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Il dibattito sulla Resistenza. Lo status del combattente partigiano e i procedimenti giudiziari ( ) Michela Ponzani

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Il dibattito sulla Resistenza.

Lo status del combattente partigiano e i procedimenti giudiziari

(1944-1958) Michela Ponzani

Qualifiche partigiane e le leggi di amnistia.

Il dibattito storiografico sulla Resistenza è tornato di recente a riflettere sui temi della giustizia di transizione e sulla questione dei procedimenti giudiziari promossi dalla magistratura per fatti relativi alla guerra di liberazione1.

Le ricerche sulle condanne per azioni partigiane, hanno permesso di formulare nuove ipotesi interpretative circa gli atteggiamenti delle classi dirigenti del periodo postfascista e repubblicano riguardo al mutamento degli apparati e della legislazione del passato regime.

È indubbio infatti che questi processi costituissero, nel secondo dopoguerra, una prova inequivocabile dell’incapacità di rinnovare l’ordinamento giuridico dello Stato e quindi «della forza residua rimasta ai fascisti e ai funzionari collaborazionisti all’interno dell’amministrazione statale»2.

Il fenomeno della continuità nell’amministrazione della giustizia fu del resto realizzato pienamente con il ripristino della magistratura togata nelle Corti straordinarie d’Assise e con il conseguente

1 Si vedano i recenti lavori di G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007; M. Storchi, Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-46), Aliberti, Reggio Emilia, 2008; C.

Silingardi, M. Montanari, Storia e memoria della Resistenza modenese 19401-1999, Ediessse, Roma, 2006. Mi permetto di rinviare anche a M. Ponzani, I processi contro i partigiani nel dopoguerra. La contestazione di legittimità della Resistenza nell’Italia repubblicana (1945-1953), in «Il Presente e la Storia», n. 71, giugno 2007, pp. 243-277; M.

Ponzani, L’eredità della Resistenza nell’Italia repubblicana tra retorica celebrativa e contestazione di legittimità (1945- 1963), in «Annali della Fondazione L. Einaudi», XXXVIII, 2004, Leo S. Olschki Editor, pp. 259- 307.

Per i processi celebrati dalle Corti d’Assise piemontesi vedi L. Bernardi, Collaborazionisti e partigiani di fronte alla giustizia penale, e S. Testori, La repressione antipartigiana e la magistratura piemontese (1946-1959, in G. Neppi Modona (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Franco Angeli, Milano 1984; G. Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della Resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 223-285.

2 L. Klinkhammer, Le strategie tedesche di occupazione e la popolazione civile, in M. Legnani, F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Franco Angeli, Milano 1990, p. 113.

rallentamento delle norme relative all’epurazione e all’avocazione degli illeciti arricchimenti di regime.

L’atteggiamento della magistratura in tema di sanzioni contro il fascismo, la lentezza, l’inefficacia e il fallimento della giustizia ordinaria in materia di epurazione, uniti all’apertura di istruttorie per reati connessi alla guerra partigiana, possono inoltre contribuire a spiegare quelle velleità di giustizia sommaria e la ripresa di forme di lotta politica violenta, all’indomani della smobilitazione.

Riferendosi all’attività giudiziaria delle Corti straordinarie d’Assise piemontesi Guido Neppi Modona ha non a caso affermato:

se si tiene conto che i partigiani assolti o amnistiati furono in totale ben 723, dopo processi che si trascinarono per anni, è facile se non giustificare, certo spiegare come l’esasperazione degli ex combattenti nel vedersi perseguitati dopo venti mesi di disperata e feroce guerra civile e nell’assistere alla generalizzata riabilitazione dei collaborazionisti, abbia spinto alcuni di essi a farsi giustizia da soli3.

Il contrasto tra le istanze di rinnovamento professate dal movimento resistenziale e la ricostruzione delle strutture istituzionali, in continuità con la tradizione burocratico- amministrativa dell’anteguerra, fu poi dato dai provvedimenti d’amnistia, approvati con l’intento di procedere ad un’immediata copertura degli illeciti penali commessi dagli ex combattenti durante il periodo bellico4.

Il legislatore non si curò di riconoscere la liceità delle azioni partigiane e quindi la loro irrilevanza penale in virtù della legittimazione seguita alla liberazione del paese, preferendo adottare una scelta tecnica, per la quale gli atti commessi durante la lotta antifascista sarebbero stati considerati come reati, pur essendo motivati da eccezionali contingenze.

Allo stesso modo le norme per le qualifiche partigiane si limitarono a garantire un pacifico riassorbimento della conflittualità reducistica, piuttosto che un inserimento dei volontari della libertà nell’apparato statale, non essendo prevista alcuna equiparazione dei quadri militari della Resistenza alle Forze armate.

I gradi di partigiano combattente e di patriota, previsti dalle Commissioni regionali per le

3 G. Neppi Modona, Guerra di liberazione e giustizia penale.

Dal fallimento dell’epurazione al processo alla Resistenza, in G. Neppi Modona (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione cit., p. 51.

4 Cfr. il saggio di C. Pavone, La continuità dello Stato.

Istituzioni e uomini, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159.

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qualifiche partigiane5, si conformarono a criteri estremamente autoritari, dal carattere selettivo e discriminante, riservando le benemerenze a coloro che potessero dimostrare di aver compiuto «atti di eccezionale ardimento nella lotta di liberazione»6, con l’estromissione di tutte le forme di resistenza non armata.

L’assegnazione dei gradi partigiani fu infatti vincolata alla dimostrazione di aver combattuto

«per un periodo di almeno tre mesi, [di aver]

tenuto il comando effettivo di formazioni operanti attivamente nella guerra di liberazione o appartenenti al CVL»7.

L’esclusione delle attività suppletive, assistenziali, di fiancheggiamento e di supporto logistico della guerra partigiana, assunse quindi una valenza delegittimante del carattere e delle modalità delle forme di guerriglia, in cui combattenti avevano operato in violazione delle norme disciplinanti l’esercizio della violenza tra Stati sovrani.

Di fatto l’assenza di una precisa definizione dello status di legittimi belligeranti favorì un’interpretazione soggettiva e discrezionale del codice penale circa il giudizio di regolarità delle azioni armate di resistenza, associate ai reati comuni. Fu così compromessa, sul piano giuridico-formale, la valutazione del movente politico degli atti di guerra partigiani, che ai sensi della legge penale continuarono ad assumere rilevanza di rapine, estorsioni, violenze private, violazioni di domicilio, lesioni personali ed omicidi.

In altri termini il «ricorso all’ambiguo strumento dell’amnistia, invece di riconoscere giuridicamente la piena legittimità delle azioni commesse dai partigiani durante la guerra di liberazione» aveva esplicitamente ammesso «che quelle costituivano reato, ma lo Stato generalmente rinunciava a punirle»8.

