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PARTE TERZA Studenti con disabilità… fra servizi, famiglie e accademia

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PARTE TERZA

Studenti con disabilità… fra servizi, famiglie e accademia

Le interviste che ho rivolto agli studenti si sono protratte lungo tutto l’arco temporale della

ricerca – come già detto di circa due anni e mezzo complessivi –, ma hanno avuto un

momento di massima intensità nella fase iniziale. I primi contatti presi tramite l’USID e lo

Sportello Dislessia e DSA, infatti, hanno riguardato proprio gli utenti. Contatti che, peraltro,

hanno trovato fin da subito ampia adesione alla ricerca da parte dei ragazzi, secondo una

diffusa percezione di soddisfazione per l’operato dell’ufficio e un sentito desiderio di

ricambiare, che così chiaramente emergono dalle parole di Giacomo:

Cioè, solo cose positive, solo cose… Anche questo è un motivo per il quale quando mi è arrivata la mail che diceva “Guarda c’è un’intervista…”, “Sì subito”. Perché è una cosa… cioè, io sono molto per la meritocrazia, se una persona lo merita io faccio di tutto per, per coso, per… se tu lavori bene son ben contento di farti pubblicità, non tanto farti pubblicità, però dire le cose come stanno veramente, insomma e… e valutare in maniera ottima il tuo operato, insomma. […] E quindi ecco, l’ho fatto subito.

Secondo un andamento di reciprocità bilanciata – riprendendo la terminologia sahlinsiana –,

dunque, più di una decina di studenti ha dato risposta immediata e positiva all’invito

dell’ufficio a partecipare alla mia ricerca. Ho così iniziato a condurre le prime interviste, per

poi avviare ulteriori contatti sempre tramite l’USID, ma stavolta in maniera informale, grazie

alle nuove conoscenze che ho avuto modo di fare durante la mia partecipazione ai servizi e

alle attività dell’ufficio.

I colloqui si sono svolti sovente a casa degli interlocutori, in quanto impossibilitati a spostarsi,

per motivi connessi alla loro disabilità e/o all’organizzazione del nucleo familiare di

appartenenza, che spesso si occupa, fra le altre cose, degli accompagnamenti. Nel tempo,

tuttavia, anche l’ufficio si è rivelato un luogo ospitale, in cui effettuare le interviste con gli

studenti che frequentavano più o meno regolarmente l’università e avevano modo di passare

dall’edificio G. In particolare, la saletta d’attesa è divenuta “il mio ufficio” – come l’avevano

rinominata ironicamente Marta, Enrico e Laura –, ove sparivo, indisturbata, per lungo tempo

con i miei interlocutori (inclusi, in seguito, genitori, operatori del servizio civile e tutor alla

pari per la didattica). Se la possibilità di accedere alle abitazioni private mi ha permesso di

avvicinarmi maggiormente al mondo della persona interpellata e di prendere visione delle

relazioni che la legano a genitori e familiari, l’evenienza di permanere in ufficio mi ha

consentito di contestualizzare l’esperienza universitaria dello studente relativamente ai servizi

e agli operatori di volta in volta coinvolti. Spesso, infatti, i ragazzi erano accompagnati alla

sede dell’USID dai genitori, ma, altrettanto di frequente, usufruivano del trasporto con i mezzi

attrezzati a disposizione dell’ufficio effettuato dai giovani del servizio civile. Da parte mia,

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prendendo parte a tali accompagnamenti in auto, ho potuto conoscere molti studenti,

incontrarli più volte, fino ad includervi la possibilità di effettuare l’intervista.

Nel tempo, inoltre, si è fatta strada l’idea di poter interpellare alcuni genitori, nel momento in

cui, dalla stessa conduzione delle interviste e dell’etnografia, è risaltato il permanere di un

ruolo centrale degli stessi ai fini dell’organizzazione e della conduzione degli studi

universitari dei figli. Da un lato, certo, ho incontrato studenti giovani-adulti o adulti che,

nonostante l’eventuale dipendenza fisica esperita, gestiscono anche le scelte di studio e le

modalità di portarle avanti secondo una propria autonomia decisionale, in vista di una più

generale autodeterminazione delle proprie aspirazioni e del proprio vissuto, presente come

futuro. Da un altro, ho conosciuto giovani e giovani-adulti, matricole ma anche studenti ormai

rodati, per i quali alla dipendenza estrema sembra connettersi una impercettibile dipendenza

personale che lega la loro vita e le loro scelte a doppio filo a quelle dei genitori, nonostante la

dichiarazione di intenti talvolta opposti. Ciò non necessariamente conferisce una valutazione

negativa – per così dire – al percorso intrapreso dallo studente, ma certo lo connota

specificamente, facendo emergere molte sfumature e forme diverse secondo cui tali rapporti

di interdipendenza possono essere vissuti ed eventualmente rielaborati. D’altro canto, il limite

fra dipendenza fisica e dipendenza personale è davvero sottile e labile e gli slittamenti dalla

prima alla seconda sembrano talvolta consustanziali allo stesso vissuto di disabilità.

Fra gli studenti intervistati, inoltre, vi sono alcuni che presentano certificazione di invalidità,

ma non di disabilità, in quanto segnati dalle conseguenza di malattie invalidanti dall’esito

ancora incerto (come talvolta di incidenti). Oppure, ve ne sono altri che, sebbene non

rispondano alla soglia stabilita del 66%, tuttavia hanno trovato una risposta positiva e

inclusiva – potremmo dire, con riferimento all’attuale terminologia maggiormente accreditata

in materia – nell’USID. Come già ricordato, peraltro, tale discrimine, per quanto inerisce la

disabilità, è stato di recente superato consentendo l’accesso ai servizi universitari anche a

studenti in possesso della certificazione di handicap (in alternativa a quella di invalidità, che

stabilisce la percentuale). Un altro importante discrimine riscontrato è quello fra studenti che

hanno riportato una disabilità fin dalla nascita e studenti che vi sono incorsi in età adulta: per

questi ultimi, sovente – così come per coloro che presentano gravi patologie invalidanti – la

fruizione dei servizi rappresenta anche un momento di prova e sperimentazione dei propri

nuovi limiti così come delle proprie capacità, secondo un processo incorporativo per loro

inedito.

Infine, vi sono studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento che, sebbene in numero

esiguo – in quanto lo stesso sportello è stato disposto ed attivato solo negli ultimi cinque anni

(a seguito della legge 170/2010) –, rappresentano un’utenza molto delicata nella propria

auto-percezione (spesso di riserbo e vergogna) e in notevole crescita per l’aumento delle

certificazioni in età adulta e, dunque, delle persone che scelgono di “uscire allo scoperto”.

La tabella in allegato (All. 20) fornisce un quadro complessivo dei ventisette studenti

intervistati su cui ho scelto di soffermarmi per la loro spiccata pertinenza rispetto al tema

d’indagine prescelto, ripercorrendone le storie personali e di studio nello specifico, con

particolare attenzione alle connesse esperienze nella fruizione dei servizi degli Sportelli e nel

rapporto con compagni e docenti. Venticinque di loro (di cui due in possesso della sola

certificazione di invalidità) hanno fatto riferimento, a vario titolo e in varie forme, all’USID; a

questi si aggiungono 2 studentesse con dislessia che hanno scelto di ricorrere ai servizi

dell’allora nascente Sportello Dislessia e DSA. La tabella ci servirà da mappa per meglio

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orientarsi nella successiva analisi delle singole interviste. Per tre studenti con disabilità,

inoltre, ho riportato anche le esperienze di genitori e familiari intervistati, in ragione della loro

significatività rispetto ad alcune riflessioni affrontate. Si tratta, innanzitutto, delle due coppie

di genitori degli studenti con X-fragile, poiché vengono a far meglio luce sulle particolari

esperienze di studio e di crescita dei figli fino all’approdo all’università, a compimento di

quanto espresso da questi ultimi. L’altra famiglia su cui ho scelto di soffermarmi è quella di

una studentessa con disabilità fisica: il valore aggiunto dell’intervista condotta con alcuni suoi

membri è la presenza della sorella dell’interlocutrice che, in una prospettiva paritetica con

questa, intesse una meta-riflessione critica sulla percezione che gli attori sociali qui indagati

(operatori dei servizi, docenti e genitori) possono avere della disabilità in genere, nonché sul

ruolo, concreto e simbolico al contempo, che gli stessi rivestono nella realizzazione

socio-culturale e personale degli studenti in questione, giunti al massimo livello di studi previsti nel

nostro paese, quelli universitari.

