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DIRITTO DELL UNIONE EUROPEA

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Academic year: 2022

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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

PARTE I – Il quadro istituzionale

Considerazione generali

La struttura dell’Unione Europea è abbastanza complessa. All’interno di essa operano organi che, per l’importanza del proprio operato, vengono definiti come ISTITUZIONI e sono:

 Consiglio;

 Parlamento Europeo;

 Commissione;

 Corte di giustizia.

Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stato istituzionalizzato anche un organo, esistente da tempo, che operava già all’interno dell’Unione, il CONSIGLIO EUROPEO. Inoltre il Trattato di Lisbona ha modificato il nome di alcune istituzioni: la Commissione è diventata COMMISSIONE EUROPEA, mentre la Corte di giustizia non è più delle Comunità, bensì dell’Unione.

Inoltre bisogna sottolineare che sia per le Comunità, quanto per l’Unione, vi è un QUADRO ISTITUZIONALE UNICO, garantito dall’art. 3 del TUE, che assicura il rispetto del primo principio cardine dell’Unione, ossia il PRINCIPIO DI COERENZA, il quale prevede che le azioni svolte dalle varie istituzioni siano tra loto COORDINATE. A conferma di tale principio vi è anche il COMMA 2 del suddetto art.3: il principio di coerenza assume maggior rilievo per quanto concerne l’AZIONE ESTERNA delle istituzioni. L’azione esterna, infatti, è composta da un lato dalle azioni e dalle politiche comunitarie aventi rilievo esterno (politica commerciale comune, politica di sviluppo ecc.), mentre da un altro lato prevede la Politica estera di sicurezza comune (PESC). Le due politiche non devono in alcun modo entrare in contrasto tra loro: responsabili per il rispetto del principio di coerenza sono il Consiglio e la Commissione.

Ad assicurare tale coerenza, inoltre, vi è, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’ALTO RAPPRESENTANTE PER GLI AFFARI ESTERI DELL’UNIONE EUROPEA, il quale è sia Presidente del Consiglio degli Affari Esteri, sia vicepresidente della Commissione. Egli garantirà, più di tutti, azioni che non entrino in contrasto tra loro in alcun modo.

Altro principio chiave dell’Unione è sicuramente il PRINCIPIODI ATTRIBUZIONE (detto anche dell’EQUILIBRIO ISTITUZIONALE), sancito dall’art. 5 del TUE e dall’art.7 COMMA 2 del TCE: ogni istituzione deve rispettare le attribuzioni di potere concesse alle altre istituzioni dai vari trattati e non deve compiere atti in contrasto con tale previsione, onde evitare di incorrere nel VIZIO D’ INCOMPETENZA DELL’ATTO, che ne decreterebbe l’illegittimità.

N.B. il principio qui in esame riguarda le diverse attribuzioni delle istituzioni e NON all’omonimo principio riguardante le Comunità Europee, il quale vieta alle stesse di occuparsi di materie non attribuite alla competenza delle stesse dal TCE.

Inoltre va segnalato un terzo principio, quello della LEALE COLLABORAZIONE, individuato dalla Corte di Giustizia nella propria giurisprudenza: le istituzioni devono collaborare lealmente tra di loro e con gli Stati membri.

Infine vi è il PRINCIPIO DEL RISPETTO DELL’ACQUIS COMUNITARIO. Per acquis si intende il diritto comunitario ed in particolare gli atti delle istituzioni che si sono succeduti nel corso del tempo, oltre alla giurisprudenza della Corte di giustizia. Le istituzioni devono operare rispettando tale principio e quindi, in un certo senso, non possono regredire nel proprio operato, in quanto entrerebbero in contrasto con il precedente acquis. Anche gli Stati candidati ad entrare a far parte dell’Unione devono dimostrare di poter rispettare l’acquis comunitario. Alcuni problemi potrebbero sorgere tra il principio del rispetto dell’acquis ed il principio di sussidiarietà: quest’ultimo

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permetterebbe all’Unione di tornare sui suoi passi e di restringere l’ambito del proprio operato qualora ravvisasse la mancanza dei presupposti per dar luogo ad un’azione comunitaria. Il nuovo TF, inoltre, sembra deporre a favore di questa tesi, laddove è previsto che gli Stati membri esercitino nuovamente la loro competenza nel momento in cui l’Unione cessi di esercitare la propria.

RIASSUMENDO = i principi sono quattro:

 Principio di coerenza: azioni delle istituzioni coordinate tra loro;

 Principio d’attribuzione: l’azione delle istituzioni è vincolato all’attribuzione di competenza fatta dai trattati;

 Principio di leale collaborazione: le istituzioni devono collaborare tra loro e con gli Stati membri;

 Principio dell’acquis: si osserva il diritto comunitario dei trattati e della giurisprudenza;

Le Istituzioni, non contando il Consiglio Europeo da poco riconosciuto come tale, sono 5:

ISTITUZIONI POLITICHE CHE PARTECIPANO ALLA POLITICA ATTIVA DELL’UNIONE

 CONSIGLIO;

 COMMISSIONE EUROPEA;

 PARLAMENTO EUROPEO;

ISTITUZIONI DI CONTROLLO, CHE CONTROLLANO L’OPERATO DELLE ISTITUZIONI POLITICHE

 CORTE DI GIUSTIZIA, ORGANO GIURISDIZIONALE DI CONTROLLO;

 CORTE DEI CONTI, CHE HA IL CONTROLLO CONTABILE SULLE ENTRATE E SULLE SPESE.

IL PARLAMENTO EUROPEO

Originariamente il Parlamento Europeo era denominato come Assemblea, in un primo momento, e come Assemblea parlamentare in un secondo. Nel 1986 con la firma dell’AUE ha acquisito il nome di Parlamento. I propri membri sono eletti a suffragio universale diretto da parte dei cittadini dell’Unione, di cui sono dei rappresentanti (come previsto dal Trattato di Lisbona). Inizialmente, invece, i membri del Parlamento venivano nominati dai Parlamenti nazionali.