Il regio decreto dell’aprile 19449, ad esempio, non ebbe alcuna conseguenza nella legittimazione militare della Resistenza visto che la Cassazione comprese tra i beneficiari dell’amnistia solo chi

5 Cfr. il DLL 21 agosto 1945, n. 518, Disposizioni concernenti il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani e l’esame delle proposte di ricompensa in I. Cozzolino, Raccolta di leggi, norme e disposizioni per i combattenti della guerra partigiana, Fondazione CVL, Roma 1971, p. 6.

6 DLL 5 aprile 1945, n. 158, Assistenza ai patrioti dell’Italia liberata, in «Gazzetta Ufficiale», 2 maggio 1945, n. 53.

7 Schema di decreto per il conferimento dei gradi militari ai partigiani, 21 marzo 1946, in ACS, Ministero della Difesa, SME, Ufficio segreteria personale (1943-1959), b. 14.

8 G. Neppi Modona, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta. Il difficile cammino verso l’indipendenza, in Storia dell’Italia repubblicana. L’Italia nella crisi mondiale.

L’ultimo ventennio, Einaudi, Torino 1995, vol. III, p. 133.

9 Cfr. il Regio decreto 5 aprile 1944, n. 96 Amnistia e indulto per reati comuni, militari e annonari, in C. Moscone, Leggi

sulla Resistenza e sui partigiani, SET, Torino 1949, p. 73.

aveva preso parte a fatti d’arme o riportato particolari distinzioni di valore e mutilazioni10. L’applicazione del condono per la

«comunicazione di informazioni di carattere militare, la somministrazione di viveri e la consegna di armi» fu invece assoggettata ad una

«valutazione di merito da compiersi caso per caso dal giudice competente»11.

Non fu quindi possibile applicare la legge a chi aveva «soltanto favorito l’approvvigionamento dei reparti del CVL»12 o nel caso di un partigiano che aveva fatto parte dello Psycological Warfare Branch, «esplicando attiva opera di propaganda giornalistica e radiofonica contro i nazifascisti»13, non trattandosi di azioni di carattere bellico.

La Cassazione infine stabilì che «l’aiuto per favorire la diserzione di due militari di nazionalità francese dall’esercito tedesco e il rifornimento di viveri e indumenti ai partigiani, per la loro natura e entità non [potessero] ritenersi fatti tali da frustrare l’attività bellica del nemico»14.

L’ambiguità della legge fu del resto dimostrata da una successiva sentenza della Cassazione, emessa nel febbraio ‘46, per la quale l’attività bellica non si era esplicata «soltanto nelle vere e proprie operazioni militari ma anche nei preparativi delle stesse, nei movimenti sulle retrovie, e nelle previdenze logistiche»15.

Mancò quindi una legislazione speciale in grado di chiarire la condizione giuridica dei partigiani combattenti, considerati componenti di bande armate irregolari, secondo il comune diritto di guerra.

Molti di essi non vennero poi rimborsati dei danni subiti dalle truppe occupanti tedesche così come non furono concessi gli indennizzi a coloro che «o nelle perquisizioni o nel momento della cattura, o nelle rappresaglie contro i familiari – si [erano]

10 Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione, III sezione penale, 29 gennaio 1948, in «Archivio penale», vol. IV, parte I, 1948, p. 515.

11 Sentenza del Tribunale supremo militare, 6 ottobre 1950, n.

1196, in Massimario delle sentenze del Tribunale supremo militare anni 1942-1951, Istituto poligrafico dello Stato Roma 1952, p. 48.

12 Sentenza della Corte di Cassazione, III sezione penale, 26 ottobre 1948, in «Archivio penale», vol V, parte II, 1949, p.

231.

13 Cfr. la sentenza del Tribunale militare territoriale di Roma, 27 dicembre 1944, in Giustizia penale, 1946, II, col. 399, pp.

379-382.

14 Sentenza della Corte di Cassazione, 14 gennaio 1947, in Ibidem, col. 132 E.

15 Sentenza della Corte di Cassazione, II sezione penale, camera di consiglio, 7 febbraio 1946, in ACS, Fondo Corte Suprema di Cassazione, sentenze e ordinanze della seconda sezione penale in camera di consiglio, (1924-1968).

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vista la casa bruciata e le masserizie e le suppellettili asportate e distrutte»16..

L’interpretazione restrittiva dei decreti amnistiali fu inoltre dimostrata dall’apertura di istruttorie per l’attività svolta dai tribunali di brigata nel periodo insurrezionale. L’operato di questi organi, istituiti in ogni provincia dai comandi di zona del CVL, non fu considerato legittimo, sebbene in base ad un decreto approvato il 3 maggio 1945 dal governo Bonomi, le formazioni partigiane fossero state investite del potere di comminare la pena di morte, secondo l’art.

51 del codice penale militare di guerra, per la punizione di tutti i reati commessi dai militi della RSI durante il periodo dell’occupazione tedesca e in seguito alla liberazione nelle province del nord.

Lo stesso decreto legislativo sulla non punibilità delle azioni partigiane17, non preservò gli ex volontari della libertà dai rigori della legge penale.

Fu in questo caso la magistratura militare a stabilire che il riferimento all’impunità delle azioni belliche partigiane non potesse essere interpretato come un riconoscimento legale, dato che «durante lo svolgimento della lotta per la liberazione, i partigiani combattenti erano ritenuti dalla legge persone non appartenenti a formazioni militari»18. In altri termini «la condizione soggettiva del colpevole (militante nelle formazioni patriottiche)» non fu ritenuta sufficiente a creare «uno stato di impunità relativamente a qualsiasi fatto commesso nel tempo in cui l’agente [aveva] fatto parte delle formazioni stesse»19.

Per questo, nel caso di una requisizione di viveri e di armi compiuta a Roma nell’ottobre 1943, il Tribunale supremo militare ritenne inammissibile l’assunto per il quale «il fatto risultava commesso con il fine di contribuire alla lotta antifascista»

perché determinato dalla «necessità di compiere azioni belliche contro l’invasore tedesco»20. Escludendo poi le azioni di fiancheggiamento della guerra partigiana non fu concessa l’applicazione del decreto a chi «nel 1943 aveva salvato una famiglia ebraica dalla deportazione in Germania: attività

16 Cfr. lo schema di decreto legislativo luogotenenziale 9 novembre 1944, n. 319, in ACS, PCM (1944-1947), f. 13924 s. 17 19.13

17 D. Lgs. L. 12 aprile 1945, n. 194, Non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti dell’Italia occupata, in S.

Testori, La “repressione” antipartigiana e la magistratura piemontese (1946-1959), cit., p. 198

18 E. Santacroce, Le persone appartenenti a corpi o reparti volontari autorizzati a prendere parte alla guerra nel diritto penale militare, in «Giustizia penale», 1947, III, col. 399.