Ho così scelto di dare forma a queste diverse esperienze di studenti e genitori, suddividendole

all’interno di alcuni nodi tematici principali da me individuati e declinandole secondo quanto

emerso dalle loro parole e dalle mie osservazioni. In coda ad alcune narrazioni dei vissuti

degli studenti, inoltre, compare la voce Sguardi incrociati. Si tratta di sotto-paragrafi in cui

sono convogliate le prospettive di eventuali docenti (All. 21; complessivamente 15) che

hanno avuto come allievo lo studente in questione e/o tutor alla pari per la didattica (All. 22;

nel numero di 13) che lo hanno affiancato, unitamente a sporadiche riflessioni del Delegato

alla Disabilità, nel caso in cui per varie ragioni abbia seguito personalmente il ragazzo, e/o del

personale dell’ufficio che se ne è fatto carico (All. 24). Non compaiono, invece, le voci dei 2

operatori di Servizio Civile (All. 23) che ho utilizzato solo nell’ultima parte dell’elaborato,

anche in ragione del loro ruolo più generalizzato rispetto all’utenza, piuttosto che ad

personam. Peraltro, è significativo qui menzionare il fatto che svariati dei giovani che nel

tempo hanno effettuato Servizio Civile presso l’USID avevano ricoperto in precedenza il

ruolo di tutor alla didattica per il medesimo ufficio (come pure, talvolta, l’inverso).

Se, dunque, il vissuto di disabilità (nonché di malattia, di invalidità, di dislessia) è il nucleo

portante della rielaborazione dei dati raccolti, l’autonomia e la dipendenza, il dono e la

reciprocità, l’uguaglianza e la diversità, i servizi e lo studio e le relazioni che li animano

vengono a tagliare trasversalmente tale vissuto. Ciò ci restituisce una varietà di esperienze che

talvolta si avvicinano e dialogano fra loro, talaltra si allontanano e si contrappongono,

all’interno di modelli culturali (cognitivi, di valutazione, di comportamento) variamente

ricorrenti ed intersecantisi. Emergono così un “cosmo complesso”, una “polifonia di voci” che

costituiscono il frutto del presente lavoro: una complessità che non può essere altrimenti

restituita nella sua varietà e frammentarietà; una caleidoscopica commistione di sguardi e di

idee mai così nettamente categorizzabili, laddove da una stessa singola esperienza possono

affiorare modelli e pratiche variamente inclusivi a seconda del soggetto a cui si rivolgono e/o

della situazione in cui si manifestano.

In questa parte, dunque, seguiremo i racconti delle esperienze di studio, ed universitarie nello

specifico, dei singoli studenti intervistati, ripercorrendo nelle loro parole le forme di scambio

e relazione intercorse con gli attori sociali implicati nella realizzazione del percorso

intrapreso. Porremo poi in dialogo alcune di queste esperienze con le corrispettive esperienze

di familiari, docenti, tutor e referenti dei Servizi. In questa prospettiva, il comun denominare

che attraversa tutte le storie degli studenti, e l’apporto delle figure a vario titolo coinvolte, è

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quello della diade dipendenza/autonomia connessa a dono/reciprocità. Sarebbe a dire che i

due parametri sembrano interagire strettamente, secondo diverse accezioni e proporzioni. Per

entrare nel merito di tale dinamica, dunque, ho suddiviso i racconti secondo tre nodi tematici

principali: 1. Disabilità, crescita e autodeterminazione: chi siamo e chi diventiamo, in cui

risalta maggiormente il rapporto del singolo col proprio vissuto di dipendenza connesso alla

disabilità; 2. Disabilità e presenza: gli studi superiori come interfaccia col mondo, in cui mi

soffermo sull’apporto che gli studi superiori possono dare alla realizzazione personale di

ciascuno; 3. Disabilità, diversità, uguaglianza: la società e i suoi richiami, in cui emerge il

ruolo della società di appartenenza nel configurarsi delle spirazioni e nella ricerca di un

proprio “posto”.

1. Disabilità, crescita e autodeterminazione: chi siamo e chi diventiamo

Il primo raggruppamento di storie raccolte inerisce le diverse modalità di crescita vissute dai

singoli protagonisti e il loro impatto sull’esperienza universitaria di ciascuno. Innanzitutto si

può nascere disabili o divenirlo: questo pone un primo importante discrimine fra soggetti

provenienti da esperienze pregresse molto diverse. Nel primo caso, la disabilità è parte della

persona e fattore che ne influenza la crescita e lo sviluppo, fisico come personale: incorporata

da sempre si fa modalità di essere al mondo. Essa, dunque, interferisce a vario titolo e in vario

modo con le forme di dipendenza esperite dai soggetti indagati e con le connesse relazioni di

reciprocità che vengono ad instaurare. Nel secondo caso, una crescita svincolata da ogni

limite fisico, viene bruscamente stravolta dal suo insorgere: l’autonomia personale raggiunta

dagli studenti che hanno vissuto tale esperienza è così riveduta e corretta da una dipendenza

estrema che, nel mutare dei rapporti pregressi, li porta a proprio turno a trasformarvisi e a

costruirne di nuovi. I loro corpi cambiati divengono la prima guida per imparare modalità per

loro inedite (in quanto mai acquisite) di abitare il mondo. In tutti questi casi, al

riconoscimento del ruolo avuto dai genitori si affianca, più o meno palese, quel senso di

debito positivo (Godbout 1998a; 1998b; 2008a) verso genitori e familiari, che consente di

ovviare alla dipendenza fisica esperita. Talvolta però questo stesso debito positivo giustifica e

riproduce una dipendenza personale soggiacente: l’infatilizzazione che trapela nel vissuto

degli studenti del primo caso considerato corrobora infatti una dipendenza personale che

interferisce, in tal senso, con la possibilità di instaurare rapporti di reciprocità bilanciata,

laddove sono piuttosto quelli di reciprocità positiva o negativa ad avere il sopravvento.

Vi è infine un terzo gruppo di studenti interpellati, portatori di disabilità fin dalla nascita, che

ha sviluppato una sentita capacità di autodeterminazione a cui corrisponde peraltro la capacità

di instaurare rapporti di reciprocità bilanciata. In tal senso è utile riconsiderare la nozione di

prossimità temporale all’interno della pratica del dono (Bourdieu 2003). Nei rapporti di

parentela fra diverse generazioni, infatti, subentra una forma di reciprocità a lunga distanza

temporale che si contrappone alla reciprocità istantanea connessa allo spazio sociale

dell’estraneità, quale scambio immediato. In tal senso, il vero altruismo intercorrente fra

genitori e figli sarebbe insito in un dono che contempla l’attesa di una contropartita che si sa

che avverrà a lungo termine (ad esempio, nel dare a proprio turno ai propri figli, nella forma

ogni volta del dono puro piuttosto che del contro-dono), una volta che il figlio diventerà

adulto, o forse mai (Cutolo 2007). Vi è dunque un debito infinito ed insolubile fra genitori e

figli: debito positivo in quanto non percepito; debito mai saldabile se il figlio non diventerà

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mai adulto (come avviane appunto per alcune persone con disabilità). Ecco allora che di

fronte al limite estremo del figlio con disabilità quale essere che può ricevere senza mai dare

(se non simbolicamente, laddove il suo vissuto di diversità si faccia valore agli occhi di chi lo

circonda), nel momento in cui resti bambino senza pervenire ad una vita adulta in cui doni a

sua volta, vi è un’altra restituzione possibile che si declina nei termini del riconoscimento. Il

raggiungimento di una propria autodeterminazione, in tali studenti, contempla proprio questo

riconoscimento rivolto ai genitori: riconoscimento raggiunto prendendo una giusta distanza

dagli stessi e sperimentandosi coi frutti del proprio percorso di crescita e di studio.

