, esibendo spesso una ridondante retoriricer-ca nazionale nu-trita di antichi trascorsi imperiali e di italici «primati», presentati ora quali pre-messe storiche di una «più grande Italia», da rilanciare, appunto, nel Mare

no-strum. E finendo così, sovente, con l’offuscare la realtà economica, sociale e

militare del Paese, alterandone smisuratamente le effettive potenzialità espan-sionistiche e coloniali5.

Negli anni in cui Baldacci elabora questi suoi interventi, politica estera e po-litica interna appaiono, ora più ora meno, condizionarsi reciprocamente: siamo al dopo Adua e, dunque, al dopo Crispi. Il giovane regno d’Italia risultava esse-re allora un paese in complessivo sviluppo economico. Non più soltanto

emi-3A. BALDACCI, L’Italia e la questione albanese – Comunicazione del Dott. Antonio Baldacci,

in Atti del terzo congresso geografico italiano. Tenuto a Firenze dal 12 al 17 aprile 1898, vol. II. Relazioni, comunicazioni e memorie. Seconda sezione (Economico-commerciale), Firenze, tip. di M. Ricci, 1899, pp. 220-230.

4A. BALDACCI, L’Italia nel Mediterraneo e nell’Adriatico, in ID., Scritti adriatici I, Bologna,

tipografia compositori, 1943, pp. 17-41 (già pubblicato nella rivista «Italia coloniale», IV, 1903, nn. 6-7).

5Si pensi, ad esempio, all’amarezza di un Nitti che, agli inizi del nuovo secolo, pur tanto

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nentemente agricolo, andava costruendo e ampliando la propria base industriale e organizzava un migliore sistema di infrastrutture, di trasporti terrestri e marit-timi. Si andava riducendo, sebbene con serie differenze regionali, l’analfabeti-smo. Contemporaneamente si rafforzava l’esercito, e si ammodernavano la ma-rina militare e le basi navali strategiche (innanzitutto La Spezia, Messina, Ta-ranto e Venezia). Ma ciò accadeva riproducendo o allargando le contraddizioni economico-sociali e territoriali tra le tre grandi aree del Paese e all’interno di queste, acuendo i differenziali di crescita tra Settentrione e Mezzogiorno. Con la specifica modernizzazione capitalistica italiana e le sue crisi crescevano an-che le tensioni sociali e politian-che – come denunciavano non solo i «rossi» e i «neri», ma anche i liberali liberisti e i meridionalisti, spesso antiprotezionisti6. Dopo i Fasci siciliani – è noto – si verificano nuovamente temute o auspicate proteste «per il pane e il lavoro»7, diffusi fermenti di rivolta se non anche di anarchismo rivoluzionario8, nel Nord come nel Sud del Paese, fino agli eccidi di Milano del maggio ‘98. Accanto alle repressioni politico-militari dei vari go-verni che si succedono rapidamente (Crispi, Rudinì e Pelloux), le spinte autori-tarie investono gli stessi ordinamenti liberali del paese. Tali processi politici, però, non appaiono lineari: convivono negli stessi governi, e a volte negli stessi ministri, tendenze contraddittorie9. Infine, ai governi più o meno conservatori o reazionari segue quello “di transizione” di Saracco (1900-1901) e poi, final-mente, la svolta liberal-democratica costituita dai governi di Zanardelli e di Giolitti (1903-1905). Si delinearono così più condivisi assetti istituzionali-par-lamentari e nuovi equilibri politico-sociali che avrebbero variamente coinvolto nelle maggioranze parlamentari le estreme, fino agli stessi socialisti. Nel dibat-tito pubblico italiano al modello centralistico-autoritario tedesco si affianca nuovamente, o si sostituisce, quello democratico-parlamentare britannico. Con-temporaneamente, però, si manifestava una opposizione politico-culturale ten-denzialmente antidemocratica e antiparlamentare in politica interna, mentre, in politica estera crescevano opzioni nazional-imperialiste, programmaticamente

6Cfr. U. RICCI, Protezionisti e liberisti italiani, Bari, Gius. Laterza & figli, 1920; A. L. DE

-NITTO(a cura di), Antonio de Viti de Marco. Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti, Bari, Palomar, 2008.

7A. DEVITI DEMARCO, I moti siciliani e ID., Dopo i tumulti di Milano, in A. M. Fusco (a cura

di), A. de Viti de Marco. Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Napoli, Giannini, 1994 (1930), risp. pp. 211-230 e 251-282.

8Durante la rivolta filogreca di Creta, che vide la partecipazione di volontari garibaldini, si

paventavano sbarchi in Italia di anarchici armati provenienti dalla Grecia. Nel maggio 1897, ad esempio, il Sottosegretario agli Esteri Bonin Longare scriveva ad Avarna, ambasciatore italiano ad Atene: «Notizie confidenziali fanno temere che Cipriani ed altri anarchici socialisti ora conve-nuti in Grecia vogliano organizzare una spedizione armata in Italia». Gli ingiungeva pertanto di contattare i comandanti delle navi italiane e di chiedere ai greci di disarmare gli anarchici prima della loro partenza. (Documenti diplomatici italiani – d’ora in poi DDI –, S. III (1896-1907), vol. II, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1958, n. 28, p. 17).

9Cfr. M. BELARDINELLI, Un esempio liberal-conservatore: i governi di Rudinì (1896-1898),

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“antimazziniane” oltre che antisocialiste. Tali pulsioni e tendenze del vario na-zionalismo andranno diffondendosi nel primo decennio del ventesimo secolo, fino alla costituzione della «Associazione nazionalista italiana»10– vera punta di lancia di quel generale processo di spostamento “a destra” della politica libe-rale italiana avviatosi dalla guerra italo-turca del 1911-12.

Tra la fine dell’era crispina e l’età giolittiana la politica interna risulta dun-que condizionata dai gravi eventi internazionali che coinvolgono direttamente il regno d’Italia o che lo spingono a intessere nuove relazioni, o almeno a signifi-cativi adeguamenti, nel proprio sistema di alleanze e di «amicizie». Nel ‘96 si susseguono infatti le sconfitte italiane di Amba-Alagi e di Adua – per l’avventa-tezza politica e militare di due vecchi garibaldini, Crispi e Baratieri, e dell’obli-quo appoggio franco-russo agli etiopici – che pongono fine ingloriosamente al secondo governo crispino e alla sua politica assolutamente filotedesca. Tornerà allora alla Consulta, dopo vent’anni, l’esperto e misurato Visconti Venosta, uo-mo della Destra storica, cercando di rattoppare le falle di una politica estera nervosa, velleitaria e seccamente antifrancese. La crisi di Creta del 1896-9811 con le temute ripercussioni nei Balcani turchi – vede la partecipazione italiana alla flotta internazionale di peace enforcing, con l’assunzione di posizioni più filobritanniche. In un breve volgere d’anni, tra 1896 e 1900, vengono rinnovati o stipulati ex novo gli accordi mediterranei franco-italiani e anglo-italiani per Tripolitania, Marocco e Sudan. Parallelamente, però, fra 1897 e 1902, si conso-lidano pure le intese austro-italiane “di garanzia” per l’Albania e la Tripolitania (qui, si ammette la possibilità di un’espansione italiana)12. La Regia marina a sua volta – anche per l’inesperienza del ministro degli Esteri ammiraglio Cane-varo e per l’insufficiente lavoro diplomatico a Pechino di De Martino – si proietta incautamente in Cina nel 1899, ottenendo solo lo smacco della baia di San-Mun. Nel 1900, invece, l’Italia, concorrendo alla repressione internaziona-le della rivolta dei boxer, guadagnò lì l’agognata concessione territoriainternaziona-le. Nello scenario balcanico, dal 1902 si riaccende la crisi macedone che si estende anche all’Albania. Nel Trentino, a Trieste e in altre aree linguisticamente italiane pos-sedute dagli Asburgo, riemerge con più forza quell’irredentismo (la richiesta di un’università italiana in territorio austriaco porterà ai sanguinosi scontri di Inn-sbruck del 1903-413) che preoccupa non solo i diplomatici ma anche gli stessi socialisti italiani per le sue implicazioni sciovinistico-militariste.

10Cfr. G. VOLPE, L’Italia moderna. Vol. II, 1898-1910, Firenze, Le Lettere, 2002 (1949); A.

d’Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?, Roma, Salerno Editrice, 2009.

11Cfr. E. ALBERINI, La marina italiana a Creta. Il potere marittimo in funzione della politica

estera (1896-1899), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1998.

12 Cfr. E. ANCHIERI, La Diplomazia contemporanea. Raccolta di documenti diplomatici

(1815-1956), Padova, Cedam, 1959, pp. 69-71.

