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1.1 Dall’approccio settoriale all’approccio integrato. La direttiva IPPC e le

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Capitolo I

APPROCCIO INTEGRATO E RUOLO DELLE BAT

1.1 Dall’approccio settoriale all’approccio integrato. La

direttiva IPPC e le Best Available Techniques come snodo

fondamentale della disciplina

La crescita dell’interesse ambientale in ambito comunitario registratasi a partire dagli anni ’70, è stata affiancata da un’evoluzione nella riflessione sul concetto stesso di ambiente e sugli approcci che il legislatore avrebbe dovuto seguire nel fronteggiare il problema dell’inquinamento. Se in un primo momento è prevalso un approccio di tipo settoriale, tendente a considerare l’ambiente come una sommatoria di diversi recettori tra loro separati e oggetto di distinte normative ad hoc volte a fornire una tutela a posteriori, ben presto questo approccio ha manifestato i suoi limiti.

Col passare degli anni si è giunti alla consapevolezza che l’ambiente costituisce in realtà un sistema unico i cui elementi, strettamente interdipendenti, richiedono una forma di tutela che li consideri complessivamente e possibilmente in un’ottica di prevenzione.

E’ per queste ragioni che, in ambito comunitario, si è affermata la convinzione che la problematica dell’inquinamento vada aggredita non più “a compartimenti stagni”, ma secondo una logica diversa, di insieme; questa nuova visione si è tradotta nel tentativo di superamento dell’approccio frammentato e dei suoi limiti, da

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perseguire attraverso il ricorso all’integrazione o meglio, attraverso un approccio integrato.

Innanzitutto occorre specificare che l’integrazione, in campo ambientale, presenta una duplice accezione, interna ed esterna.

La dimensione esterna dell’approccio integrato riguarda le relazioni trala tutela dell’ambiente da una parte, e le politiche inerenti i più diversi settori che influiscono in qualche modo sullo stesso (economiche, sociali, urbanistiche ecc.) dall’altra, quindi la vocazione dell’interesse ambientale a rapportarsi ad altri interessi1.

Tale principio di integrazione (esterna), in particolare, risulta con chiarezza codificato dall’ordinamento comunitario nell’art. 11 del TFUE il quale afferma in sostanza che qualunque decisione di politicapresa a livello europeo deve necessariamente tenere in considerazione, e dunque in questo senso integrare, il perseguimento della tutela ambientale nell’ottica di favorire lo sviluppo sostenibile. Questo a sua volta, principio ispiratore di tutta la politica europea in materia ambientale, può sinteticamente essere definito come la necessità di garantire uno sviluppo equilibrato e razionale tra crescita economica e protezione dell’ambiente, nel tentativo di conciliare tra loro due aspetti che, presi in maniera assoluta, si escluderebbero invece a vicenda2. Emerge pertanto la stretta relazione di carattere funzionale che lega l’approccio integrato nella sua dimensione esterna al principio dello sviluppo sostenibile.

1 Cfr. S. MAGLIA, Diritto ambientale. Alla luce del D.Lgs. 152/2006 e successive modificazioni, Wolters Kluwer Italia, 2009, p. 192.

2 Cfr. G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011, p. 20, che in riferimento all’ambiente parla di “natura conflittuale, oppositiva rispetto a numerosi altri interessi (inerenti alle attività produttive, ai trasporti, all’energia, etc.)”, mentre “la composizione fra queste diverse polarità è stata individuata nella formula dello sviluppo sostenibile”.

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Venendo invece all’integrazione nella sua dimensione interna, essa evidenzia la necessità, entro i confini della disciplina ambientale, di valutare l’interesse ambientale in tutte le sue componenti all’interno dei processi decisionali riguardanti gli strumenti, le misure e le soluzioni rivolte ad affrontare l’inquinamento e garantire la tutela dell’ambiente.

E’ pertanto questa accezione, dell’integrazione interna come controllo integrato dell’inquinamento, che permette maggiormente di sottolineare le differenti modalità d’azione dell’approccio integrato rispetto all’approccio settoriale.

In breve, rispetto all’approccio frammentato, possiamo dire che quello integrato si preoccupa di conoscere da dove e come vengono generate e dove vanno a finire le sostanze emesse dalle attivitàinquinanti, per poi adottare interventi che ne riducano la quantità e/o la pericolosità, occupandosi in pratica dell’intero ciclo di vita delle sostanze nocive. Tutto ciò, come avremo modo di vedere meglio più avanti, si concretizza in una maggiore attenzione rivolta alla fonte delle emissioni inquinanti, al ruolo delle materie prime utilizzate, nonché alle modalità attraverso cui si perviene a realizzare il prodotto e come tali modalità influiscano notevolmente sulla capacità di inquinare della stessa attività produttiva. In sostanza si attua un recupero degli elementi che l’approccio settoriale trascurava3.

Ora, il quadro evolutivo brevemente delineato rappresenta il presupposto logico per comprendere l’importanza dell’introduzione della Direttiva IPPC nel contesto europeo, nonché soprattutto il ruolo

3 Cfr. V. PAMPANIN, Autorizzazione integrata e regolazione ambientale, Aracne, Roma, 2014, p. 73.

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fondamentale assunto dalle Best Available Techniques (BAT) all’interno di tale disciplina.

Nonostante nel panorama comunitario la consapevolezza dei limiti insiti in una trattazione settoriale della materia ambientale fosse emersa, come detto, già da tempo, l’esigenza di sviluppare un approccio organico si è chiaramente concretizzata solo a partire dalla fine degli anni ‘80, in occasione del quarto Programma d’azione del 1987, ripreso poi anche nel quinto Programma del 1993. Cinque anni dopo l’inizio dei lavori da parte della Commissione, si è giunti finalmente all’emanazione della direttiva 96/61/CE, meglio conosciuta come direttiva IPPC (acronimo di Integrated Pollution and

Prevention Control), concernente la prevenzione e riduzione integrate

dell’inquinamento provocato da determinate categorie di impianti industriali,che potrebbero avere effetti negativi sulla salute dell’uomo e sull’ecosistema4.

La direttiva IPPC vanta indubbiamente un ruolo primario nello scenario della normativa ambientale, avendo accolto per la prima volta sotto molteplici profili quella mutazione radicale del modo di affrontare le tematiche ambientali che ha caratterizzato il diritto comunitario negli ultimi anni:è solo con essa che viene infatti predisposto un sistema di regolazione ambientale in cui sono presenti tutti gli elementi che qualificano quello che puòessere considerato un vero esempio di approccio integrato all’inquinamento.

Per la precisione, la direttiva IPPC presenta rispetto al passato due elementi di grande novità e cioè, da un lato l’obiettivo della

4 Cfr. T. MAROCCO, La direttiva IPPC e il suo recepimento in Italia, in Riv. giur. dell’ambiente, 2004, pp. 35-36.

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prevenzione delle emissioni che si affianca a quello della loro riduzione, come emerge già dall’intestazione, e dall’altro lato il fatto che entrambe le finalitàvengano perseguite in modo integrato.

Per quanto riguarda il primo aspetto, lo scopo della normativa IPPC, relativa all’esercizio di attività produttive inquinanti, è, come indicato all’art. 1 della stessa, quello di predisporre “misure intese a evitare oppure, qualora non sia possibile, a ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel suolo, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso”5.

L’obiettivo di prevenire il fenomeno dell’inquinamento è dunque, già di per sé, un fattore di rilievo, poiché segna il distacco dal tradizionale metodo di tutela ambientale basato sull’abbattimento ex post delle emissioni, cioè sul modello cosiddetto di fine ciclo, che interviene sul trattamento dell’inquinamento solo dopo che questo è stato prodotto, agendo solo alla fine del processo produttivo e limitandosi a imporre l’adozione di misure per l’abbattimento delle emissioni. La direttiva prevede invece che il problema dell’inquinamento venga affrontato a partire dalla fonte e durante tutto il processo produttivo, imponendo fin da subito l’adozione di quelle misure necessarie a evitare o ridurre il formarsi delle emissioni nocive6.