2. Disabilità e presenza: gli studi superiori come interfaccia col mondo

Questo secondo insieme di interviste analizzate si sofferma sul ruolo del contesto sociale e

culturale universitario rispetto alle aspettative degli studenti che vi sopraggiungono:

l’università per formarsi e accedere ad uno specifico ambito lavorativo; l’università per

ampliare il proprio bagaglio di sapere e conoscenza; l’università come parte della propria

esperienza di vita. In tutti e tre questi ambiti è la presenza dello studente rispetto a ciò che

l’università – intesa come campo, nella terminologia tullioltaniana – può rappresentare nel

suo vissuto a farsi nodo significativo di riflessione: che si tratti di frequentare assiduamente le

lezioni o di essere affiancato da tutor nello studio a casa, l’università intesa in senso più

ampio può costituire un luogo concreto e/o simbolico di primo o rinnovato ingresso nel

mondo. In tutti e tre questi ambiti, a una normativa che ormai riconosce pieno ed egualitario

accesso allo studio, al lavoro e alla vita sociale in genere, sono corrisposte pratiche varie e

discordanti. In tutti e tre questi ambiti, come vedremo, la dipendenza fisica esperita dai

soggetti in questione si è fatta ostacolo, talvolta sfidato e talvolta subito, ma sempre

rielaborato rispetto al rischio di dipendenza personale. In tal senso, le relazioni di volta in

volta instaurate da questi studenti con familiari, docenti e operatori dei servizi si richiamano

spesso ad una reciprocità bilanciata (Shalins 1980c), nel senso di un ricevere senza un

atteggiamento di pretesa ma anche senza un atteggiamento di rinuncia. La restituzione di

questi studenti sta nella stessa realizzazione delle proprie aspirazioni e dei propri progetti di

studio. Laddove tali aspirazioni siano state disattese e ostacolate, per una dipendenza estrema

cui non è conseguita una accessibilità peraltro corrispondente all’autonomia personale

raggiunta dagli studenti in questione, la reciprocità negativa ha fatto il suo corso: di fronte, ad

esempio, alla negazione di una prospettiva di applicazione lavorativa delle proprie

competenze, vi è stato l’abbandono (talvolta temporaneo) e/o la rinuncia a quanto costruito da

parte degli studenti stessi.

3. Disabilità, diversità, uguaglianza: la società e i suoi richiami

Il terzo raggruppamento riguarda le storie di studenti che, nel loro percorso di studi e di vita in

genere, fino all’università, si distinguono dalle persone con disabilità e tendono ad assimilarsi

piuttosto ai propri simili (sordi, dislessici), come pure alla più variegata normalità. In tal

senso, il contemporaneo richiamo della nostra società alla norma attesa e all’uguaglianza nella

diversità, propone un modello di uguaglianza costituita che sovente fatica a farsi costituente

(Balibar 1993; 2012). I rischi, in tal senso, sono molteplici. Da un lato quello di pervenire ad

una eterogenesi dei fini, per cui l’assidua ricerca dell’uguaglianza è stretta nella morsa

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dell’isolamento, laddove quel debito positivo parentale rischia di ingenerarne una

interdipendenza difficilmente incrinabile, nel momento in cui si fa “forma normale” (Cutolo

2005). Da un altro, il fatto che l’assoluta assimilazione a sé stesso o al proprio gruppo di

simili nella scalata verso una normalità che, sola, rende uguali, rispettivamente non consente

di sentirsi parte di una più ampia eterogeneità umana o conduce ad arroccarsi in sottogruppi di

uguaglianza identitaria. Ciò detto, la disabilità come la dislessia e la malattia richiedono di

essere definite e gestite rispetto ad ogni specifica esigenza che si presenti e la società, come

nel loro piccolo i Servizi, devono configurare e riconfigurare continuamente gli strumenti per

renderlo possibile.

È all’interno di questi ambiti, dunque, che si declinano le diverse interazioni fra dipendenza e

reciprocità nel vissuto universitario degli studenti con disabilità indagati, che costituiscono il

nucleo del lavoro. Il primo, infatti, prende le mosse dal cerchio dell’etica più interno,

concernente il rapporto dei singoli studenti con sé stessi e con la famiglia di appartenenza. Il

secondo vuol dare spazio al cerchio istituzionale dell’università e alla portata che l’ambiente

universitario può avere nei vissuti delle persone intervistate. Il terzo si apre al contesto

societario più ampio in cui la stessa indagine si colloca. Tutti e tre sono tagliati

trasversalmente dagli specifici cerchi qui indagati dei Servizi e degli attori sociali che vi

collaborano a vario titolo. Risaltano, infatti, diverse modalità e intensità di relazione con i

docenti come pure con gli operatori, nonché diverse pratiche di dono ed eventuale reciprocità.

In effetti, ad esempio, alla fruizione di uno specifico servizio corrisponde l’instaurarsi

(variamente menzionato dagli interlocutori stessi) di un rapporto di fiducia e scambio fra lo

studente e le corrispettive figure che se ne occupano: chi ricorre al servizio di tutorato parla

sovente degli studenti che lo affiancano e con cui si relaziona (ricordandoli talvolta uno ad

uno per nome, talaltra in maniera generica, segno certo di una diversa percezione di queste

persone); chi fruisce dell’accompagnamento in auto nomina invece i ragazzi del servizio

civile e riporta ricordi connessi a questa esperienza; chi, infine, frequenta spesso l’ufficio e si

interfaccia soprattutto con Enrico e/o Marta (e in passato anche con Laura), come pure

talvolta col Delegato alla Disabilità Alessandro, li chiama in causa in maniera personale e

amichevole. E ciò ricorre variamente anche nella direzione inversa, cioè nella forma con cui

queste figure menzionano e ricordano lo studente in questione.

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Capitolo 5

Disabilità, crescita e autodeterminazione: chi siamo e chi diventiamo

1. Crescere nella dipendenza: dipendenza fisica, dipendenza personale

Fra la dipendenza fisica (o estrema, come suggerisce Nussbaum) e la dipendenza (o meglio

interdipendenza) personale si gioca un aspetto molto specifico dell’utilizzo delle economie

morali della disabilità. Esattamente come per il dono secondo Bourdieu, anche in questo caso

tutto avviene come se fosse soltanto la prima a dettare le regole fino ad offuscare in maniera

pervasiva la seconda, sebbene quest’ultima, proprio per le sue caratteristiche connesse

primariamente alla relazione in sé, renda possibile una specifica forma di mantenimento della

prima. Mi spiego meglio: la dipendenza fisica esiste ed è innegabile, comporta sofferenza,

accettazione, conflitto e comunque talvolta non è “revocabile”. In alcuni rapporti fra genitori

e figli con gravi disabilità da me incontrati, a tale dipendenza si aggiunge una dipendenza

personale per cui gli uni non possono essere senza gli altri: non solo per la costante e

inderogabile assistenza rivolta dai genitori ai figli, ma anche per la giustapposizione del

pensiero espresso da entrambi, nonché per la sovente negata incapacità di concepirsi senza la

propria controparte (il genitore per il figlio, il figlio per il genitore). Il rischio di questa forma

di dipendenza risiede nel fatto di farsi habitus piuttosto che processo consapevole e di essere

ricondotta a quella estrema da cui non è possibile prescindere. Bisogni e diritti, servizi e

relazioni vengono così talvolta filtrati con questo esclusivo parametro: si hanno dei diritti

connessi ai propri bisogni e le altre persone sono un mezzo per ottemperarvi. D’altro canto,

accade anche che i medesimi bisogni siano riconosciuti come fattore che rende difficile ogni

forma di relazione che esuli dalle più intime e familiari: ecco allora che gli altri sono

giustificati a non esserci e a non aiutare, nel momento in cui la disabilità altrui costituisca per

loro una difficoltà (laddove l’accettazione fantasma di Goffman ne è la controparte cui

ottempera la stessa persona con disabilità). Nel contempo, la società – in qualità di servizi

pubblici – sovente abbandona le famiglie al proprio destino, soprattutto quando il figlio ha

raggiuto la maggiore età, incrementando retroattivamente tali forme di dipendenza. Qual è

allora il bandolo della matassa? Prendere consapevolezza di dove la dipendenza fisica

giustifica e edulcora la dipendenza personale è assai arduo e vi sono studenti e genitori che

lottano e s’impegnano cercando di pervenire al bandolo di una matassa non sempre

riconosciuta come tale. La riflessione sui servizi dell’USID è stata una cartina di tornasole

anche per questo aspetto. Mi occuperò, in questo paragrafo, delle esperienze riportate da

quattro studenti e dai familiari di una di loro, laddove peraltro le rispettive interviste sono in

gran parte avvenute alla presenza gli uni degli altri e hanno contemplato una reciproca

partecipazione, sebbene secondo sfumature e intensità diverse per ogni famiglia. Si tratta di