13Si vedano gli equilibrati rapporti del console a Innsbruck Caccia Dominioni – pure

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Intanto, l’intero contesto internazionale appariva pericolosamente segnato dalla crescente tensione anglo-tedesca: per colonie, armamenti navali e, in defi-nitiva, per l’egemonia mondiale – sebbene dalla metà degli anni Novanta, fos-sero emerse già la nuova grande potenza statunitense e quella giapponese. Van-no dunque presto mutando i rapporti franco-inglesi, con l’intesa africana del 1899, mentre Inghilterra, si accorda nel 1902 con il Giappone per contrastare l’espansionismo russo in estremo Oriente. Presto si giungerà al vero spartiacque delle relazioni internazionali del tempo: all’Entente Cordiale franco-inglese del 1904 che, insieme alla consolidata alleanza franco-russa e agli accordi anglo-russi del 1907, determinerà l’«accerchiamento» continentale e marittimo del-l’impero prussiano-tedesco. E l’Italia, Paese così tanto “marittimo”, non potrà non registrare, e cercare di affrontare, i pericoli di questa nuova situazione, per le sue evidenti ripercussioni nel Mediterraneo.

Nella politica estera post-crispina, dunque, si manifestano, tra «amicizie» e «alleanze», due processi tendenzialmente contraddittori14. Dopo il rinnovo della Triplice Alleanza del 1896 – senza che Rudinì riuscisse ad ottenere esplicitamen-te che questa non avesse valenze offensive nei confronti dell’Inghilesplicitamen-terra15– si de-linea un certo ridimensionamento della subalternità italiana rispetto agli imperi centrali, e l’Italia ottiene migliori garanzie d’espansione. Entrambi gli alleati di-chiararono il loro disinteresse per la Tripolitania mentre la Germania garantiva anche un eventuale impegno nella difesa degli interessi italiani. Ma soprattutto, tra 1897 e 1902, i ministri Visconti Venosta e Prinetti riuscivano ad assicurarsi, almeno formalmente, migliori garanzie per gli assetti presenti e futuri delle re-gioni dell’Adriatico orientale, e soprattutto per l’Albania16 – sebbene la comples-siva penetrazione austriaca in queste regioni rimanesse preponderante.

14E. DECLEVA, L’Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914: l’ultima fra le grandi

potenze, Milano, Mursia, 1974. Sui nessi tra politica estera e interna, cfr. ID., L’incerto alleato. Ricerche sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, Milano, Franco Angeli, 1987; B. VI

-GEZZI, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Ediz. Unicopoli, 2001.

15Cfr. C. SETON-WATSON, L’Italia dal liberalismo al fascismo (1870-1925). Vol. I,

Roma-Ba-ri, Laterza, 1980, p. 235 e sgg.

16Costantino Nigra, diplomatico di lunghissimo corso e ormai fin troppo “triplicista”, nel

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A tanto si aggiunga che, per il regno dei Savoia, si apriva la possibilità di un suo nuovo “gioco” politico sulla scena internazionale17. Cosicché l’Italia poteva allora immaginare e sviluppare quelle due linee d’espansione del proprio “im-perialismo minore”: la direttrice “libica” e quella “albanese”.

La direttrice “albanese”

Il regno sabaudo era allora molto interessato a una penetrazione d’influenza economico-politica nei Paesi bagnati dall’Adriatico Orientale, ma non si esclu-deva neppure l’eventualità di espansioni territoriali, «strategiche», nell’Albania meridionale – risulterà negli scritti pubblici e, soprattutto, in quelli riservati del-lo stesso Baldacci. Aumentavano aldel-lora le preoccupazioni italiane per l’instabi-le situazione geo-politica dei Balcani. Qui, già dalla metà dell’Ottocento, si gio-cava buona parte del confronto-scontro di civiltà, di interessi economici e stra-tegici, tra pangermanesimo, panslavismo e islamismo18, in presenza del conti-nuo declino dell’impero ottomano. E si giocavano anche partite nazionali, ad opera di Stati certamente minori ma non meno coinvolti e pronti a tutto – dal-l’organizzazione clandestina di bande armate fino a vere e proprie guerre e puli-zie etniche. Le giovani nazioni balcaniche, infatti, spesso da poco costituitesi in stati indipendenti, mostravano svariate ambizioni espansionistiche nelle aree ri-tenute di propria appartenenza storico-politica o etno-linguistica. Accadeva per Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria e Grecia, ma anche per quelle “nazio-ni” ancora in cerca di una ridefinizione territoriale, di una statualità, quali l’Al-bania, l’Epiro, la Macedonia e la Tracia – tutte allora sotto sovranità ottomana. Formalmente ottomane ma in cerca di una loro identità nazionale apparivano pure le province slave, prevalentemente ortodosse e musulmane, di Bosnia ed Erzegovina, sottoposte però, dal 1878, alla presenza militare e all’amministra-zione austriaca.

In quelle diverse regioni, nei secoli, si erano stratificate popolazioni di varie lingue e religioni, sicché all’interno dei diversi Stati – dal tempo del patriotti-smo romantico ottocentesco – le minoranze etniche cercavano margini di auto-nomia o lavoravano per secessioni e riaggregazioni nazionali. E ciò valeva non solo per la Turchia europea, ma anche, e minacciosamente, per la stessa grande compagine imperiale austro-ungarica, multinazionale e multireligiosa. Qui il

17«Paradossalmente, si può constatare che proprio negli anni (1896-1901) in cui la politica

interna italiana fu caratterizzata da duri conflitti politici e sociali, che sembrarono mettere a ri-schio la stessa sopravvivenza del sistema istituzionale liberale e monarchico, il ruolo internazio-nale dell’Italia conobbe un deciso rafforzamento grazie al mutamento dell’impostazione della po-litica estera italiana operato dai governi Rudinì, Pelloux e Saracco» (L. MONZALI, Gli italiani di

Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2004, p. 195). Cfr. pure E. GENTILE, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano,

Mondadori, 1997.

18A. TAMBORRA, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920) - parte seconda.

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«compromesso» costituzionale del 1867 – la «Duplice monarchia» austriaca e magiara – non aveva affatto risolto tensioni e aspirazioni nazionali, ora autono-miste ora indipendentiste, delle minoranze serbe, croate, slovene, polacche, boeme, morave e italiane19. Né aveva accontentato il nazionalismo magiaro, predominante in Ungheria ma ancora insofferente del primato tedesco nell’im-pero. Tra le minoranze nazionali gli italiani vantavano quelle dalmate, istriane, giuliane oltre alle trentine. Già questo fatto – che aveva però consistenze e va-lenze socio-politiche diverse nelle varie regioni – teneva desto, fino a rigurgiti di un irredentismo più o meno combattivo, l’interesse culturale, commerciale, politico e strategico dell’Italia per l’Adriatico Orientale. Accanto a questo però, per l’Italia come per l’Austria-Ungheria, si riaffermava un crescente «interesse nazionale» per tutta la costa adriatica e alto-ionica, da Trieste a Valona, fino alla turco-albanese Prevesa, con una reciproca attenzione, spesso morbosa, agli equilibri economico-politici e strategici del «Golfo di Venezia» e del suo retro-terra orientale20. D’altra parte, per il regno dei Savoia come per l’impero austro-ungarico, la questione balcanica, all’interno della «questione d’Oriente», aveva attraversato tutto il secolo decimonono. Già Cesare Balbo, nelle Speranze

d’Ita-lia del 184421, aveva legato la prospettiva di un ampliamento pacifico del regno piemontese nel Lombardo-Veneto, e quella della stessa costituzione di una con-federazione italiana indipendente, all’«inorientamento» dell’Austria nel Sud-est europeo, anche per contenere qui l’espansionismo russo dopo il prevedibile crollo dell’impero ottomano. Poi, tra l’unificazione nazionale del ‘60-61 e la guerra del ‘66, la storia aveva proceduto con ben altro passo e soltanto al Con-gresso di Berlino del 1878 l’imperatore Francesco Giuseppe si rifece nei Balca-ni delle perdite subite a Occidente: col possesso ammiBalca-nistrativo di BosBalca-nia ed Erzegovina, col controllo militare dello strategico sangiaccato di Novi Pazar, e con la polizia marittima esercitata lungo le coste del Montenegro.