Alla base dell’elezione vi è una procedura elettorale uniforme per tutti gli Stati membri, la quale prevede alcune regole fondamentali, quali quelle inerenti il regime di incompatibilità, il principio di un solo voto per ogni elettore, il periodo di svolgimento delle elezioni ed il periodo di spoglio delle schede. Il resto della disciplina è rimesso ad ogni Stato membro: l’Italia, per esempio, ha optato per un sistema proporzionale e per una divisione in cinque circoscrizioni. Il nuovo art. 190 par.4 del TCE ha previsto, inoltre, due fondamentali disposizioni: il sistema deve essere obbligatoriamente proporzionale, con scrutinio per l’elezione che deve essere di lista o uninominale preferenziale (è concessa la divisione degli Stati membri in circoscrizioni, ma sempre su base proporzionale); inoltre vi è il divieto del doppio mandato: è impossibile rivestire contemporaneamente la carica di parlamentare europeo e di parlamentare nazionale.

La durata del mandato è di 5 anni. Il numero totale di membri è pari a 751, suddivisi in base alla popolazione di ogni Stato membro. Originariamente dovevano essere, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, 750, ma l’Italia si oppose al fatto che Francia e Regno Unito avrebbero avuto più seggi e si optò per l’assegnazione del 751esimo allo Stato italiano.

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Organo principale del PE è il Presidente, che dirige i lavori e rappresenta l’istituzione, assistito da 14 vice-presidenti e dall’Ufficio di presidenza. I parlamentari sono divisi in GRUPPI POLITICI, ognuno dei quali deve contare almeno 19 componenti provenienti almeno da 1/5 degli Stati membri. Presidente del PE e Presidenti dei gruppi danno vita alla Conferenza dei presidenti.

Il PE lavora in aula, dove partecipano tutti i membri, oppure in commissione. Vi sono due tipi di commissioni: quelle permanenti, previste dal regolamento parlamentare e che si ripartiscono le competenze affidate all’istituzione, e quelle temporanee d’inchiesta.

Il PE svolge DUE IMPORTANTI FUNZIONI: la funzione di CONTROLLO POLITICO e quella di PARTECIPAZIONE ALL’ADOZIONE DEGLI ATTI DELL’UNIONE (congiuntamente al Consiglio esercita la funzione legislativa e quella di bilancio). Inoltre è il Parlamento ad eleggere il Presidente della Commissione Europea.

FUNZIONE DI CONTROLLO POLITICO

I documenti attraverso i quali il PE viene a conoscenza ufficialmente dell’operato delle altre istituzioni sono:

 RELAZIONE GENERALE ANNUALE, presentata dalla Commissione ed inerente i lavori della stessa;

 Relazioni su specifici campi ricevute dalla Commissione;

 RELAZIONE SCRITTA ANNUALE, presentata dal CONSIGLIO EUROPEO ed inerente la propria attività;

 Informazioni circa la PESC, ricevute dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione.

Il PE può reperire autonomamente informazioni tramite INTERROGAZIONI & AUDIZIONI. Con le interrogazioni un parlamentare europeo può chiedere conto del proprio operato alla Commissione e nella prassi anche al Consiglio.

Alle sedute parlamentari possono prendere la parola su richiesta anche membri della Commissione e del Consiglio (audizioni).

Oltre ai suddetti canali istituzionali, vi è poi tutta una serie d’informazioni che il PE può ricevere dai singoli individui, i quali possono rivolgere:

 PETIZIONI inerenti materie per cui sono competenti le Comunità. Possono rivolgere tali petizioni i cittadini dell’Unione o anche persone fisiche/giuridiche residenti negli Stati membri. Occorre dimostrare sempre il proprio interesse a ricorrere alla petizione da parte dell’autore;

 RICORSO AL MEDIATORE EUROPEO: possono rivolgersi a questa carica, nominata dal PE, i medesimi soggetti che hanno il diritto di petizione, SOLO su casi che abbiano ad oggetto la CATTIVA AMMINISTRAZIONE NELL’AZIONE DELLE ISTITUZIONI O DEGLI ORGANI COMUNITARI. Il Mediatore, ricevuto il ricorso, effettua le proprie indagini e se ritiene fondato lo stesso, si rivolge all’istituzione interessata, la quale ha tre mesi per dare il proprio parere. Sulla base delle risposte, il Mediatore elabora una relazione finale che consegna all’istituzione interessata, al PE e di cui viene informato anche l’autore del ricorso;

 DENUNCE d’infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto comunitario. Il PE può decidere per l’istituzione di una Commissione temporanea d’inchiesta, eccetto nel caso in cui i fatti siano pendenti dinanzi alla giurisdizione europea o dello Stato membro.

Il PE ha però POTERI SANZIONATORI SOLO nei confronti della Commissione, alla quale può votare la MOZIONE DI CENSURA. Essa non entra in discussione prima che siano trascorsi 3 giorni dal deposito della stessa, deve essere votato con scrutinio pubblico e approvata da almeno due terzi dei voti espressi. In caso di approvazione i membri della Commissione dovrebbero immediatamente abbandonare le loro funzioni: uso il condizionale perché ciò non si è mai verificato, se non nel caso di MINACCIA di ricorrere alla mozione di censura, che portò delle dimissioni della Commissione nel 1999.

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Il PE non ha, invece, alcun potere sanzionatorio sul Consiglio: sembra quasi inconcepibile che l’organo eletto dal popolo non possa in alcun modo inficiare l’operato dell’organo esecutivo, anche se ciò è legittimo in forza del fatto che il Consiglio non ha approvazione popolare. Le due istituzioni sono pertanto ben distinte e pari-ordinate, come sottolineato dal Trattato di Lisbona.

Il Parlamento, però, per tutelare le proprie prerogative può ricorrere dinanzi alla Corte di Giustizia, sollevando il fatto che il Consiglio abbia operato senza rispettare il ruolo del Parlamento. Inizialmente al Parlamento non era concesso questo potere, garantito solo a partire dal giudizio positivo in proposito della Corte di Giustizia, poi estrinsecato nel Trattato di Nizza del 2001.

