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RAPPORTI TRA CARDIOPATIA ISCHEMICA E STRESS LAVORATIVO:

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RAPPORTI TRA CARDIOPATIA ISCHEMICA E STRESS LAVORATIVO:

RIFLESSIONI E VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE

RELATIONSHIP BETWEEN WORK STRESS AND ISCHEMIC HEART DISEASE: CONSIDERATIONS AND CORONER EVALUATION.

P. Fallani

, A. Porrone

**

,

ABSTRACT

La cardiopatia ischemica, condizione morbosa di alterata funzione cardiaca e di ridotta riserva coronarica, sicuramente considerata tra le patologie cardiache a maggiore incidenza nella popolazione adulta, può, in talune circostanze, considerarsi quale risultato dell’azione di eventi stressanti lavorativi, almeno di tipo concausale.

Nel presente lavoro, gli Autori , dopo una breve disamina degli elementi principali, caratterizzanti la cardiopatia ischemica ed un approfondimento delle nozioni di infortunio lavorativo e malattia professionale, si propongono di evidenziare le relazioni sussistenti tra stress lavorativo e cardiopatia ischemica , alla luce di un caso clinico , dell’evidenza scientifica e della revisione della più recente giurisprudenza.

INTRODUZIONE

La cardiopatia ischemica è una condizione di alterata funzione cardiaca , alla cui base è il deficit di perfusione miocardica, consistente nella mancanza di flusso di sangue sufficiente a sostenere la normale funzione metabolica del miocardio.

Questo origina, generalmente, da una patologia delle arterie coronarie, ove il vero problema risiede , solitamente, nella parete vasale e nelle interazioni tra l’endotelio dell’arteria coronarica malata e gli elementi del sangue come piastrine e

Responsabile U.O.S. “Formazione” Area Studi, Ricerca e Procedure Medico Legali, Coordinamento Generale Medico Legale INPS Roma, Docente di Medicina delle Assicurazioni Sociali presso l’Università degli Studi di

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macrofagi, i quali assieme ai processi coagulativi , rappresentano elementi centrali nella fisiopatologia della cardiopatia ischemica.

Esistono, tuttavia, forme di ischemia miocardica , che trovano la loro base in una transitoria riduzione del flusso miocardico regionale causata da uno spasmo coronarico.

Il vasospasmo è qui inteso in senso ampio come un transitorio restringimento di uno o più rami arteriosi, che può verificarsi in coronarie pervie ma, più spesso, in vasi con lesioni stenotiche più o meno gravi.

Nell’ambito del problema, occorre precisare che il rapido e continuato consumo di energia da parte del cuore in attività , che può essere sostenuto, soltanto, attraverso gli efficienti meccanismi della fosforilazione ossidativa, ha un prezzo, dipendendo da un apporto ininterrotto di substrati , in particolare ossigeno, i quali non possono essere immagazzinati dal miocardio. Per questa ragione, il cuore non può tollerare un’ischemia prolungata e, per tale motivo, l’ostruzione di un’arteria coronarica è seguita, rapidamente, da morte cellulare , con le innegabili conseguenze anatomiche e fisiopatologiche che ne derivano.

Sul piano epidemiologico, occorre rammentare che in Italia, il complesso delle malattie cardiovascolari rappresenta la causa più frequente di morte con un’incidenza del 44,7 % dei decessi. L’infarto miocardico acuto è causa del 7,4% delle morti totali e del 26% delle morti nella fascia d’età compresa tra i 25 ed i 64 anni. Si annoverano, inoltre , 160.000 nuovi eventi coronarici/anno.

In relazione alle forme cliniche, la distinzione corrente è da reputarsi la seguente:

 sindrome X;

 angina stabile;

 angina instabile;

 infarto miocardico acuto;

 morte improvvisa.

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La presentazione clinica della cardiopatia ischemica è differente nelle sue diverse espressioni, che possono manifestarsi isolatamente , in associazione o come conseguenza l’una dell’altra.

La prognosi è, a sua volta, diversa a seconda della presentazione clinica e di come l’evento si inscrive nella “storia della patologia coronarica” del singolo paziente”.

I determinanti prognostici principali, comuni a tutte le forme cliniche con cui la cardiopatia ischemica può presentarsi, sono la gravità della coronaropatia e l’alterazione della funzione ventricolare sinistra.

INFORTUNIO SUL LAVORO, MALATTIA PROFESSIONALE E STRESSORS AMBIENTALI E LAVORATIVI

L’infortunio sul lavoro e la malattia professionale rientrano nella tutela del lavoratore, secondo quanto disciplinato dal T.U. D.P.R. 30 giugno 1965, n.1124 e successive modifiche ed integrazioni.

