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P II S R , 1950-1965

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PARTE II

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CAPITOLO II

EX PRAECORDIIS: POESIE E PROSE ROMANE ALL’INSEGNA DI LUCILIO

La Roma oggetto di questa seconda parte non è la «stupenda e misera città» dei versi più famosi; non è, propriamente, nemmeno una città: Squarci di notti romane, il racconto che ha suggerito il titolo e da cui prende l’avvio il capitolo, nel complesso è ambiguo e contraddittorio come tante altre pagine di Pasolini, ma abbastanza chiaro quando la definisce «paesana», «rionale»1: «il paese dei masochisti, delle zanoide, degli antenuli e degli impotenti»2. In apparenza è pure una «Roma senza antichità»; «quattro pietre rotte» sono i suoi monumenti, a sentire Arnardo – cioè il primo ragazzo di vita della narrativa pasoliniana3. Già in Squarci di notti romane il poeta ambisce a nominare l’innominato e l’innominabile4; e a cogliere la «vitalità» di un ‘mondo’ diverso dal «paìs» eletto: vita che scorre irrefrenabile, incessante, e mette in difficoltà l’autore impegnato nell’ardua ricerca di iniettarla nella pagina scritta. Evidentemente un paese assai più grande di Casarsa, ma nonostante ciò ‘finito’ («grandioso ma non infinito»5): un mondo per l’appunto, non lo sconfinato universo materno; e un mondo ‘figliale’, segnato da un’erranza esorbitante, senza freno, che trascina il poeta radicandolo sia al suolo della prosa e finanche, più tardi, all’abbandono delle convenzioni letterarie, sia soprattutto a un paradiso erotico che non appaga, apre inaspettatamente all’infelicità. Dunque, dopo il fragile eden friulano l’inferno indelebile degli ultimi (così ultimi da vivere come animali): figli poveri che preferiscono vendersi anziché frequentare la scuola o lavorare, giovani che non partono a cercare fortuna altrove perché proprio Roma rappresenta spesso quell’altrove al quale sono giunti da altri paesi di fame e miseria; figli orfani, o con madri solo carnali, che vengono irretiti ma a loro volta irretiscono il figlio-fratello maggiore. Proprio Arnardo avrebbe dovuto rendere il narratore (omodiegetico) «l’uomo più felice della terra»6, però quest’ultimo alla fine del racconto, dopo aver consumato un’orgia in uno squallido angolo buio con Arnardo e altri due ragazzi, appare così «scarnificato»7, ossia macerato dal tormento erotico, da essere divenuto uno spettro che non sorvola più il suolo sconfinato come invece faceva lo «spirt di amòur» alcuni anni prima. Anche in Friuli la coppia eros-thanatos aveva particolare risalto – lo abbiamo visto –, però dal 1950 i ragazzi e la morte diventano temi vieppiù consistenti e inquietanti. Ciò detto, è chiaro che già nel primo racconto di   1 P ASOLINI 1998c, pp. 330, 333. 2 P ASOLINI 1998c, p. 330. 3 Vd. P ASOLINI 1998c, p. 332.

4 Intendo sia ciò che lui non ebbe il coraggio di dire apertamente in Friuli, salvo che nei diari (omosessualità,

pederastia), sia ciò che a Roma gran parte della società e della letteratura aveva relegato ai margini (la malavita, la prostituzione minorile, la miseria del sottoproletariato).

5 PASOLINI 1998c, p. 330. 6 P

ASOLINI 1998c, p. 344. 7 PASOLINI 1998c, p. 360.

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questo secondo tempo non si profila soltanto l’immobilità/animalità italica resa manifesta e celebre a partire dal primo poemetto de Le ceneri di Gramsci (L’Appennino) – anticipato dal laboratorio segreto del Coleo di Samo8 –, balenano persino la tensione sperimentale e l’esplosione dello sdoppiamento psichico culminate in Petrolio/Vas; eppure, ancora in un testo così difforme dalle opere discusse nei capitoli precedenti aleggia un’idea di antichità ben definita, fantasmatica, non troppo lontana da quella concepita tra Bologna e il Friuli: d’altronde Squarci di notti romane ‘precede’ il frammento su cui ho chiuso la prima parte, quindi non deve stupire se in un paesaggio descritto tanto minutamente (e liricamente) troviamo i sembianti di una Roma pre-classica. Al posto del «paìs» greco-friulano di Casarsa adesso è cantata una Roma paesana: latina, senza dubbio, ma che a un tempo fa pensare all’originaria grecità italiota. Occorre infatti ricordare che nei primissimi mesi del soggiorno romano Pasolini non si era ancora affezionato alle borgate periferiche: è per questo che il narratore dai mille nomi – «l’interprete, il testimonio, il romanziere»9, Pigmalione, il Delatore, Cacarella, Proust, etc. – si aggira in una precisa area del centro che ruota attorno al punto nevralgico della Roma preistorica e arcaica: l’Isola Tiberina; e che l’orgia finale si consuma sotto il livello stradale, presso il porto fluviale a sud dell’isola: i ragazzi di vita menzionati in Squarci di notti romane abitano tutti a Trastevere e, più a monte, la prima casa romana di Pasolini si trovava in quei pressi (poco a nord dell’isola, nel rione Sant’Angelo). Ma non è una mera questione geografica; l’«al di là di Roma»10 dipende strettamente dai personaggi: la prostituta Nadia, antesignana della omonima fimmina di

Ragazzi di vita, evoca le statuette steatopigiche11; Gabbriele ricorda Niso12; Arnardo una statua emersa dal Tevere – vedremo più tardi quale – e allo stesso tempo un giovane molto dotato, forse l’Ascilto di PETR. 92. 9 (Habebat [...] inguinum pondus tam grande,

ut ipsum hominem laciniam fascini crederes), di sicuro un ragazzo luciliano13; solo uno dei tre prostituti, Franco, rimane senza attributi apertamente letterari – ma paragonato a un «lupo» può essere pure lui ricondotto alla mitologia di Roma. Come si vede, l’autore continua a leggere la realtà attraverso le lenti della propria erudizione classica, proprio come a Casarsa, eppure già in questa piccola lista ci sono due dettagli rivelatori della novità: oltre all’adozione di un vocabolario erotico esplicito – quello che purtroppo sarà costretto a censurare prima di pubblicare il primo grande opus romano –, va segnalata la contaminazione fra la bellezza e il suo opposto; la statua che Arnardo incarna, benché  

8 Cfr. supra, par. 1.5. 9 P

ASOLINI 1998c, p. 337. 10 Cfr. supra, par. 1.3.

11 «Nell’ombra del vicoletto che scende nel venerando prato cosparso di memorie [scil. il Foro Boario], compare

l’anca steatopigica. È una donna nata enorme. Che cosa ci sia in lei dell’impudicizia della paragula, Dio solo lo sa. [...]» (PASOLINI 1998c, p. 332). Cfr. supra, sottoparr. 0.2.3 e 1.2.1.

12 Vd. supra, par. 1.4, n. 283.

13 «Arnardo, nato nel Campo dei Fiori del ’32, e ora parlante di Trastevere, Via della Lungara: che cosa può

ancora far tremare la sua anima, nera, come i capelli? (Un archeologo che ritrovi una statua intatta, non perfetta, ma così carica di latinità da far morire d’amore il Pigmalione nevrotico del 1950, può ben capire la bellezza delle incrostazioni di fango che deturpano la pietra...) I capelli gli stanno appiccicati come quelli delle statue, appunto, ma ariosi e nervosi, ardenti di un capriccio tutto armonia» (PASOLINI 1998c, p. 341; corsivo mio). Sui passi di Petronio e

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anch’essa allusiva a quella di Στοῦ καφενείου τὴν είσοδο14, ha la peculiarità di essere incrostata di «fango», parola-chiave anche di opere romane più note ma usata già con particolare rilievo in questo racconto assieme ad altri termini della bruttezza, dell’impurità, tra i quali spiccano quanti ruotano attorno all’urina e alle feci15. Anch’essi, beninteso, ricorrono nella Roma borgatara degli anni seguenti, però la scrittura multisensoriale di Squarci di notti romane pare insistere specificamente su tale triade (melma, piscio e merda16); e la loro associazione ossimorica con la bellezza statuaria ritorna in un’altra prova narrativa precoce, l’abbozzo di romanzo Giubileo17. Insomma, se il Friuli brillava sotto un «cielo favoloso», «sot il soreli ch’al art / biondu e alt»18: sole connesso con il sogno del mito e dell’Atene classica, la Roma paesana del 1950 vive soprattutto di notte, tra lumi opachi di fanali e lampioni, e per giunta sotto il livello della strada: come se scendendo le gradinate unte di escrementi e fluidi corporei non si andasse a consumare il mero sesso anomico, ma si scendessero i gradini del tempo e si facesse esperienza addirittura di un Tevere pre-urbano, preistorico. Comunque sia, non c’è dubbio che ancora una volta è un fiume a scorrere al centro dell’eros di Pasolini: non più il Tagliamento-Alfeo-Ebro-etc., splendente nell’aria estiva, scenario dei bagni, dei giochi e delle masturbazioni degli amati ragazzini friulani; e nemmeno il Po-Simoenta-mar Egeo dell’infanzia cremonese. Questa volta il Tevere tout court, senza vere e proprie trasfigurazioni geografiche; anzi, con l’unica possibilità di evocare l’Acheronte come già avevano fatto il Tagliamento e la Livenza in