IL CONSIGLIO ED IL CONSIGLIO EUROPEO

Sia il Consiglio che il Consiglio europeo sono organi di stati in quanto composti da soggetti che rappresentano direttamente il proprio Stato membro. Ciò deriva da un’originaria applicazione del metodo tradizionale di cooperazione intergovernativa per il processo di integrazione europea.

Partiamo dal Consiglio, istituzione più longeva rispetto al Consiglio europeo, in quanto prevista dal TCE del 1957.

Esso è composto da un componente per ogni Stato membro, il quale deve avere il potere di impegnare lo Stato al quale appartiene per quanto concerne le decisione da prendere. Occorre che tale soggetto sia un ministro, competente a seconda della materia all’ordine del giorno, o comunque un rappresentante regionale di rango ministeriale, il che avviene soprattutto per gli Stati federali (es. Germania). Per quanto riguarda l’Italia anche un Presidente di giunta regionale o di una Provincia autonoma potrebbe rappresentare lo Stato italiano, qualora fosse delegato dallo stesso Governo in sede di Conferenza Stato – Regioni e solo nelle materie in cui le regioni hanno competenza esclusiva.

Va segnalato, inoltre, che alle decisioni italiane in sede di Consiglio devono partecipare diversi organi dello Stato italiano, quali il Parlamento, le Regioni e le Province autonome, gli altri enti territoriali, le parti sociali e le categorie produttive: il Presidente del Consiglio italiano e/o il Ministro per le politiche comunitarie hanno l’OBBLIGO DI INFORMARE i suddetti per quanto concerne gli atti di matrice comunitaria da approvare in sede di Consiglio e i documenti preparatori. Inoltre occorre anche rispettare un obbligo di consultazione che varia a seconda dei soggetti interessati. Il Governo italiano, in sede di Consiglio, deve apporre una RISERVA DI ESAME PARLAMENTARE, lasciando 20 giorni al Parlamento italiano per discutere dell’atto comunitario in questione. Questo meccanismo può essere attivato su iniziativa dello stesso Parlamento, qualora esso abbia iniziato l’esame di un progetto attinente, o su iniziativa del Governo, qualora la materia trattata abbia particolare rilevanza politica, economica e sociale. Un simile strumento può essere adottato per la partecipazione delle Regioni, qualora l’atto comunitario riguardi una materia su cui hanno competenza esclusiva le stesse: in tal caso in sede di Conferenza Stato – Regioni va raggiunta un “intesa”

col Governo italiano, altrimenti potrà essere richiesta una riserva di esame simile a quella parlamentare.

Il Consiglio, differentemente da altre istituzioni europee, non è un organo permanente, ossia esso si riunisce di volta in volta e con membri diversi: solitamente sono i ministri competente per materia all’ordine del giorno. Tuttavia è previsto dagli stessi TCE e TUE che alla riunione del Consiglio partecipino i Capi di Stato e di Governo, qualora si debba decidere su una grave infrazione da parte di uno Stato membro o sulla partecipazione di uno Stato all’UEM.

Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha previsto il CONSIGLIO AFFARI GENERALI & il CONSIGLIO AFFARI ESTERI. Il primo si occuperà di preparare le riunioni del Consiglio Europeo, mentre il secondo si occuperà di elaborare l’azione esterna dell’Unione, secondo quanto deliberato dal Consiglio Europeo e sarà presieduto dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

La PRESIDENZA del Consiglio è affidata, a turno, ad un rappresentante di uno Stato membro e dura sei mesi. Il soggetto in questione è anche presidente del Consiglio Europeo e rappresenta l’Unione, oltre ad avere altri compiti:

riunire il Consiglio, sceglierne l’ordine del giorno, firmare gli atti dello stesso, avere un ruolo preponderante nella PESC.

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L’art.205 del TCE disciplina i modi di deliberazione del Consiglio: essi sono la maggioranza semplice (o assoluta), la maggioranza qualificata e l’unanimità. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la regola è quella della maggioranza qualificata, salvo che i Trattati non prevedono diversamente, al contrario di ciò che avveniva in passato, quando la regola era quella della maggioranza semplice. Mentre la maggioranza semplice prevedere che per l’adozione di un atto occorre soltanto che i voti favorevoli siano in maggior numero rispetto a quelli sfavorevoli, nel computo della maggioranza qualificata la situazione si complica: tutto si basa su un sistema di ponderazione dei voti secondo cui il peso del voto di ogni Stato è determinato da un coefficiente. Il Trattato di Lisbona ha previsto che fino al 2014 si adotterà il sistema previsto dal Trattato di Nizza del 2001 ed inoltre ogni Stato potrà chiedere l’applicazione del vecchio metodo addirittura fino al 2017. Ma passiamo ad analizzare i due metodi, distinguendoli tra loro adoperando la terminologia VECCHIO E NUOVO metodo.

Il VECCHIO metodo prevedere che per il raggiungimento della maggioranza qualificata debbano ricorrere 3 condizioni:

1. Raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati pari a 255 su 345 (gli Stati più grandi hanno 29 voti ciascuno,occorre il 73,91% dei voti favorevoli rispetto al totale);

2. Voto favorevole della maggioranza dei membri, almeno 14, se la deliberazione è stata proposta dalla Commissione. In caso contrario occorrono almeno 18 voti favorevoli;

3. Gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione (criterio demografico). Tale criterio va rispettato solo su richiesta di un membro del Consiglio che ne chiede la verifica.

Il NUOVO metodo, invece, prevedrà:

1. Un QUORUM NUMERICO MINIMO,dato da 15 voti favorevoli (anziché 14) ed almeno l’approvazione del 55% del totale dei membri del Consiglio (rispetto al precedente 73,91%). Qualora il Consiglio non deliberi su proposta della Commissione o dell’Alto rappresentante occorrerà il 72% di voti favorevoli, per evitare che prevalgano gli interessi degli Stati e non quelli dell’Unione;

2. Un QUORUM DEMOGRAFICO MINIMO: gli Stati che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare non meno del 65% della popolazione totale dell’Unione. L’importanza di tale quorum è attenuata dalla MINORANZA DI BLOCCO, che dovrà essere costituita da almeno 4 Stati. Se ad opporsi saranno meno di 4, il provvedimento passerà comunque nonostante non si sia raggiunto il quorum demografico.