A tal proposito viene in evidenza il considerando n. 2 della direttiva in questione, che richiama i principi in materia ambientale perseguiti dall’Unione europea ex art. 174 del Trattato, volti “a prevenire,ridurre e per quanto possibile, eliminare l’inquinamento intervenendo

5 In base alla formulazione contenuta nel testo della direttiva 2008/1/CE, che, come vedremo successivamente, ha sostituito, abrogandola, la direttiva 96/61/CE.

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innanzitutto alla fonte nonché garantendo una gestione accorta delle risorse naturali, nel rispetto del principio “chi inquina paga” e del “principio di prevenzione”. Tale considerando assume dunque un’importanza particolare, dal momento che rappresenta una disposizione da cui si possono ricavare diretti collegamenti ai principi fondamentali della politica ambientale europea e dunque è possibile ricondurre ad essi finalità ed obiettivi dell’intera disciplina IPPC. Tra questi principi, quello del “chi inquina paga”, quello di prevenzione, così come seppur sottointesi ma ricavabili dalla dicitura, quello dello sviluppo sostenibile e quello di correzione alla fonte.

Il secondo aspetto innovativo, che come più volte detto costituisce la vera caratteristica della direttiva IPPC, è il raggiungimento del suddetto obiettivo (prevenzione e riduzione delle emissioni inquinanti) mediante l’adozione di un approccio integrato, concetto questo ricavabile da numerosi considerando: tra questi possiamo citare il n. 3, che ricorda come “l’attuazione di un approccio integrato per ridurre l’inquinamento richiede un’azione a livello comunitario”; il n. 8, che invece chiarisce come “lo scopo di un approccio integrato della riduzione dell’inquinamento è la prevenzione delle emissioni nell’aria, nell’acqua e nel terreno, tenendo conto della gestione dei rifiuti ogniqualvolta possibile e, altrimenti, la loro riduzione al minimo per raggiungere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso”; ancora, il n. 15 che, pur non utilizzando l’espressione “approccio integrato”, sottintende il concetto quando parla di “misure globali di protezione ambientale relative all’aria, all’acqua e al terreno”. Detto questo,come più volte ripetuto, nell’attuazione di tale approccio integrato, la direttiva IPPC rappresenta un atto totalmente innovativo

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poiché un unicum, nel panorama della regolazione ambientale fino a quel momento conosciuto, è il meccanismo di regolazione che essa adotta.

Rimandando ai paragrafi successivi un’analisi più puntuale della disciplina e delle definizioni esatte degli istituti in esame, ci basti al momento sapere quanto segue.

Dal considerando numero 5 della direttiva emerge la scelta di adottare una “disciplina generale che impone un’autorizzazione prima che un impianto industriale entri in funzione o sia sottoposto a modifiche sostanziali, in grado di provocare inquinamento”.

I considerando numeri 17 e 18 chiariscono poi rispettivamente che tale autorizzazione “dovrebbe comprendere tutte le misure necessarie per soddisfare le condizioni di autorizzazione, onde raggiungere un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso” e che le condizioni consistenti in “valori limite di emissione, parametri o misure tecniche equivalenti dovrebbero basarsi sulle migliori tecniche disponibili”.

In sostanza, il modello di regolazione predisposto dalla disciplina IPPC si basa sul rilascio di un’autorizzazione, ad opera delle autorità competenti, che impone al singolo impianto in particolare dei valori limite di emissione, fissati per sostanze inquinanti che possono risultare emesse in quantità significativa dall’impianto interessato. Tali valori, peraltro, non sono predeterminati a livello normativo, come solitamente avveniva nelle precedenti normative ambientali, ma secondo quanto disposto dall’art. 9, comma 4, rubricato “condizioni dell’autorizzazione” devono basarsi “sulle migliori tecniche disponibili, senza l’obbligo di utilizzare una tecnica o una tecnologia specifica,

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tenendo conto delle caratteristiche tecniche dell’ impianto in questione, della sua ubicazione geografica e delle condizioni locali dell’ambiente”. La disposizione rimanda dunque al concetto di migliore tecnica disponibile (MTD) o best available techniques (BAT) secondo la dicitura inglese, che, ai sensi dell’art. 2 della direttiva, viene definita come “la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire, in linea di massima, la base dei valori limite di emissione […]”.

Inoltre l’art. 6 prevede che tra le informazioni rese dal gestore dell’impianto all’autorità competente per ottenere il rilascio dell’autorizzazione vi siano una serie di indicazioni quali la descrizione delle materie prime e secondarie, delle sostanze e dell’energia usate o prodotte, dello stato del sito di ubicazione dell’impianto.

La valutazione di compatibilità ambientale, prevista dalla direttiva IPPC quale requisito per il rilascio dell’autorizzazione a svolgere determinate attività inquinanti, determina quindi il sostanziale superamento dell’approccio settoriale a favore dell’approccio integrato: mentre infatti in passato il controllo delle emissioni avveniva in riferimento ad ogni singolo mezzo di diffusione delle sostanze inquinanti, il nuovo approccio introdotto dalla direttiva comporta la necessità di un controllo che si riferisca a tutti gli elementi in un'unica valutazione complessiva, che permette di evitare il fenomeno del trasferimento di inquinanti da un recettore ad un altro. Tale valutazione, oltre ad essere unitaria ed organica, tiene altresì conto di elementi che venivano solitamente trascurati dall’approccio settoriale e

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“di fine ciclo” tra cui le materie prime utilizzate ed anche le modalità attraverso cui si realizza il prodotto.

Riassumendo si può anche dire, secondo un’efficace sintesi, che la disciplina IPPC “non si accontenta delle consuete forme di controllo, a valle del ciclo produttivo, disarticolate per tipi di emissione (atmosferiche, idriche, nel suolo, rumori, rifiuti, ecc.) separatamente condotte […] bensì allarga l’attenzione alle caratteristiche del processo industriale, al dispendio energetico, al consumo diretto ed indiretto di risorse naturali e di materie prime, alla produzione ed al ricircolo dei rifiuti, alle interazioni tra le varie specie di inquinamento ed al loro influsso complessivo sulle componenti ecosistemiche”7.

Alla luce di questo quadro, possiamo affermare che l’elemento della disciplina comunitaria che costituisce il fulcro della nuova impostazione fondata sull’approccio integrato è da rinvenirsi proprio nel parametro delle migliori tecniche disponibili (MTD), trovando tale approccio attuazione nel momento in cui si determinano i valori limite delle emissioni inquinanti, in considerazione di tutti gli effetti prodotti dall’attività sull’ambiente visto nel suo complesso.

1.3 La nuova direttiva IED

La direttiva 96/61/CE è stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2008/1/CE (del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 gennaio 2008) che, pur avendo mantenuto l’impianto originario della

7 In questi termini si esprime M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 386-387.

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normativa, l’ha aggiornata alle numerose modifiche intervenute nel corso degli anni nella legislazione ambientale di settore. Tale direttiva rappresenta pertanto il testo consolidato della disciplina IPPC8.