Per gli eventi precedenti la data del 25 luglio 2000, data di entrata in vigore della nuova normativa, l’INAIL indennizza l’inabilità temporanea assoluta conseguente ad infortunio od a malattia professionale, quando l’astensione dal lavoro si protrae per più di tre giorni , per tutto il periodo di inabilità intesa come riduzione della capacità lavorativa specifica, ovvero indennizza la inabilità permanente, riferita alla capacità lavorativa generica , conseguente ad infortunio sul lavoro o malattia professionale, quando il grado di inabilità sia compreso tra l’11 ed il 100% a partire dalla stabilizzazione degli eventi e la remunerazione avviene secondo le vecchie tabelle INAIL annesse al T.U. 1124/65.

Per gli eventi verificatisi dopo il 25 luglio 2000, con l’introduzione normativa del danno biologico, l’INAIL indennizza la menomazione dell’integrità psico-fisica di grado compreso tra il 6 ed il 100%, quando consegua ad infortunio o malattia da lavoro e la

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indennizzo del danno biologico (D.Lgs. 38/2000, art.13 “Danno biologico”) (De Ferrari Francesco, Palmieri Luigi “Manuale di Medicina Legale” Giuffrè Editore 2007, cap. Le Assicurazioni Sociali).

Nello specifico l’infortunio sul lavoro è un qualsiasi evento dannoso , che incida sulla capacità lavorativa del lavoratore , determinato da una causa violenta che agisce con rapidità d’azione in occasione di lavoro.

Sue componenti essenziali sono l’elemento eziologico ( causa violenta), l’elemento circostanziale (occasione di lavoro) e l’elemento consequenziale

( morte od inabilità) .

Ai fini della qualificazione dell’infortunio del lavoro, quale fattispecie giuridica è l’azione lesiva da causa violenta che deve agire in un lasso di tempo ben determinato e non le sue conseguenze morbose che si possono esplicare anche con una latenza clinica di qualche mese.

Esempio classico, in tal senso, è l’infortunio sul lavoro dovuto ad agopunzione accidentale che da luogo all’insorgenza di un quadro di epatite B, C o delta, le cui manifestazioni cliniche possono richiedere un periodo di latenza da 1 a 4 mesi circa.

Il limite temporale entro cui deve esercitarsi la rapidità d’azione dell’agente lesivo, è per definizione considerato quello delle 24 ore.

Si può anche riscontrare talvolta, ai fini della dimostrazione del nesso causale, la cosiddetta “sindrome a ponte” che riguarda una sintomatologia prodromica che annuncia l’insorgere della malattia conclamata, oggetto dell’indagine peritale per il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro.

La malattia professionale è concepita come un processo morboso derivante da un’esposizione protratta e diluita agli effetti nocivi del lavoro. In particolare, si considera quella contratta nell’esercizio ed a causa della lavorazione alla quale è adibito il lavoratore.

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Essa non costituisce un evento improvviso ed imprevedibile come l’infortunio ma è legata, prevedibilmente, alla nocività delle lavorazioni ed è il risultato dell’azione di una causa agente reiterata , protratta e diluita nel tempo, operante durante l’esposizione al lavoro.

Sue componenti essenziali sono l’elemento causale, rappresentato dalla causa agente, l’elemento circostanziale, consistente nell’esposizione al rischio professionale durante l’esercizio della lavorazione morbigena e l’elemento consequenziale costituito dalle manifestazioni cliniche della malattia e dalle conseguenze inabilitanti o letali.

E’ possibile che, nel corso della vita lavorativa di un soggetto, questi sia sottoposto ad un grave stress lavorativo capace di interagire negativamente con il benessere psico-fisico dello stesso fino a provocare franchi quadri patologici o di aggravare quelli preesistenti.

Le patologie che ne derivano possono essere di natura organica, psichiatrica o psicosomatica.

Lo stress può essere identificato per la natura degli stimoli ovvero per il tipo di risposte evocate.

Gli stimoli determinanti lo stress sono detti stressors e si distinguono in benefici , detti eustress e nocivi detti distress.

Mentre gli eustress danno tono e vitalità all’organismo, facilitando la produzione di catecolamine ed ormoni corticosteroidi, i distress possono portare all’abbassamento delle difese immunitarie oltre a situazioni come ansia, tensione, insonnia .

(Stressor da INTERNET Wikipedia).

Gli stressors si distinguono in:

 Acuti, se limitati nel tempo;

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 Conseguenti ad avvenimenti negativi della vita come separazioni, lutti , divorzi (fullstress events);

 Cronico – intermittenti, come, ad esempio, gli esami degli studenti;

 Cronici , come le discordie maritali prolungate, le malattie debilitanti, l’esposizione cronica a fattori di rischio e di lesività lavorativa.