19 Ivi.

20 Sentenza del Tribunale supremo militare, 9 luglio 1946, n.

1021, in Archivio della Procura generale militare della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, Palazzo Cesi, Roma.

commendevole – si disse- ma certo non diretta nel suo fine immediato a contrastare e ad infrangere lo sforzo bellico tedesco»21.

Del tutto inutile si rivelò invece la circolare inviata il 30 agosto 1945 dal Ministro di Grazia e Giustizia Togliatti, ai Primi presidenti e i Procuratori generali delle Corti di Appello con la quale si invitava ad applicare la legge non solo «alle azioni commesse dai partigiani regolarmente inquadrati nelle formazioni militari dei Comitati di liberazione nazionale» ma anche alle «azioni dei civili che, nel periodo dell’occupazione nemica», avevano dato ai partigiani «assistenza, per la necessità della lotta»22.

Partigiani e collaborazionisti dinnanzi ai tribunali militari. La questione della legittima belligeranza.

Il riferimento al rispetto delle procedure penali fu quindi estraneo alla valutazione delle condizioni di clandestinità in cui la guerra di resistenza aveva dovuto svolgersi, per le quali i partigiani erano stati costretti ad agire sulla base di un potere non attribuito loro dal diritto bellico ma dal principio della necessità.

La Cassazione si pronunciò infatti per l’illegalità dell’esecuzione di condanna a morte pronunciata a Saliceto il 29 luglio 1944 dal comandante di distaccamento partigiano della 16 brigata Garibaldi, appartenente alla VI divisione Langhe, contro un carabiniere precedentemente catturato ed al servizio della RSI. E ciò sebbene la Procura militare di Torino si fosse già espressa per la qualifica di legittima belligeranza dell’imputato vista «l’appartenenza a reparto autorizzato a partecipare alla guerra, avendo il CLNAI riconosciute le formazioni volontarie garibaldine»23.

Non furono definiti giuridicamente, mediante appositi provvedimenti legislativi, neppure i danni provocati dalla lotta partigiana, in modo da considerarli azioni di guerra e da assimilarli agli atti compiuti dalle forze armate regolari. Erano infatti coperte da legalità soltanto le «rappresaglie, gli atti di sabotaggio, i saccheggi occasionati in modo diretto e immediato dalla preparazione o

21 Sentenza della Corte di Cassazione, 17 novembre 1952, in Foro penale. Repertorio, 1953, vol. LXXVI, col. 58 B, p. 87.

22 Circolare 30 agosto 1945, n. 3089, in ACS, Ministero di Grazia e Giustizia, Gabinetto, (1935-1947), b. 37, f. 39.

23 P. Stellacci, I partigiani combattenti di fronte alla legge penale militare e alla giurisdizione militare, in

«Giurisprudenza completa della Corte Suprema di Cassazione. Sezioni penali», serie II, vol. XXXIV, 1953, 4-5 bimestre, p. 69.

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dalla condotta delle operazioni belliche»24. Furono invece valutati come semplici reati comuni tutti i

«furti o rapine commessi da soggetti isolati o da bande di disertori e saccheggiatori, ovvero da danni prodotti da moti popolari» per i quali non si poteva parlare «di danni indennizzabili»25.

Si decise inoltre di limitare al massimo le immissioni ed i procedimenti d’avanzamento nell’esercito per i partigiani che avevano avuto funzioni di comando, e ciò per non ledere i diritti dei militari di carriera.

Di contro furono date effettive garanzie ai militi di Salò grazie all’applicazione delle clausole della Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra, per la tutela dei membri del regio esercito italiano e dei prigionieri fascisti.

Ai reparti armati della RSI vennero di fatto applicate le condizioni per le quali sarebbero stati riconosciuti combattenti regolari anche i militari delle Forze armate di un governo non legittimato dallo Stato avversario26.

Questo fu il motivo per il quale il 19 giugno 1945 la Corte di Assise di Roma riconobbe la qualifica di pubblico ufficiale ad un ex appartenente alle SS italiane nonostante, in questo caso, si versasse ab origine non solo nell’illegittimità ma nel delitto, dal momento che quei militi avevano agito

«dimenticando e sprezzando tutti i principi, tutte le Convenzioni internazionali e le consuetudini»27. La magistratura si pronunciò in questo caso per il diritto della «qualifica di pubblico ufficiale all’appartenente a una forza di polizia dello stato occupato, passata alle dipendenze e agli ordini dell’autorità occupante» affermando che «il pubblico ufficiale non cessa di essere tale solo per l’abuso di poteri derivatigli dalle sue mansioni»28.

A determinare uno scarso livello di sanzione delle responsabilità riguardo alle azioni criminali del fascismo concorsero quindi non solo il peso delle norme internazionali di diritto bellico, recepite nel nostro ordinamento, ma anche le carenze di una cultura giuridica incapace di misurarsi con la fine della distinzione tra guerra regolare e lotta partigiana, tendente a giustificare le azioni di

24 Lettera del Ministro del Tesoro Soleri alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, 25 aprile 1945, Danni di guerra e lotta partigiana, in ACS, PCM (1944 -1947), f. 13924 s. 13 19.13.

25 Ivi.

26 Cfr. A. Migliazza, La posizione dello Stato repubblicano fascista nel diritto internazionale. Lo Stato moderno, in

«Giurisprudenza completa della Suprema Corte di Cassazione, sezioni penali», vol. XXII, n. 7, p. 3.

27 L. Granata, La qualità di pubblici ufficiali degli appartenenti alle SS italiane, in «Archivio penale», vol. II, parte II, 1946, pp. 276-279.

28 Sentenza della Corte di Assise di Roma, 19 giugno 1945 n.

79, in Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Fondo Corte d’Appello (CAP), f. 1262.

controguerriglia, le funzioni di polizia e di intelligence dei collaborazionisti in nome del principio dell’obbedienza ad un ordine militare superiore.

Del tutto lecita fu pertanto la decisione del Tribunale supremo militare di annullare una condanna emessa il 27 dicembre 1945 ai danni di un milite della GNR, accusato di aver arrestato un partigiano, avendo l’imputato «eseguito un ordine del quale non poteva sindacare la legittimità e la contraddittorietà della motivazione»29.

La magistratura considerò inoltre l’assoluzione del reato di aiuto al nemico, previsto e punito dall’art. 51 del codice penale militare di guerra, stabilendo che

la continuazione della lotta iniziata tre anni prima a fianco dei tedeschi, l’instaurazione di un governo dotato di un potere di fatto rilevante sopra una parte notevole del territorio nazionale, il riconoscimento di questo governo da parte di alcuni Stati stranieri, potevano generare in molti il ragionevole convincimento di servire uno Stato legittimo30.