L’«interesse nazionale» italiano per le aree adriatico-orientali aveva – in ter-mini generali – una duplice e contraddittoria motivazione: la prima, di ispira-zione variamente “mazziniana” e antiaustriaca, ambiva al compimento del pro-cesso di unificazione nazionale (con Trento, Gorizia, Trieste e il Litorale istria-no) e, parimenti, riconosceva il diritto ad una indipendente statualità nazionale – o a una federazione jugo-slava – anche ai popoli balcanici. Il secondo approc-cio politico, invece, declinava ormai «l’interesse nazionale» italiano in termini

19Cfr. J. PIRJEVEC, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, il Mulino, 1995. 20Cfr. F. CATALUCCIO, Antonio di San Giuliano e la politica estera italiana dal 1900 al 1914,

Firenze, Le Monnier, 1935; G. MAMMARELLA, P. CACACE, La politica estera dell’Italia. Dallo

Stato unitario ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2006. Si vedano i saggi di O. TAMBURINI,

“Oltre la foschia”. Orientalizzazione dell’Italia e percezione dell’Adriatico nel primo ventennio del Novecento; di G. FERRAIOLI, La visione politica dell’Adriatico dalla fine dell’Ottocento agli esordi del fascismo, in S. TRINCHESE- F. CACCAMO(a cura di), Adriatico contemporaneo. Rotte e percezioni del mare comune tra Ottocento e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2008.

21Cfr. C. BALBO, Delle speranze d’Italia, Capolago, Tipografia elvetica, 1844 e G.B. SCA

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espansionistici e imperialistici e arriverà presto a pretendere, oltre alle «terre ir-redente», anche gran parte della Dalmazia e almeno la regione di Valona. Co-sicché anche nei Balcani, e soprattutto per Albania e Montenegro, Austria e Ita-lia erano condannate ad essere «alleate o nemiche» – come si diceva allora. Ma la loro ormai ventennale alleanza non escludeva affatto il manifestarsi di tensio-ni politiche e propagandistiche, di concorrenzialità economiche e commerciali, di ambizioni espansionistiche, di «politiche di potenza».

I maggiori porti austro-ungarici, commerciali o militari, di Trieste, di Pola – cuore militare-marittimo dell’impero –, di Fiume, di Ragusa, di Sebenico, di Cattaro – imprendibile base navale – fronteggiavano quelli di Venezia, Raven-na, AncoRaven-na, Bari e Brindisi. Col maggiore sviluppo capitalistico raggiunto dai due Paesi concorrenti, si ravvivavano, inoltre, gli antagonismi economici, più o meno manifesti, in Serbia, Albania e Montenegro. Qui, proprio in questi anni, con la Compagnia di Antivari, e il monopolio dei tabacchi iniziano le molteplici attività del gruppo finanziario-imprenditoriale “veneto” di Giuseppe Volpi22, che vedeva anche il coinvolgimento della Banca Commerciale italiana. Più in generale, si ribadivano con nuova determinazione gli opposti interessi strategici e militari per il dominio dell’Adriatico23. E tanto gli Asburgo quanto i Savoia rafforzavano le rispettive flotte, mentre, soprattutto gli austriaci, fortificavano le frontiere terrestri del Trentino e dell’Isonzo e le corredavano di una efficiente rete ferroviaria.

L’Italia dei primi anni del Novecento, dunque, si sentiva, complessivamente, più forte all’interno24, e cercava di essere più autorevole e dinamica sullo sce-nario internazionale in virtù dei nuovi rapporti multilaterali realizzati dai suoi più attivi ministri degli Esteri: Visconti Venosta, Prinetti e Tittoni. Restava certo «alleata» degli imperi centrali, ma si impegnava in quei celebri “volteggi” con le altre Potenze «amiche», appena tollerati dal principe di Bülow. Era una am-biguità politica che le comportava già allora rimproveri d’incoerenza e d’infe-deltà rispetto alla Triplice alleanza – rimbrotti che ritorneranno poi anche in se-de storiografica25– o, all’opposto, mancanza di decisione nel cambiare il fronte delle alleanze e abbandonare la Triplice – accusa ritornante tra i repubblicani, i

22Cfr. S. ROMANO, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano,

Bom-piani, 1979; R.A. WEBSTER, L’Imperialismo industriale italiano, 1908-1915. Studio sul

prefasci-smo, Torino, Einaudi, 1974.

23La Marina italiana invidiava le migliori condizioni marittime dell’impero:

«L’Austria-Un-gheria gode nell’Adriatico di una posizione privilegiata rispetto all’Italia. Infatti, mentre questa non ha in quel mare che una debole base navale, Venezia, situata all’estremo nord del lungo lito-rale indifeso, e che può facilmente essere bombardata dal mare, l’Austria con Pola facilmente di-fendibile [...] con l’arcipelago della Dalmazia, con Cattaro [...] inespugnabile, possiede basi nava-li di superiorità strategica incontestabile» (Confronto fra la flotta itanava-liana e quella austro-ungari-ca, gennaio 1904, Archivio Ufficio Storico della Marina – Roma – c. 185, f. 3).

24Cfr. G. SPADOLINI, Il mondo di Giolitti, Firenze, Le Monnier, 1970; E. GENTILE, L’Italia

giolittiana 1899-1914, Bologna, Il Mulino, 1990 (1977).

25Cfr. C. M. SANTORO, La politica di una media potenza. L’Italia dall’unità ad oggi,

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radicali e, in modo alterno, anche tra i socialisti italiani. D’altra parte, gli stessi austriaci praticavano un loro “doppio binario”, trattando spesso con la Russia per cercare di tener fuori l’Italia dai Balcani, a prescindere dai patti sottoscritti. In modo analogo si muovevano i tedeschi con i russi per tentare di staccarli dal-la Francia o “usarli” contro dal-la Gran Bretagna.

Questa duplice politica estera – che proseguì con alterne accentuazioni fino alla Grande Guerra – dava all’Italia anche dei risultati immediati. Il regno sa-baudo, infatti, poteva muoversi tra antiche alleanze e vecchie o più recenti ami-cizie ponendo grande attenzione ai destini dell’antico «Golfo di Venezia», del «lago italiano», come già lo definiva – pretendendolo – una propaganda proto-nazionalista e dannunziana26. In particolare, gli interessi nazionali in Adriatico apparivano in qualche modo tutelati dalle clausole del rinnovato trattato triplici-sta del 1887, e poi dalle specifiche intese sull’Albania (mantenimento dello triplici-

sta-tu quo o, altrimenti, «autonomia» nazionale albanese), stabilite a Monza tra

Vi-sconti Venosta e Goluchowski nel novembre 1897 – poi formalizzate tra 1901 e 1902 dai loro successori, fino ai colloqui di Abbazia del 190427. Tuttavia resta-vano poi esposti all’effettiva, più capillare, presenza dell’Austria-Ungheria e al suo più moderno espansionismo: a quello specifico Drang nach Osten und

Sü-den proiettato verso Salonicco che doveva procedere lungo la ferrovia

longitu-dinale balcanica, in parte già realizzata. Contemporaneamente si andava ripro-ponendo (maggio 1897, ottobre 1903 e ottobre 1904) il tradizionale interesse russo – in intesa concorrenziale con la stessa Austria-Ungheria – per la Mace-donia, l’Albania e gli Stretti del Mar di Marmara, nonché per i complessivi as-setti balcanici, dove il «grande malato» turco sembrava non poter garantire an-cora a lungo lo status quo nei suoi possedimenti europei28. La grave crisi

mace-26Cfr. R. NASSIGH, La Marina italiana e l’Adriatico. Il potere marittimo in un teatro ristretto,

Roma,Ufficio Storico della Marina Militare,1998; M. GABRIELE- G. FRIZ, La politica navale ita-liana dal 1885 al 1915, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1982; F. MARTELLONI, La

Triplice Alleanza e l’Adriatico. Dalla convenzione navale ai piani di guerra (1900-1909), in «Ri-cerche Storiche», XL, 2, 2010, pp. 299-347.

27«La Triplice Alleanza del 1882 – scriverà Salvemini, nel 1923 – era un sistema

rudimenta-le, che permetteva all’Italia appena appena di vivere senza essere aggredita e schiacciata dai suoi alleati. La Triplice Alleanza e la intesa anglo-italiana del 1887 formavano un sistema più com-plesso, che assicurava all’Italia non solamente la vita, ma lo statu quo nell’Africa settentrionale, e nella penisola balcanica. Nel 1902 il sistema dell’ ’87 diventò anche più complesso, per l’intrec-ciarsi della nuova intesa italo-francese con la triplice Alleanza e con la intesa anglo-italiana. In questo sistema la garanzia dello statu quo nella penisola balcanica è sempre mantenuta. Invece per la Tripolitania la garanzia dello statu quo è sostituita dalla prelazione dell’Italia» (G. SALVE

-MINI, La politica estera italiana dal 1871 al 1915, a cura di A. TORRE, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 357). Oggi, per un’analoga interpretazione del «sistema Prinetti» del 1902, cfr. G. MAMMAREL

-LA, P. CACACE, La politica estera dell’Italia, cit., pp. 48-52.