Bibliologa, Timoniere, Red e Marco: sono tutti studenti che presentano una disabilità fisica

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fin dalla nascita, si muovono in sedia a rotelle e vivono una condizione di dipendenza estrema

che richiede dedizione e accudimento (fino ad oggi svolti dai genitori). Effettuano tutti studi

di ambito umanistico e – al momento delle interviste – avevano un’età compresa fra i

venticinque e i trent’anni (eccetto il quarto di circa vent’anni).

Per quel che concerne la dipendenza fisica è importante notare che molti studenti si sono

trovati costretti a vincolare la loro frequentazione universitaria alle effettive possibilità di

trasporto pubblico e/o privato: i nostri protagonisti rientrano in questo novero. Se, in effetti, il

trasporto con mezzi attrezzati offerto dall’USID è limitato al comune di Pisa, il problema che

si pone a molti è come arrivare a Pisa qualora risiedano in comuni limitrofi. Per Bibliologa e

Red, residenti in altri comuni, questo problema ha trovato soluzione nella costante presenza

rispettivamente della madre e del padre per gli accompagnamenti in auto; riguardo a

Timoniere, domiciliata a Pisa nel periodo in cui si tengono i corsi, è stato affrontato tramite il

ricorso al servizio di trasporto erogato dallo Sportello (pur con l’assidua presenza della madre

per tutte quelle necessità personali non coperte dai servizi o da altri, ma inderogabili); Marco,

infine, ha congiunto l’utilizzo del trasporto in treno, per raggiungere Pisa dal suo luogo di

residenza, a quello effettuato dai giovani del servizio civile una volta giunto in città.

1.1 Bibliologa: «il trasporto è una grandissima spina nel fianco»

Bibliologa abita in un comune nei pressi di Pisa e, dopo avere conseguito il diploma di

maturità al Liceo Linguistico nel 2002 – «Io ho fatto il Linguistico, ma è stata un’esperienza

traumatica, quindi ho detto: “lasciamo perdere!”. […] Perché mi sono trovata malissimo,

proprio nella scuola e con i compagni» –, ha scelto di proseguire i suoi studi in ambito

umanistico, nel settore librario e biblioteconomico. Questo passaggio è stato per lei molto

significativo: «Bellissimo, cioè, io proprio – dico sempre a loro – quando sono entrata

all’università ho respirato proprio una boccata d’aria pura! [Ride] Perché a me stare in

quella scuola non mi piaceva: non mi piacevano i compagni, non mi piacevano i professori,

non m’è piaciuto l’imprinting culturale che mi è stato dato, non… cioè, non mi è piaciuto

nulla! Quindi... ». Emerge, qui, fin da subito il problema che ne ha vincolato la scelta della

scuola secondaria di II grado, nonostante la sua insoddisfazione: «ero obbligata perché era

l’unico liceo vicino. Eh!».

In egual maniera, ciò che in seguito l’ha condotta ad optare per l’Ateneo pisano – di cui

peraltro si dichiara pienamente soddisfatta – è «la vicinanza – si ritorna sempre lì – vicinanza

a casa, era il più vicino», laddove qualsiasi altra opzione non è stata neppure presa in

considerazione «perché ovviamente scelta obbligata vicino a casa». Una vicinanza pur

sempre relativa, che ha assistito alla negazione del servizio di trasporto da parte del Comune

di appartenenza e alla successiva sottrazione, in quanto fuori corso, della sovvenzione

prevista. Per ovviare alla necessità del trasporto, si sono succeduti nell’accompagnamento in

auto fino a Pisa vari parenti: la sorella (che per circa due anni si era ri-iscritta all’Università

insieme a lei), il cugino (che per sei mesi ha effettuato servizio civile a Pisa), la mamma (che

ha sempre ricoperto un ruolo cardine per gli spostamenti della figlia). In effetti, Bibliologa

ricorda che i genitori, di fronte alla sua scelta di proseguire negli studi superiori, «erano un

po’ preoccupati anche loro per il trasporto, però poi per l’università in sé e per sé [erano]

contenti, cioè, quando videro che ai primi esami prendevo tutti 30-30 e lode, cioè, ancora di

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più, eran soddisfatti!». Così lei ha potuto frequentare con maggior costanza il corso di laurea

triennale per poi diminuire sempre più la frequenza durante il corso di laurea specialistica,

laddove – osserva la madre – «finché ce l’ha fatta la sorella… Quando s’è ritirata la sorella,

son dovuta entra’ in funzione io, alla mia bella età…!». Ribadisce quest’ultima «se siamo qui,

è grazie alle nostre forze, sennò…», replica Bibliologa «il trasporto è una grandissima spina

nel fianco». Ed è qui che l’intervento dei servizi si è rivelato importante e per certi aspetti

risolutivo. Bibliologa, infatti, non ha potuto usufruire del trasporto in auto: «il mio problema

era da qui arrivare a Pisa! Per cui, cioè… Io, dal momento che ero arrivata a Pisa, per me

non era… cioè, il problema non sussisteva più, tanto mi son dovuta organizzare comunque

con una macchina, per cui… quando sei in macchina – capirai – fa’ un chilometro in più o

fa’…»

1

. Tuttavia, la possibilità di essere affiancata e coadiuvata da un collega in veste di tutor

alla pari per la didattica è stato il modo per ovviare al suddetto problema: «Addirittura, pensa

che a me mi sembrava fantascienza il fatto che mi mettessero a disposizione un… cioè, una

persona che comunque mi aiutasse nel reperimento dei testi, mi prendesse gli appunti, senza

pagarla! Perché – te l’ho detto – il nostro Comune ha sempre fatto un monte di storie, un

monte di problemi, invece lì niente, son stati gentilissimi, mi hanno snellito molto il lavoro.

Eh!». Il tutor, per quanto riguarda l’esperienza di Bibliologa, è così venuto ad assumere le

vesti di una sorta di alter-ego: «Allora, inizialmente questa ragazza veniva a casa e mi

aiutava a studiare, nel senso: mi leggeva i libri, mi scriveva i riassunti [sotto dettatura]…

Ora si occupa sostanzialmente di andarmi a reperire i testi per l’esame e a seguire i corsi».

Non solo, per i corsi con frequenza obbligatoria, se lei non poteva frequentare, ricorda: «Eh,

mi firmavano il tutor… i tutor, ma il professore lo sapeva. […] Accordo preventivamente –

capito?!». O ancora, qualora i docenti non rispondano alle email, «cioè – diciamo – chi mi

risponde tramite email, bene, ok, sennò ci mando la Iside o comunque chi c’era per lei». O,

infine, nei frangenti in cui la mamma o la sorella non erano presenti per accompagnarla alla

toilette, subentrava la figura del tutor:

F: Ma tu in genere quando frequentavi, ecco, per il bagno, come facevi? Se avevi bisogno, chi t’accompagnava?