Un assunto in palese contraddizione con quanto affermato dal Tribunale supremo militare che nel dicembre 1945 aveva negato la scriminante dello stato di necessità in ordine alla rilevanza giuridica dei rapporti di dipendenza gerarchica per ex milite della X MAS, accusato di spionaggio a danno delle forze armate italiane. In questo caso il collegio giudicante ritenne di non poter giustificare l’attività svolta dall’imputato col fatto di essere stato «costretto ad entrare a far parte dell’organizzazione spionistica», né che l’attività da esso svolta fosse frutto di «coartazione, giacché è notorio – si disse- che in tal organizzazione vengono ammessi soltanto i volontari»31.

Nel novembre del ’47 la Cassazione condannò inoltre il comportamento di un ufficiale del battaglione San Marco che aveva presenziato all’esecuzione di alcuni partigiani. Si ritenne infatti che «le autorità da cui l’ordine proveniva erano illegittime e l’ordine era evidentemente criminoso»32.

29 Sentenza del Tribunale supremo militare, 15 novembre 1946, n. 2486, in Archivio della Procura generale militare della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, Palazzo Cesi, Roma.

30 P. Nuvolone, Il collaborazionismo punibile, in «Critica penale», f. II, 1946, p. 15.

31 Sentenza del Tribunale supremo militare, 11 dicembre 1945, n. 3327 in Archivio della Procura militare della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, Palazzo Cesi, Roma.

32 Sentenza della Corte di Cassazione, 10 novembre 1947, in Rivista penale, 1948, 48.

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Non fu invece sanata la condizione d’illegalità degli ex partigiani, nonostante la nuova amnistia per reati politici antifascisti, che pure avrebbe dovuto rimediare alla condizione di illecito penale di quanti avevano combattuto il regime fin dalle sue origini33.

La giurisprudenza snaturò infatti l’ampiezza della legge disponendo un’interpretazione restrittiva del termine lotta contro il fascismo, con l’esclusione dei reati compiuti al di fuori di un contesto di belligeranza attiva tra le parti.

Nell’applicazione di questo provvedimento si rilevarono tuttavia diversi orientamenti interpretativi dal momento che le sezioni istruttorie delle Corti d’Assise, almeno in Piemonte, riconobbero la volontà politica di elargire «un atto di giustizia riparatoria nei confronti di chi fosse incorso nel rigore della legge per contrastare la tirannia fascista»34.

La Corte di Assise di Torino non pretese per i casi di omicidio, ad esempio, l’esistenza di un ordine impartito da un superiore o una sentenza che dimostrasse lo svolgimento di un regolare processo35.

Di diverso avviso la Corte di Assise di Novara che continuò a ritenere necessario «il rapporto di causalità fra le esigenze delle operazioni militari e civili inerenti alla lotta contro il nemico e i fatti commessi»36.

Il giudizio delle azioni partigiane come reati comuni anziché come atti tipici di guerra era inoltre dovuto all’applicazione delle norme consuetudinarie di diritto internazionale.

Soprattutto l’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 190737, inadatta a legittimare le caratteristiche e gli sviluppi assunti dalla guerra totale.

Esemplare a tal riguardo la sentenza del Tribunale Supremo militare del 6 ottobre 1950, con la quale

33 Cfr. Il testo del Decreto legislativo 17 novembre 1945, n.

719, Amnistia per i reati politici antifascisti, in Attività legislativa del governo Parri, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1945, p. 13.

34 Relazione allegata allo schema di decreto legislativo del 17 novembre 1945, n. 719, in Verbali del Consiglio dei Ministri.

Governo Parri (21 giugno 1945-10 dicembre 1945), a cura di A. Ricci, vol. V/2, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’editoria e l’informazione, Roma 1995, p.

1056.

35 Cfr. la sentenza della sezione istruttoria della Corte d’Assise di Torino, 11 aprile 1951 in Istituto storico Piemontese della Resistenza e dell’età contemporanea,

“Giorgio Agosti”, (d’ora in poi ISTORETO), Fondo sentenze della magistratura piemontese (1941-1960).

36 Vedi la sentenza della Corte di Assise di Novara del 29 marzo 1949, in ISTORETO, Fondo sentenze della magistratura piemontese (1945-1960), D CSA, fasc. D 61 G.

37 Cfr. l’art. 1 Regolamento concernente le leggi e gli usi di guerra terrestre annesso alla quarta Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907, in «Rassegna della giustizia militare», a.

XXII, n. 3-4-5-6, maggio-dicembre 1996, pp. 33- 34.

si stabilì l’inopportunità di definire azione di guerra il sabotaggio, la comunicazione di informazioni di carattere militare, la somministrazione di viveri e la consegna di armi ad un comandante partigiano38.

Le qualifiche patriottiche non servirono poi a scagionare dall’accusa di diserzione, nonostante la connotazione di «combattente con oltre sei mesi di servizio a carattere continuativo in formazioni armate partigiane»39.

Venne addirittura convalidata una sentenza emessa dal tribunale militare territoriale di Udine il 12 novembre 1946 ai danni di un reduce dall’internamento in Germania, condannato per diserzione a causa della «sussistenza dell’obbligo del servizio militare anche durante il periodo della prigionia e all’atto del suo rientro in patria, non avendo egli ricevuto alcun congedo»40.

Né bastò presentare un certificato dell’ANPI comprovante l’appartenenza dell’imputato al 10 distaccamento delle formazioni Oberan Chiesa della III brigata Garibaldi per essere scagionati dall’accusa di peculato militare. Anche in questo caso venne confermata la sentenza del Tribunale militare territoriale di La Spezia che il 2 marzo 1948 si era pronunciato per la mancata concessione dell’amnistia in merito alla requisizione di automezzi addetti al trasporto di benzina, nonostante l’esistenza di un documento dal quale risultava per l’imputato il compimento di un’intensa attività partigiana, «perpetrata mediante comunicazioni e informazioni sui movimenti di truppe tedesche, somministrazione di armi e di viveri e partecipazione a scontri armati con forze avversarie in ritirata»41.

Le conseguenze dell’amnistia Togliatti: una comparazione.

L’andamento dei processi peggiorò tuttavia proprio con il decreto d’amnistia del 22 giugno 1946 n. 4, sebbene fossero comprese nella clemenza anche le azioni partigiane compiute «per una specie di forza di inerzia del movimento insurrezionale

38 Cfr. la sentenza del Tribunale supremo militare, 6 ottobre 1950, n. 1196, in Archivio della Procura generale militare della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, Palazzo Cesi, Roma.

39 Sentenza del Tribunale supremo militare, 1 dicembre 1950, n. 1707, Ivi.

40 Sentenza del Tribunale Supremo militare, 15 aprile 1947, n. 1269, Ivi.

41 Sentenza del Tribunale Supremo Militare, 1 dicembre 1950, n. 1702, Ivi.

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antifascista, anche dopo che i singoli territori erano passati all’Amministrazione Alleata»42. Per questo il 17 gennaio 1947 la Corte di Assise di Firenze aveva assolto un gruppo di partigiani, accusati di aver cagionato la morte di un fascista nel maggio del ‘45 e di aver cercato di occultarne il corpo, ritenendo che il fatto fosse compreso tra i reati «commessi per forza di inerzia della guerra civile»43.