28Cfr. E. HOSCH, Storia dei Paesi balcanici. Dalle origini ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2005

(1998); F. GEOGEON, L’ultimo sussulto (1878-1908) e P. DUMONT– F. GEORGEON, La morte di un im-pero (1908-1923), in R. MANTRAN(a cura di), Storia dell’impero ottomano, Lecce, Argo, 2011

(1989). Ancora preziosi: L. SALVATORELLI, Storia del Novecento, Milano, Mondadori, 1980 (1964) e

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done del 1902 l’aveva nuovamente dimostrato, alimentata com’era dai conflitti inter-religiosi, da quelli sociali-rurali e tra clan, dagli ideali patriottici o dalle diverse ambizioni nazionalistiche, fino alle provocazioni armate di bulgari, gre-ci e serbi. Crescevano pure, anche se contraddittoriamente, le pretese autonomi-stiche o indipendentiautonomi-stiche degli albanesi, variamente appoggiate o strumenta-lizzate dagli italiani e dagli austriaci che ricorrevano all’azione dei rispettivi consolati, di agenti, preti, associazioni politico-culturali e giornali. Per gli ita-liani era molto attiva la «Società nazionale albanese», di cui era presidente dal 1897 Anselmo Lorecchio29, il quale concordava spesso i propri passi col mini-stero degli Esteri.

I montenegrini, a loro volta, volevano modernizzare il Paese e accrescerne il territorio: ambivano almeno al porto albanese di Durazzo come subordinata ri-spetto alla spartizione dell’Albania (l’avevano proposta all’Italia e la ripropor-ranno anche alla Serbia). Ma Durazzo era preteso anche dalla Serbia – il «Pie-monte dei Balcani» – che, uscita dalla sfera di controllo austriaco nel 1903 col violento passaggio dinastico dagli Obrenovic ai Karadjorjevic, mirava ora a un’espansione verso Sud ed a un proprio sbocco adriatico. Non escludeva nep-pure una confederazione jugoslava avente come suo centro dirigente la «grande Serbia». I rumeni, invece, avanzavano rivendicazioni territoriali tanto nei con-fronti dell’Ungheria (per la Transilvania) quanto dell’autonomo principato bul-garo (per Dobrugia e Silistra). La Duplice Monarchia asburgica, soffrendo del-l’instabile equilibrio tra le sue principali nazionalità30, in Istria e a Trieste adot-tava una politica filo-slava e anti-italiana. In Dalmazia, invece, utilizzava spes-so gli autonomisti italiani per contenere i serbo-croati.

Insomma, l’ampia area balcanica, agli inizi del Novecento, si prospettava nuovamente come un pericoloso terreno di concorrenzialità economiche e poli-tiche, di conflitti etnici e religiosi, di lotte sociali, di tensioni nazionali e inter-nazionali. Tanto più che dietro l’Austria pressava l’impero guglielmino, nuova potenza industriale-militare ben presente, finanziariamente e con consiglieri mi-litari e infrastrutture, nell’impero turco. Con la ferrovia per Baghdad mirava, tra l’altro, a contenere lì l’espansionismo russo ed a minacciare dal Golfo Persico l’impero inglese di Edoardo VII, già in allarme per i piani di riarmo navale te-desco voluti da Tirpitz31. Quando nel 1907 si avvierà l’intesa anglo-russa per la Persia e l’Afghanistan, questa, in sinergia con l’Entente Cordiale del 1904, di-struggerà definitivamente la politica bismarckiana di equilibrio europeo a

cen-29Il primo «Congresso linguistico albanese» si era tenuto ad ottobre del 1895, con la

presi-denza della «Società nazionale albanese» di De Rada, il secondo congresso linguistico cadrà nel 1897 (cfr. E. MASERATI, Momenti della questione adriatica, Udine, Del Bianco, 1981).

30Cfr. F. FEJTÓ, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico,

Milano, Arnoldo Mondadori, 1996 (1988).

31Cfr. F. FISCHER, Assalto al potere mondiale. La Germania nella grande guerra, Torino,

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tralità tedesca. Anche le vicende del Sud-Est europeo consumatesi tra 1908 e 1914 (annessione della Bosnia-Erzegovina, conflitto italo-turco e guerre balca-niche) aumenteranno sensibilmente le occasioni ed i pericoli di un grande con-flitto tra i due schieramenti internazionali.

Proprio dei Balcani e dei loro assetti geopolitici ragionavano, dalla fine del-l’Ottocento, non solo i più attenti politici, diplomatici e militari del regno d’Ita-lia, ma anche gli ambienti professionali e accademici. Lo faceva per l’Albania anche Baldacci, come altri si interessavano al Montenegro – si pensi al prolifico Vico Mantegazza, direttore tra 1894 e ‘98 del quotidiano conservatore «La Na-zione», recatosi lì nel ‘96 al seguito del principe di Napoli, per il suo prossimo matrimonio con la principessa Elena. Per il nostro botanico-geografo – si è già accennato – non si trattava di puro interesse scientifico. La stessa Società Geo-grafica, d’altronde, annoverava tra i suoi soci e dirigenti, oltre a docenti di varie discipline anche alte personalità politiche e militari, burocrati e diplomatici, uf-ficiali della marina e dell’esercito. Cosicché, anche in tale specifico contesto culturale, diversi saperi e competenze interloquivano e finivano, in qualche mo-do, con l’interagire.

Gli «Itinerari albanesi»

Nei suoi Itinerari albanesi, Baldacci spiegava come, proseguendo nelle ri-cerche geografico-botaniche che lo avevano portato in Montenegro tra 1890 e ‘91, si fosse recato nel ‘92 nell’Albania centro-meridionale. L’anno successivo era a Creta – dove si riproponevano tensioni tra gli abitanti turchi e quelli greci – per studiarne la flora. Nel 1894-95 era infine tornato nei distretti albanesi del-l’Epiro ottomano del nord, e poi in quello greco. Che il suo interesse non fosse esclusivamente naturalistico Baldacci lo lasciava subito intendere citando le si-gnificative affermazioni “profetiche” – purtroppo avveratesi, precisava – fatte da Cristoforo Negri, nel suo lavoro La grandezza italiana, del lontano 1864: «Non vi è paese che più dell’Italia abbia interesse nella questione d’Oriente. Se muore la Turchia, e l’asse ereditario non si divide secondo le nostre, ma secon-do le altrui opportunità; se per esempio, l’Egitto cade in mano inglese, ed il Ca-nale di Suez con esso; se Tunisi cade in mano della Francia; se l’Austria proce-de dalla Dalmazia in Albania, a noi presto mancherà nel bel mezzo proce-del Mediter-raneo perfino l’aria da respirare»32.

Illustrando la sua esplorazione, il geografo precisava come dovessero inten-dersi i confini etno-linguistici di quei complessi territori del nord e del sud alba-nese – complessità che poi tanto avrebbe pesato nei successivi conflitti greco-turchi e greco-albanesi per l’Epiro. «In senso vasto e politico-geografico – spie-gava – l’Albania comprende anche l’Epiro: in significato più ristretto ed etno-grafico Albania ed Epiro formano due regioni indipendenti con diversissime aspirazioni; l’una abitata dagli albanesi Agheghi, musulmani e cattolici che

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lano il loro dialetto ghego e costituiscono la vera Albania, l’altra da Albanesi Toschi, che parlano il dialetto tosco, e da Greci e costituisce in largo senso l’an-tico Epiro. La Turchia ha diviso questo paese in due grandi provincie o vilayet senza curarsi di tener calcolo dell’etnografia e geografia; essa formò due terri-tori di superficie presso a poco uguale»33. Il vilayet di Scutari (Skodra) era a Nord, mentre nel Sud c’era quello di Gianina (Janià), allora visitato da Baldac-ci. Qui, a dire del geografo, fino a vent’anni prima, sino al tempo della guerra russo-turca, imperavano barbarie e brigantaggio. Da allora, lo stesso impero ot-tomano aveva promosso una qualche dinamica di crescita economica e civile dalla quale però era rimasta sostanzialmente esclusa ogni presenza italiana, seb-bene «tene[ssero] per altro, tanto i gheghi che i toschi, in buona stima l’Italia, e se noi li avessimo meglio assecondati, ci troveremmo ora in rapporti politici e commerciali assai differenti coll’Albania e coll’Epiro»34.