La materia delle emissioni inquinanti ha tuttavia subito un ulteriore intervento normativo di modifica, molto più incisivo, con l’adozione il 24 novembre 2010, da parte del Parlamento europeo e del Consiglio europeo, della direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali, meglio nota come Industrial Emission Directive (IED). Attraverso tale intervento il legislatore ha realizzato la rifusione in un unico testo normativo di ben sette direttive riguardanti il problema delle emissioni prodotte da impianti industriali, che, anche se riferite a specifici settori, presentavano aspetti sovrapposti, tra cui per l’appunto la sopracitata direttiva 2008/1/CE9. La volontà, espressa in ambito

comunitario già da alcuni anni era infatti quella di procedere ad una unificazione della materia nonché ad una chiarificazione in un contesto eccessivamente complesso. La nuova direttiva IED, tuttavia, non si limita a compiere un’opera di riunificazione e semplificazione della normativa ambientale di origine comunitaria in materia di emissioni inquinanti ma, per quel che a noi interessa, introduce novità importantissime nell’ambito della disciplina IPPC, il cui testo, come

8 La direttiva 96/61/CE è stata modificata più precisamente dalla direttiva 2003/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 maggio 2003 (che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in material ambientale); dalla direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 2003 (che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas a effetto serra nella Comunità); dal regolamento (CE) n. 166/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 gennaio 2006 (relative all’istituzione di un registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti).

9 Le altre direttive interessate da tale rifusione sono, in particolare, la direttiva 2001/80/CE sugli inquinanti originate dai grandi impianti di combustione, le tre direttive 78/176/CEE, 82/883/CEE e 92/112/CE e relative ai rifiuti provenienti dall’industria del biossido di titano, la direttiva 1999/13/CE sui componenti organici volatili e la direttiva 2000/76/CE sull’incenerimento dei rifiuti.

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ripeto, dettato da ultimo nella direttiva 2008/1/CE, viene modificato in numerose sue disposizioni10.

Pur essendo entrata formalmente in vigore nel 2011, la nuova normativa ha esercitato peraltro il suo effetto abrogativo sulla disciplina IPPC solo a tre anni di distanza, a partire dunque dal 2014; ciò ha determinato a sua volta, seppur per un breve periodo, la convivenza di norme aventi ad oggetto la medesima materia11.

La direttiva IED, per quanto concerne l’oggetto e le finalità della disciplina, non presenta sostanziali novità rispetto a quanto abbiamo già visto in precedenza per la direttiva IPPC.

Con una formulazione che ripropone in modo pressoché immutato il testo dell’art. 1 della direttiva 2008/1/CE, l’art. 1, comma 1, del Capo I (dedicato ad alcune brevi disposizioni comuni alle discipline delle direttive refuse12) precisa che “La […] direttiva stabilisce norme riguardanti la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento proveniente da attività industriali’’, per poi chiarire che la finalità delle norme indicate è quella di “evitare oppure, qualora non sia possibile, ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel terreno e ad impedire la produzione di rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso”.

10 Il considerando n. 46 della direttiva 2010/75/UE chiarisce che “L’obbligo di attuare la presente direttiva nel diritto nazionale dovrebbe limitarsi alle disposizioni che rappresentano un cambiamento sostanziale rispetto alle direttive precedenti. L’obbligo di attuare le disposizionirimaste immutate nella sostanza discende dalle direttive precedenti”. 11 Ciò in particolare si ricava dall’art. 81 della direttiva IED, in tema di abrogazione,che dispone per le direttive interessate dall’intervento di rifusione l’abrogazione “con effetto dal 7 gennaio 2014, salvi gli obblighi degli Stati membri per quanto riguarda i termini di attuazione nel diritto nazionale” e dall’art. 83, che disciplina invece l’entrata in vigore della direttiva, fissandone il termine al ventesimo giorno successive alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea e cioè al 7 gennaio 2011.

12 Nei capi da II a IVsono confluite le disposizioni relative alle discipline contenute nelle diverse direttive e, in particolare , per quel che più ci interessa, è il capo II ad essere dedicato alla disciplina precedentemente enunciata nella direttiva IPPC.

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Anche dalla lettura di alcuni considerando della direttiva è agevole notare come vengano ribaditi finalità e principi già alla base della precedente disciplina e di cui abbiamo ampiamente trattato. In particolare, il

considerando n. 2 richiama il principio cardine della normativa

ambientale comunitaria della “prevenzione dell’inquinamento attraverso interventi alla fonte” la dove afferma che “occorre intervenire innanzitutto alla fonte, nonché garantire una gestione accorta delle risorse naturali e tenere presente, se del caso, la situazione socio economica e le specifiche caratteristiche locali del sito in cui si svolge l’attività industriale”.

Così, alla pari dell’art. 1, comma 1, sopra citato, il considerando n. 3 della direttiva ribadisce la necessità di un approccio integrato la dove afferma che “approcci distinti nel controllo delle emissioni nell’atmosfera, nelle acque o nel terreno possono incoraggiare il trasferimento dell’inquinamento da una matrice ambientale all’altra anziché proteggere l’ambiente nel suo complesso. E’ pertanto appropriato assicurare un approccio integrato alla prevenzione e alla riduzione delle emissioni nell’aria, nell’acqua e nel terreno, alla gestione dei rifiuti, all’efficienza energetica e alla prevenzione degli incidenti…”.

In sostanza, ripeto, quanto evidenziato nei precedenti paragrafi per la direttiva IPPC è altresì alla base della nuova direttiva IED ed è così sintetizzabile: necessità di formulare prescrizioni autorizzative che, incidendo direttamente sul processo produttivo, abbiano come scopo la riduzione della produzione dell’inquinamento; necessità di utilizzare un approccio integrato nella valutazione dell’impatto ambientale dell’impianto industriale, considerando gli effetti incrociati (cross-media

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13 effects) derivanti dall’utilizzo di specifiche tecniche; necessità di

formulare prescrizioni che consentano di garantire la gestione oculata delle risorse naturali; necessità di valutare, nell’ambito della genesi del corpo prescrittivo, le condizioni locali che consentano di garantire un’efficace protezione dell’ambiente nel suo complesso13.

Detto ciò, la Direttiva 2010/75/UE interviene semmai, come vedremo, per rafforzare e intensificare gli strumenti adibiti al raggiungimento degli obiettivi suddetti e per garantire una maggiore omogeneizzazione nell’Unione della stessa disciplina IPPC e parità di trattamento per le diverse realtà industriali dei vari paesi dell’ Unione. In particolare essa:

- prevede un ambito di applicazione più esteso della disciplina;

- implementa i sistemi di monitoraggio e controllo sulle installazioni in esercizio;

- rafforza l’istituto dell’autorizzazione integrata ambientale;

e per quel che maggiormente interessa ai fini della nostra trattazione: - rafforza, migliora e chiarisce il concetto e l’applicazione delle BAT, e di altri istituti ad esse correlati.

In particolare, le definizioni di “BREF’’, le “Conclusioni sulle BAT’’ e le relative procedure di formazione ma anche e soprattutto l’individuazione di precisi obblighi e limiti nella fissazione delle condizioni autorizzative da parte delle autorità competenti e, in questo senso, l’efficacia più stringente attribuita alle BAT rispetto alla

13 Cfr. A. PINI, N. SANTILLI, La direttiva IED 2010/75/UE. Il nuovo ruolo dei Documenti

di riferimento sulle BAT nell’ambito delle Autorizzazioni Integrate Ambientali, 2012, reperibile in www.industrieambiente.it, p. 3 e ss.

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previgente disciplina IPPC, rappresentano le vere novità normative della Direttiva IED14.

Come costituiscono il fulcro dell’intero sistema predisposto dalla direttiva IPPC, le Best Available Techniques, oggetto di questo lavoro, non possono dunque che costituire altresì la chiave di volta della disciplina contenuta nella Direttiva IED, da cui escono, anzi, come già ripetutamente detto, rinvigorite.

Al fine pertanto di meglio comprendere l’istituto in esame, i relativi documenti di riferimento, il ruolo assunto da entrambi e la loro evoluzione nel panorama comunitario, nel corso della trattazione, sembra preferibile mantenere come riferimento la disciplina consolidata (pressoché, come detto, fino al 2014) finora espressa dalla Direttiva IPPC nella sua versione più aggiornata del 2008, per poi evidenziare di volta in volta le singole disposizioni sostituite o integrate dalla Direttiva IED del 201015.