Il tipo di risposta agli stressors ambientali è individuale e riguarda la maggiore o minore sensibilità e suscettibilità dei soggetti esposti

(Personalità Individuale, Lavoro e Stress – da Internet – Settimana del Cervello/Brain Awareness Week 2008 ) .

Pertanto, la risposta è legata ai tratti di personalità individuale.

Ricerche condotte per più di 50 anni hanno permesso di suddividere i comportamenti umani , in rapporto alla tolleranza allo stress ed all’ambito delle reazioni da questo innescabili, sostanzialmente in due gruppi, che sono rappresentati dal TIPO A e dal TIPO B ( Personalità Individuale, lavoro e stress, da Internet, Settimana del Cervello/Brain Awareness Week 2008) .

Gli individui appartenenti al TIPO A sono molto più vulnerabili allo stress e presentano una maggiore probabilità di soffrire di patologie stress correlate , ossia di disturbi psichici e fisici . Si tratta di soggetti , in particolare, molto più suscettibili nei confronti delle malattie cardiovascolari , segnatamente , l’ipertensione, l’infarto miocardico, l’ictus cerebrale, etc. .

Al contrario , gli individui di TIPO B hanno una maggiore capacità di resistenza agli eventi stressanti ed una maggiore capacità di fronteggiarli e , quindi, di andare incontro alle patologie cardiovascolari.

Per sua specifica natura, lo stress lavorativo si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano la capacità del lavoratore di affrontarle o di controllarle.

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Esso può derivare, principalmente, dall’organizzazione del lavoro , dalle mansioni che si devono svolgere , dall’atmosfera lavorativa .

I principali sintomi, legati alle conseguenze dello stress da attività lavorativa, sono i cambiamenti dell’umore e del comportamento, l’irritabilità e lo scarso rendimento, sensazioni di inadeguatezza, maggiore ricorso ad alcool, fumo o droghe, frequenti emicranie, insonnia, depressione, disturbi cardiaci e gastrici

(Come affrontare lo stress lavorativo - Guida Fact Internet ) .

E’ opportuno rammentare che la concezione del lavoro e la sua collocazione all’interno della vita di una persona e delle sue abitudini quotidiane risentono del pensiero sociale sul lavoro, trasformatosi , radicalmente, dal passato ad oggi.

Ritenuto, per secoli, un’attività di basso rango, tanto da poter essere praticata solo da schiavi e prigionieri, esso dal XVIII secolo, è divenuto un’attività via via più diffusa tra le diverse classi sociali ed oggi lo si considera, non solo un qualcosa necessario per vivere, in quanto consente l’indipendenza economica personale ma anche un mezzo di affermazione sociale .

Ciò fa si che, in taluni casi, l’identità lavorativa possa incidere, sull’identità stessa dell’individuo da cui nasce la possibilità che possano innescarsi conseguenze sull’equilibrio personale e psico-fisico individuale, quando il lavoro non appaghi completamente il soggetto per finalità , progettualità e fattualità o realizzazione pratica (La dipendenza dal lavoro. Evoluzione della concezione sociale del lavoro. Benessere com. Psicologia da Internet ) .

Per sua natura, la cardiopatia ischemica riconosce alla base un deficit di perfusione miocardica, fenomeno originante , generalmente, dall’aterosclerosi coronarica, patologia delle arterie coronarie, ad eziopatogenesi , in gran parte, sconosciuta anche se la ricerca scientifica ha permesso di individuare fattori, che possono facilitarne la comparsa ed accelerarne l’aggravamento, detti fattori di rischio .

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Questi possono essere distinti in non modificabili come il sesso maschile, l’età e la familiarità e modificabili come l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, il fumo di sigaretta, il diabete mellito, la sedentarietà ,lo stress.

Lo stress può essere assunto come elemento facilitatore ed aggravante la coronaropatia e la cardiopatia ischemica ed altrettanto può dirsi dello stress lavorativo specialmente quando agisca su individui, che sopportano difficilmente pressioni lavorative, scadenze, rapporti con gli altri.

Negli anni ’90 , studi condotti sulla personalità del coronaropatico hanno dimostrato l’associazione tra tratti nevrotici, ansia, depressione ed ostilità e presenza di coronaropatia .

Alcuni Autori , pur nel riconoscimento del ruolo rilevante della struttura della personalità, hanno posto l’accento sui fattori psicosociali che, come lo stress prolungato, possono avere la funzione di catalizzatori della sofferenza psicosomatica del paziente manifestata attraverso l’infarto, dal momento che i fattori di rischio tradizionale e la presenza di una personalità più predisposta non sono apparsi determinanti perché abbia luogo un infarto .