L’ultimo sistema di deliberazione è quello dell’UNANIMITA’, richiesto talune volte dagli stessi Trattati, il quale prevede che tutti i membri si esprimano a favore di un certo atto per la sua approvazione. Essi possono decidere anche di astenersi, in quanto l’astensione non risulta come voto contrario.

Distinzioni

Il Consiglio non va in alcun modo confuso con le riunioni dei RAPPRESENTANTI DEGLI STATI MEMBRI, le quali il più delle volte coincidono con le riunioni del Consiglio, ma non sono assolutamente un’istituzione comunitaria. I trattati hanno voluto affidare alla competenza dei rappresentanti degli Stati membri alcuni temi quali la nomina dei giudici della Corte di giustizia o la sede delle Istituzioni.

Il Consiglio va, inoltre, distinto dal CONSIGLIO EUROPEO, organo nato per dare un maggior impulso allo stesso Consiglio. Esso ha assunto, pian piano nel tempo, sempre maggiore rilievo sino ad essere consacrato come Istituzione all’interno del Trattato di Lisbona. Originariamente era composto dal Presidente, coincidente con il Presidente del Consiglio in carica per 6 mesi, dal Presidente della Commissione, dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri,

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dai ministri degli Esteri degli stessi e da un membro della Commissione. Si potevano, quindi, distinguere due livelli:

uno superiore del quale facevano parte i due presidenti del Consiglio e della Commissione e i Capi di Stato e di Governo, ed un livello inferiore che coadiuvava il lavoro del primo, composto dai ministri degli Esteri e dal rappresentante della Commissione. Col trattato di Lisbona anche la composizione è variata: il Presidente del Consiglio Europeo è eletto a maggioranza qualificata e dura in carica 2 anni e mezzo. Egli rappresenta l’Unione, coordina il lavoro del Consiglio Europeo ed ha un ruolo di rilievo nella PESC. Alle riunioni del Consiglio Europeo non è necessario che partecipino i Ministri degli Esteri, bensì solo e solamente i Capi di Stato e di Governo, il Presidente della Commissione e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il trattato di Lisbona ha,inoltre, previsto che anche l’operato del Consiglio Europeo sia soggetto al controllo giurisdizionale della Corte, dato che lo stesso è diventato una vera e propria istituzione comunitaria, benché conservi il ruolo di promotore dell’impulso necessario allo sviluppo dell’Unione e non possa in alcun modo legiferare.

Il Consiglio non va confuso neanche con il COREPER, COMITATO dei RAPPRESENTANTI PERMANENTI, il quale è composto da soggetti appartenenti ai vari Stati membri, ma di rango diplomatico e non ministeriale. Esso funge da organo preparatore dei lavori del Consiglio, ma il suo ruolo più importante è quello di FILTRO tra la Commissione ed il Consiglio. Le proposte della Commissione, infatti, devono essere dapprima visionate e relazionate dal COREPER, che può decidere di inserirle tra i punti “A” dell’ordine del giorno del Consiglio, ed in tal caso si provvederà all’approvazione delle stesse senza discussione (salvo il caso in cui la stessa non sia richiesta da un Paese membro), o tra i punti B dell’ordine del giorno, ed in tal caso saranno discusse dallo stesso Consiglio.

Il Trattato di Amsterdam aveva introdotto la figura del SEGRETARIO GENERALE del Consiglio, diventato col Trattato di Nizza ALTO RAPPRESENTANTE PER LA POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE (detto SIGNOR PESC), per garantire maggiore unitarietà all’azione esterna dell’Unione, mentre affidava al VICESEGRETARIO GENERALE i compiti relativi al funzionamento amministrativo del SEGRETARIATO GENERALE. Il Trattato di Lisbona ha istituito la figura dell’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA, con il compito di guidare la PESC, in qualità di mandatario dell’Unione, di presiedere il Consiglio Affari Esteri e di essere il vicepresidente della Commissione. Egli sarà nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata (e rimosso allo stesso modo), previa approvazione del Presidente della Commissione, e durerà in carica, salvo revoca del mandato, per un periodo pari a quello dei membri della Commissione stessa.

Per concludere possiamo dire che il Consiglio (non quello europeo) funge da organo, insieme al Parlamento, per l’esecuzione della funzione legislativa e di Bilancio, conferendo incarichi di attuazione alla Commissione e definendo

“indirizzi di massima”, dapprima delineati dal Consiglio Europeo.

LA COMMISSIONE

Anzitutto dobbiamo specificare che, a differenza del Consiglio, la Commissione è un organo di individui, formato cioè da soggetti che pur rappresentando il proprio Stato di appartenenza, portano nell’istituzione di cui fanno parte la loro personale esperienza e sono indipendenti ed autonomi rispetto ai Governi dei propri Paesi o a qualsivoglia altro organismo. L’art.213 del TCE stabiliva la composizione della Commissione, la quale doveva contare un componente per ogni Stato membro, incluso il Presidente, ossia 27 membri in totale. Già il progetto di Costituzione europea, però, aveva preannunciato la riduzione dei membri della Commissione: a turnazione,quindi, alcuni Stati membri avrebbero perso il proprio rappresentante. Il Trattato di Lisbona ha stabilito che si vada avanti fino al 2014 con la composizione odierna, mentre dopo tale date i componenti passeranno a due terzi del numero degli Stati membri, compresi il Presidente e l’Alto rappresentante (vicepresidente).

I membri della Commissione sono scelti in base alla propria competenza, alla propria professionalità e devono, come abbiamo già preannunciato, offrire garanzia d’indipendenza. Qualora violino i propri compiti, la Corte di Giustizia, su istanza del Consiglio e della Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del componente o decidere la decadenza del diritto alla pensione, anche in seguito alla cessazione della carica.

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Il mandato dei membri della Commissione dura 5 anni, di pari passo con il mandato dei parlamentari europei, in maniera tale che primo compito del nuovo Parlamento sia quello di nominare i componenti della Commissione. Il Trattato di Lisbona ha stabilito che la carica dell’intera Commissione o di alcuni membri possa cessare anticipatamente, per “dimissioni individuali o collettive”, per “decisione della Corte in base alla violazione degli obblighi a carico dei componenti, o per “mozione di censura” votata dal Parlamento europeo.