1.3 L’ambito di applicazione della disciplina e il fattore

economico

Prima di procedere ad una definizione più puntuale delle Best Available

Techniques pare opportuno soffermarsi sull’ambito di applicazione della

disciplina in esame, tema che ci permette altresì di richiamare un altro

14 Cfr. M. A. LABARILE, Autorizzazione Integrata Ambientale, come cambia il ruolo delle BAT

(Best Available Techniques), in Riv. giur. dell’ambiente, 2013, 1, p. 3.

15 In questo modo sarà possibilecomprendere meglio le ragioni e le esigenze che hanno condotto il legislatore europeo ad aggiornare e modificare la disciplina fondamentale in materia di emissioni inquinanti e quanto incisivo sia effettivamente l’intervento della Direttiva IED.

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argomento fondamentale ai fini della trattazione, ossia la tutela dell’iniziativa economica, tema che si interseca significativamente con quello della tutela ambientale e che con questo informa di se tutta la disciplina in esame.

Per quanto dunque attiene ai destinatari della disciplina, l’art. 2, comma 1, della direttiva 2010/75/UE, si limita a prevedere che la stessa “si applica alle attività industriali che causano inquinamento di cui ai capi da II a VI”, rinviando così sostanzialmente alle indicazioni delle singole discipline specifiche contenute in ciascun capo, nonché, per quanto ci interessa, all’art. 10 (primo articolo del capo II, nel quale, ricordiamo, è confluita la disciplina IPPC) dove si prevede che “il presente capo si applica a tutte le attività elencate nell’allegato I e che, se del caso, raggiungono i valori di soglia di capacità fissati nello stesso allegato”. Il punto 1 dell’allegato innanzitutto chiarisce che i criteri in base ai quali vengono individuati i valori soglia, superati i quali le attività inquinanti rientrano nella disciplina IPPC, sono la capacità di produzione o la resa dell’impianto. Come già per la direttiva IPPC, in entrambe le sue versioni del 1996 e del 2008, la nuova disciplina contiene dunque una lista di attività inquinanti suddivise per tipologia, che si riferiscono ad impianti aventi un determinato livello di produzione o di resa specifiche ossia che abbiano superato uno specifico valore soglia di riferimento per quella determinata attività16.

Al comma 2 la direttiva afferma poi che la disciplina “non si applica alle attività di ricerca, alle attività di sviluppo o alla sperimentazione di

16 Le diverse attività che formano oggetto di applicazionedella disciplina sono suddivise in sei settori principali, a loro volta suddivisi in categorie più specifiche. Questi settori sono: 1. Attività energetiche; 2. Produzione e trasformazione dei metalli; 3. Industria dei prodotti minerali; 4. Industria chimica; 5. Gestione dei rifiuti; 6. Altre attività.

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nuovi prodotti e processi”. Anche sotto questo profilo il campo di applicazione della normativa rimane invariato sostanzialmente rispetto alla direttiva 96/61/CE se non per una differenza di formulazione. Dalla lettura di entrambe le indicazioni è possibile perciò ricavare che risultano esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva IED (come da quella IPPC) sia gli impianti che, indipendentemente dal livello di inquinamento che producono, sono destinati alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti/processi, sia quelli che non raggiungono livelli di produzione e resa particolarmente “significativi”.

Sin dal momento della definizione del campo di applicazione della disciplina, entra quindi direttamente in gioco il fattore economico, orientando così fin dall’inizio tutta la normativa verso una particolare attenzione per la tutela dell’iniziativa economica, secondo l’impostazione propria del principio dello sviluppo sostenibile cui abbiamo già fatto riferimento nel primo paragrafo, parlando del concetto di integrazione nella sua accezione esterna; principio, quello dello sviluppo sostenibile, che non subordina in sé e per sé lo sviluppo economico alle esigenze di tutela ambientale dando loro valenza assoluta, ma ricerca il contemperamento tra le esigenze di protezione dell’ambiente e quelle dello sviluppo economico e dell’iniziativa privata.

In questo senso le esclusioni di cui sopra dall’ambito di applicazione della disciplina in esame risultano perfettamente coerenti con gli obiettivi insiti nel concetto di sviluppo sostenibile. Da un lato infatti, è evidente il tentativo di non limitare l’innovazione, lo sviluppo tecnologico e tutte le attività a ciò finalizzate, poiché fattori fondamentali per lo sviluppo economico dell’ Unione: sottoporre

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questi impianti destinati allo sviluppo di nuovi prodotti e processi ad una disciplina che si propone di prevenire e ridurre emissioni pericolose per l’ambiente rischierebbe infatti di pregiudicare queste attività. Dall’altro lato, per lo stesso motivo, vi è l’esigenza di non gravare le attività economiche con costi eccessivi dovuti all’assunzione di misure anti-inquinamento: anche per questo (e non certo solo per il minor impatto inquinante da essi esercitato), la direttiva non si applica ad impianti a produzione o resa ridotta che non riuscirebbero a sostenere i costi legati alle tecnologie richieste dal parametro della migliore tecnica disponibile17.

Fatto questo breve riferimento al rilievo che il tema economico assume e che, ripeto, ricorrerà, essendo sotteso all’oggetto della tesi, occorre richiamare altre disposizioni per ottenere una completa individuazione dell’area di intervento della disciplina sulla prevenzione integrata delle emissioni industriali. Tali disposizioni, pur non essendo formalmente dirette a delimitare l’ambito applicativo della normativa, finiscono per incidere su di essa, soprattutto per quanto riguarda la sua concreta applicazione: si tratta della distinzione tra impianti esistenti, impianti nuovi e modifiche sostanziali.

La direttiva IED regola solo le due ultime ipotesi (all’art. 5), cioè quella del rilascio dell’autorizzazione in caso di nuovi impianti o di modifiche sostanziali di impianti già realizzati, non essendo stata ripresa la disposizione relativa agli impianti esistenti, prima oggetto di specifica previsione nel testo della direttiva IPPC sia nella iniziale formulazione entrata in vigore nel 1996, sia in quella poi codificata

17 Cfr. V. PAMPANIN, Autorizzazione Integrata e regolazione ambientale, Aracne, Roma, 2014, pp. 112-113.

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nella direttiva 2008/1/CE18. Ciò chiaramente perché nel momento di

entrata in vigore della direttiva IED tutti gli impianti definiti come esistenti ai sensi della direttiva 2008/1/CE dovrebbero infatti aver già ottenuto un’autorizzazioneil cui contenuto soddisfi i requisiti previsti. La disciplina attuale conosce quindi solo due tipologie di impianti, denominati oggi peraltro installazioni: quella degli impianti nuovi, la cui individuazione è operata per difetto/differenza rispetto a quella degli impianti esistenti, e quella degli impianti sottoposti a modifiche sostanziali.

Secondo la definizione resa dall’art. 3, n. 9, si ha una “modifica sostanziale” di un’installazione o di un impiantoin presenza di una modifica delle relative caratteristiche o del suo funzionamento ovvero di un potenziamento che potrebbero avere effetti negativi e significativi per la salute umana o per l’ambiente. Sempre in materia di modifica delle installazioni da parte dei gestori, l’art. 20, comma 3, chiarisce che le modifiche riguardanti la natura, il funzionamento o gli ampliamenti dell’installazione sono ritenute sostanziali se di per sé raggiungono le soglie di cui all’allegato I.

Questa fattispecie viene così sostanzialmente equiparata dalla normativa all’autorizzazione di un impianto di nuova realizzazione. L’aspetto appena affrontato si presenta dunque rilevante perché contribuisce a delineare il concreto ambito di applicazione della disciplina. Fin dal momento della sua entrata in vigore, la direttiva

18 Ai sensi della direttiva 2008/1/CE si aveva un “impianto esistente” in presenza di “un impianto che al 30 ottobre 1999, nell’ ambito della legislazione vigente anteriormente a tale data, era in funzione o era autorizzato o che avesse costituito oggetto, a giudizio dell’autorità competente, di una richiesta di autorizzazione complete, purché sia poi entrato in funzione non oltre il 30 ottobre 2000”. La normativa distingueva poi agli articoli 4 e 5, tra autorizzazione degli impianti esistenti e autorizzazione di nuovi impianti.