MB: La portavo io. O io, o la sorella…. B: O mamma o V., che era…

F: Perché rimanevate là mentre lei frequentava? MB: Sì, eh.

MB: Se andava con la sorella, è segno che studiava; se la sorella ‘un c’era più c’ero io.

B: O sennò, quando ‘un c’era lei, c’era V., che è un’altra assistente [tutor alla pari per la didattica] che m’aveva dato l’USID.

MB: Eh, e lei si, lei ti portava. […]

F: Però, cioè, faceva questa cosa indipendentemente dal fare il tutor?! B: No no, tutto compreso!

MB: No no, faceva tutt’uno. Quando andava col cugino – che la portava il cugino – la lasciava…

                                                                                                                         

1 In effetti, nel suggerire un altro possibile servizio da erogare, Bibliologa osserva: «Magari ampliare il raggio del trasporto anche a Pisa. Lo so che non è di loro competenza, però, sai magari attivare delle convenzioni con associazioni tipo “Apici”, che si muovono all’interno anche degli altri comuni. Infatti, io qualche anno fa avevo chiesto a Laura – pur pagando una cifra, non so, diciamo ragionevole – se il pulmino dell’Apici poteva venirmi a prendere, invece…».

(10)

Il tutor, insomma, ha assunto nell’esperienza universitaria di Bibliologa un ruolo nevralgico

per molteplici aspetti, senza distinzione fra quello che sarebbe dovuto per servizio e quello

che è dato per dedizione della persona. Nel caso, ad esempio, dell’accompagnamento alla

toilette, il contratto degli studenti part-time non prevede una copertura assicurativa, per cui

ogni servizio reso in tal senso è connesso alla disponibilità di ciascuno. Anche con i compagni

di studio, inoltre, sussiste uno scambio: «Sì sì, molto, no no, molto, molta disponibilità [nello

scambio di appunti]! Poi io magari restituivo il favore a un amico o a un’amica… […] Cioè

– diciamo – loro me li passavano, poi io all’esame successivo, se li avevo, li passavo io».

Insomma, anche la madre osserva:

F: E all’università, coi tuoi colleghi, come mentalità…

B: No, all’università spesso mentalità molto più aperta, molto più aggiornata! MB: La cercan tutti, la chiamano tutti. È una cosa bellissima. […]

F: Cioè, ti chiamano… le colleghe?

B: Sì proprio… proprio per appunti, per chiarimenti…

F: Ma per esempio vedervi, così, per andare a vedere un fi[lm], o per vedere un film a casa, anche nel tempo libero, ti capita?

B: No, anche perché le mie compagne stanno tutte a Pisa. Ci vediamo in video chat! […] Eeh! Meno male che ci son… c’è la tecnologia.

D’altro canto, al problema della distanza si aggiunge una ben precisa concezione dello studio

individuale da parte di Bibliologa:

B: No, assolutamente, io non studio mai con colleghi, studio sempre da sola: è molto meglio, più fruttuoso, ci si concentra di più e si risparmia molto tempo ed energia.

F: Quindi preferisci così?

B: Sì. Solo una volta venne una mia compagna di M., ma praticamente non si studiò, si perse solo tempo e… e io addirittura ero anche un po’ arrabbiata perché persi anche un’intera giornata di mare, per cui…

MB: Pensa, da M. era venuta qua, a studiare! […]

B: No, era venuta a L. [ove si trova la casa di villeggiatura di B.]! MB: Si, e poi la domenica venne a L..

B: Cioè, ‘un si può mica solo studiare la domenica, eh!? Cioè, ovvia, ma non romp[ere]! Ehh. F: Dovevate studiare?

MB: No, era lei che aveva bisogno… B: No, era questa mia compagna.

MB: … perché non gli riusciva passare un esame.

B: Ma infatti io – la cosa che t’ho detto anche a te – il sabato e la domenica per me è sacra, io chiappo, vado al mare! Cioè… ‘un mi puoi mette’ a studia’, perché io… [Ride]

Nel contempo, sebbene le persone di volta in volta assegnatele dall’ufficio siano cambiate,

con alcune ha mantenuto un rapporto:

F: Ma… son persone con cui sei rimasta in contatto o…

B: Sì, sì sì. Anzi, addirittura, la prima che ho avuto ha avuto tre bimbe, mi fa vedere… mi manda le foto, mi scrive, sì sì.

F: Ti sei trovata… cioè, ti sei trovata bene, anche a livello di rapporti.

B: Sì. Sì, molto bene, molto bene. Anche ora con Iside, che è quella ragazza che c’ho ora, bene, è venuta anche ieri, abbiamo fatto merenda insieme, cioè, c’è… nasce poi anche un rapporto di amicizia.

(11)

Tirando le somme riguardo all’USID, Bibliologa osserva che «è un buon ufficio, funziona

molto bene! […] Si, Laura e Marta son gentilissime». A questa valutazione si associa la

madre: «Comunque, un ufficio in quella maniera tanto di cappello. S’è laureata, sono venuti

a vederla… […] sono venuti a vederla quando s’è laureata e veramente è un ufficio che, se

c’aveva un esame che non c’era la ragazza o che, sono venuti uno di loro. […] Sicché, come

ufficio io credo che sia l’unico ufficio che noi si sia trovato che ‘veramente’ ci siamo trovati

benissimo!».

Tuttavia, durante la conduzione dell’intervista, questi stessi interventi della madre suscitano la

reazione di Bibliologa:

B: Oh, ma guarda… oh, ma parla anche lei, cioè… […] MB: Però sono cose… vero?!

B: È un eco, io la chiamo il mio eco! È allucinante questa cosa.

MB: No, quello che c’è di buono [stiamo parlando dei servizi dell’USID] va detto.

D’altro canto la madre trova spazio per esprimere le proprie preoccupazioni sul futuro della

figlia e per spiegare quali soluzioni abbiano trovato nella veste di genitori:

MB: Noi con la sua pensione gli abbiamo fatto la casina nuova, che è quella della sua… F: Ahh, a L. [ove si trova la summenzionata casa di villeggiatura]!.

MB: … finché ci siamo noi; quando non ci siamo più noi, la sorella se vede ehhh, sennò attaccati lì! Finché s’è lavorato noi ci s’è pensato, dove poi non siamo più arrivati si usa quella. […] Finché ho le mie forze l’accudisco io, poi però…

B: È quest[o] [la loro abitazione e la ditta di famiglia]… Cioè, vedere questo è tutto metallo che luccica, perché te dici “Maremma, oh, come stanno bene”, invece, cioè…

MB: Si, invece sono anni e anni di… di far che così! Eh… […] Eeh, niente viene da sé! […] Ma, noi, un domani ci vorrà una persona, ‘un siamo mica eterni. […]… e quello, avere i soldi lì a cosa gli serviva?

B: No, a niente! Anche… Anche perché…

MB: Però, il su’ babbo gliel’ha investiti. Gliel’ha investiti, un domani: arrangiatevi, vedete, o l’affittate, o la vendete o che, un qualcosa c’ha.

Il legame con la famiglia e la madre in particolare è, dunque, molto forte e necessario. La

stessa idea di effettuare un’esperienza di studio all’estero, ad esempio, sarebbe stata vincolata

alla possibilità della sorella di accompagnarla:

F: Per quanto riguarda esperienze di studio all’estero, ne hai fatte…?

B: Eh, no – te l’ho detto – la dovevo fare, ma è… poi è dura, è giunto il nipote… […] è rimasta in cinta la mi’ sorella, quindi ho deciso di abbandonare questa esperienza, anche perché non avevo poi chi mi poteva accompagnare.

F: Cioè, tu l’avresti fatta con tua sorella il periodo che poi anche lei era all’università?! B: Sì.

F: E da lì hai rinunciato completamente, non hai… non ti sei informata se c’erano altre possibilità?

B: Inizial[mente]… No, inizialmente ho pensato di congelarla – anche perché rinunciarci definitivamente è stata una grande sofferenza, grandissima, anche per… e poi, vabbè, ora son passati nove anni, credo non sia neanche più valida!