Per quanto concerne la procedura di nomina della Commissione va sottolineato come in passato essa dipendesse dagli Stati membri che, di comune accordo, ne nominavano i componenti. Il Trattato di Nizza ha sostituito il “comune accordo”con un voto a maggioranza qualificata da parte del Consiglio. La procedura odierna comprende 5 fasi:

1. Designazione del Presidente della Commissione da parte del Consiglio che si esprime a maggioranza qualificata;

2. Approvazione del Parlamento Europeo per quanto riguarda il Presidente;

3. Designazione da parte del Consiglio, unitamente al Presidente della Commissione, degli altri componenti della stessa;

4. Approvazione da parte del Parlamento degli altri membri, la quale non avviene collettivamente, ma dopo audizioni separate per ciascuna persona. Il Parlamento potrebbe minacciare, qualora non sia d’accordo sulla nomina di uno o più componenti, di rigettare l’intera Commissione;

5. Il Consiglio approva a maggioranza qualificata l’intera Commissione e il suo Presidente.

Il Trattato di Lisbona ha modificato la parte relativa alla nomina del Presidente, stabilendo che sia il CONSIGLIO EUROPEO a proporre al Parlamento un candidato, deliberando a maggioranza qualificata. La proposta dovrà essere approvata dal Parlamento a maggioranza dei suoi componenti e nel caso in cui dovesse essere rigettata, il Consiglio Europeo dovrà proporre entro un mese un nuovo candidato. La restante parte di nomina ed approvazione dei componenti rimane invariata, salvo per il fatto che il ruolo del Consiglio sia sostituito da quello del Consiglio Europeo.

Il presidente della Commissione riveste un ruolo importantissimo all’interno dell’istituzione che presiede: questo lo si può anche dedurre dal procedimento di nomina separato rispetto a quello dei componenti di cui abbiamo già parlato.

Egli coordina il lavoro della Commissione, stabilendone l’orientamento. Inoltre determina l’organizzazione interna della stessa e ripartisce le competenze durante il proprio mandato. Egli può anche obbligare, previa approvazione del collegio, un componente della Commissione stessa a rassegnare le dimissioni. Addirittura nella Convenzione sul futuro dell’Europa si era ipotizzata un’unione della cariche di Presidente del Consiglio Europeo e Presidente della Commissione. Così non è stato, anche se il Trattato di Lisbona non detta un’incompatibilità delle cariche. Il presidente della Commissione è parte, comunque, integrante del Consiglio Europeo.

La Commissione delibera a maggioranza dei suoi componenti. Essa si presenta suddivisa in varie DIREZIONI GENERALI, affidate a dei COMMISSARI.

La Commissione riveste un ruolo chiave a livello europeo, detenendo alcuni fra i compiti più importanti. Essa è la

“custode della legalità comunitaria” vigilando, sia secondo quanto disponeva il TCE sia secondo il Trattato di Lisbona, sull’applicazione dei trattati in un tutte le loro forme. Esercita, infatti, tale ruolo sia nei confronti degli Stati membri,tramite il ricorso per infrazione, sia nei confronti delle altre istituzioni sfruttando i ricorsi d’annullamento.

Essa può agire anche verso persone fisiche e giuridiche che non rispettando le norme comunitarie (esempio: in tema di regole della concorrenza). Essa,inoltre, formula raccomandazioni e pareri nei campi in cui i trattati le attribuiscono competenza e partecipa anche alla formazione di atti del Consiglio e del Parlamento. Residua, inoltre, un parere decisionale autonomo su un ristretto numero di materie (esempio: nel campo del controllo degli aiuti di Stato alle imprese). Essa, infine, applica le norme che scaturiscono dal Consiglio (competenza di esecuzione).

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LA CORTE DI GIUSTIZIA

Abbiamo già visto come l’istituzione della Corte di Giustizia nacque all’interno del TCE del 1957 e fu adoperata anche per quanto riguardava la CECA, con l’unificazione delle Istituzioni. Per Corte di giustizia, in realtà, si intende sia la Corte in senso proprio, sia il TRIBUNALE DI PRIMO GRADO & le CAMERE GIURISDIZIONALI. Il Trattato di Lisbona ha esplicitato la suddivisione, tracciando una netta differenza tra Corte – istituzione e Corte – giurisdizione: all’interno della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, infatti, ritroviamo la Corte di giustizia, il Tribunale ed i Tribunali specializzati (corrispondenti alle camere giurisdizionali di cui sopra).

Si tratta pur sempre di un organo di individui pienamente indipendenti, che decidono secondo coscienza, anche se la propria nomina dipende dal comune accordo tra gli Stati membri. I propri membri possono essere rimossi dalla propria carica su decisione unanime della stessa Corte.

La Corte di Giustizia è disciplinata sia all’interno del TCE, sia nel TUE, oltre che all’interno del Protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia allegato al TCE. Il regolamento di procedura della Corte, inoltre, è stabilito dalla Stessa, anche se necessita dell’approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio.

La Corte di Giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro, tra cui viene eletto un presidente la cui carica rinnovabile dura per tre anni. Essi fanno parte del collegio giudicante. Accanto ai giudici figurano anche gli AVVOCATI GENERALI, i quali hanno il compito di suggerire alla Corte come andrebbe risolta una determinata causa. Il loro parere, però, non è in alcun modo vincolante, né tanto meno necessario nei casi in cui non vengano sollevate nuove questioni di diritto. Gli avvocati generali sono 8, 4 dei quali devono appartenere obbligatoriamente ai 4 Stati maggiori (Italia, Francia, Germania e Regno Unito), mentre gli altri 4 sono nominati a rotazione tra gli altri Stati membri. La NOMINA di giudici ed avvocati è decisa di <<comune accordo tra gli Stati membri>>, salvo il rispetto di quanto ha previsto il Trattato di Lisbona, ossia che prima della nomina, sulla candidatura si debba pronunciare un apposito comitato composto da ex giudici della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado. Il MANDATO dura sei anni ed è rinnovabile, oltre ad essere previsto un rinnovo parziale ogni tre anni che riguarda la metà dei componenti.