Un articolo, apparso nel 2005 sull’European Heart Journal, riporta i risultati di un’indagine compiuta nel 2002, da parte del National Health Interwiew Surwey , che confermano che lo stress psicologico rappresenta un significativo fattore di comorbilità per le malattie cardiovascolari (Amy K. Ferketich and Philip F. Binkley “Psychological distress and cardiovascular disease: results from the 2002 National Health Interview Survey-European Heart Journal (2005) 26, 1923-1929 ) .

Ancora, la plausibilità di un ruolo causale della patologia affettiva, nella cardiopatia ischemica, è stata dimostrata da un’interessante studio condotto da Vampini C. (1998), il quale, al riguardo, ha formulato l’ipotesi piastrinica e quella neurovegetativa.

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Secondo la prima ipotesi, la depressione influenzerebbe la prognosi dei pazienti affetti da cardiopatia ischemica, favorendo una condizione di iperaggregabilità piastrinica, facilitante il realizzarsi di eventi trombotici, mentre l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) si correlerebbe a modificazioni del metabolismo glicidico e lipidico; le alterazioni autonomiche, invece, favorirebbero l’insorgenza di gravi aritmie (Carney et al., 1999).

In merito alla seconda ipotesi, in tale studio, è stata poi posta particolare attenzione all’alterazione della Heart Rate Variability (HRV), parametro che rappresenta la deviazione standard fra gli intervalli R-R dell’ECG, riflesso del bilanciamento fra l’input simpatico e parasimpatico sul pace-maker (Schartz et al., 1992; Task Force ESC, 1996).

In concreto , lo squilibrio (secondario ad iperattivazione dei nuclei ipotalamici posteriori) tra sistema simpatico e parasimpatico con vantaggio del primo, determinerebbe un’ipereccitabilità miocardica che, in presenza di un terreno predisposto dalla lesione ischemica cardiaca, potrebbe facilitare, attraverso una riduzione della soglia aritmica, l’insorgenza di fibrillazione ventricolare, causa frequente di morte improvvisa nei soggetti con IMA; un aumento dell’attività parasimpatica, al contrario, innalzerebbe la soglia aritmica, con effetti protettivi sul miocardio (Roose & Dalack, 1992; Krittayaphong et al., 1997; Gruen et al., 2000).

Alla luce di ciò, non appare casuale che la maggior parte degli episodi mortali da fibrillazione ventricolare avvenga nelle prime ore del mattino, momento in cui le alterazioni neuroendocrine (ad esempio, del cortisolo) raggiungono l’acme proprio nel paziente con depressione maggiore (Torta, in press). L’HRV risulta, in effetti, significativamente ridotta, sia in pazienti con malattia coronarica stabile, ancor prima della realizzazione di eventi ischemici, sia in pazienti affetti da insufficienza congestizia, rappresentando un predittore di mortalità in grado di elevare di 3-5 volte il rischio relativo di mortalità post-IMA (Kleiger et al., 1987; Kop et al., 2001).

Nei pazienti depressi, si può rilevare un’analoga riduzione della HRV,

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dell’aumentata mortalità, che si rileva nei cardiopatici con comorbilità depressiva, anche clinicamente asintomatici (Yeragani et al., 2000). Una buona funzionalità cardiaca, di converso, si correla con un elevato livello di HRV (Bigger et al., 1992).

Un’altra ipotesi sul rischio biologico vascolare correlato alla depressione fa riferimento al riscontro, nei depressi, di un’iperaggregabilità piastrinica, sovente responsabile di fenomeni trombotici, verosimilmente legata ad una disregolazione della trasmissione serotoninergica, per un’alterazione della densità dei recettori 5HT2a piastrinici, cui conseguirebbe un’attivazione dellafunzionalità piastrinica (Musselman et al., 1996; Nemeroff & Musselman, 2000).

Tale meccanismo risulterebbe ancor più accentuato nei pazienti con elevati livelli di ostilità e nei fumatori (Markovitz, 1998; Markovitz et al., 1999).

Ancora, situazioni di stress emozionale cronico, associate a sentimenti di impotenza o di sconfitta, e la riduzione del supporto sociale, che si osserva sovente nei pazienti depressi, contribuirebbero, in maniera rilevante alla morbilità ed alla mortalità cardiovascolare (Evans et al., 1999), quali fattori di attivazione di meccanismi bioumorali coinvolti nello sviluppo o nel peggioramento delle malattie cardiovascolari;

ciò con particolare riferimento all’amplificata risposta dell’asse HPA, da cui trae origine un’iperattivazione del sistema adrenergico, la quale, può influire sull’aritmogenesi, sull’aggregabilità piastrinica e sulla viscosità ematica.