Difficoltà nella realizzazione delle proprie aspirazioni e prolungamento della vita studentesca

sembrano, tuttavia, rinforzare e confermare l’interdipendenza con la madre:

F: Senti, ma… come aspirazione professionale comunque è nel ramo dei tuoi studi o hai anche altre aspirazioni…?

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B: Sì, ovviamente nel ramo dei miei studi, però ti devo dire spassionatamente che a me il ruolo della redattrice piace – di redattrice, scrittrice, piace. […] Infatti, io dico sempre che ho sbagliato, perché io dovevo fare una specializzazione in giornalismo. Quindi, visto che non riuscirò a trovare lavoro, mi specializzerò in giornalismo, prendendo così anche la terza laurea! [Ride]

MB: Ee, la tu’ mamma campa cent’anni!

Bibliologa, certo, esprime piacere e facilità nel portare avanti lo studio:

MB: Comunque lei non è una che studia tanto, eh?!

F: No, poi, eh, mi sembra, stai continuando a studiare… MB: Si, ma studia poco come…

B: Come… A livello di tempo, si, studio pochissimo. F: Quindi apprendi subito?

B: Sì.

MB: Quello che lei studia in due ore alla sorella gli ce ne vuole quattro abbondanti.

Prosegue a riguardo:

B: Io – per dirti – l’esame della F. – non so se conosci… Che è un esamone di circa mille e quattro-mille e cinquecento pagine, un’ora e quaranta d’esame, un caldo che si moriva – l’ho dato a maggio – io l’ho studiato in tre mesi, c’è gente c’ha messo anni! E non è passata. […] F: E l’esame è orale?

B: Sì. Aspetta, però io avevo mandato anche una relazione facoltativa su un tema d’approfondimento.

MB: Sì, però che ti disse: “se non hai problemi continuiamo dopo”. B: Ah, si, voleva continuare anche dopo pranzo! [Ride]

MB: Lei disse: “no, ho problemi di trasporto, ché devo rientrare”. Un’ora e quaranta, via… […]

F: Ti voleva… Ma perché tiene così tanto lei? B: Sì sì.

F: Accidenti. Ma allora in un giorno quando ha fatto tre persone… B: No, c’ero solo io, c’ero solo io, per cui… [Ride] […]

MB: Infatti, dice “ma dopo ritorni”, invece va bene una volta… B: Invece col cavolo che ritorno!

Nel complesso, comunque, per quanto riguarda il rapporto con i docenti Bibliologa osserva:

F: E nel caso in cui tu personalmente avessi bisogno, hai prova[to]… cioè, ti è capitato di chiedere ai docenti il materiale…

B: No. […] Normalmente, cioè, non voglio esser trattata… […] cioè – diciamo – non voglio utilizzare vie preferenziali tra virgolette! Sono brava o non sono brava naturale – diciamo! F: E per quanto riguarda i docenti che atteggiamento hai notato nei tuoi confronti?

B: Mah… tranquillo, da docente. Cioè, ovviamente, l’imparzialità che deve avere un docente. F: E per quanto riguarda comunque il periodo che hai frequentato di più, frequentavi anche da sola, cioè ti capitava di restare a lezione senza il tutor, per…

B: Sì. Sì.

F: E lì come ti sei trovata, cioè, rispetto anche alla disponibilità dei docenti…

B: Bene, bene, anche perché c’avevo comunque degli amici, poi ho sempre trovato docenti molto disponibili, poi io sono una che chiacchiera anche co’ muri, per cui…! [Sorride]

(13)

E poi… e poi niente, sostanzialmente anche come percorso post-laurea ho iniziato a fare le recensioni per l’AIB [Associazione Italiana Biblioteche], quindi collaboro con il bollettino AIB nella sezione, appunto, “Recensioni e segnalazioni” e quella è una cosa che mi da moltissima soddisfazione, sono molto apprezzata anche dalla direttrice, la D.C. – non so se la conosci. […] E in più collaboro con il Meyer, sono redattrice di questo periodico legato, appunto, all’associazione che si chiama “Comunicare” e mi occupo del filone etico.

Nel contempo, tuttavia, alla speranza in una vita futura cittadina – «no – senti – vivere qua

no. In città [Pisa], perché per un disabile offre molte più cose, c’è più facilità di

spostamento» – e alla ricerca di lavoro, affianca timori di vita quotidiana:

F: Eh, insomma, di campi [lavorativi rispetto al suo ramo di studi] ce ne sarebbero.

B: Sì. Ma io infatti, cioè, diciamo che non mi lamento, perché a gratis sto facendo un monte di cose, sono attivissima; però a grat[is], cioè… poi di fatto il riscontro economico non c’è! Capito?!

F: Sì. No no, perché poi viene il momento in cui uno vorrebbe anche avere un riscontro monetario.

MB: Qualche cosina di…

B: Ma mica perché… ‘un mi manca mica niente, anzi, poi io sono una persona che m’accontento, vado avanti con diec’euro in tasca come con mille! Anche domenica abbiamo – diciamo tra virgolette – litigato perché eravamo al mare, volevo andarmi a prendere un the, sicché lei mi mise – diciamo – tanti soldi nella borsa e io non volevo perché dicevo: “beh, sono da sola, se poi disgraziatamente li perdo…!”

MB: Ma con dieci euro, ma chi è che, che ti viene… […] L’è la paura, non è... è la paura! B: No no, ma non è soltanto per i dieci euro, è che se tentando di scipparmi mi fanno poi del male a me – capito?!

A tale apparente binomio di interdipendenza, si aggiunge un terzo attore che resta sopito, ma

emerge comunque latente dalle stesse parole della nostra protagonista:

F: Quindi tu hai fatto anche ricerca di lavoro in questo tempo? B: Sì.

F: E in che ambiti hai cercato?

B: Ah, beh, di tutto! [Ride] Diciamo, sostanzialmente settore bibliotecario ovviamente, poi colloqui anche con l’assistente sociale, ma – t’ho detto – le offerte non mi soddisfacevano, perché sostanzialmente venivo messa lì soprattutto a scopo di socializzazione e quindi io – come dissi alla mia cara assistente sociale che al colloquio non ci capiva un piffero – gli dissi: “signora cara, io non sono mica scema, non ho mica bisogno di venire a scaldare il banco”! E quindi, questa ci rimase un po’ stranita e mi disse: “hai ragione”. Sicché… Pensa che, addirittura, quando le dissi che io mi occupavo di catalogazione, reference, gli nominai un po’ database, appunto, adatti alla catalogazione, questa mi fece: “che”? Come per dire: “che roba è?” […] Mi disse di provare a andare a fare stage in aziende e io gli dissi: “scusa, azienda per azienda, vo nella mia”! […]

F: Sì, quello lo puoi anche fare, uno stage in azienda [di famiglia].

B: Eh, l’ho anche già fatto! […] Si, però – diciamo – hanno dei ritmi troppo serrati, per cui io non ce la faccio. […]

MB: Anche per strappare una bolla, un foglio, a lei gli ci vuole il suo tempo. B: No, io ho problemi ovviamente di manualità, per cui…

MB: E lì è tutto di…

F: Vabbè, intanto l’esperienza però l’hai fatta.

B: Te l’ho detto, sono scrittrice e redattrice di giornale, mi va benissimo così.