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IPPC, è infatti risultata operativa non solo per gli impianti ancora da realizzare, ma anche per tutti gli impianti all’epoca già esistenti, che rappresentavano in quella fase la maggioranza e dunque finivano per essere i principali destinatari della normativa. Ad oggi invece mantiene un ruolo fondamentale la norma che, come visto, regola le ipotesi di modifica sostanziale degli impianti, perché strettamente connessa alla natura evolutiva dell’inquinamento. Come vedremo in seguito, la modifica sostanziale è infatti una delle ipotesi di necessaria revisione delle condizioni di autorizzazione all’esercizio dell’attività inquinante; revisione che sottintende la volontà di bilanciare, ancora una volta, l’esigenza di garantire la massima applicazione delle disposizioni anti-inquinamento con le esigenze di assicurare comunque l’esercizio dell’iniziativa economica, esigenze che possono portare ad un aumento della capacità produttiva o comunque a cambiamenti nell’impianto19.

L’importanza di tali disposizioni riguardanti l’ambito di applicazione della disciplina si è manifestata in modo evidente nelle vicende riguardanti il processo di recepimento della direttiva IPPC in Italia, avvenuto in due fasi distinte, di cui tratteremo tuttavia nel secondo capitolo, a proposito della normativa nazionale in materia.

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1.5 La definizione di Best Available Techniques nella

disciplina IPPC e i precedenti nel panorama comunitario

Il modello di regolazione predisposto dalla disciplina IPPC, come abbiamo già detto nel paragrafo 2, è fondato sul rilascio di un’autorizzazione che impone all’impianto dei valori limite di emissione, non predeterminati a livello normativo ma stabiliti caso per caso a partire dalla individuazione e applicazione del parametro della cosiddetta miglior tecnica disponibile20.

Prima di passare ad una puntuale definizione, va osservato che il concetto di Best Available Techniques non rappresenta un’assoluta novità nel panorama della normativa ambientale europea, prima dell’avvento della direttiva IPPC.

Per quanto riguarda le normative di tutela ambientale europee che hanno preceduto la disciplina IPPC giova ad esempio ricordare la direttiva 84/360/CEE del 28 giugno 1984 concernente la lotta contro l’inquinamento atmosferico provocato dagli impianti industriali, il cui art. 4 prevede che l’autorizzazione sia rilasciata soltanto quando “1. siano state prese tutte le misure appropriate di prevenzione dell’inquinamento atmosferico compresa l’utilizzazione della migliore tecnologia disponibile; […] 3. non vengano superati i valori limite di emissione applicabili”.

Si tratta per altro di un concetto che ricorre anche in ulteriori documenti normativi comunitari. Così la direttiva 89/369/CEE del

20 In virtù della corrispondenza tra Best Available Techniques (BAT) secondo la terminologia comunitaria e migliori tecniche disponibili (M.T.D.) in quella nazionale nel corso della successiva trattazione si farà indifferentemente ricorso ai due acronimi per indicare lo stesso concetto.

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Consiglio 8 giugno 1989 (concernente la prevenzione

dell’inquinamento atmosferico provocato dai nuovi impianti di incenerimento dei rifiuti urbani) all’art. 3, comma 4, stabilisce che “Le autorità competenti, tenendo conto della composizione dei rifiuti da incenerire fissano limiti di emissione […]. Per la fissazione di tali valori limite di emissione, le autorità tengono conto dei potenziali effetti nocivi dei suddetti inquinanti sulla salute umana e sull’ambiente nonché della migliore tecnologia disponibile che non comporti costi eccessivi”.

A sua volta, poi, il regolamento 1836/93 del Consiglio del 29 giugno 1993 (sull’adesione volontaria delle imprese del settore industriale ad un sistema comunitario di ecogestione e audit) all’art. 3, lettera a), richiede all’impresa di “provvedere […] in vista della riduzione delle incidenze ambientali a livelli che non oltrepassino quelli che corrispondono all’applicazione economicamente praticabile della migliore tecnologia disponibile”.

Ciò induce due riflessioni. In primo luogo, va sottolineatoche in tutte le normative ora richiamate manca anzitutto una definizione di cosa sia una Best Available Technique, nozione quindi solo evocata nelle diverse disposizioni,senza che sia possibile delinearne con certezza significato e portata. Per avere una definizione si dovrà fare riferimento alle normative dei singoli Stati membri e, in particolare, per quanto riguarda il nostro ordinamento, al D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, recante norme in materia di “qualità dell’aria in relazione a specifici agenti inquinanti e in materia di inquinamento prodotto dagli impianti industriali”, che all’art. 2, punto 7, individua le migliori tecniche disponibili come “il sistema tecnologico adeguatamente

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verificato e sperimentato che consente il contenimento e/o la riduzione delle emissioni a livelli accettabili per la protezione della salute e dell’ambiente, sempre che l’applicazione di tali misure non comporti costi eccessivi”. Sembra emergere l’idea che la migliore tecnologia sia riferita sostanzialmente a misure di riduzione delle emissioni che intervengono a fine ciclo, secondo cioè un approccio ex

post rispetto alla produzione delle sostanze nocive che vengono emesse

nell’ambiente.

In secondo luogo, sembra non sussistere una reale connessione tra BAT e valori limite di emissione; ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda la Direttiva 84/360/CEE, dove imposizione di valori limite di emissione e adozione della migliore tecnologia sembrano costituire condizioni distinte per il rilascio dell’autorizzazione agli impianti. E anche quando una connessione sembra sussistere, come nella Direttiva 89/369/CEE, secondo cui le autorità, nel fissare i valori limite di emissione, devono “tener conto” della miglior tecnologia disponibile che non comporti costi eccessivi, mancano ugualmente elementi per capire come il parametro delle M.T.D. debba essere applicato.

Più in generale occorre infatti tener conto che i sistemi di contrasto all’inquinamento erano essenzialmente basati sul rispetto di valori fissati dagli standard e dunque in tale contesto l’applicazione della miglior tecnologia disponibile sembrava un aspetto accessorio ed eventuale: rappresentava cioè solo una delle possibili “misure” per prevenire l’emissione delle sostanze inquinanti nell’ambiente, ma certo

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non giocava un ruolo chiave nel rilascio dell’autorizzazione ambientale, che non era infatti subordinata alla sua applicazione21.

Un cenno particolare merita invece, scendendo nelle normative di carattere nazionale, l’esperienza del Regno Unito, il quale vanta una lunga tradizione in materia di legislazione ambientale. Per quanto ci interessa,in particolare, un momento di rilievo si è avuto nel 1976, anno in cui la Royal Commission on Enviromental Pollution (RCEP), raccomandava di istituire un controllo integrato dell’inquinamento, raccomandazione peraltro ripresa in considerazione solo a partire dagli anni ‘80, a seguito della pressione esercitata dalla Commissione europea, che in quel periodo aveva predisposto l’adozione di due direttive (nel 1984 e nel 1988) dedicate rispettivamente all’inquinamento atmosferico degli impianti industriali e alle sostanze inquinanti emesse nell’aria da grandi impianti di combustione.