Inoltre, una recente ipotesi fa riferimento al potenziale coinvolgimento di alcuni fattori della flogosi nei meccanismi biologici della depressione, a riprova delle importanti interconnessioni tra sistema immunitario e sistema nervoso centrale; in particolare, un ruolo, in tal senso, verrebbe svolto dall’interleuchina 1-beta (IL-1b) e dagli antagonisti del recettore IL-1 (Licinio & Wong, 1999).

Da ultimo, con preciso riferimento all’infarto miocardico acuto, occorre segnalare il ruolo che possono avere, nella sua determinazione eziopatogenetica, i cosiddetti fattori scatenanti, quali :

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 Sforzi violenti ovvero stress con grandi variazioni della pressione arteriosa ( e conseguente aumentato postcarico o effetti inotropi , che aumentano la richiesta circolatoria da parte del miocardio;

 angina instabile (correlata al rischio di infarto miocardico nel 20% dei casi);

 ritmi circadiani in quanto è dimostrato che il 40% di tutti gli infarti avviene al mattino tra le 6 e le 12, probabilmente in seguito al picco cortisolico (Infarto miocardico acuto -da Internet- da Wikipedia, l’enciclopedia libera (febbraio 2010).

A proposito degli sforzi violenti e degli stress non è improbabile che l'aumento dell'attività del sistema adrenergico, che si ha sia in condizioni di esercizio fisico strenuo sia di intense emozioni (paura, collera, ecc.), possa provocare, attraverso gli effetti della scarica catecolaminica, una maggiore richiesta di ossigeno da parte del cuore od indurre severe alterazioni del ritmo cardiaco.

(Internet – Medicina Didattica - L'INFARTO DEL MIOCARDIO - Prof. L.

Petruzziello).

CASO CLINICO

Soggetto di sesso maschile , diplomato, dopo essere stato assunto, all’età di 30 anni, presso un’azienda privata che fornisce un servizio pubblico, ha svolto, mansioni di sportellista e di addetto di supporto per circa 3 anni. A seguito di concorso interno per una qualifica di gruppo B, viene trasferito ad un ufficio interno, con la qualifica di vice - responsabile, mansione che ha svolto per diversi anni. Conseguentemente ad ulteriore concorso interno, all’età di 39 anni, diviene ispettore della ragioneria e quindi, a seguito di diversi trasferimenti, vice dirigente di una Sede zonale provinciale, anche con l’incarico di controllo dell’attività di altro ufficio analogo di una provincia viciniore.

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Ciò ha comportato, per circa sei anni, un aggravio di responsabilità, continui spostamenti e la necessità di adempiere a mansioni inferiori ( sostituzione degli assenti del giorno, operazioni di carteggio, perfino carico e scarico e smistamento merci dai furgoni).

Pertanto, il dipendente in questione, nel corso della vita lavorativa, è stato soggetto a numerosi cambiamenti e/o trasferimenti e ad un continuo cambio di mansioni nell’ambito di un’organizzazione lavorativa territoriale molto estesa, con necessità di svolgere compiti e mansioni disparate per sopperire ai bisogni ed alle carenze della stessa, tra l’altro con orari gravosi e con reperibilità anche di domenica.

All’età di 53 anni, dopo un diverbio con un dipendente, riportava un infarto miocardico nelle ore notturne. Dalla cartella clinica si evidenzia che “ l’evento si manifesterebbe alle ore 00.25” ovvero dopo che erano passate circa 4 ore dal temine del turno lavorativo (ore 20.15) .

In particolare dall’anamnesi risulta che “a seguito di accesa discussione con un dipendente, intercorsa nelle ore pomeridiane, in pieno orario di lavoro,… , abbia , appena dopo , cominciato ad avvertire i primi sintomi dell’infarto miocardico , con la presenza di un forte dolore che dalla sede precordiale si irradiava fino all’avambraccio sinistro”.

Il soggetto inoltrava domanda all’INAIL per accertare l’eventuale origine professionale della malattia da cui il medesimo asseriva di essere affetto “infarto miocardico acuto anteriore e laterale ” , con conseguente diritto a percepire il relativo indennizzo , previsto dal T.U. n. 1124/1965 e successive modificazioni.

CONSIDERAZIONI MEDICO-LEGALI

Le valutazioni relative al caso in questione muovono dall’inoltro da parte di un soggetto di sesso maschile di anni 53, vice dirigente di una sede territoriale di una grossa azienda privata che fornisce un servizio pubblico, operativo di una provincia

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con l’incarico di controllo dell’attività di altro ufficio analogo, di una provincia viciniore, di una domanda per accertare l’eventuale origine professionale della malattia da cui il medesimo asseriva di essere affetto “infarto miocardico acuto anteriore e laterale ” , con conseguente diritto a percepire il relativo indennizzo, previsto dal T.U. n.