Tuttavia, tranne alcuni casi pronunciatisi a favore del riconoscimento del movente politico nell’attività bellica partigiana, solo un ristretto margine d’applicazione fu riservato ai reati compiuti durante il periodo postinsurrezionale, nonostante fossero considerati tali anche quelli commessi

durante la vita del fascismo, inteso come fenomeno politico, e quindi dalle remote origini di esso fino alle ultime manifestazioni cessate soltanto con la scomparsa dello pseudo governo fascista repubblicano44.

La contraddittorietà della legge fu del resto dimostrata da una sentenza della Corte di Assise di Roma del 22 novembre 1948 che riconobbe il concetto di azione politica nel saccheggio della villa del console della MVSN di Roma, avvenuto nella capitale il 26 luglio 1943 ad opera di un gruppo di partigiani 45.

Al contrario il Tribunale Supremo militare, con una sentenza del 29 maggio 1946, non ritenne legittima una requisizione d’indumenti compiuta da alcuni partigiani ai danni di un maresciallo dei carabinieri nel giugno 1944, in un periodo compreso tra la ritirata delle truppe di occupazione tedesche e l’arrivo degli alleati.

In questo caso la corte accertò di trovarsi di fronte ad un comune reato di rapina e non ad un’azione patriottica svolta «per riprendere cose sequestrate, allo scopo di distribuirle, a mezzo del Comitato di liberazione, agli ufficiali ed ai profughi del paese,

42Relazione del Ministro guardasigilli al Presidente del Consiglio dei Ministri sul decreto presidenziale 22 giugno 1946, n. 4, Amnistia e indulto per reati comuni, politici e annonari, in Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia (1861-1946), n. 4, pp. 8- 12.

43 Sentenza della Corte di Assise di Firenze, 17 gennaio 1947, in Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Fondo Corte d’Assise ordinaria, sentenze 1947, vol. III.

44 La circolare n. 90001-110 del Ministro di Grazia e Giustizia è riportata in G. Vassalli, La parte speciale del diritto penale. Il diritto penale in tempo di guerra. Scritti giuridici, vol. II, Giuffrè, Milano 1997, p. 757.

45 Cfr. la sentenza della Corte di Assise ordinaria di Roma, 22 novembre 1948, in ASR, Fondo Corte d’Appello (CAP), f.

1724.

e per rappresaglia contro il sottufficiale, considerato collaboratore dei tedeschi»46.

Il principale effetto dell’amnistia fu tuttavia quello di compromettere definitivamente l’impianto delle leggi speciali per le sanzioni contro il fascismo, la cui vanificazione aveva peraltro già avuto inizio nel maggio 1946 con l’annullamento da parte della Cassazione delle «sentenze pronunciate all’Alta Corte di Giustizia nel 1944 e nei primi mesi del 1945 contro i vertici politici e militari del regime»47.

Un’indiscriminata e generalizzata sanatoria si ebbe infatti proprio nei riguardi di coloro che avevano rivestito elevate funzioni di direzione civile e politica come ministri, sottosegretari, direttori di grandi organi di stampa e presidenti di tribunali speciali, visto che «la elevatezza della carica o delle funzioni non [fu] sufficiente da sola ad escludere dall’amnistia, occorrendo invece» il compimento di «fatti concreti e specifici di aiuto militare o politico al nemico»48.

L’amnistia riservata ai collaboratori del regime e alle alte cariche del fascismo riguardò quindi anche l’ex gerarca Ferruccio Lantini, segretario del fascio di Genova nel 1922, presidente della Confederazione fascista del commercio dal 1926 al 1933, Ministro per le Corporazioni fino al 1939 e Presidente dell’Istituto Nazionale fascista per la previdenza sociale dal 1939 al 1943.

La corte dichiarò a suo favore la non sussistenza del reato previsto dall’art. 2 del DLL 27 luglio 1944 n. 159, sebbene fosse nota la sua attività nell’aver «organizzato e diretto squadre che compirono in Liguria, atti di violenza e di devastazione, come la distruzione di Camere del Lavoro»49.

Allo stesso modo la Corte d’Assise di Roma condonò cinque anni di reclusione al segretario politico del fascio di Trieste, accusato di aver contribuito a trasformare la struttura totalitaria dello Stato con sistemi d’intimidazione, per aver organizzato

46 Sentenza del Tribunale supremo militare, 29 maggio 1946, n. 685, in Archivio della Procura generale militare della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, Palazzo Cesi, Roma.

47 G. Neppi Modona, Una riflessione sull’amnistia Togliatti.

In margine a un libro di Mimmo Franzinelli, in «Italia Contemporanea», giugno 2006, n. 243, p. 244.

48 Sentenza della Corte di Cassazione, II sezione penale, 23 agosto 1946, in ACS, Fondo Corte Suprema di Cassazione, sezioni penali, sentenze e ordinanze della seconda sezione penale (1924-1968).

49 Sentenza della I sezione speciale della Corte di Assise di Roma, 17 giugno 1946, in ASR, Fondo Corte d’Assise di Roma, sezioni speciali, sentenze, vol. I.

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in tutta la Venezia Giulia, azioni di violenza, fra cui la devastazione del Balkan (luglio 1920), il ripetuto incendio di camere del lavoro, di sedi di partiti di sinistra, di giornali socialisti50.

L’amnistia riguardò anche il generale di divisione Raffaele Berti, presidente di un Tribunale militare della RSI istituto a Torino presso il corpo addestramento reparti speciali, assolto dall’imputazione di omicidio continuato e aggravato per aver sentenziato 37 condanne alla pena di morte contro partigiani, 28 delle quali eseguite,

violando le stesse norme vigenti nella pur illegittima RSI sulla competenza, sul presupposto delle flagranza nei giudizi straordinari, sui diritti di difesa51.

La Cassazione poté inoltre concedere amnistia nel caso di una condanna a morte per rappresaglia, comminata contro 5 partigiani, sostenendo che i giudici avessero firmato passivamente la sentenza.

Ciò sebbene sussistessero «tutti gli estremi della partecipazione cosciente all’omicidio e il nesso di causalità, dal momento che la fucilazione non era stata che l’esecuzione della condanna»52.