La legge 68/99, infatti, prevede l’inserimento professionale per persone con invalidità,

associando tuttavia a tale connotato un basso profilo di studi e quindi professionale. Traspare,

(14)

insomma, l’idea dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità per motivi di sostegno

sociale, piuttosto che in corrispondenza a specifiche competenze. Per lavori maggiormente

qualificati è necessario partecipare ai concorsi come chiunque altro. Tuttavia, alcuni limiti

effettivi nella resa, nella tempistica, nello stesso accesso alle informazioni, sussistono e,

proprio come avveniva fino a pochi anni fa per lo studio universitario, così anche in questo

campo sarebbe necessaria una maggiore attenzione istituzionale. Come ben spiegava

l’antropologa Valentina Gruppi nel suo lavoro di ricerca sulle forme di dipendenza

lavorativo-familiare vissute dalle cosiddette seconde generazioni di migranti cinesi in area fiorentina e

sestese, l’interdipendenza fra genitori e figli è qui agevolata ed incrementata da uno Stato e da

una normativa che non consentono un paritario accesso dei giovani di origine cinese ai

concorsi nazionali (A.A. 2007/2008). Anche nel caso di giovani laureati con disabilità

(fenomeno peraltro in graduale affermazione e crescita solo dall’inizio del nuovo millennio)

tale presenza/assenza dello Stato sembra infine lasciare un segno. Solo con la Convenzione

ONU sui diritti delle persone con disabilità e la Legge 18/2009 ha preso avvio anche nel

nostro paese il riconoscimento del diritto ad una Vita Indipendente, seppure ancora con tutti i

limiti attuativi che tipicamente connotano l’Italia, tanto più in tempi di crisi come adesso.

Anche l’università, certo, ha iniziato a porsi il problema del collocamento lavorativo dei

propri laureati con disabilità, nel momento in cui sono sempre più sviluppati servizi di

Orientamento e Job Placement, sebbene fino ad ora non sia riuscita a coprire tale evenienza se

non casualmente e contestualmente:

F: Ma tramite l’ufficio ti capita che ti propongano concorsi o lavori, tramite l’USID?

B: Eh, no, è stata girata quindici giorni fa la mail dei bandi usciti a F.. […] Però… no, eeh, in sostanza no, lavori dall’USID no. Una volta tirocini, ma ti parlo di due o tre anni fa, che io fra l’altro era il periodo che stavo facendo già i miei in biblioteca, per cui…

Le cose però cambiano e di recente l’USID stesso ha attivato una convenzione con il Centro

per l’Impiego e il Collocamento Mirato proprio in vista di facilitare l’incontro e lo scambio

fra studenti con disabilità in uscita dall’Università di Pisa e enti e aziende del territorio.

1.1.1 La famiglia di Bibliologa

Nel ripercorre l’esperienza di studio di Bibliologa, ho cercato di introdurre le parole sue e

della madre senza sviluppare particolari interpretazioni, in modo tale da lasciar scorrere il più

possibile il loro pensiero e la loro percezione delle cose. Questo è stato anche in vista del

seguente sotto-paragrafo, in cui, a corollario e commento di quanto emerso, desidero riportare

le riflessioni effettuate durante un successivo incontro in cui ho intervistato la madre e la

sorella maggiore (interlocutrice inattesa, ma che si è rivelata peraltro molto pertinente e

significativa rispetto a questo lavoro), sempre alla presenza di Bibliologa stessa. La sorella,

infatti – che lavora in ambito scolastico e che ha frequentato per un periodo l’università

insieme alla nostra protagonista – pur nell’apprezzare i servizi, mette in discussione l’effettiva

reciprocità che li alimenta e la manifestazione di atteggiamenti paritetici da parte degli altri

studenti come pure dei docenti stessi. Ripropongo, dunque, qui di seguito lo stralcio

dell’intervista che ha visto la contemporanea partecipazione di Bibliologa, la madre e la

sorella quali interlocutrici e di me come intervistatrice:

(15)

F: Un tuo… no – visto che ci sei – uhm… la tua impressione dell’esperienza universitaria – dal tuo punto di vista – l’esperienza di Bibliologa, cioè, ‘con’ Bibliologa. Non solo dal…

SB: Legata?

F: Legata sia all’accesso proprio alla didattica e… insomma, all’insegnamento, ai servizi, sia [al]l’aspetto relazionale, di integrazione.

SB: Allora, io ho trovato molto positivo… […] Allora, io credo che sia molto – io ho trovato molto positivo l’esperienza di… bene o male di affiancare le persone disabili sempre ad una… ad una persona in più. Cosa che, cioè, ci si immagina tutti termini – no?!– con la scuola superiore, bene o male. Io, per esempio, nonostante sia insegnante, non ero a conoscenza del fatto che anche le persone disabili potevano essere affiancate da un aiuto durante l’esperienza universitaria. Questo l’ho trovato positivo, ovviamente. Positivo per quanto… per quanto posso aver visto io, perché poi di fatto ci sono tante difficoltà da dover superare. Da quelle proprio fisiche del poter accedere a determinate strutture, perché di fatto ci sono ancora strutture che non sono, eeh… non sono accessibili, per quanto lo sono – come ti posso dire – magari possono entrare fino dentro, però o sono strapiene di persone e quindi il problema sicurezza – già c’è per noi, studenti normali… insomma, entrare in classi sovraffollate con un disabile, cioè, se uno – sarà che io son più grande rispetto a loro- se ti metti un attimo a pensare dici “mah, qui dentro sarà bene starci il meno possibile”! E questo m’è sembrato – vabbè – un aspetto più carente. Però, ecco, secondo me è… io – t’ho detto – non ero a conoscenza del fatto che loro potessero esser accompagnati nel loro percorso da un aiuto, questo m’è sembrato positivo. Certo, non sempre vengono affiancate da persone particolarmente preparate. Forse negli ultimi anni si lasciano un po’ più affascinare dall’idea di guadagnare due soldi – no?! – e non tutti magari potrebbe[ro], dovrebbero esser mandati: ci dovrebbe forse essere una selezione maggiore. Capisco che sia difficile, perché: che cosa si valuta?

F: Eh, perché tu ‘preparati’ – dici – rispetto ai bisogni della persona o rispetto alla materia? SB: Cioè, non sempre… Allora, si presuppone che la persona che arriva all’università sia comunque una persona disabile, ma con… ma una disabilità che non è mentale – o comunque – una parziale disabilità, perché sennò uno non ci va all’università – no?! Ecco, secondo me c’è ancora forte, invece, il vedere il disabile come un disabile prettamente mentale; e, anche alla mi’ sorella – ti devo dir la verità – gli è capitato di avere accanto, di essergli state mandate delle persone che magari l’hanno considerata il disabile che vabbè… una poca attenzione a quello che è l’aspetto psicologico – cioè, “io va bene sono sulla sedia a rotelle, ma ‘un son ciucca!” – e magari invece…

B: Sì, vabbè!

SB: … il passare certe cose che noi magari un po’ più smaliziati si sono viste come cattiverie! Forse si vedano noi come familiari – non so come dirti, no – però… Ecco, quello… dovrebbe essere fatta una maggiore selezione, però – t’ho detto – è una selezione relativa, fine a sé stessa, perché che cosa uno valuta? Di fatto non è che puoi andare a scegliere la persona preparata per seguire direttamente Bibliologa o Bibliologo in quel settore lì… uhmm, tze… […] B: Ma te ti riferisci a una-due persone, cioè, è…

SB: Io dico questo, quello che… perché poi la disponibilità te l’hanno sempre data tutti, te l’hanno…

B: Sì, no, infatti.

SB: … cioè, è naturale, lei è sempre stata… lei è una persona, è la classica studentessa modello: lei va a lezione, sa come – cioè, non ci riesce perché ‘un riesce a scrivere, però, probabilmente ha sviluppato poi una capacità particolare – per cui lei sa che cosa dovrebbe segnare, lo memorizza… Ecco, l’impreparato in questo senso qui: la persona che non sa prendere bene gli appunti… Però – voglio di’ – queste son caratteristiche – no?! – che non è neanche facile, mica tutti ci riuscia[mo], ci riusciamo!

MB: Come fai a sapere…

F: No no, prendere appunti bene…

SB: … eh, non è facile, cioè, cosa si critica, quando una persona ci mette l’anima, ci mette la sua disponibilità, va, ti registra, ti porta la registrazione – perché poi, oh, gli appunti te li prende, ma ‘un li sa prendere! Ma questo lo sappiamo anche noi – eh?! – non siamo… [Bibliologa ride] […] Eh, però… però, insomma – voglio dire – questo, uhmm, lo contesti male,

(16)

perché d’altra parte solo – secondo me – con una certa maturazione si riesce ad arrivare a quella – e forse ‘un sarei capace nemmeno io, eh?!