1124/1965 e successive modificazioni.

Dall’anamnesi risulta che l’episodio infartuale che lo ha riguardato sarebbe intervenuto a seguito di un diverbio con un dipendente .

Dalla cartella clinica si evidenzia che “ l’evento si manifesterebbe alle ore 00.25”

ovvero dopo che erano passate circa 4 ore dal temine del turno lavorativo (ore 20,15 . In particolare dall’anamnesi risulta che “a seguito di accesa discussione con un dipendente, intercorsa nelle ore pomeridiane, in pieno orario di lavoro, …. , abbia , appena dopo , cominciato ad avvertire i primi sintomi dell’infarto miocardico , con la presenza di un forte dolore che dalla sede precordiale si irradiava fino all’avambraccio sinistro”.

Occorre rammentare che l’infarto miocardico acuto (IMA) è una sindrome clinica conseguente all' occlusione improvvisa e prolungata di un ramo arterioso coronarico, la quale determina la necrosi ischemica delle cellule miocardiche correlate alla coronaria occlusa. L' occlusione coronarica nel 90% dei casi è trombotica (con formazione di un trombo su una preesistente placca aterosclerotica stenosante, che può essere ulcerata, con un' esaltata vasocostrizione locale) e nel 10% dei casi consegue a condizioni diverse non trombotiche. La necrosi ischemica ha inizio nel subendocardio 20 minuti dopo l' occlusione coronarica , entro 6 ore diviene transmurale estendendosi fino al sub epicardio; quindi , tra le 6 e le 24 ore successive,una quota aggiuntiva di necrosi subepicardica determina la necrosi ischemica transmurale nel 100% dei casi.

La cicatrice fibrosa infartuale residua è sottile, meccanicamente ed elettricamente inattiva e deformabile dalle forze di stiramento.

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In Italia, ogni anno, sono colpite da IMA 130.000 persone circa. Di queste muoiono all’incirca 33.000 persone e 18.300 muoiono prima ancora di raggiungere l’ospedale. La maggioranza delle morti è aritmica e secondaria a fibrillazione ventricolare.

Per quanto riguarda il gruppo di pazienti che raggiunge l’ospedale in vita, è ormai accertato che la terapia trombolitica è capace di determinare un miglioramento della funzione sistolica del ventricolo sinistro (VS) ed una riduzione della mortalità a 35 giorni del 21% negli IMA Q transmurali che corrisponde ad un salvataggio di 21 vite per 1000 pazienti trattati.

Dal punto di vista epidemiologico, nonostante i miglioramenti apportati dalla scienza medica negli ultimi anni, l’infarto acuto del miocardio rappresenta, ancora oggi, la principale causa di morte della popolazione adulta dei paesi occidentali, con il 30% di decessi, la metà dei quali avviene prima dell’ ospedalizzazione. Tra i pazienti ospedalizzati per infarto, la mortalità si aggira intorno al 7-15% durante l’ospedalizzazione ed al 7-15% nell’anno successivo (1).

Qualora la necrosi è < 10% della massa miocardica, non si rilevano segni di alterata funzione ventricolare mentre se il danno è del 15-25% si ha diminuzione della frazione di eiezione ed aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro; altresì , se il danno è del 25-40%, l' infarto può complicarsi con edema polmonare acuto (EPA) e/o shock cardiogeno per grave riduzione della frazione di eiezione ed aumento della pressione telediastolica del VS.

In relazione alla prognosi ed alla stratificazione del rischio, il decorso postinfartuale è gravato da una mortalità del 10% nel primo anno e del 5% negli anni successivi, dovuta a scompenso cardiaco, reinfarto, morte improvvisa. Il rischio di morte e quindi il giudizio prognostico appaiono condizionati da fattori quali :

 estensione dell' IMA (aree ipo-, a-, discinetiche),

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 frazione di eiezione (FE) (se < 40% indicati: ace-inibitori, diuretici, eventuale digitale, coronarografia per PTCA o bypass per migliorare la funzione sistolica se la scintigrafia con tallio 201 o meglio la tomografia ad emissione di positroni-PET dimostri del miocardio ibernato),

 ischemia residua (test da sforzo limitato dai sintomi entro 4 settimane dall' IMA se non controindicato, ECG sec. Holter se ischemia silente, eventualmente coronarografia per PTCA o bypass se test positivi),

 comparsa di aritmie ventricolari (ECG sec. Holter). - Giuseppe Giancaspro, Marianna Suppa, DEU Policlinico Umberto I, Università " La Sapienza ", Roma.