Amado mio19: un Tevere lungo il quale si consuma un sesso anti-idillico, aspro come acre è l’aria che vi si respira; il fiume di una Roma di fango, legno, tufo o laterizio, cioè ora preistorica, ora etrusca, ora repubblicana, ma in ogni caso arcaica, pre-augustea; quindi senza la lucentezza dei marmi greci. Se l’immagine che sintetizza la Roma antica degli anni ’60 sono le rovine del Parco degli Acquedotti (in Mamma Roma più che altrove), e nella Roma infera di Petrolio/Vas l’edicola che ospita la statua-allegoria del romanzo ispirata a Baubo da Priene, quella del 1950 è la Cloaca Maxima, che sfocia appunto nel punto nevralgico del racconto: il tratto di fiume che scorre a sud dell’Isola Tiberina. Tra un attimo vedremo che per fotografare questa Roma «tutta moderna, [...]  

14  «Non lo sospetti, ma ogni boccone, ogni sorsata e ogni boccata di fumo, nel primo bar, ti scolpiva nel marmo

della tua bellezza ancora non creata» (PASOLINI 1998c, p. 345; corsivo d’autore). Per la poesia di Kavafis vd. supra,

par. 1.5, n. 302.

15 Vd. e.g. le pagine iniziali: «Tutti, almeno per un istante, sia pure senza saperlo, vorrebbero morire a quel

profumo di asfalti lontani [...], di pattume, di erbe odorose e di pisciatoi. [...] Su quelle rotaie dei tram, su quei marciapiedi, sue quelle spallette dei lungoteveri infebbrati, su quelle scale che conducono al livello del fiume, coi gradini unti di feci, [...] il profumo delle prime notti precocemente primaverili [...] sfoga liberamente i suoi brividi che scoperchiano i cervelli. [...] Ci sono certi posti in cui [il profumo notturno] si concentra, si coagula, si intrica, puzza e marcisce come un ganglio infiammato. Per esempio, intorno all’orinatoio che sorge in fondo a Ponte Garibaldi [...]» (PASOLINI 1998c, pp. 329-331).

16 Spero che il mio turpiloquio non suoni fuori luogo; a breve si vedrà che rispecchia la svolta pasoliniana oggetto

di questo capitolo.

17 Vd. P

ASOLINI 1998c, pp. 393-394. 18 P

ASOLINI 2003a, p. 78 = Il dì da la me muàrt, vv. 6-7; non è un caso che Pasolini si autociti proprio nella poesia per Maria Callas intitolata Atene (v. 38, «lui se n’è andato, ‹alto e biondo›, sprofondato nell’odore dei tigli»), costruita sulla confusione tra il passato remoto dell’adolescenza ateniese di Maria e quello arcaico, ancestrale, del mondo antico: vd. PASOLINI 2003b, p. 174 e infra, par. 5.2.

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di una attualità che brucia come una fiamma ossidrica a una velocità vorticosa»20 ma al contempo animata dal suo doppio ancestrale, il poeta sente la necessità di ricorrere all’esempio di due autori latini anti-classici, anti-virgiliani: ossia espressionistici, abnormi, realistici: Lucilio e Petronio21. Tuttavia, prima di approfondire tale aspetto, chiudo la premessa anticipando che la Roma oggetto di questa parte è evanescente, frammentaria, oggetto appunto di ‘squarci’ perché, come si è visto poc’anzi, il classicismo pasoliniano negli anni ’50 va in frantumi; nel presente e nei prossimi capitoli vedremo che quanto però sopravvive, come lo spirito della tragedia e quello totalmente nuovo della satira, è destinato ad avere una lunga vita nell’ultimo decennio del nostro.

2.1. Il realismo (e l’eros) di Petronio e Lucilio

Il capitolo comincia da due prose romane che confermano le radici antiche di quello che Pasolini medesimo aveva definito il suo «sogno di naturalismo o verismo»22. È noto che la nuova stagione letteraria avviata nel 1950 è contraddistinta dal passaggio a una scrittura realistica, sia pure molto sui generis: cioè sempre altamente poetica, talvolta epico-figurale (sull’esempio dantesco) talaltra lirico-espressionistica23; ancora nessuno ha rintracciato invece i modelli antichi di quel sogno, che in termini di mera cronologia prevalgono sugli altri perché all’arrivo a Roma nel gennaio 1950, eccettuati Dante e Belli, sono gli unici già presenti nel bagaglio culturale del nostro24. Il solo studioso che si è vagamente avvicinato alla mia ricostruzione è Paolo Lago, autore di una monografia sulla linea culturale menippea nelle opere di Pasolini, Arbasino e Fellini e di un’attenta comparazione fra il Satyricon di Petronio e Petrolio/Vas; ma non si è accorto che l’importanza del misterioso poeta latino è sia di molto anteriore al romanzo postumo sia legata a quella di Lucilio, né ha compreso che l’esemplarità petroniana (come quella luciliana) si pone più nei termini di una lettura diretta e storicamente determinata che in quelli illuminati da un’analisi teorica attendibile e allettante ma talvolta priva di fondamenti testuali: intendo dire che la monografia di Lago cade nell’errore di rintracciare una funzione menippea in ‘tutta’ l’opera di Pasolini, persino nelle raccolte poetiche giovanili, cioè in versi che di menippeo hanno solo ‘pochi’ dettagli, i quali rientrano senza dubbio nelle teorie di Bachtin e Kristeva ma appunto perché sparuti non fanno sistema e non bastano a iscrivere quei testi e intere stagioni creative nell’alveo della menippea moderna (tutti gli anni ’40 e ’50). Per autori quali Arbasino e Fellini,  

20 P

ASOLINI 1998c, p. 332.

21 Naturalmente dico anti-virgiliani con riferimento al precedente modello latino, illustrato al par. 1.4. 22 P

ASOLINI 1998c, p. 436.

23 Sugli svariati ispiratori del realismo romano (oltre a Dante e Auerbach, Belli, Gramsci, Caravaggio, Gadda,

etc.) e sulla ricca bibliografia sul tema cfr. SANTATO 2014, pp. 235-236, 243-249.

24 L’unico ad aver ipotizzato l’importanza di Petronio per la prima narrativa romana è stato G

AGLIARDI 1993, pp.

189-191, ma senza passare dall’ipotesi alla dimostrazione; si limita, scandalizzato da un’affrettata e poco consapevole lettura di Petrolio/Vas, a rifiutare il parallelo fatto da Pasolini medesimo e a proporre il nome alternativo, fin troppo banale, di Ragazzi di vita. In ogni caso a lui il merito dell’intuizione.

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che con il classico hanno avuto un confronto marginale, l’analisi speculativa è di sicuro la via preferibile, però nel caso di un poeta che ha letto direttamente i classici della menippea antica (Seneca e Luciano), nonché molta letteratura greca e latina tout court25, credo fosse poziore un approccio storico-filologico: forse – su Pasolini – avrebbe portato Lago a un bilancio più ponderato e aderente al reale. Beninteso, di alcuni paragrafi de L’ombra corsara di Menippo terrò conto e in questo capitolo e nel seguito della tesi26, ma cercherò di rendere al meglio l’idea della progressività storica e della complessità del fenomeno lì studiato; e anticipo fin d’ora che oltre all’errore di aver attribuito una natura menippea a opere ‘per nulla’ menippee lo studioso ha mancato di lumeggiare l’elemento più specificamente ‘satirico’ di una produzione che è davvero ascrivibile a tale tradizione. Nella monografia di Lago si parla poco o niente di bersagli della satira, di mordacità satirica, di virtù dell’eroe satirico, etc.: di tutti gli strumenti di quel genere antico praticato da autori cari a Pasolini: Lucilio in primis, in secundis Petronio e Luciano di Samosata. Era di converso molto importante farlo perché da quanto segue emergerà – spero – che il nostro è stato poeta satirico prima che autore menippeo; e che, in ogni caso, quando aderisce alla menippea moderna sta facendo satira – cosa ovvia, quest’ultima, ma tenerla a mente dovrebbe evitarmi difetti analoghi a quelli de L’ombra corsara di Menippo.