L’Italia aveva continuato a lasciare il passo alla concorrenza austro-ungarica che, infatti, aveva anche realizzato collegamenti commerciali notevolmente mi-gliori grazie alla linea marittima dalmato-greca. D’altra parte – continuava Bal-dacci – a differenza degli austriaci, gli italiani avevano anche una conoscenza molto scarsa delle coste albanesi e del valore della baia di Valona. Fatto, questo, che gli appariva particolarmente grave dal punto di vista strategico-militare ol-treché commerciale: «sovente accade che chi parla della costa orientale dell’A-driatico non faccia cenno a Vallona. Eppure l’ampia sua rada, la posizione che occupa, la cerchia dei colli e dei monti che a guisa d’anfiteatro la cingono a N.E.S. farebbero di Vallona un punto politico e commerciale di primo ordine. La rada tutta, unitamente allo sviluppo delle coste albanesi, fu anche di recente scandagliata da una Commissione della marina militare austriaca. Da diversi anni una carta marittima di inconfutabile valore, sia per l’esattezza, quantità e nitidezza generale dei dati fu pubblicata dall’Ufficio idrografico dell’Impero: questa carta ultimamente è stata riveduta e se ne aspetta la seconda edizione»35. Passava dunque ad illustrare le caratteristiche della rada di Valona – baia che, in effetti, resterà a lungo ambita per il controllo dell’Adriatico, prima di essere in-teramente occupata dal regno d’Italia nel ‘14 e nel ‘39. La rada – spiegava – si estende dal capo Treporti a Nord lungo un litorale arenoso e paludoso, fino a giungere alle rupi di Krionero. Ritorna sabbiosa fino al suo punto più meridio-nale costituito dalla quella penisoletta di Karaburun che termina con capo Lin-guetta – si trattava qui di quel «pollice» di terra che Sonnino avrebbe annerito in un suo schizzo della baia, inviato nel settembre 1914 a Salandra, con cui, ap-punto, gli suggeriva di occupare Valona e Saseno36. «La bocca di tutta la rada –

33Ibidem. 34Ivi, p. 48. 35Ivi, p. 53.

36Cfr. Lettera di Sonnino a Salandra del 17 settembre 1914, in P. PASTORELLI(a cura di), S.

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l’Adriati-continuava Baldacci – [...] è guardata dallo scoglio di Saseno, gigantesco mo-stro marino della più alta importanza strategica. Ciò non di meno quest’ampia e bella rada, accessibile ai bastimenti di maggiore portata, non venne mai presa in considerazione dal governo ottomano; neppure un forte la difende […] contro un’armata invadente, la quale senza difficoltà potrebbe sbarcare un esercito ca-pace di intraprendere una marcia vittoriosa verso Oriente per due grandi diret-trici, per la valle della Vojussa [fiume che stringe a nord Valona ] e per il passo insidioso di Haghios Georgios o S. Giorgio sopra Dukati. Una simile rada cinta di alture accidentate potrebbe valere quanto la Spezia o Pola contro un nemico invasore per via di mare o di terra»37. A quel tempo gli ottomila abitanti albano-greci di Valona parlavano il dialetto tosco e la lingua greca. Le religioni preva-lenti erano la cristiano-ortodossa e la musulmana, ma non mancavano i cattolici ed anche gli ebrei, soprattutto nel ceto medio, tra i commercianti e gli impiega-ti. «La nostra lingua – lamentava Baldacci – [...] al tempo delle scuole italiane aveva preso una larga diffusione promettente per l’avvenire, oggigiorno, che quelle scuole furono dannosamente tolte, si parla nel dialetto otrantino dall’ele-mento coloniale [...]. Nel doppio senso commerciale e nazionale fu un errore di togliere dai tre centri di Valona, Prevesa e Janina le scuole nostre, istituite con tanti sacrifici morali e pecuniari»38. Eppure, ricordava il geografo, dopo gli stentati inizi del 1889, «la quasi totalità dei giovani musulmani, ebrei e cristiani cominciò con assiduità ed amore a frequentare le scuole italiane, apprezzando l’utilità che ne traevano, la quale, senza danneggiare i loro sentimenti nazionali, apriva ad essi la prima risorsa commerciale, quella di corrispondere con l’italia-na [linguisticamente] Trieste»39. In tempi più recenti, però, il governo italiano, adottando una politica di risparmi, aveva imposto non solo la chiusura della scuola di Janina, ma anche – e la cosa gli appariva più grave – di quelle di Pre-vesa e di Valona, che distava appena 40 miglia dalle coste italiane. «Sono que-ste due città costiere – insique-steva – in diretta comunicazione coll’Italia, e se noi ci scuotessimo dall’ignavia potrebbero divenire due magazzini aperti al com-mercio italiano. E come l’Austria e la Grecia non dormono sui mari Adriatico e Jonio, l’Italia ha il dovere di pensare seriamente a controbilanciare, in questi mari che bagnano le sue coste, l’influenza di operosi vicini»40.

La grande superiorità commerciale asburgica negli scambi con Albania ed Epiro gli sembrava discendere da un complesso di condizioni. Le merci austria-che non solo vantavano una moderna organizzazione promozionale ma, già

for-co. Dalla convenzione navale ai piani di guerra (1900-1909), in «Ricerche Storiche», XL, 2, 2010, pp. 299-347. Per i rapporti commerciali tra Italia e regioni adriatico-orientali all’inizio del Novecento cfr. ID., Geografia, economia e politica dell’Adriatico Orientale: i rapporti italo-bal-canici in uno studio di Carlo Maranelli del 1907, in «Eunomia, I - 2012, pp. 99-129 (on-line: http://siba-ese.unisalento.it/).

37A. BALDACCI, Itinerari albanesi, cit., pp. 53-54. 38Ivi, p. 54.

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temente concorrenziali per il loro costo, godevano anche di una rete di trasporti marittimi assolutamente migliore. Questa si articolava su più linee di naviga-zione settimanali per l’Albania che, per di più, la collegavano con la stessa Ita-lia: «Il Lloyd manda agli scali albanesi di Santi Quaranta [Saranda], Vallona, Durazzo, S. Giovanni di Medua tre vapori la settimana: uno ne invia a Prevesa ed alla costa epirota, due ad Antivari e Dulcigno nel Montenegro, senza conta-re i numerosi che, sia da Trieste, sia dal Levante approdano diconta-rettamente a Corfù, per lasciare in questo porto le merci che con la massima sollecitudine debbono destinarsi a tutta la costa orientale dell’Adriatico e dello Jonio. La Compagnia austriaca trasse partito dalla maggior potenza del commercio del-l’impero e i grandi negozianti triestini e viennesi basano tutto lo smercio dei prodotti loro sulla fortunata réclame che a mezzo della posta o dei viaggiatori viene fatta nelle regioni inferiori dell’Adriatico orientale, le quali accettano a vantaggiose condizioni i meno costosi ma più necessari prodotti industriali, che invano potrebbero esitarsi nei nostri paesi»41. E tale attività di penetrazio-ne commerciale si sviluppava dalle coste fin penetrazio-nell’interno albapenetrazio-nese e montepenetrazio-ne- montene-grino.

L’Italia, invece, sebbene i bastimenti della società di navigazione «Puglia» toccassero allora le coste orientali da tre anni42, per svariate ragioni non aveva ottenuto alcun vantaggio economico. Questa società, infatti, aveva un ruolo as-solutamente residuale rispetto alle compagnie austriache: «la Puglia, sovvenzio-nata largamente dal governo nostro, serve a portare a destinazione quasi le sole mercanzie che non poté imbarcare o non trovò pronte il Lloyd. I viaggi della Società sono quindicinali, seguono un solo itinerario che offre il fianco alla cri-tica più severa, non cerca di fare alcuna concorrenza al Lloyd diminuendo i noli quando [...] queste diminuzioni, come per l’epoca dell’olio, valessero ad otte-nerle un avviamento a migliori affari. Non è partendo da Brindisi e andando a Vallona, Durazzo, San Giovanni di Medua, Antivari per ritornare da questo sca-lo direttamente a Brindisi e proseguire poi a passi di lumaca per Trieste a pren-dere le poche merci lasciate dal Lloyd che la Società troverà tornaconto e potrà far concorrenza alla Compagnia austriaca: bisogna convincersi, anche sobbar-candoci a sacrifici nei prossimi tempi, che non si potrà mai far nulla senza scali a Cattaro (dove scendono le merci pel Montenegro, al quale si accede con ec-cellenti strade), di Santi Quaranta e possibilmente di Prevesa (è da ambedue

41Ivi, p. 56.

42«Sino dalla sua fondazione la Navigazione Generale estendeva i suoi traffici anche

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questi scali che si va a Janina, capoluogo dell’Epiro). Corretto l’itinerario, esso deve venire battuto almeno una volta per settimana»43.