La Corte di Giustizia si divide in:

 Sezioni a tre giudici e Sezioni a cinque giudici: si tratta delle sezioni ordinarie; la distribuzione delle cause tra quelle a tre giudici e quella a cinque giudici dipende dall’importanza della causa stessa;

 Grande Sezione: formata da 11 giudici, tra cui il Presidente ed i presidenti delle sezioni ordinarie a 5; essa si riunisce su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione;

 Seduta plenaria: comprende tutti i giudici e si riunisce o quando la Corte ritiene la materia e la causa di notevole importanza, o per la rimozione del Mediatore Europeo, di un membro della Corte dei Conti o della Commissione.

La procedura dinanzi alla Corte si suddivide in più fasi:

 FASE SCRITTA, NECESSARIA: consiste nello scambio o nel deposito di memorie scritte;

 FASE ORALE, NON SEMPRE NECESSARIA: comprende l’udienza con le parti e la lettura o il deposito delle conclusioni dell’avvocato generale.

 DECISIONE DELLA CORTE IN CAMERA DI CONSIGLIO e lettura della decisione in pubblica udienza.

N.B. in taluni casi può essere adottata una procedura d’urgenza (specie quando si tratti di materie che appartenevano al III PILASTRO).

La funzione principale della Corte è quella giurisdizionale che esamineremo più avanti. Funzione secondaria è sicuramente quella consultiva: il parere della Corte, laddove richiesto da Consiglio,Parlamento, Commissione o Stato

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membro, è PARZIALMENTE VINCOLANTE, in quanto obbliga il richiedente, qualora la Corte abbia espresso parere negativo, a ricorrere ad una procedura di revisione lunga e faticosa.

PARTE II – LE PROCEDURE DECISIONALI

Per PROCEDURA DECISIONALE si intende la sequenza di atti e fatti richiesta dai trattati per fare in modo che l’Unione manifesti la propria volontà attraverso un determinato atto.

Le Procedure hanno anzitutto carattere INTERISTITUZIONALE, in quanto vengono poste in essere da diverse Istituzioni dell’Unione. Inoltre le procedure si distinguono per la loro VARIETA’, in quanto vi sono alcune delle stesse che vanno applicate per atti specifici, altre invece che vanno adottate per particolari atti (per esempio appartenenti al II e III pilastro). Per quanto concerne l’applicazione del TCE, invece, non sussisteva, almeno fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, una differenziazione tra le procedure in merito al ruolo delle istituzioni o al tipo di atto da adottare. Fortunatamente il suddetto Trattato di Lisbona ha eliminato questo difetto, prevedendo per i soli “ATTI LEGISLATIVI” alcune particolari procedure, dette appunto PROCEDURE LEGISLATIVE:

 PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, che prevede l’adozione congiunta di un regolamento, una decisione o una direttiva da parte del Parlamento e del Consiglio, su proposta della Commissione. Tale procedura ha applicazione generale e corrisponde alla precedente PROCEDURA DI CODECISIONE;

 PROCEDURA LEGISLATIVA SPECIALE, la quale prevede l’adozione di una direttiva, di un regolamento o di una decisione da parte del Parlamento con la partecipazione del Consiglio o viceversa. Tale procedura, però, si applica soltanto NEI CASI SPECIFICI PREVISTI DAI TRATTATI. In tali casi, tra l’altro, l’iniziativa può partire anche dagli stessi Stati membri o dal Parlamento, così come dalla BCE o dalla BEI, o dalla stessa Corte di giustizia.

Nella distinzione tra le varie procedure d’applicazione generale pesa molto il ruolo del Parlamento, il quale ha un compito meramente consultivo per l’adozione di alcuni atti attraverso la PROCEDURA DI BASE ed un potere di codecisione nell’ambito della stessa PROCEDURA DI CODECISIONE. A seconda del modello di procedura da utilizzare, inoltre, si distinguono i vari modi di deliberazione delle varie istituzioni (esempio: in caso di procedura di codecisione il Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata).

Per sapere quale modello di procedura applicare, occorre individuare la BASE GIURIDICA dell’atto, ossia da quale Trattato e da quale norma dello stesso le istituzioni traggono il potere di adottare quell’atto. Ovviamente individuare la base giuridica non è un procedimento semplice e molto spesso ha fatto in modo che sorgessero notevoli contrasti tra le varie istituzioni, sino a giungere ad un ricorso d’annullamento dinanzi alla Corte di Giustizia per due motivi fondamentali:

 Il ricorrente ha interesse a far valere una diversa norma di un trattato o addirittura un diverso trattato come base giuridica in quanto, qualora si fosse preso spunto dalla norma alternativa rispetto a quella scelta dal Consiglio come base giuridica, si sarebbe applicato un diverso modello di procedura che avrebbe permesso al ricorrente di avere un ruolo fondamentale nell’adozione dell’atto (esempio: il Parlamento ricorre dinanzi alla Corte nei confronti del Consiglio perché magari la procedura utilizzata per l’adozione dell’atto ha richiesto semplicemente un “consultazione del Parlamento” , ispirata dalla base giuridica scelta dal Consiglio, mentre la base giuridica alternativa proposta dal Parlamento avrebbe previsto una partecipazione attiva del Parlamento e quindi una procedura di cooperazione = Caso Chernobyl 1990);

 Il ricorrente ha interesse a far valere una diversa base giuridica ispiratrice di una differente procedura non perchè, come descritto in precedenza, avrebbe un ruolo più significativo nell’adozione dell’atto, ma semplicemente perché l’atto ricadrebbe in un settore di competenza diverso, maggiormente caratterizzato dal

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modello comunitario (esempio: la Commissione ricorre dinanzi alla Corte contro il Consiglio impugnando un atto in base all’erronea scelta della base giuridica Non perché avrebbe un ruolo maggiore nella procedura, ma magari perché usando la base giuridica alternativa il Consiglio avrebbe dovuto adottare una procedura di cooperazione, invece che deliberare all’unanimità = Caso Erasmus 1989).