Il governo inglese, sebbene queste direttive non imponessero agli Stati forme di integrazione ambientale, ha colto l’occasione offerta dal recepimento della normativa per riformare la propria disciplina in materia di inquinamento industriale. Con l’approvazione della legge generale Environmental Protection Act (EPA) del 1990, il Regno Unito può ben essere annoverato tra i primi Paesi ad aver introdotto e dato attuazione, nell’ambito del proprio ordinamento, a principi e modelli successivamente elaborati dalla direttiva IPPC. In particolare l’EPA, entrata in vigore nel 1991, introdurrà un sistema di controllo integrato degli inquinamenti (Integrated Pollution Control o IPC) basato sull’obbligo di ottenere un’autorizzazione per avviare qualsiasi tipo di processo

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produttivo previsto dalla normativa, e caratterizzato dalla presenza di due elementi fondamentali:

a) da un lato, l’imposizione dell’applicazione della migliore tecnologia disponibile che non comporti un costo eccessivo (Best Available Techniques Not Entailing Excessive Cost - BATNEEC) al fine di prevenire, ridurre e rendere innocue le emissioni delle sostanze inquinanti nel rispetto di determinati standard di qualità ambientale;

b) dall’altro lato, l’introduzione del concetto di migliore opzione ambientale praticabile (“the Best Practicable Enviromental Option” - BPEO) come linea guida generale per l’individuazione della BATNEEC da applicare, qualora l’attività inquinante oggetto di autorizzazione sia tale da rilasciare sostanze in più di un recettore ambientale. Anticipando il metodo di valutazione proprio della disciplina IPPC, il concetto di BPEO richiedeinfatti di ricercare la soluzione tecnica migliore, quella cioè che può comportare complessivamente il danno minimo per l’ambiente, considerando tutte le emissioni provenienti da un processo produttivo e tutti gli effetti ambientali22.

Il Regno Unito, con il sistema IPC, è stato pertanto il primo Paese ad aver introdotto e dato attuazione ad un’autorizzazione basata sul concetto di BATNEEC che tiene altresì in conto la valutazione delle sostanze inquinanti rilasciate dal processo con il metodo BPEO. Che il concetto di BATNEEC sostanzialmente non sia altro che un’anticipazione del concetto di BAT contenuto nella direttiva IPPC è

22 Cfr. M. LAFERGOLA, Procedimenti IPPC nell’Unione Europea: assetto organizzativo e

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peraltro confermato dal Pollution Prevention and Control Act (PPC) che nel 1999 ha modificato la disciplina IPC, nel rendere operante la direttiva 96/61/CE nel Regno Unito. Infatti i concetti del BPEO e del BATNEEC sono stati chiaramente rimpiazzati nel PPC dal concetto di BAT23.

Se si esclude tuttavia il modello inglese appena citato, nel panorama della regolazione ambientale del tempo la direttiva IPPC rappresenta una totale novità poiché da una parte mette in stretto rapporto la fissazione di valori limite con il canone della migliore tecnologia disponibile e dall’altra parte, rispetto a quest’ultimo elemento, propone un concetto nuovo e rivisitato alla luce dell’approccio integrato. È solo con la direttiva 96/61/CE che il concetto di BAT infatti viene meglio formalizzato e definitivamente consolidato a livello europeo, colmando le lacune nelle definizioni che caratterizzavano le precedenti normative e, soprattutto, attribuendo a questo parametro, come più volte ribadito, il ruolo di fulcro attorno a cui costruire l’intero sistema di regolazione della disciplina ambientale.

La direttiva prevede che l’autorizzazione debba stabilire valori limite per le sostanze inquinanti, in particolare quelle elencate nell’Allegato III (art. 9, comma 3) e inoltre che tali valori limite di emissione si basino sulle migliori tecniche disponibili, senza l’obbligo di usare una tecnica o una tecnologia specifica (art. 9, comma 4).

Tale connessione tra valori limite di emissione e BAT èstato mantenuto invariato dalla Direttiva IED: l’art. 15, comma 2, di quest’ultima prevede infatti che: “Fatto salvo l’art. 18, i valori limite di emissione, i parametri e le misure tecniche equivalenti di cui all’art. 14,

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paragrafi 1 e 2, si basano sulle migliori tecniche disponibili, senza l’obbligo di utilizzare una tecnica o una tecnologia specifica”.

La direttiva IPPC ricorre dunque per la prima volta alla nuova espressione “Best Available Techniques” (Migliori Tecniche Disponibili) che, all’art. 2, comma 11, secondo una definizione ripresa esattamente dalla nuova direttiva IED, all’art. 3, comma 10, individua come: “la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire, in linea di massima, la base dei valori limite di emissione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impossibile, a ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso”. Laddove, segnatamente:

a) “tecniche” (techniques) afferisce sia alle tecniche impiegate sia alle modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto;

b) ‘‘disponibili” (available) qualifica le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l’applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente valide nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte nello Stato membro di cui si tratta, purché il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli; c) ‘‘migliori”(best) qualifica le tecniche più efficaci per ottenere un

elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso24.

24 La definizione cambia nella direttiva 2010/75/UE solo per quanto riguarda il termine “impianto”, sostituito ora da “installazione”.

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Da questa definizione, che risulta articolata e ricca di contenuti, rispetto al concetto di miglior tecnologia disponibile prima utilizzata nel panorama europeo, si possono pertanto enucleare quegli elementi che contribuiscono a spiegare come la direttiva IPPC abbia rivoluzionato, tramite il nuovo concetto di migliori tecnologie disponibili, il modo di intervenire nella regolazione ambientale.

Innanzitutto si tratta della relazione necessaria che si instaura tra le tecniche e i valori limite di emissione, sancita dall’art. 9, comma 4 (disciplina IPPC), per cui le prime sono base di riferimento dei secondi; relazione che si configura come intrinseca allo stesso concetto di MTD e non più alternativa come sembrava emergere dalle precedenti direttive.

Gli altri profili di rilievo, come ripetutamente osservato, sono rappresentati dalla finalità preventiva, e non solo “contenitiva”, assunta dalle migliori tecniche rispetto alle emissioni inquinanti nonché dal contesto di riferimento, non più un solo recettore ambientale ma l’intero ambiente; aspetti che richiamano il principio di prevenzione e all’approccio integrato della tutela ambientale. Osservazioni, queste ultime, che si ricavano chiaramente dalle definizioni di “tecniche” (termine che ha sostituito quello di “tecnologia”) e di “migliori” su riportate25.

L’uso del termine “tecniche’’ per indicare un insieme di modalità (costruzione, manutenzione, esercizio, etc. degli impianti) segnala il passaggio ad una visione complessiva del fenomeno inquinamento, che si vuole affrontare non più solo ex post bensì ex ante, intervenendo a monte durante le singole fasi del procedimento di formazione

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dell’emissione, usando le tecniche “migliori”, intese come quelle più efficaci per ottenere un livello elevato di protezione dell’ambiente “nel suo complesso”. Il tutto senza peraltro trascurare l’iniziativa economica, tutelata dal riferimento al termine “disponibili”, come avremo modo di approfondire nel capitolo successivo.

Ciò che si ricava dalla lettura complessiva di queste definizioni è dunque che il concetto di BAT si rivela strettamente funzionale alla realizzazione di quell’integrazione sostanziale che caratterizza il nuovo approccio integrato e già ampiamente analizzato in precedenza e inteso come volontà di affrontare in maniera organica il fenomeno delle emissioni inquinanti nell’ambiente, con l’obiettivo di ottenere la migliore prestazione ambientale nell’ambito di una determinata attività, assumendo come riferimento tutto il processo produttivo, dall’utilizzo delle materie prime al consumo di energia, fino alla gestione dei rifiuti, senza focalizzare l’attenzione solo sulla fase finale o su un solo recettore ambientale.

Per poter comprendere a fondo il concetto di miglior tecnica disponibile e poterne cogliere gli aspetti più interessanti e controversi è opportuno tuttavia esaminarle nella loro dimensione operativa, cioè nel momento della loro concreta individuazione. Ciò sarà oggetto del capitolo successivo.