Tra i beneficiari del decreto vi fu anche il sergente maggiore della GNR Mario Cappelli, già condannato dalla Corte d’Assise straordinaria di Siena, con sentenza del 13 maggio 1946, per aver preso parte al rastrellamento di Montemaggio il 28 marzo 1944. In questo caso l’assoluzione non fu esente dalla descrizione del carattere dell’imputato fornita dai carabinieri di Siena per cui egli risultava essere stato «iscritto al disciolto partito fascista senza essere fazioso o settario», essendo «persona amante della famiglia e del lavoro, seria ed equilibrata», simpatizzante «per i partiti dell’ordine»53. Un giudizio tuttavia in netto contrasto con quanto affermato il 31 gennaio 1947 dalla Cassazione per la quale «la natura collettiva dell’azione di rastrellamento» avrebbe obbligato a rispondere di omicidio anche «quei partecipanti

50 Sentenza della II sezione della Corte di Assise di Roma, 19 novembre 1947, in ASR, Fondo Corte di Assise di Roma, sezioni speciali, vol. II.

51 Sentenza della Corte di Assise di Roma, II sezione speciale, 30 dicembre 1947, Ivi.

52 Cfr. il commento alla sentenza della Corte di Cassazione, 21 ottobre 1946, in . Visco, F. Guarnieri, Le amnistie dopo la liberazione. Testo, commento e giurisprudenza sui decreti dal 1944 al 1947 contenenti amnistie e indulti per reati comuni, politici, militari e finanziari, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1947, p. 97.

53 Cfr. la sentenza della Corte di Appello di Firenze, 28 agosto 1951, in ACS, Fondo Corte Militare di Appello, fascicoli di riabilitazione del Tribunale supremo militare (1952-1992), b. 62, f. 41/1952.

che non [avevano] sparato o commesso violenza contro le vittime»54.

È noto poi come a causa dell’ambigua formulazione tecnico-giuridica dell’art. 3 del decreto, la magistratura avesse circoscritto il concetto di sevizie particolarmente efferate a forme di crudeltà e di sofferenza «assolutamente eccezionali, provocate dalla reiterazione e dall’insistenza delle torture»55. L’aver individuato in questi requisiti gli unici elementi ostativi all’amnistia, indusse quindi «i giudici a valutazioni discutibili in riferimento alla bestialità di torturatori e aguzzini»56.

Per questo la Cassazione non ravvisò efferatezza

«nelle percosse ai genitali e in ferite con coltello sotto le unghie delle mani e al viso», dal momento che «la vittima poté il giorno stesso essere trasportato in altra località»57.

Furono poi concesse le attenuanti generiche in revisione ad una condanna a morte comminata dalla Corte d’Assise straordinaria di Milano il 21 settembre 1945 contro un maggiore della GNR, accusato di aver «partecipato a requisizioni, sevizie e arresti», poiché la corte ritenne che quelle azioni fossero state determinate «dal desiderio di rintracciare gli uccisori di due suoi fratelli»58.

Partigiani e CLN davanti ai tribunali civili.

Processi per requisizioni e confische di guerra.

Contrariamente al largo condono per i reati compiuti durante il ventennio e nel periodo della repubblica sociale, il giudizio dei partigiani imputati in base alla legislazione penale ordinaria comportò di fatto la condanna di tutte le azioni compiute nel periodo bellico o postinsurrezionale.

Applicando il concetto di fatto di guerra così come elaborato dalla legge del 26 ottobre 1940 n.

1453 vennero infatti punite tutte «le azioni commesse dai partigiani per procurarsi i mezzi

54 Sentenza della Corte di Cassazione, II sezione penale, 31 gennaio 1947, in «Archivio penale», vol, IV, parte I, 1948, p.

147.

55 Sentenza della Corte di Cassazione, 2 maggio 1947, in Foro penale. Repertorio, 1947, vol. LXX, col. 207-209.

56 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946.

Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006, p. 51.

57 Sentenza della Corte di Cassazione, II sezione penale, 25 luglio 1946, in ACS, Fondo Corte Suprema di Cassazione, sezioni penali, sentenze e ordinanze seconda sezione penale (1924-1968).

58 Sentenza della Cassazione penale, sezione di Milano, 21 settembre 1945 n. 232, in ACS, Fondo Corte Suprema di Cassazione, sezione speciale per i reati politici (giugno- settembre 1945), sentenze e ordinanze, vol. III.

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necessari per poter vivere, resistere e continuare conseguentemente la lotta»59.

Nei riguardi della lotta partigiana la generale tendenza della magistratura fu pertanto quella di far passare come atti di delinquenza comune alcune delle requisizioni effettuate da gruppi di patrioti, promovendo «l’apertura di istruttorie per malversazione, peculato, furto, rapina», ed entrando «nel merito delle azioni di guerriglia, delle loro motivazione, del loro svolgimento, formulando numerosissime incriminazioni per omicidio»60.

Per questo il movente politico dell’azione partigiana non venne riconosciuto nel caso del prelevamento e dell’uccisione di Umberto Cinti, ex capitano della polizia ferroviaria fascista, avvenuta a Torino il 2 maggio 1945, sebbene costui fosse stato accusato di aver provocato rastrellamenti, non esistendo in merito all’eliminazione della vittima alcuna disposizione del comando partigiano della 37 formazione.

Il collegio giudicante inoltre non ritenne di dover concedere ai tre partigiani imputati l’esistenza dello stato di necessità, escludendo sia il motivo politico dell’azione sia le attenuanti previste ai sensi dell’art. 62 e 114 del codice penale61. Uno stato di necessità riconosciuto invece a Claudio Cassiano, ex milite della X MAS che il 23 luglio 1944, dopo aver aderito ad una formazione partigiana della Valdossola per operazioni di spionaggio, aveva ucciso una staffetta62.

Solo in rari casi fu riconosciuto il contesto in cui le azioni di guerriglia partigiana erano state commesse e in particolare il momento in cui «i tedeschi stavano per abbandonare il territorio e i partigiani avevano dato aiuto valido alle azioni di guerra alleate»63. Il 2 aprile 1948 la Corte di Assise di Frosinone giudicò legittima una confisca di generi alimentari e di denaro compiuta da alcuni partigiani di Agro Paliano, nella notte tra il

59 Sentenza della Corte di Cassazione, 6 giugno 1949, in Rivista penale, 1949, II, 707.

60 A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani. Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983, p. 152.

61 Sentenza delle Corti d’Assise di Torino, 5 ottobre 1951 n.

23/51, in ISTORETO, Fondo sentenze della magistratura piemontese (1945-1960), D CSA, f. D 67 A.

62 Sentenza della Corte d’Assise di Novara, 18 dicembre 1948 n. 14/47, in ISTORETO, Fondo sentenze della magistratura piemontese (1945-1960), D CSA, f. D 61 B.

63 Sentenza della Corte di Assise di Frosinone, 2 aprile 1948, in ASR, Fondo Corte d’Appello (CAP), f. 2104. Il 6 giugno 1949 tuttavia la Corte di Cassazione avrebbe annullato questa sentenza condannando gli imputati a 19 anni di reclusione per il reato di rapina a mano armata.

28 e il 29 maggio 1944, nella casa di Tiresio Cenciarelli, ex segretario politico del fascio locale.