L’infarto miocardico acuto rappresenta la manifestazione più esclusiva della cardiopatia ischemica la quale riconosce alla sua base, generalmente, da una aterosclerosi delle arterie coronarie; questa costituisce una malattia in gran parte sconosciuta anche se la ricerca scientifica ha permesso di individuare fattori, che possono facilitarne la comparsa ed accelerarne l’aggravamento, detti fattori di rischio.

Essi possono essere distinti in non modificabili come il sesso maschile, l’età e la familiarità e modificabili come l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, il fumo di sigaretta, il diabete mellito, la sedentarietà ,lo stress.

Lo stress può essere assunto come elemento facilitatore ed aggravante la coronaropatia e la cardiopatia ischemica ed altrettanto può dirsi dello stress lavorativo specialmente quando agisca su individui che, per la loro natura, sopportano difficilmente pressioni lavorative, scadenze, rapporti con gli altri.

Orbene è stato accertato che l’infarto miocardico sia occorso ad A.B. a distanza di alcune ore dopo aver avuto un diverbio con un dipendente sul posto di lavoro, fattore che potrebbe aver avuto assunto un ruolo nel determinismo della patologia di cui trattasi in qualità di fattore di rischio scatenante.

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angina instabile ( rischio di infarto del 20%), i ritmi circadiani, in quanto è dimostrato che il 40% di tutti gli infarti avvenga al mattino tra le 6 e le 12, probabilmente in seguito al picco cortisolico ( Infarto miocardico acuto -da Internet- da Wikipedia, l’enciclopedia libera (febbraio 2010)) .

Nel caso in questione, non è improbabile che il diverbio con il dipendente abbia provocato l'aumento dell'attività del sistema adrenergico ,che ,attraverso gli effetti della scarica catecolaminica, ed, in particolare, con l’incremento della pressione arteriosa, può aver determinato una maggiore richiesta di ossigeno da parte del cuore .

D’altra parte gli studi in precedenza citati confermano e rafforzano , nettamente, l’ipotesi che lo stress lavorativo rappresenti, singolarmente considerato, una fonte innegabile ed un notevole fattore di rischio con particolare peso specifico , nell’insorgenza della malattia coronarica e dell’ipertensione arteriosa.

Anche se tutto ciò non comporta l’automatico riconoscimento di tali noxae patogene direttamente ed indifferentemente dovute all’ambiente di lavoro, alla stregua delle malattie tabellate , non è tuttavia possibile escludere la loro esistenza ed insorgenza come direttamente ed indirettamente collegabili ai fattori di rischio dovuti allo stress esistenti nell’ambiente di lavoro.

Studi di settore di tipo retrospettivo e prospettico hanno riscontrato un netto incremento dei valori di pressione arteriosa , evidenziati ambulatorialmente, nei controlli dei lavoratori , con un’ associazione positiva con i fattori stressanti lavorativi.

Le discrepanze evidenziate tra l’elevata domanda di prestazioni lavorative richieste al dipendente , la diversità e la variabilità dei ruoli da ricoprire , non sempre consoni alla propria qualifica, la necessità di sopperire alle documentate carenze di personale negli Uffici diretti , l’inadeguato livello dell’organizzazione del lavoro, il turnismo esasperato e la conflittualità esistente nell’ambiente lavorativo, con frequenti discussioni , possono rappresentare elementi significativi di logorio psicofisico specie se

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rapportati al vissuto psichico soggettivo del dipendente caratterizzato da ansia e frustrazione per non poter far fronte a tutti gli impegni ed i problemi lavorativi , presenti nel quotidiano.

Trattasi , nella fattispecie, di veri e propri fattori di rischio intrinsecamente collegati al distress da lavoro.

Anche se ciò non comporta l’automatico riconoscimento di tali noxae patogene come direttamente ed esclusivamente dovute all’attività lavorativa, come avviene nel caso delle malattie tabellate, tuttavia non è possibile neanche escludere del tutto la loro esistenza ed insorgenza come direttamente od indirettamente legate all’ ambiente lavorativo.

L’ammissione o l’esclusione di ciò, al fine di valutare la compatibilità e la plausibilità con le patologie verificate nei soggetti lavoratori addetti , può partire solo da un’approfondita analisi delle caratteristiche e peculiarità organizzative e della valenza di aspetti intrinseci qualificanti , relativi all’ambiente di lavoro.