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Capitolo II

INDIVIDUAZIONE DELLA MIGLIOR TECNICA DISPONIBILE IN CONCRETO APPLICABILE

2.1 L’autorizzazione integrata ambientale

La direttiva IPPC ha trovato attuazione nel nostro ordinamento non in un’unica soluzione ma, al contrario, secondo un percorso di progressivo accoglimento della normativa, percorso che ha determinato, attraverso continui e successivi interventi, la traduzione nel diritto interno dell’intera disciplina e delle modifiche nel frattempo intervenute in ambito europeo26.

Inizialmente la disciplina in materia di prevenzione e riduzione delle emissioni è stata recepita in Italia, seppur in modo parziale, con il D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 37227. La direttiva IPPC, all’art. 21, individuava infatti il 30 ottobre 1999 come termine ultimo di recepimento per gli Stati membri, termine che veniva dunque rispettato dall’Italia, ma solo formalmente. Il decreto legislativo presentava infatti in origine un ambito di applicazione limitato ai soli impianti esistenti, mentre l’adozione di norme relative agli impianti nuovi era rinviata con l’intento di recepire, integrandole insieme, le disposizioni relative alla nuova direttiva sulla valutazione di impatto

26 In questi termini si esprime M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2007.

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ambientale 97/11/CE e quelle relative alla direttiva IPPC per la parte relativa ai nuovi impianti28.

Solo con l’adozione del D.Lgs. 18 febbraio 2005, n. 59, che abroga il precedente ed estende la disciplina agli impianti di nuova realizzazione, la direttiva in materia di prevenzione e riduzione delle emissioni è stata pienamente e compiutamente recepita nel nostro ordinamento.

Successivamente tale disciplina è stata integrata, con alcune modifiche, e fatta confluire nel testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152, recante “Norme in materia ambientale”, più semplicemente noto come Testo Unico dell’ambiente (TUA). In particolare l’integrazione di tale normativa nel TUA, con contestuale abrogazione del D.Lgs. 59/2005, è avvenuta ad opera del D.Lgs. 29 giugno 2010, n. 128, noto anche come III Decreto correttivo del D.Lgs. 152/200629.

Attualmente pertanto, la disciplina in questione è rinvenibile direttamente nel Testo Unico dell’ambiente, che prevede ora un titolo III-bis alla stessa appositamente dedicato, fornendo per la prima volta una versione integrata e coordinata delle diverse normative ambientali vigenti nel nostro ordinamento.

Infine recentissima è la disciplina introdotta dal Decreto Legislativo n. 46 del 4 marzo 2014, che ha dato attuazione alla “Legge di delegazione

28 Cfr. M. MEDUGNO, Il recepimento da parte dell’Italia della direttiva 96/61 (c.d. IPPC), in

RivistAmbiente, 2001, pp. 1100-1101, che osserva come a seguito di tale scelta “si ottiene

un risultato quasi paradossale: per gli impianti esistenti (per il quale il termine di adeguamentoultimo è il 2007…) la disciplina IPPC è già esistente a livello nazionale, mentre per gli impianti nuovi (ai quali la Direttiva 96/61 si sarebbe dovuta applicare subito, fatta salva la nozione di impianto esistente di cui sopra …) non esiste ancora una disciplina applicabile”.

29 Dopo il D.Lgs. 8 novembre 2006, n. 284 (I Decreto correttivo) e il D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 (II Decreto correttivo).

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europea 2013”30con cui l’Italia ha formalmente recepito le novità

introdotte dalla direttiva IED 2010/75/UE. Tali novità, che hanno modificato sensibilmente la disciplina dell’Autorizzazione integrata ambientale, sono così state rese finalmente operative anche nell’ordinamento italiano e saranno oggetto più avanti di specifica trattazione.

Fin dai primi interventi la soluzione adottata dal legislatore italiano nel dare attuazione alla Direttiva IPPC è stata quella di prevedere un titolo autorizzativo unico, che “sostituisce ad ogni effetto ogni altra autorizzazione, visto, nulla osta, parere in materia ambientale previsti dalle disposizioni di legge e dalle relative norme di attuazione”31.

Discordanti sono a tal proposito i pareri della dottrina sul fatto che la disciplina comunitaria preveda o meno in realtà uno specifico obbligo a carico degli Stati membri di introdurre nei loro ordinamenti la figura dell’autorizzazione integrata ambientale.

Secondo alcuni autori infatti, nessuno specifico obbligo in tal senso deriverebbe dalla direttiva, poiché “la disciplina comunitaria non impone affatto ai Paesi membri di prevedere un procedimento unico, né di individuare un’unica amministrazione competente, né tanto meno di sostituire i diversi titoli abilitativi con una sola autorizzazione”32. Tale opinione sarebbe avvalorata anche dalla lettura

30 Legge 6 agosto 2013, n. 96 (“Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2013”).

31 Cfr. Art. 5, comma 10, D.Lgs. 59 del 2005 il cui testo modificato è sancito ora dall’art. 29-quater, comma 11, T.U. Ambiente in questi termini: “Le autorizzazioni integrate ambientali, rilasciate ai sensi del presente decreto, sostituiscono ad ogni effetto le autorizzazioni riportate nell’elenco dell’allegato IX, secondo le modalità e gli effetti previsti dalle relative norme settoriali”.

32 In questi termini si esprime M. CALABRO’, Semplificazione procedimentale e esigenze di tutela

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dell’art. 7 della Direttiva 2008/1/CE, la dove prevede che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per il pieno coordinamento della procedura e delle condizioni di autorizzazione ove siano coinvolte più autorità competenti, onde garantire un approccio effettivo integrato da parte di tutte le autorità competenti per questa procedura”. La norma infatti non parrebbe imporre una soluzione univoca e specifica33.

Secondo altri autori invece nella direttiva sarebbe rintracciabile chiaramente la figura dell’autorizzazione integrata ambientale34.

Ad ogni modo è con riferimento a quest’ultima ipotesiche interpreti e studiosi hanno individuato la caratteristica fondamentale della disciplina IPPC (così come) adottata in Italia, oltre a riconoscere come il nostro legislatore abbia voluto realizzare attraverso tale istituto quell’approccio integrato che, come estesamente ricordato nel capitolo precedente, rappresenta appunto l’elemento innovativo della direttiva IPPC.

Il punto su cui semmai si apre un altro dibattito in dottrina è se l’autorizzazione integrata ambientale rappresenti effettivamente un modello di integrazione sostanziale, nello spirito della direttiva, o sia solo un esempio di integrazione organizzativa e meramente procedurale.

richiama a conferma anche il considerando n. 15 della direttiva secondo cui “Un efficace coordinamento della procedura e delle condizioni di autorizzazione tra le autorità competenti dovrebbe consentire di raggiungere il massimo livello possibile di protezione dell’ambiente nel suo complesso”.

33 In tal senso V. PAMPANIN, Autorizzazione integrata e regolazione ambientale, Aracne, Roma, 2014.

34 Cfr. T. MAROCCO, La direttiva IPPC e il suo recepimento in Italia, in Riv. giur. dell’ambiente, 2004, p. 36, dove l’A. lascia intendere che la Direttiva IPPC introduce la previsione dell’autorizzazione integrata ambientale quando sostiene che essa “contiene dei principi generali per la previsione negli Stati membri di una procedura autorizzatoria unica”.

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La maggior parte dei contributi presenti in dottrina è in particolare rivolta da un lato a sottolinearei meccanismi di integrazione e semplificazione procedimentale che caratterizzano il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, con particolare riferimento al ruolo della conferenza dei servizi (il comma 5 dell’art. 29-quater del TUA dispone “la convocazione da parte dell’autorità competente, ai fini del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, di apposita conferenza di servizi, alla quale sono invitate le amministrazioni competenti in materia ambientale”)35; dall’altro lato a ricostruire le questioni riguardanti il rapporto tra l’autorizzazione integrata e le altre autorizzazioni ambientali previste nel nostro ordinamento o gli altri procedimenti “ambientali” (in special modo VIA e VAS)36.