Il geografo descriveva quindi la mediocre composizione merceologica del-l’import-export italo-albanese e italo-montenegrino, concludendo che significa-tivi incrementi quantitasignifica-tivi e tipologici delle esportazioni italiane potevano di-scendere soltanto da mutamenti che, anche per l’organizzazione commerciale, le rendessero effettivamente concorrenziali: «Noi, ora, importiamo [id est: esportiamo] soltanto zolfo, terraglie ordinarie, pochi fichi secchi, poca farina, pochissima pasta. Ma essendo questi paesi privi di ogni sorta di manifatture, può trovarvi l’Italia uno sbocco di notevole importanza alle sue industrie. I fab-bricanti italiani ricordino che in Albania e Montenegro, oltre ai pochi summen-zionati prodotti, possono con tutta facilità smerciare panni, telerie semplici e colorate, filati diversi, carte da scrivere, da imballaggio e da sigarette, fiammi-feri, candele steariche, terraglie fini ed ordinarie, chincaglierie, vetrame, cuojo ed articoli per calzolai, droghe, prodotti chimici e farmaceutici, metalli greggi e lavorati, ferramenta, chiodi, spirito e liquori, colori, calce, ecc., ecc., ed in ge-nerale tutti i prodotti dell’industria, purché per qualità, prezzo e condizioni di vendita non siano dissimili da quelli che si importano dall’Austria-Ungheria. A raggiungere però tale scopo debbono i negozianti italiani far uso di maggiore energia, e, come fanno quelli dell’Austria-Ungheria, mandare ogni tanto com-messi viaggiatori e non essere avari nella diffusione di prezzi correnti, catalo-ghi, albums, campioni dei loro prodotti [... oggi] quasi del tutto sconosciuti»44.

Ma in ogni caso, ribadiva Baldacci, occorreva comunque moltiplicare i col-legamenti marittimi dall’Italia: «i dodici battelli che il Lloyd manda mensilmen-te in Albania provenienti da Triesmensilmen-te e da tutto il Levanmensilmen-te avranno sempre ragio-ne contro i due che invia la società Puglia, [... e cioè ] fino a quando la Compa-gnia italiana non avrà trasformato la linea Venezia-Brindisi, portandola da quin-dicinale a settimanale»45. A tale proposito, affermava perentorio: «Se poi la

Pu-glia non si sentirà di rinnovare il contratto (che, mi pare, scade quest’anno) sarà

facile al governo di intendersi colla Navigazione generale italiana»46. I vapori della Puglia, inoltre, avrebbero dovuto toccare, per le ragioni dette sopra, anche i porti di Santi Quaranta e Prevesa, superando la esclusività lì esercitata dalla compagnia Florio-Rubattino.47.

43A. BALDACCI, Itinerari albanesi, cit., pp. 56-57. 44Ivi, p. 57.

45Ibidem. 46Ibidem.

47In analoga direzione, con missioni e contatti in Albania, si era spesa pure la Società

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In base all’organizzazione burocratico-amministrativa dell’impero ottoma-no, il vilayet di Janina era diviso in quattro governatorati (con a capo i rispettivi

mutesarif). Tra questi il governatorato di Berat aveva come sotto-governatore

(cajmacan) quello di Valona, a sud-ovest di Berat. Baldacci prevedeva però che, per le migliori condizioni economico-amministrative di Valona, questa avrebbe presto sostituito Berat quale sede del mutesarif. Ciò avrebbe comporta-to quasi certamente investimenti turchi destinati a migliorare le poverissime in-frastrutture portuali di Valona, dove, «all’infuori di un malsicuro ponte di legno, nessuno pensò mai a ordinare il più piccolo lavoro. Succede che spesso d’inver-no i vapori, d’inver-non potendo ancorare, d’inver-non scaricad’inver-no né posta, né merci [...]. Im-prendendosi i lavori per il porto, saranno indispensabili nuovi magazzini doga-nali, poiché gli attuali, piccoli, umidi e minaccianti rovina, non bastano a rice-vere i tanti prodotti dell’attivo ed energico commercio di Vallona»48. Ma Valo-na, oltre alle sue potenzialità strategico-marittime per il «dominio» della «porta dell’Adriatico», costituiva anche un’importante via d’accesso all’interno meri-dionale albanese, sebbene allora anche la viabilità risultasse molto approssima-tiva: «A Vallona sbarcano le merci destinate a tutto il sangiaccato di Berat e ad una gran parte di quello di Argyrokastron [più a sud]. Diverse sono le vie di co-municazione coll’interno, ma tutte impraticabili a carri e carrozze. Tre sono principali; una è secondaria. La prima segue la direttrice [verso nord e poi nord-est] Vallona-Fieri-Berat, è la più facile di tutte e [...] nei mesi caldi dell’anno potrebbe rendersi con poca spesa praticabile ai veicoli, quando venisse costruito almeno un ponte a barche sul fiume Vojussa a Drisi. [...] La seconda conduce similmente a Berat per Signa. È più corta ma più difficile della prima [...]. La terza da Vallona a Tepelen per Kudesi è difficile in qualche punto [...]. La quar-ta [verso sud-est], poco battuquar-ta, da Vallona a Delvino per il distretto di Kimara, è lunga, difficile e pericolosa»49. Per le altre comunicazioni precisava: «il servi-zio postale e telegrafico lungo queste arterie più importanti lascia ancora molto a desiderare. L’unico filo che da Otranto, a mezzo di un cavo sottomarino, co-munica con Valona, formando la gran linea internazionale Roma-Costantinoli, segue soltanto le seconda e le terza delle strade predette [...]. A Vallona la po-sta austriaca, esercitata dall’agenzia del Lloyd, ha molto vantaggio sull’ottoma-na»50.

Baldacci, conclusa la ricognizione del territorio Valona, si era poi inoltrato nelle campagne e nelle foreste dell’interno montuoso. In seguito aveva piegato

Durazzo, di Valona etc. dei piroscafi della Società di Navigazione “Puglia”». A tal fine lo stesso Lorecchio si sarebbe recato a Bari per trattare della cosa direttamente con la «Puglia» a nome del-la sua Società albanese e senza esporre il ministero cosicché «nel caso di non riuscita, il R. Go-verno resta interamente garantito». In ogni caso, terminava il presidente a conferma della organi-cità dei suoi rapporti col ministro degli Esteri, lo avrebbe minutamente informato degli sviluppi della sua azione (cfr. DDI, S. III: 1896-1907, Vol. II, cit., n. 174, pp. 138-139).

48A. BALDACCI, Itinerari albanesi, cit., p. 58. 49Ivi, p. 59.

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verso sud, nell’Epiro settentrionale, per studiarne l’orografia, la geologia e so-prattutto la flora, alla cui descrizione dedicava molte delle pagine successive del suo scritto – che, evidentemente, qui tralasceremo. Mentre torna utile sotto-lineare quanto aggiungeva ancora, ricordando come, prima di proseguire verso l’interno, fosse stato ricevuto dal console italiano a Giannina, Giorgio Millelire, che aveva dovuto faticare non poco per convincere il valy ottomano degli scopi puramente scientifici della missione del geografo. Aveva infatti dovuto spiegar-gli «che sotto la mia temuta veste di agitatore politico non esisteva che la stoffa del botanico, premuroso soltanto di cominciare le sue escursioni ed i suoi studi attraverso un paese affatto vergine dal nostro punto di vista»51.

In verità, pero, i sospetti del funzionario turco, non erano per nulla infondati. Non altrettanto innocente, infatti, risultava lo sguardo del nostro geografo-poli-tico che, oltre agli studi sulla flora albanese, aveva effettuato pure un’attenta ri-cognizione, soprattutto della rada di Valona, che poteva tornare anche utile a scopi non propriamente scientifici. Gli stessi Baldacci e Millelire, insieme al console italiano a Scutari, Lori, si preoccupavano di informare la Consulta – spesso in termini allarmistici – dell’azione politica e commerciale austriaca in Albania, in palese concorrenzialità con quella italiana. E arrivavano a prospet-tare addirittura un’operazione della regia marina per conquisprospet-tare Valona e il suo

hinterland. Ma per simili operazioni, allora, mancavano ancora le necessarie

con-dizioni internazionali e interne all’Italia, che invece si crearono all’avvio del pri-mo conflitto pri-mondiale quando tali suggerimenti “strategici” – supportati da un ul-teriore complesso d’informazioni idrografiche, orografiche e politico-militari – avrebbero trovato il loro esito nell’occupazione italiana di Saseno e di Valona, ef-fettuata tra l’ottobre ed il Natale 191452.

Uno Stato albanese-montenegrino e Valona italiana

Alla fine dell’ottobre ‘97, Baldacci, ora da Bologna, inviava al ministro Vi-sconti Venosta una lunga informativa sulla situazione albanese. Con essa mette-va ancora una volta nero su bianco le sue considerazioni frutto – gli scrivemette-va – degli otto viaggi esplorativi e scientifici fatti in Albania: dal confine montene-grino al golfo di Ambracia (Arta), dalla catene del Pindo (nel Sud-Est) ai di-stretti di Djakòva, Ipek e Gusinje, tra Kossovo e Montenegro, dove – spiegava al ministro – vive compatto l’elemento albanese non minacciato dai piccoli in-sediamenti di greci, bulgaro-valacchi e serbi. In queste terre, aggiungeva sinte-tizzando sue precedenti annotazioni socio-politiche, «gli albanesi si trovano in uno stato di anarchia perfettamente primitivo [...]. In generale sono barbari, mercenari, insofferenti di ogni governo politico, ignari del sentimento patrio e, viceversa, fanatici della religione che li divide con barriere insormontabili in tre

51Ibidem.