Qualora la valutazione oggettiva delle caratteristiche organizzative e strutturali dell’ambiente di lavoro , confrontato con l’habitus mentale e con i tratti di personalità del periziando facciano propendere per l’ipotesi affermativa di possibile esistenza di un rapporto di causa – effetto fra ambiente di lavoro e distress, lo studio Whitehall II si è dimostrato a favore del fatto che lo stress lavorativo rappresenta, singolarmente considerato, una fonte innegabile ed un notevole fattore di rischio con un ruolo ed un particolare peso specifico nell’insorgenza dell’ipertensione arteriosa e dell’infarto miocardico.

CONCLUSIONI

La dimostrazione del nesso di causalità materiale, sia in ambito civile che penale,

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cronica, prende le mosse dall’assunzione degli elementi conoscitivi riguardanti il caso specifico, sia di tipo clinico che circostanziale, con la ricostruzione delle caratteristiche organizzative dell’ambiente di lavoro considerato in rapporto al grado di tolleranza, ovvero di suscettibilità individuale del soggetto in esame, indagato, prevalentemente, attraverso il vissuto lavorativo riferito in anamnesi e validato anche da accertamenti specialistici, anche ex post, sia relativi agli organi ed apparati colpiti che inerenti la sua sfera psichica e l’eventuale stato di ansia o depressione verificati.

Anche la presenza di eventuali fullstress events nella vita extralavorativa del soggetto considerato può avere un valore probatorio, ai fini dell’ammissione o esclusione di altre cause per la dimostrazione della prova.

La precedente insorgenza di un quadro morboso di ipertensione arteriosa va valutato in correlazione alla situazione lavorativa nel tempo, confrontata anche con l’evolversi delle situazioni personali.

Il livello di organizzazione ed il contesto lavorativo devono essere, in ogni caso vagliati attentamente per comprendere le possibili prerogative dell’ambiente di lavoro medesimo ed il tipo di pressione sia a livello fisico che ancor più psicologico che il lavoratore, con mansioni e qualifiche identiche a quelle del soggetto considerato, può avere evidentemente sostenuto.

La carriera ed il tipo di responsabilità a cui il soggetto stesso sia stato sottoposto giocano, sicuramente, un ruolo patogenetico, attraverso le componenti dello stress cronico alimentato, ai fini del conseguimento consensuale di un evento lesivo di tipo cardiovascolare.

Va da se che uno stress acuto su un sistema cardiocircolatorio o vascolare anche in parte compromesso può giustificare un evento acuto come un infarto del miocardio od un’emorragia cerebrale, con conseguenze lesive che possono arrivare fino all’exitus.

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Uno stress cronico che agisca con modalità diluite nel tempo può sicuramente avere rilievo ai fini dell’insorgenza di un’ipertensione arteriosa, di una cardiopatia ischemica o anche di un infarto del miocardio non direttamente collegabile ad uno stress acuto sofferto in ambiente lavorativo, ovvero di altra condizione vascolare, questa volta con i crismi della malattia professionale.

Esiste un distinguo piuttosto preciso ai fini della dimostrazione del nesso di causalità in civile e in penale.

Vigendo, infatti, in civile la regola del cosiddetto “più probabile che non”, è sufficiente dimostrare che esista una probabilità certa e apprezzabile che a fronte dell’esposizione a ben determinati fattori di rischio possa poi insorgere, come effetto, un certo fenomeno lesivo eziopatogeneticamente collegabile con il fatto morboso di tipo acuto o cronico che si sia verificato.

E’ sufficiente, ai fini della dimostrazione del nesso di causalità, che venga esclusa la mera possibilità, esistendo in giurisprudenza numerose sentenze in tal senso.

In penale, la dimostrazione del nesso di causalità appare assai più rigida, non essendo sufficiente l’esistenza di un legame di probabilità, pur elevata fra fatto lesivo ed evento morboso conseguente, ma esigendosi che tale tipo di probabilità sia quasi vicina alla certezza.

In tutti i casi, il giudizio si fonda su tutti gli elementi fattuali e processuali verificabili in concreto, non essendo sufficiente un legame di semplice probabilità statistica fra fatto lesivo e danno consequenziale alla predetta dimostrazione del nesso di causalità.

In ultima analisi, poiché dai dati della letteratura specifica del settore si arguisce

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lavoro, con un’incidenza statisticamente molto significativa collegabile all’esposizione prolungata agli stressors lavorativi ed in un contesto produttivo diffuso e non ben organizzato, la ricostruzione puntuale e rigorosa degli aspetti fattuali e la ricognizione adeguata di tutti gli elementi di conoscenza da reputarsi significativi riguardo al caso in specie considerabile sembrano rappresentare aspetti salienti discriminanti e fondamentali ai fini della ponderata analisi e dell’equa valutazione di un possibile nesso di causalità, per il riconoscimento di un infortunio sul lavoro e/o di una malattia professionale.

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BIBLIOGRAFIA

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