Comincio dal dire che la lettura di Petronio su cui richiamavo l’attenzione un attimo fa non è facilmente determinabile come invece lo studio delle satire luciliane. Nella biblioteca personale di Pasolini non si trova solo una traduzione moderna, d’autore, del più famoso ed esteso frammento del Satyricon (La cena di Trimalcione, a cura di Saverio Vollaro; Guanda 1963), bensì addirittura un lungo saggio sugli hapax legomena e sulle cruces presenti nel romanzo, firmato da Giovanni Alessio (1967)27: dal capitolo precedente sappiamo che il poeta non era disavvezzo a leggere monografie accademiche, anche attinenti al mondo classico – e continuerà a farlo, come vedremo –, però il libro del glottologo calabrese è l’unico esempio di un’opera tanto dottrinale concernente il mondo antico: erudizione allo stato puro. Data la struttura elencatoria del saggio è possibile che fosse uno strumento di lavoro utile alla traduzione del Satyricon che Ettore Paratore provò a commissionare a Pasolini28; l’altra ipotesi è che avesse  

25 Ce lo ricorda Lago medesimo: cfr. e.g. L

AGO 2004, p. 300. 26 Cioè LAGO 2007, pp. 34-47, 116-133.

27 Cfr. C

HIARCOSSI-ZABAGLI 2017, pp. 161, 232.

28 Ho appreso notizia della richiesta di Paratore, avanzata per il tramite di Cesare Questa, da Leopoldo

Gamberale, l’eminente studioso de Il vantone: inter pocula, in data 14 marzo 2018. L’ormai anziana fonte non ricorda a quando risalisse la telefonata dell’allora giovane Questa, ma un naturale terminus post quem è il conseguimento della fama da parte di Pasolini, quindi indicativamente tra 1955 e 1957; inoltre, secondo me, è ‘assai probabile’ che la commissione del Satyricon fosse avvenuta dopo il successo di Orestiade al Teatro greco di Siracusa e ‘probabile’ che avesse seguito pure la messinscena de Il vantone: quindi nel cuore degli anni ’60, quando ormai Pasolini disponeva di tempo sempre minore per impegni così delicati – stando alle parole di Gamberale, Pasolini accettò ma precisando che se ne sarebbe riparlato nel momento in cui si fosse liberato di alcuni progetti già avviati. Aggiungo che anche da un’altra fonte orale mi è giunta la notizia di altre traduzioni classiche rispetto ai testi oggi editi (sui quali vd. infra, cap. 4): Francesca Tuscano – anche lei inter pocula, ma in data 4 dicembre 2015 –, alla quale Gianni Scalia confidò che l’amico Pasolini gli aveva mostrato diverse traduzioni inedite – Tuscano non ha saputo dirmi quali traduzioni però mi ha garantito che Scalia intendeva inedite sia a quei dì sia tutt’oggi. Ovviamente ho provato a rintracciarle, ma da Scalia non ho potuto avere alcuna precisazione per raggiunti limiti di età; e nei diversi archivi pubblici presso cui si custodiscono le carte pasoliniane non risultano presenti abbozzi di traduzioni

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invece qualche attinenza con l’officina di Petrolio/Vas, cioè con l’«edizione critica» del «monumentale [...] Satyricon moderno»29. Forse un esame autoptico della copia potrebbe spiegare il motivo della sua sorprendente presenza nella biblioteca romana. Comunque sia, se i due libri petroniani e la proposta di Paratore potrebbero aver favorito una rilettura del romanzo databile agli anni ’60, Squarci di notti romane,

Giubileo e il sequel di Amado mio attestano che, tutta o in parte, l’opera era già stata

letta o all’inizio del 1950 o ancor prima: nel quadro della formazione classica giovanile; a Bologna o a Casarsa, quando il poeta disponeva di una notevole collezione di testi greci e latini svenduta proprio all’arrivo nella capitale (per pagare i ragazzi di vita30). Naturalmente è suggestivo pensare che si sia liberato del Satyricon e dell’edizione marxiana di Lucilio per calarsi nei panni di Encolpio e dell’amante di Genzio, Agrione, Macedone e degli altri paides kaloi; ma non possiamo sapere se possedesse pure un’edizione del romanzo latino né se la teubneriana di Lucilio abbia fatto proprio quella fine. Quel che è certo è ancora una volta riconducibile agli anni universitari: nella letteratura latina di Coppola il realismo luciliano è accostato a quello di Plauto e Petronio31. In particolare il professore usa un’espressione di sicura presa sul nostro quando parla di lingua «fotografica»: malgrado l’indubbia erudizione e il ludus parodico-menippeo, l’autore del Satyricon sarebbe in grado di cogliere immediatamente la realtà, di esprimerla nella pagina scritta come pochissimi altri32; come appunto Lucilio, che anche a rischio di compromettere l’approfondimento psicologico, con fisicità e vitalismo fa sbalzare dalle sue satire la Roma a lui contemporanea (ora amata, più spesso derisa con violenza). Purtroppo su Petronio abbiamo poche righe, però in

Gaio Lucilio cavaliere e poeta Coppola scrive senza mezzi termini che il realismo

luciliano scaturisce da una piena «adesione con l’anima e i sensi alla Roma che gli sta dinanzi agli occhi» e che tutto nelle sue satire sembra ancora ‘palpabile’33: con ogni probabilità l’odierna filologia classica – ignara degli studi luciliani di Coppola34 – non potrebbe apprezzare una ricostruzione così enfatica, anche a fronte del malridottissimo stato in cui ci sono pervenuti i suoi componimenti, tuttavia non bisogna dimenticare che il filologo campano era pur sempre un esperto di autori frammentari e dunque abituato a cavare molto dal poco; e, soprattutto, che nella prospettiva di questa tesi importa più la ricezione pasoliniana che il mancato parere di esperti ed esperte di Lucilio. Interessa il legame segnalato da Coppola fra Plauto, Lucilio e Petronio (che non a caso sono i classici latini, dopo Virgilio, più legati al nome di Pasolini); e, ancor più, interessa che lo studente dell’Alma Mater abbia sentito parlare di un classico capace di aderire e  

inediti. Se Pasolini non li ha cestinati o consegnati a qualcuno, potrebbero essere rimasti fra le carte vegliate dalla cugina vestale. Se un domani dovessero emergere e, fra questi, anche un saggio dal Satyricon, le considerazioni fatte in questo capitolo potrebbero trarne ulteriori lumi.

29 P

ASOLINI 1998c, p. 1161. 30 Cfr. S

ICILIANO 2015, pp. 182-183.

31 La critica moderna conviene invece soltanto sull’accostamento fra Lucilio e Petronio: oggi Plauto è considerato

un autore molto più misurato e urbanus di quanto credeva Coppola.

32 Cfr. C

OPPOLA 1941a, pp. 280-281.

33 Cfr. COPPOLA 1941b, pp. 87-88 (corsivi miei).  

34 Non c’è traccia di Gaio Lucilio cavaliere e poeta nemmeno in un volume recentissimo, concepito in anni in cui

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ritrarre la realtà con i propri sensi e con la propria anima: è pure da tale idea di espressionismo ‘fisico’, di istantanee copiose e mosse – lutulente, direbbe Orazio – che discende la stretta relazione fra le due cripto-citazioni latine di Squarci di notti romane:

Quando Gabbriele e il Delatore conobbero Nadia, la mignotta, con loro c’erano altre due lenze. Il Delatore, Arnardo lo aveva conosciuto ancor prima di Gabbriele: sempre in una di quelle notti calde di febbraio e di marzo, quando le due Rome scorrono parallele come una corrente tiepida in un mare freddo, come le corde di un violino, e i gangli cominciano a suppurare quasi irritati da un ritmo, funebre o festivo, di tamburi, che risale su dal tempo, dalle notti napoletane di Petronio... respiro dell’ossessione... placida sistemazione del vizio inclassificabile e mortalmente inquieto... interpretazione boccaccesca dei linciaggi e delle rogne incurabili... Essi, gli oggetti, il «ragazzo dalla glande grossa» di Lucilio, o Arnardo, accettato l’inaccettabile, salvato malgrado tutto l’onore, come spinti da quel ritmo che sopravvive alle generazioni, generalizzatore e normalizzante – e macabramente originario – hanno trovato il modo di mandare al diavolo gli scrupoli del resto mai avuti, e di scendere intorno al ganglio, come fossero del sangue puro, a marcirvi per un momento – per poi rientrare nella notte, calda ma lontana, ah quanto lontana, – nuovamente puri. (Beati gli inconsapevoli, è di essi il regno della terra)35.