L’autorizzazione integrata ambientale verrebbe così a garantire forme di concentrazione in un unico provvedimento di valutazioni prima espresse in provvedimenti distinti da parte di diverse amministrazioni, in particolare mediante la prescrizione di un’apposita conferenza di servizi.

Se l’attenzione della dottrina italiana è dunque spesso concentrata sui profili procedurali dell’autorizzazione integrata ambientale, ciò potrebbe portare a pensare che l’istituto dell’AIA debba semplicemente essere qualificato come una forma di integrazione

35 Come sottolineato in A. SCARCELLA, L’Autorizzazione Integrata Ambientale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 190.

36 Cfr. G. GARZIA, L’autorizzazione integrata ambientale e i rapporti con le altre autorizzazioni

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formale o procedurale o più comunemente di semplificazione amministrativa37.

In realtà ritengo sia da condividere l’opinione di chi, in dottrina, ritiene che l’AIA realizzerebbe compiutamente i principi di integrazione sostanziale e non semplicemente formale della direttiva IPPC. Se così non fosse, non si tratterebbe di un vero approccio integrato alla questione ambientale, ma, come già detto, l’autorizzazione integrata ambientale si ridurrebbe ad una mera sommatoria di più autorizzazioni, ciascuna relativa ad un singolo contesto di inquinamento individualmente considerato, frustrando la ratiostessa della direttiva38.

In realtà l’elemento della disciplina comunitaria, e di conseguenza anche dell’AIA stessa, che più rappresenta la nuova impostazione fondata sull’approccio integrato è piuttosto da rinvenirsi, come ripetutamente sottolineato nel capitolo precedente, nel parametro delle migliori tecniche disponibili, che dell’autorizzazione integrata ambientale costituiscono la base; aspetto, questo, che più di tutti dimostra la natura non meramente semplificatoria dell’AIA ma piuttosto la sua finalità, volta a realizzare una vera integrazione

37 Cfr. M. RENNA, Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. dell’ambiente, 2008, p. 37 e seguenti dove definisce l’autorizzazione integrate ambientale come “il miglior esempio di semplificazione funzionale sinora realizzato in materia ambientale”.

38 Cfr. M. CALABRO’, op. cit., p. 242, dove si sostiene che “se è corretto parlare di semplificazione in riferimento all’AIA, lo è nella misura in cui si intende la semplificazione non in senso tradizionale, come strumento volto a rendere più snello il procedimento o a superare stalli procedurali, bensì come applicazione di misure idonee a raggiungere in maniera più efficace il risultato giuridico cui tende la norma, risultato che, nel caso di specie, è di adeguata tutela dei beni ambientali coinvolti”.

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sostanziale nelle valutazioni ambientali sottese al rilascio dell’autorizzazione39.

2.2 Il problema dell’individuazione della migliore tecnica

disponibile e in particolare l’aspetto della “disponibilità”

A partire dal riferimento alla normativa che ha dato esecuzione in Italia ai contenuti della direttiva IPPC, con tutte le modifiche che si sono succedute, è possibile analizzare l’operatività del concetto di migliore tecnica disponibile e coglierne gli aspetti più interessanti e controversi.

Comeprecedentemente accennato, la disciplina nazionale in materia di migliori tecniche disponibili è contenuta all’interno del TUA all’art. 29-sexies, che prevede, al comma 3: “l’autorizzazione integrata ambientale deve includere valori limite di emissione fissati per le sostanze inquinanti” e al comma 4: “i valori limite di emissione, i parametri e le misure tecniche equivalenti di cui ai commi precedenti fanno riferimento all’applicazione delle migliori tecniche disponibili, senza l’obbligo di utilizzare una tecnica o una tecnologia specifica, tenendo conto delle caratteristiche tecniche dell’impianto in questione,

39 Cfr. M. CALABRO’, op. cit., pp. 258-259, dove si sottolinea che “l’elemento che sembra tuttavia maggiormente far emergere come il regime procedimentale semplificato previsto per l’AIA configuri nel contempo un’adeguata risposta all’esigenza, da un lato, di rendere meno onerosa (dal punto di vista burocratico) l’iniziativa economica per i privati e, dall’altro, di fornire una piena e completa tutela al contesto ambientale in cui l’intervento è destinato ad incidere, è rappresentato senza dubbio dal rinvio alle migliori tecniche disponibili”.

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della sua ubicazione geografica e delle condizioni locali dell’ambiente”40.

L’impianto normativo è poi completato dall’art. 29-bis, specificamente dedicato alla “individuazione e utilizzo delle migliori tecniche disponibili”, ai sensi del quale l’autorizzazione integrata ambientale “è rilasciata tenendo conto di quanto indicato nell’allegato XI e delle informazioni diffuse ai sensi dell’art. 29-terdecies, comma 4, e dei documenti BREF (BAT Reference Documents) pubblicati dalla Commissione europea” e “nel rispetto delle linee guida per l’individuazione e l’utilizzo delle migliori tecniche disponibili”.

Il problema preliminare che si impone dunque all’autorità procedente è quello, fondamentale, di individuare quale sia in pratica la migliore tecnica disponibile da cui muovere per compiere la valutazione in base alla quale stabilire i limiti di emissione che dovranno essere rispettati dal gestore dell’impianto. L’individuazione delle M.T.D. costituisce infatti la fase presupposta alla precisazione dei limiti di emissione, fornendo il dato di riferimento da cui muovere per prendere poi in considerazione quegli ulteriori specifici fattori (come ad esempio la situazione geografica in cui si colloca l’impianto) che devono contribuire all’individuazione del limite di emissione più corretto (e delle ulteriori misure da adottare), in relazione a quella determinata attività e in quello specifico contesto produttivo.

Esaminando piùda vicino i dati testuali sopra richiamati, è possibile osservare subito come nell’ambito delle migliori tecniche disponibili e della loro individuazione ci si trovi in presenza di precetti di non facile

40 Il testo dell’art. 29-sexies, commi 3 e 4, riprende quasi alla lettera il testo dell’art. 9, commi 3 e 4, della direttiva IPPC, in materia di “condizioni dell’autorizzazione”.

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determinazione, soprattutto riguardo ai diversi elementi tra loro variamente connessi che l’amministrazione competente è obbligata a prendere in esame.

Il TUA, all’art. 5, dedicato alle definizioni, introduceinnanzitutto una nozione di migliori tecniche disponibili, accompagnata da ulteriori precisazioni volte a chiarire il significato dei singoli termini (tecniche, tecniche disponibili e migliori), che ricalca esattamente la definizione contenuta nella disciplina comunitaria di cui già si è fatto cenno (cfr. l’ultimo paragrafo del capitolo precedente).

Sempre il TUA, in secondo luogo, rimanda all’allegato XI, che riprende letteralmente il contenuto dell’allegato IV della direttiva IPPC (richiamato all’art. 2, punto 12) riportando l’indicazione di ulteriori “considerazioni” di cui tenere conto, “in generale o in un caso particolare”, nella determinazione delle migliori tecniche disponibili. Tra queste si possono citare ad esempio:

a) il riferimento all’impiego di tecniche a scarsa produzione di rifiutinonché di sostanze meno pericolose;

b) losviluppo di tecniche per il recupero e il riciclo delle sostanze emesse e usate nel processo produttivo;

c) ilminor consumo delle materie prime utilizzate compresa l’acqua;

d) l’efficienza energetica;

e) lanecessità di prevenire o ridurre al minimo l’impatto globale sull’ambiente prevenendo al contempo gli incidenti rilevanti. Ora, è evidente che nemmeno il richiamo di questi elementi aiuta a precisare cosa si debba identificare come migliore tecnica disponibile, in quantoanch’essi sono rappresentati da enunciazioni vaghe, che non

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