F: Tu dici agli appunti presi come si deve?

SB: Presi come si deve. Bisogna essere particolarmente preparati: cioè, una ragazza… sono prevalentemente ragazze molto giovani, che si dedicano a questo servizio e non tutte sono… Con una in particolar modo c’ha avuto anche grandi scontri – insomma – questa forma di competizione, perché più si abbassa l’età della persona che viene – io ti parlo sempre nel caso suo, eh?! – più s’abbassa l’età della persona che viene ad aiutare e più entra la competizione – no?! – stranamente.

B: Sì.

MB: Sì, quello sì.

SB: Cioè, in cosa entri in competizione?! Stranissimo! MB: Quello si, più uno è giovane e più…

SB: Più una persona è giovane… E lei ce l’ha avuta davvero, cioè, il fatto di, questi Trenta, questi eeh… cioè, bene o male ha sempre avuto valutazioni molto alte, giustamente, seppure – io dico sempre – ha avuto una marcia, una corsia preferenziale, perché quando si valuta una persona come lei credo che il professore valuti anche la grande fatica, il grande sforzo che lei fa nello studiare. Che non è…

F: Questa era un’altra domanda che volevo fare, che a lei [Bibliologa, che è presente] ho già fatto: i docenti, cioè, che percezione hai notato in questo senso?

SB: Secondo me… Allora, secondo me, laddove ha avuto i vo[ti], le votazioni più basse e dove lei si è arrabbiata di più, dicendo che quello era cattivo, il professore è stato più parziale – più ‘imparziale’.

F: Più imparziale.

SB: Più imparziale. L’ha considerata… cioè, s’è trovato davanti una persona e non ha guardato chi era. Laddove, c’è stato sempre questo 30, questo Lode – con questo ‘unn’è che a lei gli è stato regalato perché lei è comunque una persona che studia e che sa tanto – …

B: No, anzi…

SB: … però tanti – per lo meno io, io da sorella, non lo chiede’ alla su’ mamma perché la su’ mamma lo vede con l’occhio di mamma – …

MB: No, io non ci vado nemmeno dentro [nella stanza do ve si tengono gli esami] quando… SB: … io noto… io ho sempre notato che qualcuno ha avuto un atteggiamento, giustamente – come ti dicevo prima – anche di maggiore protezione; cosa che per gli altri studenti non c’è! Voglio dire – io l’ho sempre detto – io l’ho cominciata [l’università] tre volte e le mie colleghe mi hanno detto più di una volta “ma vai, dai, prova, buttati!” e non mi è mai riuscito, perché non mi riesce andar lì impreparata – no?! – cerca’ d’impapocchia’ qualcosa, ‘un mi riesce. F: Sì, sì.

SB: Lei c’è sempre andata molto preparata, però mi sono trovata anche – Bibliologa io mi ricordo l’esperienza dell’esame di Geografia – …

B: Vabbè! [Sorride]

SB: … l’esame di geografia, dove lui era una persona che, cioè, io ci sono andata col pancione, ‘un s’è accorto che c’avevo il pancione, e lei ha cominciato a dire una castroneria dietro l’altra…

MB: … ma lui s’è messo lì e l’ha ascoltata!

SB: … lui l’ha ascoltata e alla fine gli ha dato 27 – quanto ti dette? MB: Ventisette.

B: Ventisette, mi sembra.

SB: Allora, lei se non era Bibliologa, lui gli avrebbe detto: “guardi, scusi, eh… […] si accomodi”. […] Allora, io questa cosa l’ho notata; l’ho notata – ti dico – non c’è pietà, non c’è… però qualcuno ce l’ha l’occhio di riguardo – non tutti ce l’hanno.

F: Ma secondo te è occhio di riguardo o a volte anche una non conoscenza della cosa per cui non… cioè, lì per lì non sai come fare? Perché…

SB: Secondo me c’è… secondo me c’è proprio non conoscenza della cosa. […] Eh, secondo me sì, è proprio quello: cioè, si trovano davanti un disabile e ‘disabile’ per loro è tutto uguale. Capito?! Ci sono vari tipi di disabili! Secondo me c’è un po’ questo. Quindi la persona si trova di fronte a una situazione così ‘grande’, ha paura – no?! – di… forse di mettere in gioco anche

(17)

sé stesso – perché… perché, oh, alla fine è un po’ anche mettere in gioco sé stessi – e quindi, ecco… quando lei torna – no?! – e dice “e quello è stato cattivo, m’ha tenuto anche 45, 55…”, ecco, lì…

B: No.

SB: … allora io invece sono contenta.

MB: No, quella che l’ha tenuta un’ora e quaranta, per me quella è una donna che non capisce nulla!

B: No, vabbè…

SB: Invece no, è la persona che ha voluto, secondo me, capire di più. B: No…

MB: Ma un’ora e quaranta e dice “se ha tempo ritorni dopo”?

SB: E che invece di dargli il voto così, guardando il suo libretto “tutti 30, ok ti ridò 30” – è vero che, insomma, lei dura tantissima fatica a parlare e che non è sicuramente bello vedere quanto soffre, perché poi c’entra l’emozione, cioè – lì… allora: il professore pietoso in quaranta minuti la manda via e magari ha ‘capito’ venti cose di quelle che lei ha detto, perché ovviamente quando lei poi comincia a parlare con più tensione è anche più difficile la comprensione; il professore che la tiene un’ora-un’ora e mezzo, per loro due è cattivo, per me è obiettivo e cerca…

B: No, vabbè, ma…

MB: No, per me no, io un’ora e quaranta – dico – chiedeva di ritornare anche il pomeriggio, ma a me mi sembra… se una le sa le sa, se ‘un le sa ‘un le sa, mandala via!

B: … ma un’ora e quaranta secondo me mi sembra stupido – scusa! Eh. SB: Si però… mamma, ma la regola è così per tutti! Cioè, ma…

MB: Si, ma un’ora e quaranta e poi dice “se non hai problemi si continua dopo”. B: Con una relazione scritta!

MB: Con una relazione scritta. B: Cioè, eh.

SB: Ma una relazione scritta che lei non ha visto che hai scritto te, che non sa chi è Bibliologa, che comunque…

MB: Al computer…

SB: Bah, al computer c’è scritto che l’ha scritta Bibliologa… MB: Al computer, […] , lei è!

SB: … ma una persona che non conosce chi è lei, che non sa che ha determinate capacità – perché lei quando scriveva i primi articoli, io gli dicevo “ma chi te l’ha scritti?!” – è la mi’ sorella, è la mi’ sorella – io gli dicevo…

MB: Lei, lei gli diceva “ma chi te l’ha scritti?”, dice “no, sono i mia!” F: Eh, allora dai, vuol dire… no, eh, infatti…

SB: … secondo te dico una cosa sbagliata? Cioè, un professore, che non cono[sce], non ti conosce.

F: Si, cioè, guarda, non è… cerchi di capire. SB: Eh, ma come fa a credere…

B: Sorella malfidata!

MB: No, ma te l’ha detto tante volte: “chi te l’ha scritte queste?”

SB: T’ho detto rien[tra]… per loro disabile rientra tutto nello stesso mondo per cui “sì va bene, però, probabilmente non hai grandi capacità”. Chi invece – secondo me – cerca di capire se davvero te ce l’hai – ai loro occhi appare cattivo – però forse è quello che non ha messo né pietà e ha messo forse in gioco la sua professionalità e ha cercato di capire chi ha davanti. Io questo è quello che penso. T’ho detto, in completo disaccordo con il loro modo di vedere, però credo che sia quello più… quella più vera, la soluzione più vera.

Da questa breve e serrata conversazione emergono dunque multi punti salienti della presente

trattazione, su cui torneremo al termine di questa Parte:

- la significatività che l’erogazione di servizi per studenti universitari con disabilità può

avere nell’esperienza di studio di questi ultimi;

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