Appare chiaro che fa da legante anche il tema corporeo, sessuale; ma questo semplice particolare si inserisce nel complesso di un’opera dalla forte tensione programmatica, che al lettore erudito comunica di voler avviare un discorso ben diverso da quello dei romanzi e dei racconti concepiti in Friuli (eccettuato, per certi versi, il primo abbozzo di Amado mio): un discorso realistico, appunto, ancorché dai contorni onirici, inquietanti. Prima di chiarire il nuovo manifesto poetico, conviene illustrare alcuni dati minuti del breve, denso e criptico excerptum. In primis, il legame fra Lucilio e Petronio non si limita al realismo, all’eros, alla parodia («Beati gli inconsapevoli, è di essi il regno della terra»), ma riguarda la stessa predilezione per il frammento; non può essere una coincidenza che in un passo in cui sono fatti i nomi di due autori non pervenuti integri Pasolini dissemini il testo di puntini di sospensione: è il palesamento microscopico di una tendenza generale avviata da Squarci di notti romane, ripresa in altre brevi prose dello stesso periodo e confluita infine in Ragazzi di vita e, in modo esibito e provocatorio, in Petrolio/Vas. Alla scrittura con soluzione di continuità sono sottese sia l’idea della visione onirica sia quella del realismo: una narrazione frammentata rimane informe e quindi risulta più autentica e veritiera – e molti anni più tardi, quando lavorerà all’ultimo grande progetto ‘scritto’, la lacuna ospiterà anche il mistero della vita. In secundis, è evidente che il primo incontro con Arnardo fa riemergere il tempo antico dal fiume che scorre alcuni metri sotto la «feroce spalletta»36: non propriamente la preistoria di Roma, in questo passo preciso, bensì il tempo romanzesco della graeca urbs scenario delle prime sezioni superstiti del  

35 PASOLINI 1998c, pp. 339-340.

36 Nella seconda sezione del racconto, dedicata ad Arnardo, viene descritto quello che in questo passo (desunto

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Satyricon (PETR. 1-98). E si sta alludendo, credo, persino a un brano specifico: è vero

che sia Lucilio sia Petronio hanno per Pasolini un’esemplarità anzitutto generale, come si è appena visto, però la citazione del primo consente di isolare pure un singolo passo del Satyricon, quello riportato all’inizio del capitolo: tratto dalla sezione successiva alla cena, quando Encolpio e Gitone sembrano finalmente riconciliarsi e, il protagonista, godere della sconfitta del rivale Ascilto, che nel frattempo è stato catturato ai bagni pubblici da uno sporcaccione impressionato dallo straordinario pondus. Il riporto luciliano invece solleva alcuni problemi, che vanno chiariti per la prima volta37. Si tratta senza dubbio di una citazione a memoria, al pari di quella petroniana: cosa che il nostro faceva spesso, anche quando aveva il libro a portata di mano38; e a maggior ragione in questo caso, quando con buona probabilità i due tomi teubneriani erano già stati svenduti. La memoria non è ferrea, per cui, malgrado il virgolettato, non è citato con precisione nessun frammento; Siti e De Laude ipotizzano che sia alluso cursoriamente LUCIL. 72 M.39, verso di una satira-processo (dal secondo libro) nella quale il giovane

accusatore Tito Albucio avrebbe rimproverato addirittura un rapporto anale – forse omosessuale – al più attempato e autorevole imputato Quinto Mucio Scevola, ex pretore e governatore d’Asia: si natibus natricem inpressit crassam et capitatam40. A causa dell’indeterminatezza del riferimento pasoliniano è impossibile escludere o ribadire una volta per tutte tale ipotesi, però ritengo che sia meglio precisarla limitando il campo di azione del riporto al solo secondo aggettivo della coppia – che può effettivamente essere tradotto: «dalla glande grossa». Credo cioè che l’autore non avesse in mente il verso specifico e la relativa satira processuale – omessa sia a lezione sia in Gaio Lucilio

cavaliere e poeta –, bensì ricordasse il singolo dettaglio (contenutistico e linguistico) di capitatam; ricordasse, vale a dire, il vocabolo latino fuori contesto, come emblema di un

carattere generale della poesia luciliana che l’aveva molto colpito pochi anni prima durante la lettura di tutte le reliquiae: ossia quale emblema di una lingua aperta alle invenzioni di lessico, alle espressioni gergali e ai vocaboli dell’eros più immediato. Nel ricordo di capitatam c’è quindi un intero universo stilistico che l’autore di Squarci di

notti romane tenta di riprodurre inventandosi una scrittura nuova,

poetico-espressionistica, in continua tensione tra visione lirico-soggettiva e realismo; scrittura che con suo grande rammarico dovette stemperare in vista della pubblicazione di

Ragazzi di vita. L’aspetto erotico è precipuo perché, come dissi41, di sicuro le satire luciliane devono aver rappresentato per un ragazzo oppresso dalla censura del tabù anzitutto un prezioso momento di evasione e di libertà, eppure, come la stessa citazione sembra suggerire, anche l’elemento linguistico deve aver giocato un ruolo importante. Il   37 L AGO 2007, p. 95 sorvola. 38 Cfr. le considerazioni di Siti in P ASOLINI 2003b, p. 1899.   39 Cfr. P ASOLINI 1998c, p. 1973, n. 2.

40 Ribadisco che, contrariamente a quanto lasciano intendere Siti e De Laude («il passo luciliano parla dunque di

un giovane che possiede un cazzo voluminoso»), il «giovane» era Tito Albucio, non l’Augure Quinto Mucio Scevola. Cfr. MARX 1904, pp. xli-xlvii; TERZAGHI 1934, pp. 280-289; KRENKEL 1970, pp. 64-65; KNOCHE 1975, p. 45; e

CHARPIN 1978, pp. 101-106. Nel frammento latino alluso da Pasolini si trattava sì «di un cazzo voluminoso e “dalla grossa testa”», ma non quello di un ragazzo assimilabile ai personaggi di Squarci di notti romane.

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femminile di glande forza la norma italiana42e, se è ancora una volta impossibile dare una spiegazione incontestabile, in questo caso però concordo appieno con la nota del Meridiano: i curatori paiono dire che è stata ricercata l’etimologia latina in conseguenza della citazione da un poeta latino43; se intendevano implicitamente anche questo, è un’idea condivisibile, però si possono fare altre considerazioni. Premesso che glans non è attestata in nessun frammento luciliano né, a parte la neoformazione capitatus, esistono vocaboli che designano l’estremità del pene (ma solo il pene), forse Pasolini, memore della mixis e della creatività linguistiche illustrate da Coppola, potrebbe avere immesso nell’italiano un latinismo non letterario “come” il poeta latino usò senza problemi grecismi tecnici quali gangrena o herpestica (LUCIL. 53 M.)44; o aver calcato

il latino “come” Lucilio il greco (κεφαλωτός): ricorro alle virgolette non solo perché i piani dei due autori non vanno troppo confusi, ma soprattutto perché – repetita iuvant – non credo che Pasolini si ricordasse tutti i dettagli del fr. 72 M. o di altri versi analoghi, bensì esclusivamente il fenomeno generale, che più volte Coppola aveva menzionato tra lezioni e testi d’esame45. Questa precisa interpretazione potrebbe non persuadere tutta la critica perché spinge alle estreme conseguenze una comunque innegabile erudizione di fondo, ma non direi altrettanto della questione stilistica complessiva: senza dubbio anche grazie al maestro il giovanissimo Pasolini rimase entusiasmato dalla franchezza sia erotica sia linguistica del poeta satirico; e questi due piani, che a me paiono sovrapporsi perfettamente nella citazione luciliana di Squarci di notti romane, sono di sicuro al centro della riscoperta di Lucilio all’inizio degli anni ’50. In due parole: hanno ragione Siti e De Laude a segnalare che l’autore sta alludendo alla biscia di un giovane personaggio luciliano, però non può essere alla lettera quella del vecchio Scevola di LUCIL. 72 M.; a distanza di molti anni dal corso bolognese e dagli studi per l’esame di

letteratura latina, il nostro aveva un’idea ormai confusa dei singoli frustuli luciliani, ricordava bene solo i caratteri complessivi di quell’innovativa opera satirica – tra breve andremo a considerarli con maggior cura perché lingua ed erotismo non esauriscono la questione. Se dunque l’abnormità corporea del frammento luciliano conferma che la notte petroniana allusa due righe sopra è quella in cui Ascilto viene applaudito ai bagni pubblici, esiste tuttavia un altro elemento che lo comprova: proprio i bagni. Altrimenti dall’autore di Squarci di notti romane Petronio non si sofferma con insistenza e desiderio sui profumi più turpi46, ma come lo stesso Lucilio non si fa problemi a nominare i luoghi umili e sozzi (moralmente sozzi, anzitutto)47; nel passo che segue la  

42 Cfr.

GDLI, s.v. «glande» (vol. VI, p. 920).

43 Cfr. P

ASOLINI 1998c, p. 1973, n. 2: «Si noti l’uso di glande al femminile (secondo l’etimologia latina, dove

glans, femminile appunto, è termine medico e di scarso impiego letterario)».

44 Serpere uti gangrena malo atque herpestica posset.

45 Cfr. Registro delle lezioni di Lingua e letteratura latina dettate dal Prof. Goffredo Coppola nell’anno

scolastico 1940-1941, p. 9 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 53) e COPPOLA 1941b, pp. 75-81.