52Cfr. F. MARTELLONI, Giochi di prestigio: la “chiave dell’Adriatico” nel 1914, in «Ricerche

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grandi masse: gli ortodossi al sud, i cattolici al nord, i musulmani, più numerosi di tutti, sparsi al centro, a mezzogiorno e a settentrione, essendo generalmente forte maggioranza nelle città e nelle borgate ove dominano, spesso con ferocia, sui cristiani. Si dividono in toschi e gheghi, in due tribù che non ebbero mai tre-gua fra di loro. I toschi sono [...] leggermente fuori della barbarie completa. [... I] gheghi nei loro monti non hanno altro governo che quello che regola le tribù colla cosiddetta legge della montagna, non pagano imposte, non prestano servi-zio nell’esercito regolare: le tribù vivono spesso in completa, e tenebrosa di-scordia fra di loro; la vendetta e, quindi, la strage sono i soli appelli di giustizia che vigano da secoli per tutta l’estensione di quel paese quasi sconosciuto al mondo. [... I]gnota è per essi l’idea anche più semplice della patria albanese. La religione sola ha forza, ma anche questa e in dati casi fino a un certo punto»53. Baldacci riproponeva al ministro anche l’idea che fossero i preti «pagati dal-l’Austria» e gli stessi turchi a voler mantenere quelle popolazioni in tale stato. Questi ultimi l’avrebbero fatto per poterli scagliare contro qualsiasi eventuale annessione tentata da un paese vicino. Diversa, invece, gli appariva la condizio-ne dei toschi. Questi pagavano i tributi all’amministraziocondizio-ne ottomana, «presta-no servizio nell’esercito regolare, so«presta-no protetti da una giustizia turca, e, sebbe-ne musulmani, [...] cominciano tuttavia a sentire in diverso grado e a seconda dei distretti l’idea della patria e lavorano alquanto per essa, sospinti e risveglia-ti, io penso, dalla fenomenale attività di propaganda che hanno i greci, i bulgari, i valacchi ed i serbi entro le stesse file albanesi»54.

Ma ben più pericolosa gli appariva la penetrazione austriaca in Albania e nei Balcani, perché l’impero asburgico mirava ad ottenere lì la piena egemonia, dall’Egeo all’intero Adriatico orientale, fino a minacciare la stessa integrità na-zionale dell’Italia: «L’Austria intriga dai confini della Bosnia al golfo di Am-bracia, ma più direttamente fino a Vallona, di cui ha riconosciuto l’estrema im-portanza strategica come chiave invulnerabile dello Adriatico inferiore. In se-condo luogo l’Austria non perde tempo ad inframmettersi fra serbi, bulgari, va-lacchi e greci nei due versanti del Pindo: si capisce che c’è di mezzo Salonicco [...]. D’altra parte anche senza Salonicco Vienna anela rimpiazzare Venezia sui mari Adriatico e Jonio, né io potrei darle torto. Un giorno essa potrebbe tramare fino a danno dell’unità dell’Italia: dallo scoglio di Saseno al capo Linguetta (che definiscono l’ampia e sicura rada di Vallona capace di tutte le armate d’Europa) è facile il passo per la Japigia [...] e le Puglie. Inoltre riuscendo l’Au-stria nell’Albania, spezzerebbe d’un colpo l’avvenire del Montenegro, il picco-lo simpatico Piemonte serbo, ora doppiamente caro all’Italia»55.

Di contro, la propaganda montenegrina in Albania non gli pareva affatto dannosa, anzi, riteneva che quel principato sarebbe stato capace di rispettare l’i-dentità albanese anche nell’eventualità di una unificazione

montenegrino-alba-53DDI, S. III: 1896-1907, vol. II, cit., n. 251, p. 191. 54Ibidem.

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nese. Ingiustissime, poi, gli apparivano le accuse austriache per una presunta at-tività di penetrazione italiana. Invece – spiegava Baldacci – le scarse scuole ita-liane, le poche linee marittime della Puglia, i due consolati d’Italia (a Jannina e Scutari), avevano finito soltanto col far aumentare gli appetiti austriaci per quelle terre. Accompagnavano, però, questa diagnosi allarmante sue specifiche proposte miranti a rafforzare l’influenza italiana: riguardavano i trasporti marit-timi, la presenza consolare, le scuole italiane in Albania e, più complessivamen-te, la “missione di civiltà” che l’Italia avrebbe dovuto assolvere anche per anti-co debito storianti-co: «Ognuno rianti-conoscerà gli alti interessi nostri politici, tradizio-nali e commerciali nell’Adriatico inferiore orientale e nel Jonio superiore e, in-sieme, quel dovere, quasi, che noi abbiamo di civilizzare o seriamente concor-rere a preparare il popolo albanese alla sua redenzione, poiché il popolo albane-se è l’avanzo di quelle genti pelasgo-illiriche, dalle quali più tardi soralbane-se anche la stirpe italica [...]. Bisogna assolutamente far concorrenza all’Austria che si afferma sempre più, e mostrare che l’Italia non può disinteressarsi, nel triplice significato politico, commerciale e tradizionale, delle sorti dell’Adriatico infe-riore e del Jonio [...]. Quindi per curare questi interessi sarebbe intanto efficace di pensare: 1) al miglioramento dei servizi della “Puglia” studiando itinerari ra-pidi e settimanali fra l’Italia, Prevesa e Cattaro lungo le coste Albanesi; 2) ad innalzare a consolati generali i due attuali consolati di Scutari e Janina per con-trobilanciare la posizione dei rappresentanti austriaci; 3) ad istruire nelle scuole italiane di Scutari il corso commerciale e tecnico per controbilanciare l’influen-za di scuole simili tenute dai gesuiti [filo-austriaci...] e ripristinare le scuole a Vallona; 4) a nominare [...] un vice-console di carriera a Durazzo ed a Vallona, dove da tempo risiedono funzionari austriaci di questo grado»56.

Ma ciò che più importava al nostro geografo geopolitico era il ribadire la ne-cessità che l’Italia, per tutelare effettivamente il proprio interesse, dovesse ap-poggiare il progetto di costruzione di un nuovo Stato montenegrino-albanese – naturalmente filo-italiano e anti-austriaco: «Dato lo sfacelo ottomano in Alba-nia, all’Italia che cosa conviene di fare? Esclusione assoluta di ogni occupazio-ne o protettorato austriaco specialmente per ragioni di salvataggio nazionale. Il mare Adriatico deve essere un mare italiano [...]. Poiché non è nella nostra in-dole un’occupazione o un protettorato italiano specialmente nell’Albania del nord e studiate le ambizioni del Montenegro verso il sud per ricostruire con pia-nura e mare l’antico principato serbo-albanese, l’Italia dovrebbe appoggiare ta-le disegno per la stessa “redenzione degli albanesi”. Ma poiché in tanti si op-pongo a ciò – continuava – occorre preparare il terreno: 1) mediante azione e denaro (gli albanesi furono sempre mercenari all’incanto) del Montenegro sulle tribù della frontiera; 2) dall’Italia, girando a favore del Montenegro la somma delle influenze acquistate coi mezzi sopra indicati e facendo intervenire la flotta costituita dall’elemento albanese d’Italia; 3) lavorare invece per l’idea di princi-pato d’Albania e Montenegro facendo risortire il necessario spostamento della

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capitale da Cetinje a Scutari»57. Così, continuava Baldacci, la più numerosa po-polazione albanese e la sua maggiore ricchezza avrebbero assegnato di fatto a questa componente il primato nel nuovo principato. L’Italia ne avrebbe tratto due vantaggi: si sarebbe assicurata favorevoli trattati di commercio col nuovo Stato e avrebbe trovato lì un vicinissimo sbocco per la propria corrente migra-toria. Per mettere in moto questo processo, spiegava, bisognava intervenire sui Mirditi, che costituivano la più battagliera tribù dei monti, convincendo i turchi a liberarne il principe allora costretto all’esilio. Ma bisognava impedire ogni possesso austriaco, e anche greco, pure nel Sud, in Epiro, dal fiume Skumbi fi-no al golfo di Ambracia. A tal fine occorreva sondare la possibilità che l’Italia giungesse a esercitare lì un suo protettorato grazie alle molte simpatie di cui go-deva. Detto questo, Baldacci avanzava la sua proposta più avventata e intra-prendente: «in qualsiasi maniera si risolvesse il problema d’Epiro l’Italia occu-perebbe e fortificherebbe i principali punti strategici come Saseno, Capo Lin-guetta ed altri che costituiscono la difesa della chiave dell’Adriatico»58. Si trat-tava dunque di trasformare la baia di Valona in una base strategica italiana per il controllo del Canale d’Otranto, della «porta» dell’Adriatico.