I componenti delle formazioni partigiane infatti,

«mancando di mezzi e di viveri» ed essendo costretti a «procurarseli al fine di poter continuare la lotta intrapresa»64, erano stati prosciolti dall’accusa di rapina aggravata per l’evidente carattere politico del reato.

Tuttavia, tranne alcune sentenze pronunciatesi a favore del riconoscimento del potere di confisca delle formazioni partigiane, lo statuto di combattenti regolari degli ex volontari della libertà non venne definito.

Nonostante i partigiani dovessero essere considerati come «militari in servizio di sicurezza e tutela pubblica», e pur riconoscendo formalmente i «debiti assunti dai vari CLN provinciali e comunali»65, il decreto legislativo del 6 settembre 1946 n. 226 ritenne risarcibili solo «le obbligazioni, in danaro o in natura» contratte «nel corso della lotta di liberazione, al fine di procacciarsi i mezzi indispensabili per il sostentamento»66.

Presupponendo un termine fisso per la legittimità dei sequestri e delle confische di guerra, la Cassazione affermò, quindi, che «le requisizioni dei locali eseguite dai CLN dopo l’entrata delle truppe alleate nei territori già occupati dai nazifascisti» fossero

«illegali, perché da quella data i predetti comitati»

erano «decaduti dalle loro funzioni»67.

Ai fini dell’indennizzo per danni di guerra divenne inoltre necessario esibire un atto scritto redatto da

«un comandante di brigata partigiana o di formazione corrispondente o dai Comitati di liberazione nazionale»68.

Per questo il 6 febbraio 1958 la IV sezione del Consiglio di Stato avrebbe rifiutato il «rimborso di debiti contratti da formazioni partigiane», visto che «l’obbligazione[era] stata firmata dal segretario e non dal Presidente della formazione»69.

64 Ivi.

65 Interrogazione dell’on. Morini al Governo, in Atti Parlamentari, Assemblea Costituente, 5 maggio 1947, p.

3554.

66 Riposta del sottosegretario di Stato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani, Cino Moscatelli, in Ibidem, p. 3555.

67 Sentenza del Tribunale di Pavia, 6 luglio 1948, in Foro penale. Repertorio, 1948, vol. LXXI, col. 64 A- 65 B, p.

1136.

68 Art. 5, Capo III, Decreto legislativo 19 aprile 1948, n. 517, in Norme per l’assunzione e la liquidazione, da parte dello Stato, dei debiti contratti dalle formazioni partigiane, ai fini della lotta di liberazione,in C. Moscone, Leggi sulla Resistenza e sui partigiani, cit., p. 35.

69 Decisione della IV sezione del Consiglio di Stato, 6 febbraio 1958, n. 470, in Massimario completo della giurisprudenza del Consiglio di Stato 1932-1961, Italedi, Roma, 1963 p. 553.

(9)

Fu inoltre ritenuta legittima la decisione di una commissione regionale di ritirare la qualifica ad un patriota, dal momento che tra le azioni di guerra e di sabotaggio utili per ottenere la benemerenza non poteva annoverarsi «la consegna ai partigiani di viveri contenuti in un magazzino della RSI, né la sottrazione di un camion ad una squadra tedesca», perché commesse «alla vigilia dell’arrivo delle truppe alleate, mentre i reparti tedeschi erano già in ritirata»70. Il Tribunale civile di La Spezia, poi, con una sentenza del 25 febbraio 1948 decise che i CLN «non avendo mai avuto una propria personalità e un proprio riconoscimento giuridico» avrebbero dovuto «necessariamente identificarsi con le persone fisiche dei loro componenti, ai quali», si disse, «incombe di rispondere personalmente degli atti e provvedimentiemanati dai comitati stessi, nonché delle obbligazioni di qualsiasi titolo»71.

Il movente politico dell’azione di guerra non fu inoltre riconosciuto nel caso di una rapina compiuta da tre partigiani a Pescia, in provincia di Pistoia, il 20 agosto 1944. Il collegio giudicante non considerò in questo caso le qualifiche ottenute dalla Commissione toscana di riconoscimento e neppure l’esistenza di un ordine impartito dal comando di zona, in base al quale avrebbe dovuto essere applicato il decreto del 12 aprile 1945 n. 194 sulla non punibilità delle azioni compiute per uno stato di necessità bellica durante l’occupazione tedesca72.

La natura ambigua dei Comitati di liberazione in tema di requisizioni non fu chiarita neppure dalla dottrina del tempo, chiamata ad esprimersi sulla loro liceità nell’emanare ordini e compiere azioni di confisca. Pur riconoscendo «una certa larghezza ed autonomia di poteri», conferita dal governo di Roma, si avvalorò per i CLN lo status di «organi provvisori e non perfettamente disciplinati da norme precise e prestabilite», per cui «la loro attività amministrativa [aveva potuto]

talvolta presentare vizi diversi di forma e di sostanza e particolarmente quello di eccesso di potere»73.

70 Decisione della IV sezione del Consiglio di Stato, 25 marzo 1953, n. 186, in I. Cozzolino, Raccolta di leggi, norme e disposizioni per i combattenti della guerra partigiana, cit., 229.

71 Sentenza del Tribunale civile di La Spezia, 25 febbraio 1948 n. 33, in ACS, Carte Parri, b. 44, f. 233, sf. 3.

72 Sentenza della Corte d’Assise di Firenze, 19 gennaio 1946, in ASF, Fondo Corte d’Assise ordinaria, sentenze 1946, vol.

II.

73 A. M. Sandulli, Sull’autorità competente a conoscere della legittimità di provvedimenti di ablazione dei CLN

Ciò spiega perché nel gennaio 1951 il Tribunale di Verona avesse potuto condannare un gruppo di partigiani, in qualità di membri del Comitato di liberazione nazionale di Cerea dichiarandoli personalmente responsabili per l’ablazione di bestiame, perché effettuata senza il rispetto delle norme per la confisca o la requisizione e non convalidata da organi amministrativi.

Il 20 maggio 1947 la Corte di Assise di Firenze aveva invece revocato il mandato di cattura e assolto per insufficienza di prove un gruppo di partigiani della brigata Fanciullacci accusati di aver cercato di procurarsi dei mezzi di sopravvivenza durante un pattugliamento a Prato nel novembre 1944, nel corso del quale «erano stato incaricati di rintracciare le salme dei loro compagni uccisi», in particolare «chiedendo viveri e denaro ad alcune fattorie, senza però usare minaccia»74.

Nell’inverno del 1948 poi era stata emessa una sentenza a favore del partigiano Ettore Gabrielli, ex comandante della 16 brigata “Generale Perotti” e di Celestino Ombra, commissario politico di quella stessa formazione, accusati di aver fatto fucilare una spia il 18 maggio 1944, su condanna emessa da un tribunale partigiano. La Corte di Assise di Cuneo aveva infatti considerato quel reato non punibile a termine delle leggi comuni, rientrando la soppressione delle spie nella normale attività bellica esplicatasi durante il periodo della guerra di liberazione e perché, essendoci stata una formale

«sentenza di un tribunale partigiano, l’azione commessa dai due imputati» era «considerata azione di guerra»75.