46 Ma vd. P

ETR. 21. 2: cinaedus [...] nos [...] basiis olidissimis inquinavit. 47 Vd. e.g. L

UCIL. 312 M. (pistrinum adpositum, posticum, sella, culina) e soprattutto LUCIL. 400 M. (qui in

latrina languet), un frammento che molto probabilmente faceva parte di una satira ricavata dalle esperienze personali

del poeta nella guerra numantina: particolare bersaglio erano l’ozio e l’indisciplina dei soldati romani, troppo dediti alla cura del corpo e al piacere omosessuale, una deriva alla quale soltanto Scipione Emiliano avrebbe saputo porre rimedio; vd. infatti LUCIL. 398-399 M. (praetor noster adhuc, quam spurcos ore quod omnis / extra castra ut stercus

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lingua non è plebea perché è un poeta megalomane a parlare, particolarmente di successo proprio quando non declama versi ma racconta fabulae48, però l’ambiente e le azioni sono a colpo d’occhio oscene – e tanto più appaiono tali per contrasto con il brillante resoconto del narratore intradiegetico:

Instat Eumolpus, et cum puer illi potionem dedisset, «Malo te» inquit «quam balneum totum» siccatoque avide poculo negat sibi umquam acidius fuisse. «Nam et dum lavor» ait «paene vapulavi, quia conatus sum circa solium sedentibus carmen recitare, et postquam de balneo [tamquam de theatro] eiectus sum, circuire omnes angulos coepi et clara voce Encolpion clamitare. Ex altera parte iuvenis nudus, qui vestimenta perdiderat, non minore clamoris indignatione Gitona flagitabat. Et me quidem pueri tamquam insanum imitatione petulantissima deriserunt, illum autem frequentia ingens circumvenit cum plausu et admiratione timidissima. Habebat enim inguinum pondus tam grande, ut ipsum hominem laciniam fascini crederes. O iuvenem laboriosum: puto illum pridie incipere, postero die finire. Itaque statim invenit auxilium; nescio quis enim, eques Romanus ut aiebant infamis, sua veste errantem circumdedit ac domum abduxit, credo, ut tam magna fortuna solus uteretur»49.

Eumolpo dice balneum, Lucilio latrina, Pasolini «orinatoio»/«pisciatoio» (nell’incipit del racconto50): in tutti e tre gli autori c’è un nesso tra i (diversi) luoghi pubblici dedicati all’igiene intima e l’eros anomico51. Come il dissoluto e ingordo cavaliere di Petronio o l’avidus Ostio Quadra senecano, o come l’amico Sandro Penna, Pasolini si aggira fra i cessi e le pubbliche latrine per rimorchiare ragazzi; per questo nelle prime pagine arriva a identificare nell’«orinatoio che sorge in fondo a Ponte Garibaldi: presso la fermata della Circolare Rossa» il primo dei «gangli» della Roma malandrina, dal quale risorge il ritmo antico delle notti petroniane. In questa prima prosa di argomento romano il poeta non è particolarmente volgare; fa uso del turpiloquio, di alcune espressioni gergali, ma non ha ancora messo a fuoco l’importanza della mimesi linguistica: ciò che importa è il ‘tema’ degli escrementi e dei fluidi corporei, al quale dà un risalto molto personale, lirico, e quindi non strettamente  

foras eiecit ad unum) e cfr. MARX 1905, pp. 150-151, CICHORIUS 1964, pp. 302-306, KRENKEL 1970, pp. 73-74 e

CHARPIN 1979, p. 35. Quanto alla giustapposizione tra Lucilio e Petronio, naturalmente bisogna precisare che

all’epoca del primo i balnea erano assai meno diffusi e popolari che al tempo del secondo e inoltre – per quel poco che appare dalle evidenze archeologiche – più grezzi; ma, per l’appunto, in entrambi gli autori rappresentavano il tipico luogo del vizio e dell’eros tra maschi, non condannato in quanto tale bensì nei suoi eccessi: in modo pugnace e tagliente da Lucilio, con ironica leggerezza da Petronio (il cui eques Romanus [...] infamis oggi non può non richiamare alla mente del lettore erudito l’Ostio Quadra di SEN. Nat. 1. 16).

48 Cfr. B ECK 1979, pp. 249-251. 49 P ETR. 92. 5-10. 50 Vd. P ASOLINI 1998c, p. 331.

51 I frammenti di Lucilio sono così malridotti che non consentono di farsi un’idea concreta dei bagni usati in quel

di Numanzia, e nemmeno di comprendere con precisione il nesso fra la pratica igienica e quella sessuale; tuttavia, mentre nel fr. 400 M. si designa una stanza da bagno, PETR. 92. 5 fa riferimento all’intero edificio dedicato alla cura

del corpo, costituito di molteplici locali benché più piccolo delle thermae. Nel caso di Pasolini sono sia menzionate le latrine vere e proprie – moderne, beninteso, ma come vedremo tra un attimo direttamente equiparate alle antiche – sia si allude alla pratica di orinare (e quant’altro) sui muri e le porte dei vicoli trasteverini, e nei lungoteveri. L’importanza delle latrine nei primi racconti romani è già stata segnalata da BELLEZZA 1981, p. 142 – anche lui

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riconducibile a Lucilio e Petronio – nessuno dei due poeti antichi canta la bellezza e la necessità di quanto vi è di più turpe –, e che tuttavia il nostro lega senza dubbio ai suoi modelli latini perché il medesimo argomento torna in Giubileo, in un passo in cui entra esplicita in gioco la classicità, e ancor più nel «Satyricon moderno». Giubileo è l’abbozzo di un romanzo incompiuto, successivo a Squarci di notti romane però anch’esso datato al 1950; malgrado sia analogo al racconto di cui mi sono occupato fin qui, non tratta della scoperta dell’eros mercenario in una forma sperimentale: cioè discontinua, frammentaria, con diversi inserti lirici (ancorché in prosa), con un narratore che cerca di continuo di sottrarsi a una codificazione definitiva; Giubileo semplifica lo stile mantenendo tuttavia l’acredine originaria – in alcuni passi stemperata in umorismo moderno – e narra linearmente la vicenda di un professore di archeologia che nasconde un doppio oscuro, l’avventore di giovani prostituti. Già la prima epifania erotica avviene in un luogo osceno; ed è notevole che non molto altrimenti da quanto accade nell’excerptum petroniano i gabinetti di un cinema popolare siano raccontati con ironica aulicità: «Egli si alzò, e, con una fugace occhiata, la terza, e quanto anonima, a Giubileo, aprì con un delizioso colpo di spalla la porta-persiana e scomparve verso il più umano degli uman privadi. Giubileo, con straordinario sangue freddo, lo lasciò

scomparire, si aggiustò il cappotto e gli occhiali, indi con la leggerezza di uno spirito,

quasi senza nemmeno socchiuderla, valicò la porta e si trovò di botto nella luce nuda dei cessi»52. Abbiamo qui un bell’esempio di citazione menippea, deformante, che intenerisce Inf. XVIII,v. 114 e al tempo stesso evoca cripticamente lo «sterco» del v.

11353: uscito dal cinema Borgia assieme al moretto e raggiunta un’area appartata, in periferia, «sulla mota e i sassi, Giubileo vide fior d’ogni colore. Sì, fior d’ogni colore – ma, come vedremo, di ogni odore»54; perché, consumando l’amplesso, il professore rimane vittima di una situazione già luciliana che stavolta però l’autore preferisce tenere segreta dal momento che le due pagine seguenti sono giocate proprio su una ironica aposiopesi, sul misterioso puzzo che grottescamente trasforma Giubileo in una «fetida crisalide»55 – Haec inbubinat, at contra te inbulbitat <ille>56 è il frammento che si cela nelle pieghe intertestuali del pezzo e con buona probabilità il nostro aveva in mente nei medesimi termini di LUCIL. 72 M. essendo inbulbitare un’altra particolarità linguistica

oscena57. L’episodio finale del «relitto» romanzesco rincara la dose e rivela come ancora una volta Pasolini non tenga presenti solo i classici medievali e moderni, anzi nei primissimi mesi romani i modelli antichi esercitino addirittura una sottile preminenza e sia l’ispiratore della narrativa romana più nota a farne le spese (Dante); oltre, beninteso, al puritanesimo cattolico: vero bersaglio della satira di Giubileo. Una domenica mattina  

52 P

ASOLINI 1998c, p. 386 (corsivo d’autore); l’intero episodio è alle pp. 384-386.

53 «Vidi gente attuffata in uno sterco / che da li uman privadi parea mosso» (D

ANTE 1991, p. 555). Sulla tecnica

della citazione menippea cfr. FUSILLO 1992, pp. 24-26.

54 P ASOLINI 1998c, p. 387. 55 P ASOLINI 1998c, p. 388. 56 L UCIL. 1186 M.

57 Si tratta di una scherzosa neoformazione ricavata dal vocabolo demotico βόλβιτον (‘boassa’); è sicuro che

Coppola non discusse frammenti pederotici, perciò Pasolini la scoprì e la apprezzò da solo. Su inbulbitare cfr. MARIOTTI 1960, p. 65.