Analoghe preoccupazioni turbavano lo stesso Millelire, che instancabilmen-te monitorava la cresceninstancabilmen-te presenza austro-ungarica nel suo vilayet. Ad esem-pio, alla metà del novembre ‘97 informava Visconti Venosta delle nuove nomi-ne consolari austriache: le ritenomi-neva una evidentemente prova della disegno di penetrazione egemonica dell’Austria. E infatti – precisava – un diplomatico au-striaco stava già contattando vari bey della zona alimentandone il malcontento anti-ottomano e garantendo loro la protezione austriaca. Concludeva dunque: «Da tutto quanto ho narrato di sopra parmi fuori di dubbio che l’Austria ha ini-ziato in questi paesi una politica militante»59.

Ancora tre mesi dopo Millelire, sempre da Gannina, tornava su tali argo-menti e sulla situazione politica a Valona. Diceva a Visconti Venosta di avere notizie certe sull’attività del vice console austriaco Petrovich che in quella citta-dina continuava ad alimentare il nazionalismo anti-turco. Ma, poiché a Valona comandava la famiglia filo-italiana dei Vlora – con cui Millelire era in contat-to –, il vice console aveva puntacontat-to su Adem bey, un nemico dei Vlora. Pertancontat-to deduceva: «ormai non v’ha dubbio che l’Austria anche nella bassa Albania ha iniziato una campagna attiva di propaganda e che i suggerimenti dei suoi agenti tendono segretamente a provocare disordini, dei quali naturalmente il Governo austro-ungarico crede di poter profittare, mettendo sul tappeto la questione al-banese [...]. L’Austria cerca con ogni mezzo di acquistare la prevalenza in que-sti paesi, per prepararvi la sua egemonia. Essa già possiede in queque-sti luoghi il maggior commercio, vi esercita, per meglio dire monopolizza, le poste, la pro-tezione della Chiesa Cattolica, e tenta di accaparrarsi l’animo degli albanesi

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musulmani i quali qui costituiscono l’elemento dominante. Avuti questi in ma-no il paese sarà suo perché a nulla servirà l’opposizione della Grecia coi suoi cristiani ellenizzati, i quali non hanno veruna voce in capitolo»60. Si rischiava dunque «di perdere la simpatia, gratuita, che l’Italia qui ha. L’Albania è per noi strategicamente importante dopo l’occupazione di Tunisi e quella

dell’hinter-land di Tripoli [...]. È venuto il momento di fare ciò che fanno i nostri

opposito-ri, sia austriaci che greci, di sviluppare in questi paesi a noi limitrofi e dove an-cor palpita il nome di Venezia, il nostro commercio e la nostra legittima in-fluenza»61.

Se queste erano le opinioni dei rappresentanti italiani in Albania di tutt’altro orientamento apparivano quelle più altolocate, di un Nigra che da Vienna, ad esempio, nel maggio ‘97 aveva smentito, piccato, le accuse del console a Leoni. Anche questi si era lamentato di certe attività di sobillazione delle popolazioni albanesi messe in atto da preti cattolici filo-austriaci62. Nigra pure nei mesi suc-cessivi ridimensionava i rapporti allarmati che giungevano dall’Albania al mi-nistro degli Esteri. Nel febbraio 1898, in piena crisi cretese, continuava a soste-nere: «L’Austria-Ungheria non bada in fondo che ad evitare complicazioni nei Balcani, dove intende che sia mantenuto lo status quo, poiché vede bene, che nello stato deplorevole in cui si trovano le varie parti della Monarchia, ogni complicazione estera può essere nociva ai suoi interessi»63. Anzi, Nigra stesso auspicava una migliore intesa austro-russa proprio per tutelare la pace nei Bal-cani.

L’Italia nel Mediterraneo e nell’Adriatico

Soltanto cinque anni dopo la pubblicazione degli Itinerari albanesi, ma in un sistema di relazioni internazionali, tra le maggiori Potenze e per la stessa Ita-lia, ormai in profondo mutamento, Baldacci, dal suo nuovo osservatorio roma-no di politica coloniale, affrontava nuovamente la questione adriatico-albanese all’interno, stavolta, della geopolitica mediterranea e afro-asiatica. E lo faceva ricorrendo ad un approccio politico-culturale “talassocratico”, molto segnato dai temi della «più grande Italia». Sull’«Italia coloniale» difatti scriveva: «Prendiamo una carta geografica e osserviamo. Non v’è bisogno di speciali ar-gomentazioni per affermare che l’Italia dovrebbe essere nel Mediterraneo la più potente fra le nazioni […]. Per il suo orientamento da mastro a scirocco l’Italia continentale va quasi a toccare la Balcania con la punta della Japigia, insinuan-dosi fra le isole joniche e tendendo con questo braccio all’Arcipelago ed all’E-gitto; quindi con la Calabria e con la Sicilia sente Tunisi e vede la Tripolitania; quindi con la Sardegna e la Corsica si unisce alle due sorelle vicine Francia e

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Spagna. [...] L’Italia ha migliaia di chilometri in sviluppo di coste, le più grandi città ed un’immensa popolazione sul mare; ella sente la sua posizione nel bel mezzo di esso, che divide in due enormi bacini, e deve apprestarsi, per la terza volta, a divenire regina nel suo mare»64.

Il Mediterraneo gli appariva tornato al centro della lotta tra le maggiori Po-tenze per la conquista economica dell’Oriente europeo e dell’Asia minore. Qui dunque bisognava «competere con coraggio in qualsiasi campo d’azione, ove la gloria ed il commercio italiano abbiano una base; e tanto più lo dobbiamo in questo mare, dove oggi più che mai si rivolge l’attività politica e commerciale dell’Europa, perché il Mediterraneo possiede ancora le chiavi del mondo, sia per le vie del Mar Nero, sia per il canale di Suez, sia per lo stretto di Gibilterra. Né soltanto le nazioni o gli Stati marinari mediterranei lottano nel loro mare, [...] è la Germania, non meno dell’Inghilterra, che, da gran tempo e con meno diritto di altri, vi siede. Cominciano ad accampare diritti gli Stati Uniti [...] co-me si può divinare da queste loro moco-mentanee comparse, specialco-mente intorno all’Oriente turco»65.

Nella valutazione della complessiva situazione del Mediterraneo, Baldacci cominciava dalla analisi geografica ed etnografica dell’Austria-Ungheria, che costituiva la più forte concorrente commerciale e militare dell’Italia in Adriati-co: «Lo sviluppo litoraneo dell’Austria-Ungheria – spiegava – appartiene, per la maggior parte, alla Venezia Giulia, poi alla Croazia e quindi alla Dalmazia; si porta cioè dalle spiagge lagunose di Grado all’estrema punta di Spizza nella Dalmazia meridionale, per circa 5000 km., di cui 3400 spettano alle isole, che sono innumerevoli, dal Quarnaro a Ragusa [...]. Rocciosa e frastagliatissima, la costa austro-ungarica è ricca di porti, di rade e di golfi [...]. La Dalmazia si può dire una grande terrazza carsica, che dalle Alpi illiriche scende al mare col suo arido tavolato di calcare, qua e là reso fertile da piccole valli e doline, ove cre-scono gli ulivi, le vigne e i frutti meridionali, abitata da genti distinte, la slava, cioè, la quale oggi va continuamente avanzando dalle campagne nelle città, e la seconda, l’italiana, che è, purtroppo, in continuo regresso numerico. [...] Dopo [...] l’occupazione della Bosnia e dell’Erzegovina nel 1878, l’Austria-Ungheria ha definitivamente segnato il suo posto di battaglia per diventare, nel Mediter-raneo, una potenza marittima di primo ordine: sotto l’impulso energico dei due Governi di Vienna e di Budapest, è sorta così, nella costa orientale dell’Adriati-co, una flotta mercantile e militare considerevolissima per numero e potenza di unità»66.

Impietoso, per la marina commerciale italiana, appariva il confronto con quella austro-ungarica. Baldacci lo descriveva ricorrendo a L’èquilibre

adriati-que del noto antitriplicista Loiseau, del 1901, che confermava le allarmate

ana-lisi dei precedenti studi del nostro geografo: «Le Lloyd de Trieste et

l’Hungaro-64A. BALDACCI, L’Italia nel Mediterraneo e nell’Adriatico, cit., pp- 20-21. 65Ivi, p. 21.

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