Allo stesso modo il Tribunale di Bologna, con una sentenza del 15 maggio 1946, riconobbe legittimo l’operato di 11 partigiani di San Giovanni in Persiceto accusati di sequestro di persona, violenza privata, lesioni personali, furto aggravato e minacce, per aver prelevato e fatto sparire nove ex fascisti di Decima di San Giovanni in Persiceto, tra il 28 e il 29 ottobre 1945, otto giorni dopo la liberazione di Bologna. Un prelevamento giustificato dall’ordine di fermare tutti gli ex appartenenti alla GNR e di consegnarli ai comandi alleati o al CLN76.

(osservazione alla sentenza della Cassazione 9 ottobre 1950 n. 2556) in «Foro Italiano», 1950, I, p. 745-746.

74 Sentenza della Corte di Assise di Firenze, 20 maggio 1947, in ASF, Fondo Corte d’Assise ordinaria, sentenze 1947, vol.

III.

75 Sentenza della Corte d’Assise di Cuneo, 3 dicembre 1953 n. 30/51, presidente Baretti, in ISTORETO, Fondo sentenze della magistratura piemontese (1945-1960), D CSA, f. D 59 C.

76 Per questo caso cfr. A. M. Politi, La rivoluzione fraintesa. I partigiani emiliani tra liberazione e guerra fredda 1945- 1955, Università degli studi di Modena, Dipartimento di economia politica, luglio 1993, p. 61.

(10)

Si convalidava così il ruolo del movimento di liberazione nella delicata fase di transizione post insurrezionale, visto che «benché la formazione partigiana formalmente non avesse più ragione di esistere, ciò nondimeno essa aveva compiuto un atto di indubbio valore civile, e dunque, legittimo, prendendosi cura di catturare elementi socialmente pericolosi in quanto fascisti»77.

I giudizi a carico di partigiani. Azioni di guerra e reati comuni.

Lo stato di criminalizzazione generale della Resistenza non fu comunque superato da una nuova amnistia per i delitti politici, fortemente voluta nel febbraio 1948 in occasione della promulgazione della Carta Costituzionale, riferita a fatti compiuti entro il 18 giugno 1946 da appartenenti a formazioni partigiane.

Data la necessità di comprovare la politicità di quei delitti ai sensi del codice di procedura penale, il 20 febbraio 1949 erano stati arrestati alcuni componenti della 28 brigata Garibaldi, accusati di sequestro di persona e di rapina per aver ottemperato ad un ordine diramato dall’VIII armata britannica, tra l’aprile e primi di maggio del ’45, nel quale si disponeva il rastrellamento dei fascisti armati nella zona del bresciano78. Il mancato riconoscimento della legalità di queste azioni era dovuto tuttavia proprio alla difficoltà per la magistratura di ravvisare in esse una netta discendenza dagli ordini diramati dai comandi del CLNAI vista l’assenza di giudizi formali, la clandestinità in cui avevano dovuto incorrere le formazioni partigiane, la mancanza di collegamento fra i vari gruppi e la conseguente autonomia decisionale nel giudizio delle spie, che aveva permesso «direttamente ai comandanti di divisione, di brigata, di distaccamento la facoltà di punire»79. Era quindi del tutto legale l’arresto disposto dal Tribunale di Bologna per il partigiano Benigno Bossoli, accusato di aver preso parte all’omicidio del generale Agostani, ex comandante della milizia forestale che in diversi attacchi aveva ucciso due compagni di brigata dell’imputato80.

77 A. M. Politi, L. Alessandrini, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in Guerra, Resistenza, dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto storico provinciale di Bologna, 1991, p.

68.

78 Cfr. A. M. Politi, La rivoluzione fraintesa, cit., pp. 174- 179.

79 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 459.

80 Lettera del partigiano Bossoli Benigno al comitato provinciale dell’ANPI di Bologna, 16 dicembre 1946, in ISREBO, Fondo Anpi Bologna b. 84, f. 1111.

La maggior parte dei processi non terminò quindi con il riconoscimento di un’azione politica ma con pesanti condanne, comunque riviste dopo lunghi periodi di carcerazione preventiva, con l’archiviazione dei casi per non luogo a procedere o con l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove.

La detenzione preventiva riguardò peraltro i decorati di benemerenze come, ad esempio, Vitagliano Romagnoli, medaglia d’argento al VM, detenuto dal 17 marzo 1948 al 17 agosto 1950, e infine assolto in istruttoria per insufficienza di prove dalla Corte di Assise di Bologna o come Aimone Mandini, arrestato a San Giovanni in Persiceto il 22 agosto 1948 per l’omicidio di un fascista, avvenuto a Castelfranco Emilia nel maggio 1945, e amnistiato con sentenza della sezione istruttoria della Corte di Assise di Bologna il 14 ottobre 194981.

A legittimare questi provvedimenti era del resto intervenuta una descrizione criminalizzante della Resistenza, avvalorata nell’immaginario collettivo da una contrapposizione morale tra la guerra partigiana di montagna e la guerriglia combattuta in città, attraverso «azioni terroristiche con azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione del nemico»82.

Ciò contribuisce a spiegare le ragioni del procedimento giudiziario che coinvolse il partigiano Marino Borgioli, arrestato dalla questura di Pistoia alla fine del 1949 per aver ucciso un carabiniere e il segretario politico del fascio di San Piero Agliana nel corso di un’azione gappista compiuta il 5 settembre 1944. Attraverso la descrizione dell’onorabilità delle vittime, fu infatti possibile rimettere in discussione la legalità della Resistenza come guerravolontaria con i suoi codici etici, mentre nessuna contestazione venne mossa alle regole di condotta bellica adottate dalle vittime, al servizio del governo della RSI.

Il 28 marzo 1950 la Corte di Assise di Firenze, non ravvisò, pertanto, alcun movente politico nell’omicidio di Giovanni Nesti e Nello Semplicini, visto che «nessun vantaggio poteva derivare dalla loro soppressione all’attività politica di partigiani»83, avendo questi lasciato la divisa alla data dell’omicidio Una decisione in contrasto con quanto stabilito dalla sezione istruttoria della Procura generale di Firenze che il 13 ottobre 1947 aveva prosciolto il comandante della formazione della quale Borgioli aveva fatto

81 Per questi casi vedi le schede dei detenuti per fatti politici in Archivio della Biblioteca comunale di Follonica, Fondo CSDN, b. 15.

82 C. Pavone, Una guerra civile, cit., p. 494.

83 Requisitoria del PM del 27 ottobre 1951, Archivio della Biblioteca comunale di Follonica, Fondo CSDN, b. 17.

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