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il professore fa visita al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, gaio sia per la triplice fornicazione della notte precedente sia per aver defecato quella mattina stessa («si ripeteva infatti lepidamente [...]: DEFECATIO MATUTINA EST TAMQUAM MEDICINA»58); e ispezionando l’Apollo del Tevere ha una «quasi mistica» visione: gli

balena davanti agli occhi «l’Atlante Scatologico dell’Italia tosco-umbra, annosanta, sbordellata, meneghino-terronica ecc.», «un’intera Oscenologia» che fa esclamare l’autore: «Ah l’Italia»59. Agli occhi di Pasolini quanto più è donna di bordello tanto più l’Italia appare gradita: l’abbozzo non si chiude, come suggerisce invece Guido Santato, con l’archeologo che decide di trasferirsi in campagna per dedicarsi meglio agli studi; chi colga la parodia dantesca (Pg. VI, vv. 76-78) e tutti i riferimenti alla classicità latina

si accorgerà che alla fine Giubileo concepisce l’idea di farsi inbulbitare da tutti i paides

kaloi delle province, periferia romana compresa60. Il professore scappa dal centro per sottrarsi al proibizionismo, all’atmosfera giubilare che si respira a ogni angolo della Roma sita alcuni metri sopra il Tevere: per esprimere appieno la sua sessualità (pagana)61. È infatti la statua di Apollo, emersa dalle acque infere e fangose del fiume – statua che da Squarci di notti romane sappiamo essere pure controfigura di Arnardo62 –, che gli indica la via d’uscita, una realtà ‘altra’, nuova ma invero antica: come nel primo racconto dal Tevere più fetido riaffioravano la graeca urbs di Petronio e la Roma di Lucilio, così, solo pochi mesi dopo, il ghigno enigmatico della statua «aggiungeva [...] una archeologica e glottologica puzza di latrine romane, dove un Moro di duemila anni fa avesse disegnato il suo arnese. Tutto un brusio di clientele, di liberti, ecc.»63. Ancora una volta Lucilio e Petronio fusi insieme, ancora una volta il corpo erotico associato agli odori dei luoghi più sozzi. La “conclusione” di Giubileo costituisce dunque un’altra bella professione di decentramento, che tuttavia non implica già la rinuncia ai classici latini e greci: perché fin dal sottotitolo (Relitto di un romanzo umoristico), parimenti al primo racconto romano, anche Giubileo ammicca alla sfortunata tradizione testuale dei due autori latini.

Il programma di svolta ideato nel Coleo di Samo ebbe invece delle ripercussioni pure su questo bel classicismo di rottura, irriverente: la mia ricognizione nel resto della produzione dei pieni anni ’50 non ha rintracciato altre allusioni a passi specifici, né testi modellati sui caratteri del romanzo menippeo o della satira luciliana (salvo qualche eccezione trascurabile)64. Gli insegnamenti di Petronio e soprattutto Lucilio furono  

58 PASOLINI 1998c, p. 393. 59 P

ASOLINI 1998c, p. 394.  

60 «Addio Roma, città troppo palpata da Mani indiscrete, culla e alcova della Corruzione e del Proibizionismo,

ruffiana e pinzochera. La grande provincia attendeva, fresca, incorrotta, acattolica, di rispondere al Questionario di Giubileo, che già se lo andava delineando, col cuore rigenerato da nuovi itinerari, dalla Sgurgola e dalle Frattocchie in fuori, in tutte le leonesse d’Italia» (PASOLINI 1998c, p. 394). Cfr. SANTATO 2014, p. 272.

61 Il testo si apriva proprio con una rapida carrellata sulle celebrazioni giubilari, da cui l’antifrastico appellativo

per il professor Pasolini: vd. PASOLINI 1998c, p. 383.  

62 Ma è notevole che il nostro abbia citato una statua che conosceva già da tempo: l’Apollo del Tevere era

raffigurato e discusso anche nel manuale di Ducati (a proposito del quale vd. supra, sottopar. 0.2.3): DUCATI 1939, pp. 271-273.

63 PASOLINI 1998c, p. 394.

64 Nella continuazione romana di Amado mio, quindi in un’opera non ascrivibile né alla menippea né al romanzo

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recuperati solo negli anni ’60 e ’70, quando la classicità sia greca sia latina giocò un ruolo fondamentale nell’immaginazione artistica di Pasolini; ma altrimenti dalle prose satiriche del 1950 si trattò di insegnamenti generici, non di citazioni e parodie specifiche – in gran parte già messi in pratica in Squarci di notti romane e Giubileo. Vediamoli; però bisogna premettere che Giubileo rimane un unicum: il suo dotto ludus ridanciano fa davvero pensare a quello del Satyricon di Petronio; deve aver contribuito, oltre all’effettiva gioia delle nuove scoperte erotiche, il fatto che qui l’autore riesce a celarsi dietro al suo personaggio, a creare con ‘distacco’, a trattenere i propri afflati lirici (e inquietudini) – che nel primo racconto e altrove di converso non trattiene. Di

Giubileo, ma anche di Squarci di notti romane, colpisce la giustapposizione tra impliciti

eruditi e cruda volgarità: anch’essa qualità petroniana, come lo è pure il predominio del tema erotico; mentre lo sperimentalismo del primo racconto e la parodia dell’epica (Dante) guardano a entrambi i poeti latini (che parodiavano Omero, Virgilio, Lucano). Tutto ciò ritorna in Petrolio/Vas. È nello stile e nell’impostazione concettuale di fondo che invece Pasolini si discosta – e di gran lunga – da Petronio. Con il passare degli anni riuscì effettivamente a velocizzare la propria prosa, però non arrivò mai al livello del «maestro dai piedi di vento»; e in ogni caso, come è noto, il nostro si prende sempre troppo sul serio. Per quanto Lago abbia segnalato con giustezza diverse analogie fra il

Satyricon e Petrolio/Vas, nemmeno negli ultimi anni di vita il poeta saprà davvero

cambiare sguardo sul mondo65: senza dubbio il romanzo postumo mette a frutto diversi paradigmi satirici e si inserisce in un tracciato letterario-erudito, ma sono sostanzialmente d’accordo con Emanuele Trevi, cioè anch’io lo ritengo al contempo la vera e propria – e seria! – cronaca di un’iniziazione66. In compenso L’ombra corsara di

Menippo ha confermato un’idea che mi ero già fatto da un pezzo: è Arbasino lo scrittore

italiano contemporaneo che meglio incarna lo spirito di Petronio67. Pasolini ha seguito molto di più la via tracciata dal poeta campano; con lui ha condiviso anzitutto quella che si può definire la vocazione autobiografica, l’idea che per cogliere il reale siano necessarie immediatezza e sincerità, da contrapporre alla fatuità della letteratura artefatta: ossia il contrario del ‘nascosto’ e distaccato Petronio. Questo è tuttavia un aspetto che emerge con molta timidezza in Squarci di notti romane: sì, l’autore arriva a  

L’altro amico era un tipo da Lucilio, di quelli che avevano giocato a palla con Scipione ed erano stati cantati in qualche emistichio alessandrino» (PASOLINI 1998b, pp. 318-319). In questo caso sono chiaramente allusi alcuni versi oraziani più volte ricordati in Gaio Lucilio cavaliere e poeta e anche a lezione (S. 2. 1, vv. 71-74); versi che secondo Coppola sarebbero citazione di una satira luciliana oggi perduta: cfr. COPPOLA 1941b, pp. 11-12, 36-37, 52-53. Tale passo di Amado mio rappresenta dunque un’ulteriore conferma che le lezioni di Coppola avevano lasciato un segno e che in parte Pasolini adottò una lente interpretativa luciliana appena giunto nel mundus alter di Roma. Notevole inoltre che solo poche righe sopra è fatta allusione a PETR. 21. 6 («[Iasìs e Desi] mangiarono la pizza e la innaffiarono di Falerno» ≈ Gustatione mirifica initiati vino etiam Falerno inundamur), per cui pure il sequel del romanzo attesta il nesso fra i due autori latini!

65 Vd. L

AGO 2004, pp. 302-309, 314-325, 327-329. Nutro dei dubbi solo su tre somiglianze: molto seri sul non

finito – che, da quanto risulta oggi, non può essere in alcun modo attribuito al romanzo di Petronio –; seri sia sulla

mixis linguistica, che per il Pasolini degli anni ’60 e ’70 non rispondeva più a un’idea di realismo tout court, sia sulla

pluridiscorisività, anch’essa usata da Petronio come mimesi della realtà mentre per l’ultimo Pasolini era una mera cifra stilistica: da collocare in un discorso che travalica il metaromanzo menippeo e riguarda cioè l’intero sviluppo della sua poetica a partire dagli anni ’50 – una questione troppo complessa per essere affrontata in questa nota.

66 Cfr. T

REVI 2012, p. 35. Vd. infra, cap. 6. 67 Cfr. LAGO 2007, p. 167.  

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soprannominarsi Je, ma solo dopo una lunga sequela di appellativi ritardanti; e in ogni caso l’espressione ‘diretta’ dell’esperienza quotidiana privata, del pathos individuale, rimane estranea alla prosa narrativa degli anni ’50: il sentimento “puro”, senza mediazioni, va ricercato al contrario nelle poesie, cioè là dove Pasolini non sente il bisogno di farsi da parte nel tentativo di dare voce diretta all’inascoltata Roma dei ragazzini poveri; là dove è proprio la voce del poeta al centro. L’altro insegnamento luciliano pressoché assente nel 1950 è la mordacità politica, sia nei termini dell’invettiva nominale sia in quelli della presenza attiva dell’attualità nella pagina:

Giubileo polemizza con il perbenismo cattolico, però bisogna attendere alcuni anni per

trovare critiche virulente pari al bellissimo aprosdoketon dell’epigramma A un papa. Ancorché appena abbozzate, la cordialità diaristica esemplata su LUCIL. 590-591 M. e la

presa politica del suo discorso satirico rientrano entrambe sotto la categoria dell’anticonformismo: che in termini ben differenti si poneva anche per Petronio e che in Pasolini si esprime pure nell’ambito dello stile/lingua e nella tematica erotica. È evidente che per la seconda stagione dialettale i maestri veri e propri sono altri, su tutti il vocabolario vivente Sergio Citti; eppure, come suggerisce l’aggettivo «glottologica» nell’explicit di Giubileo, di certo nella ricerca del sermo plebeius moderno il nostro si avvale idealmente persino di Lucilio (e Petronio): tutto il gergo e il turpiloquio di quei due primi saggi narrativi sta lì a dimostrarlo. In più, anche per gli anni ’50 si potrebbe rispolverare – mutatis mutandis – il discorso sulla natura poligenetica del friulano68: intendo dire che i due modelli latini non escludono Citti, Dante, Belli, etc. Infine: la melmosità del Tevere e della terra romana, emblemi di una nuova idea di letteratura, deve far pensare che in comune fra Pasolini e Lucilio vi è per giunta l’impeto ‘lutulento’ di oraziana memoria (S. 1. 4, v. 11), per nulla petroniano: la disarmonia stilistica perseguita da entrambi corrisponde a un preciso programma letterario che fonde insieme vita e arte; il magma dello stile va di pari passo con quello della realtà.

2.2. Il paradigma poetico di Lucilio

Esauritasi con la fine degli anni ’50 la prima grande stagione della narrativa romana, bisogna attendere Petrolio/Vas per una rinnovata applicazione dei principi luciliano-petroniani; ma nel frattempo la scrittura era passata a un mezzo innovativo e ‘altro’: il cinema, del quale il nostro rivendicò in più occasioni il portato esplosivo, la possibilità di veicolare meglio quel sogno di realtà già perseguito con la prosa. Se viene dunque meno l’impegno di narratore tradizionale, su pagina, Pasolini continua però a praticare la poesia anche negli anni della svolta registica; ed è proprio qui che va ricercata l’eredità della satira latina, soprattutto luciliana: luciliana per la maggiore conoscenza e affinità di Pasolini con il poeta di Sessa Aurunca. Il primo tempo di questa eredità – come nel caso della lirica greca, dei tragici e Virgilio ‘non’ esclusiva, ‘non’  

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prevaricatrice su altre letture – corrisponde alla stagione epigrammatica, datata alla fine degli anni ’50. Sulle radici antiche degli epigrammi di Umiliato e offeso e Nuovi

epigrammi, i primi pubblicati tutti su Officina (1959), gran parte dei secondi fra L’Europa letteraria (1960) e L’Almanacco del Pesce d’Oro (1959) e tutti – cioè primi e

secondi – riuniti nel 1961 ne La religione del mio tempo69, si sono espressi soltanto due critici-poeti: corrivo Franco Fortini70, è Cesare Vivaldi che vi ha dedicato una discussione meno cursoria nel saggio introduttivo all’antologia Poesia satirica

nell’Italia d’oggi (1964). Non c’è dubbio che la produzione epigrammatica di Pasolini

costituisca un unicum sia entro il “ristretto” ambito dei due Meridiani poetici a lui dedicati71 sia per l’intero panorama letterario italiano72; Vivaldi ha infatti cercato di rintracciare una delle ragioni di quest’ultima eccentricità nella vocazione lirico-soggettiva, «giambica», dei suoi testi: i cui modelli principali sarebbero Archiloco e Ipponatte – di entrambi lo studente sentì in effetti parlare in una lezione del corso di letteratura greca dedicata all’inquadramento della produzione comico-realistica di Anacreonte (25 marzo 1941)73, però i due poeti greci non avevano particolare risalto nemmeno nell’antologia quasimodiana, e credo perciò che fossero più noti al nostro per il tramite delle riprese latine: soprattutto l’Orazio degli Epodi, che faceva parte del programma d’esame di Coppola, e Petronio, che abbiamo appena scoperto essere abbastanza congeniale al narratore della Roma malandrina. Discutendo l’esemplarità dei due giambografi Vivaldi parla espressamente di indignatio «tutta privata, personale, puramente soggettiva»74: nella cultura scolastica e accademica entro cui si erano formati sia Pasolini sia l’amico Vivaldi non era ancora stato messo bene a fuoco il concetto di

persona loquens, né valorizzato il significato comunitario dell’innegabile io poetico dei

lirici greci, per cui non possiamo biasimare l’originale ricostruzione dello studioso e poeta; anzi Vivaldi fa benissimo a svincolare la produzione epigrammatica pasoliniana dall’epigramma e, più nello specifico, dalla tradizione italiana discesa dal modello arguto-fulminante di Marziale. È corretto ricondurre gli epigrammi del nostro a una fonte anteriore, più “grezza” e rude, meno concettosa: perché, se è innegabile – guardando anche agli avantesti – che Pasolini sperimentò un processo di lima e riduzione all’essenza estraneo specialmente alla stagione romana, e che l’arguzia di certi versi può essere avvicinata al modello marzialiano filtrato attraverso la letteratura italiana (prima umanistico-rinascimentale, infine novecentesca75), si assiste tuttavia per davvero a uno ‘straripamento’ lirico-soggettivo, solo che questo va messo in rapporto con Lucilio, non con Archiloco e Ipponatte. Ma prima di illuminare i caratteri luciliani di tale poesia epigrammatica e al contempo ‘non’ epigrammatica, vediamo di  

69 Su Officina, sempre nel 1959, uscirono altri cinque epigrammi, ma insieme a oltre una ventina di testi inediti

non confluirono ne La religione del mio tempo; oggi sono tutti raccolti in PASOLINI 2003a, pp. 1072-1078.

70 Cfr. F

ORTINI 1976b, p. 418. 71 Cfr. S

ARTORE 2016, p. 277.

72 Cfr. V

IVALDI 1964, pp. xvii, xxiii-xxiv.

73 Cfr. il Registro delle lezioni di Lingua e letteratura greca dettate dal Professor Goffredo Coppola nell’anno

scolastico 1940-1941, p. 12 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 51). 74 VIVALDI 1964, p. xxiv.

75 V

IVALDI 1964, p. xvii conta Fortini stesso fra gli ultimi rappresentanti della tendenza epigrammatico-satirica: il

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riassumerla in due parole76. Nei testi di Pasolini di ludico c’è assai poco, e nulla di cerebrale; di Marziale rimane solo la chiusa fulminante e qualche gioco di parole: anzi, attraverso il doppio cuore della sua vena epigrammatica (scommatico e confessionale)77, il poeta porta il genere a un livello civile, militante; e come Lucilio – pur autore di sole satire – colpisce nominatim i suoi bersagli, intellettuali in primis. Giustamente notava Vivaldi, con ironia, che il nostro dà l’impressione di voler fare a pugni78. Anche nei componimenti più intimi c’è un forte radicamento nell’attualità politica; un esempio celebre è il lunghissimo epigramma A un papa, diretto niente meno che a Pio XII e che costò a Pasolini e sodali la chiusura di Officina – evento deplorevole, ma che dimostra il successo, l’efficacia della satira. Mi limito a precisare che la dimensione biografica del testo è legata alla figura di Zucchetto, il povero cristo ubriacone finito sotto un tram tra l’indifferenza dei passanti: questi, come «le migliaia di uomini [...] vissuti in stabbi e porcili»79, è l’oggetto d’amore (creaturale) del poeta e, per paradosso, della spietatezza del pontefice: «Ho veduto le sue spoglie»80 dice Pasolini e così, fin dall’inizio, radica la violenta invettiva contro la ferocia della curia romana (e della società neocapitalistica81) nell’alveo della propria esperienza di vita. Ma preferirei richiamare l’attenzione su dei versi meno conosciuti: A un figlio non nato, anch’essi fortemente diaristico-narrativi e attenti al paesaggio deturpato (naturale e umano) – qui al posto dei tuguri ci sono i prati nudi e fangosi, i letti d’amore delle prostitute. È proprio a un epigramma come questo che il poeta lascia una confessione di prim’ordine: l’aver “scelto” fra l’eros che può generare il mondo e l’anomia, la trasgressione, definita in una redazione anteriore a quella edita l’«amore sfrenato e rinnovato mille volte / come un incubo che ogni cinque minuti si fa più dolce. / L’amore che non è amore ed è mille volte amore»82. A un figlio

non nato è il racconto dell’unica volta in cui Pasolini comprò il corpo di una

adolescente (Franca), bollata come «povera puttana» nell’avantesto83, mentre nella versione definitiva è definita solo «bambina, e già madre»84; la chiusa contiene appunto la confessione dell’orrore provato dal poeta di fronte alla possibilità di diventare padre: rivoltosi con aprosdoketon al «primo e unico figlio non nato», il nostro ammette di non provare nessuna remora per averlo concepito un solo istante e subito dopo abortito – lui non può dare la vita perché non può amare «questo mondo», cioè una società che inquina, esclude e sottomette; un mondo che lo ha reso un mostro, lo ha ‘costretto’ a vivere la sessualità nell’ombra e nell’illecito, facendogli perpetuare in altra forma quella  

76 Per una sintesi meno superficiale cfr. S

ARTORE 2016. 77 Cfr. S

ARTORE 2016, p. 278. 78 Cfr. V

IVALDI 1964, p. xxiv. Ancora una volta ha visto bene: vd. infatti A gente infame, epigramma inedito fino al 2003: «Ah, così appartengo al sesso debole? Bene, c... rotti / dello Specchio, ve lo posso dimostrare a cazzotti» (PASOLINI 2003a, p. 1073). Lo Specchio era un settimanale satirico parafascista, diretto da Giorgio Nelson Page, molto attivo nella diffamazione di Pasolini.

79 P

ASOLINI 2003a, p. 1009 = A un papa, vv. 45-46.

80 P

ASOLINI 2003a, p. 1008 = A un papa, v. 7.

81 «Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto, / tra una marana e una fila di nuovi palazzi, / un mucchio di

misere costruzioni, non case ma porcili» (PASOLINI 2003a, p. 1009; corsivi miei = A un papa, vv. 35-37). 82 PASOLINI 2003a, p. 1673.

83 P

ASOLINI 2003a, p. 1673.

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stessa prevaricazione che pure, e violentemente, lui condanna85. Come si vede, la riflessione è troppo seria per evocare l’eccellente modello latino su cui si era innestata gran parte della tradizione epigrammatica italiana; la reprimenda etica e la confessione sono troppo accorate per non far pensare invece all’esempio di Lucilio: che secondo HOR. S. 2. 1, vv. 30-32 (satira discussa da Coppola nelle lezioni del 3 e 4 dicembre

1940) aveva rivelato la propria esperienza sia di pena sia di gioia, dando così una rappresentazione completa, non idealizzata, della realtà86. «In quei giorni [...] nessuno squilibrio» (si bene), «eppure [...]» (si male)87: anche per Pasolini la vita va raccontata senza autocensure. In entrambi gli epigrammi menzionati tale vocazione diaristica ha portato l’autore a esondare rispetto alla tipica brevitas epigrammatica e a infangarne la dizione, improntata di norma alla ricercatezza, o almeno alla simplicitas, non di certo all’irruenza: il genio pasoliniano fluisce libero, impetuoso, seguendo il modello ‘non’ epigrammatico di Lucilio. Un altro elemento che contraddistingue la satira del poeta latino è l’irrisione, l’attacco pugnace contro la cultura dominante. Già quando rivendica il carattere altamente soggettivo della sua opera, cioè quando dice di trarre i versi dall’intimo (Ego ubi quem ex praecordiis / ecfero versum88), sta avversando la società letteraria a lui coeva; e pertanto tutti e trenta i libri di satire, ponendosi con orgoglio al di fuori dei generi tradizionali, si ergono a netta contestazione poetica, culturale. Ma è soprattutto attraverso la parodia e talora mediante la condanna esplicita dei colleghi che si esprime la rivolta: per esempio nel fr. 588 M. (Nunc itidem populo <placere nolo>

his cum scriptoribus), o nel fr. 608 M. (Nunc ignobilitas his mirum ac monstrificabile).

‘Questi scrittori’, ‘costoro’; dunque, per quel poco che i frustuli dell’opera ci lasciano intravedere, il poeta non si limitava ad aggredire un bersaglio unico, nominandolo apertamente secondo il modello della commedia greca antica (e.g. LUCIL. 875 M.89),

polemizzava pure con una categoria intera: in primis quella dei tragediografi, in contatto con quel circolo scipionico che lui stesso più di altri conosceva – e perciò con cognizione di causa poteva accusarli di arrivismo e vuotaggine90. Parimenti fa il Pasolini epigrammista: morde intellettuali che gli erano più e meno noti («alcuni radicali», «i critici cattolici», «i letterati contemporanei», «i Novissimi»91). Non di meno replica a quanti, firmando con nome e cognome o nascondendosi dietro un vile pseudonimo, su quotidiani e riviste di varia specie muovevano accuse sia all’opera sia alla vita, che – occorre sottolinearlo – a partire dal 1954 erano andate incontro a una persecuzione giudiziaria e mediatica vieppiù crescente: Gino Gerola, Giorgio Barberi Squarotti, Domenico Cerroni Cadoresi, Mario Luzi, Mario Costanzo, Giorgio Nelson  

85 «Eppure, primo e unico figlio non nato, non ho dolore / che tu non possa mai esser qui, in questo mondo»

(PASOLINI 2003a, p. 1003 = A un figlio non nato, vv. 25-26).

86  Ille velut fidis arcana sodalibus olim / credebat libris, neque, si male cesserat, usquam / decurrens alio, neque

si bene [...]. Cfr. Registro delle lezioni di Lingua e letteratura latina dettate dal Professor Goffredo Coppola nell’anno scolastico 1940-1941, p. 3 (ASUB, Registri delle lezioni, Busta 59/a 53).

87 P

ASOLINI 2003a, p. 1003 = vv. 19-20, 25. 88 L

UCIL. 590-591 M.

89 Verum tristis contorto aliquo ex Pacuviano exordio.

90 Tipologie di accuse rivolte anche dal nostro: vd. e.g. PASOLINI 2003a, p. 999 (Ad alcuni radicali, v. 2) e

PASOLINI 2003a, p. 1076 (Al novissimo Porta, v. 2). 91 Vd. PASOLINI 2003a, pp. 997, 999,1015, 1076.

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Page sono solo alcuni dei bersagli (del secondo tipo). Faccio due esempi di epigrammi scommatici, che reputo felici seppur meno dei due epigrammi-fiume quasi straripati nel genere satirico:

A GEROLA

Stilistico anche tu! Anche tu filologo!

Fino a ieri eri uno dei cento poeti incerti: adesso fai elenchi d’aggettivi, fissi origini,

sei sensibile ai clic, individui spie: e scopri come implicito l’esplicito,

dimostri non poesia le mie non poesie.92 A J.D.

Povero servo, che cerchi di salvare anche i cavoli concedendomi d’esser abile: alibi miserabile!93

Come si può vedere, la mordacità non impedisce al nostro di ricorrere a un tipico espediente comico valorizzato anche da Marziale (oltre che da Lucilio): la paronomasia («abile-alibi»), qui come altrove rafforzata da una fitta rete di rimandi fonici94. Non passi inoltre inosservato che è ancora una volta la vita del poeta a essere posta al centro perché in versi cruciali quali sono quelli della clausula ricorrono pronomi e aggettivi di prima persona singolare – frequenti del resto in tutta la sua produzione epigrammatica: solo dodici dei ventotto testi del corpus confluito ne La religione del mio tempo non ne fanno uso e alludono a Pasolini, quando c’è l’occasione, in terza persona. Notevole in particolare il tredicesimo dei Nuovi epigrammi per il ricorso al nome proprio («Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini: / ora un po’ esistete perché un po’ esiste Pasolini»95): testo che può essere avvicinato al fr. 671-672 M. (Publicanus vero ut Asiae

fiam, ut scripturarius, / pro Lucilio, id ego nolo, [...]). Sia chiaro che questo come tutti

gli ultimi confronti non postulano una dipendenza diretta ma soltanto una sintonia fra i due poeti; o per meglio dire una convergenza maturata a seguito dei sullodati studi giovanili: perché non credo che Pasolini abbia riletto i frammenti luciliani né all’inizio né alla fine degli anni ’50, bensì recuperato alcune mere strategie generali. Fra le quali vi è la parodia dei classici, artificio assente negli epigrammi eppure utilizzato in una poesia quasi coeva quale In morte del realismo (1960), anch’essa pubblicato all’interno de La religione del mio tempo: vi è parodiata l’orazione funebre che nel terzo atto del

Giulio Cesare shakespeariano Marco Antonio pronuncia dinanzi al cadavere del dictator, quindi una contraffazione del Teatro; mentre è Pasolini stesso a vestire i panni

dell’orante, al posto di Cesare vi è il Realismo pugnalato a morte – non solo secondo il   92 P ASOLINI 2003a, p. 998. 93 PASOLINI 2003a, p. 1002. 94 Cfr. S ARTORE 2016, p. 280.

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