La scelta della corretta BASE GIURIDICA dipende da due elementi che contraddistinguono l’atto da adottare: lo SCOPO ed il CONTENUTO, basandosi però su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale e non sulla convinzione soggettiva dell’istituzione che adotta una determinata procedura.

Se un atto presenta una pluralità di scopi e di contenuti, andrà preso in considerazione il CENTRO DI GRAVITA’

dell’atto, non tenendo conto di scopi o contenuti secondari ed accessori.

Se poi i vari scopi e contenuti sono sullo stesso piano, ossia sono tutti di particolare importanza e nessuno è secondario o accessorio rispetto ad un altro, andrà scelta una BASE GIURIDICA PLURIMA, fondata su diverse norme anche di diversi trattati: qualora, però, ciò porti a modelli di procedura da applicare totalmente diversi, andrà scelta la base giuridica tenendo conto del fatto che la disposizione di portata più GENERALE andrà preferita a quella di portata più specifica e non potrà essere scelta una base giuridica che pregiudichi il ruolo di partecipazione del Parlamento Europeo.

Bisogna inoltre precisare che, qualora l’istituzione competente decida con ATTO DI PRIMO GRADO di disciplinare gli elementi essenziali di una materia e di affidare ad un ATTO DI SECONDO GRADO le disposizione di attuazione, non è necessario che il secondo atto rispetti la procedura del primo, potendo decidere l’istituzione di affidare l’applicazione della disciplina alla Commissione o di utilizzare essa stessa una procedura semplificata.

PROCEDURA DI BASE

L’art. 250 del TCE è uno degli articoli più longevi del Trattato relativi alla procedura decisionale. Inizialmente, in realtà, quella descritta dall’articolo suddetto era l’unica procedura che, in relazione ad altre disposizioni del TCE, definiva il modo di deliberazione del Consiglio o prescriveva la consultazione o meno del Parlamento. Ecco perché la procedura dell’art. 250 viene definita come PROCEDURA DI BASE, sulla modificazione della quale sono sorte le altre procedure. Spesso viene definita come PROCEDURA DI CONSULTAZIONE, in riferimento al ruolo che il Parlamento assume all’interno di questa procedura (un ruolo consultivo appunto), ma la denominazione può essere accettata solo se si tiene conto che tale consultazione non è sempre prevista (esempio: adozione di misure di politica commerciale).

La PROCEDURA DI BASE si apre con la proposta della Commissione, unico organo che possiede tale facoltà. E’ la Commissione, infatti, la portatrice dell’interesse generale della Comunità a cui fa da contrappeso il ruolo decisionale del Consiglio, che rappresenta gli Stati membri. Anche il Trattato di Lisbona ha ribadito l’esclusività di iniziativa della Commissione. Tuttavia altri organi possono rivolgersi alla Commissione per sollecitare proposte da portare dinanzi al Consiglio. Primo fra tutti è il Parlamento: in realtà la Commissione non ha l’obbligo di presentare la proposta di matrice parlamentare al Consiglio, ma è doveroso ricordare che un continuo rifiuto della stessa potrebbe indurre il Parlamento a votare o anche solo a minacciare una “mozione di sfiducia” che comporterebbe le dimissioni forzate della Commissione. Anche il Consiglio stesso può invitare la Commissione a fargli determinate proposte su un tema particolare. Ed analogo potere di sollecitazione possiede il Consiglio Europeo. Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha introdotto la possibilità per un milione di cittadini di sottoporre all’attenzione della Commissione una particolare proposta, che la stessa può decidere di ignorare senza andare incontro ad alcuna conseguenza.

Le proposte della Commissione, tra l’altro, prima di giungere dinanzi al Consiglio, passano dal filtro costituito dal COREPER.

L’art 250 TCE prevede, inoltre, che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione, apportando così delle notevoli modifiche: dobbiamo, però, prestare attenzione al termine “emendamenti”, che non possono del tutto stravolgere il testo e gli obiettivi della proposta. La modifica, tra l’altro, può avvenire solo e solamente

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all’UNANIMITA’. La possibilità di emendare la proposta, tuttavia, potrebbe portare ad una situazione di paralisi in quanto il Consiglio potrebbe non approvare la proposta, ma potrebbe trovarsi anche a non poterla modificare perché uno o più membri sono magari d’accordo con la proposta originaria della Commissione. In tal caso il membro della Commissione presente in Consiglio può decidere di modificare la proposta per garantire una più semplice approvazione, o può d’altro canto decidere di ritirare totalmente la stessa.

Abbiamo visto, inoltre, come in taluni casi specificati dal TCE (non direttamente dall’art.250) sia necessario che il Consiglio consulti il Parlamento Europeo o addirittura altri organi prima di approvare l’atto. Ne deve,quindi, chiedere il parere. Distinguiamo 3 tipi di pareri:

1. Parere FACOLTATIVO: il Consiglio può chiederlo come non chiederlo al Parlamento. Tuttavia, una volta fornito, il parere non ha effetto vincolante;

2. Parere CONSULTIVO: il Consiglio è obbligato, in taluni casi specifici, a chiedere un parere al Parlamento.

Tuttavia neanche in questo caso il parere è vincolante ed il Consiglio può discostarsene;

3. Parere CONFORME: introdotto dall’AUE, tale parere deve obbligatoriamente essere chiesto al Parlamento ed il Consiglio non può decidere diversamente da ciò che il parere suggerisce. Si ha, quindi, una specie di divisione del potere decisorio, una specie di procedura di codecisione, anche se in quest’ultima il Parlamento può partecipare alla formazione dell’atto, mentre in questo caso può solo approvare o respingere l’atto in questione. Il Trattato di Lisbona, infatti, ha eliminato la dicitura “pare conforme” e ha previsto “una forma di approvazione del Parlamento”.

Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha collaborato ad accrescere l’importanza della consultazione del Parlamento da parte del Consiglio, ovviamente quando ciò sia previsto dal TCE. Occorre, secondo quanto previsto dalla Corte, che la consultazione sia effettiva e regolare: il parere non deve essere stato semplicemente chiesto, ma anche emesso dal Parlamento (esempio: caso Roquette Freres, adozione di un regolamento senza aver sentito il parere del Parlamento). Il TCE permette al Consiglio di stabilire un tempo massimo per l’emanazione del parere, ma solo in materia di accordi internazionali. In tutti gli altri casi non può essere stabilito un termine massimo entro il quale il Parlamento deve esprimersi. Questo potrebbe indurci a pensare che, per un proprio capriccio, il Parlamento possa non emettere tale parere, il che però non è possibile dato che uno dei principi base su cui è fondata la Comunità Europea (ed anche l’UNIONE) è quello della leale collaborazione, il che comporta che il Parlamento debba esprimersi entro un tempo ragionevole. Inoltre se il Parlamento ha emesso il proprio parere ed il Consiglio provvede, solo in un secondo momento, ad emendare la proposta della Commissione (o magari la Commissione stessa ritira la prima proposta e ne formula una simile, ma non uguale), il Consiglio è tenuto a chiedere una seconda consultazione al Parlamento. Il Trattato di Lisbona ha confermato questo orientamento.

PROCEDURA DI COOPERAZIONE

Introdotta tramite l’art.252 all’interno del TCE dall’AUE del 1986, la procedura di cooperazione ha segnato un notevo passo in avanti per l’aumento dei poteri parlamentari. Il TUE del 1992 ed in seguito anche il Trattato di Amsterdam ne hanno ridotto il campo di applicazione: essa è sopravvissuta, infatti, solo nel campo dell’UEM. Il Trattato di Lisbona, infine, l’ha eliminata definitivamente.

La procedura di cooperazione prevede una DOPPIA LETTURA, da parte del Parlamento e del Consiglio, della proposta proveniente dalla Commissione: non è altro, quindi, che una variante della procedura di base. Il Parlamento, infatti, provvede ad una prima lettura della proposta e fornisce un parere (consultivo) sulla stessa. Segue a ciò la prima lettura del Consiglio che approva a maggioranza qualificata una posizione comune sulla proposta in questione. Si passa quindi alla seconda lettura del Parlamento che può decidere se:

1. Approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi entro il termine di tre mesi;

2. Respingere la posizione comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti;

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3. Proporre degli emendamenti alla posizione comune (sempre a maggioranza assoluta dei suoi componenti).

Nell’ultimo caso la questione torna dinanzi alla Commissione, la quale può decidere di accogliere gli emendamenti proposti dal Parlamento o di motivarne il rifiuto, restituendo la proposta RIESAMINATA al Consiglio.

Il Consiglio può anch’esso optare per diverse soluzioni, a seconda della decisione del Parlamento:

1. Può adottare definitivamente l’atto sulla base dell’approvazione del Parlamento o dell’omissione di pronunciarsi;

2. Può approvare l’atto nel caso di rigetto, ma all’UNANIMITA’;

3. Può, nel caso di emendamenti alla posizione comune:

 Approvare la proposta riesaminata dalla Commissione a MAGGIORANZA QUALIFICATA;

 Approvare gli emendamenti parlamentari, non accolti dalla Commissione, all’UNANIMITA’;

 Modificare la proposta riesaminata all’UNANIMITA’.

Come possiamo notare, quindi, in questa procedura di cooperazione il ruolo del Parlamento è notevolmente accresciuto rispetto al passato, anche se in realtà non può far altro che provocare la votazione all’unanimità dell’atto da parte del Consiglio. Il Consiglio stesso continua ad essere l’unica istituzione ad avere un ruolo decisionale. Mentre chi esce da tale procedura davvero sconfitta è la Commissione, la quale può solo approvare o meno gli emendamenti del Parlamento, ma non può in alcun modo modificare essa stessa la proposta. Qualora tra l’altro il Consiglio voglia dar ragione al Parlamento e torto alla Commissione lo può tranquillamente fare nel corso della seconda fase.

PROCEDURA DI CODECISIONE

La Procedura di Codecisione è stata introdotta dal TUE del 1992 e la sua portata è stata estesa dal Trattato di Amsterdam del 1996. Essa pian piano ha sostituito totalmente la procedura di cooperazione, di cui tra l’altro rappresenta un’ evoluzione. Dalla procedura di codecisione non scaturiscono più atti del Consiglio, in cui il Parlamento ha solo un ruolo consultivo, ma atti congiunti del Parlamento e del Consiglio: è il mezzo che garantisce al Parlamento di partecipare attivamente al procedimento legislativo.

Anche la procedura di codecisione si basa su un procedimento di doppia lettura, anche se la seconda può essere totalmente evitata. Tutto parte dalla proposta della Commissione, consegnata questa volta sia al Parlamento che al Consiglio. Inizia così la prima fase: il Parlamento provvede alla prima lettura formulando un parere (consultivo). Poi tocca alla prima lettura del Consiglio, con la quale la procedura potrebbe tranquillamente terminare in caso di approvazione della proposta e degli eventuali emendamenti parlamentari. In caso contrario il Consiglio delibera a maggioranza qualificata una POSIZIONE COMUNE. Inizia la SECONDA FASE. Il Parlamento procede alla seconda lettura, al termine della quale può:

1. Approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi entro il termine di tre mesi;

2. Respingere la posizione comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti;

3. Proporre degli emendamenti alla posizione comune (sempre a maggioranza assoluta dei suoi componenti).

Nel primo caso (approvazione od omissione di pronuncia) l’atto si considera ADOTTATO.

Nel secondo caso l’atto si considera NON ADOTTATO.

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Nel terzo caso la proposta torna alla Commissione che emette un PARERE (non una proposta riesaminata). Il Consiglio in tal caso può decidere a maggioranza qualificata se:

 Approvare tutti gli emendamenti parlamentari (nel caso in cui la Commissione fosse contraria occorre l’UNANIMITA’) e l’atto si considera APPROVATO;

 Non approvare tutti gli emendamenti ed aprire la TERZA FASE.

Nella Terza Fase viene convocato un COMITATO DI CONCILIAZIONE composto da rappresentanti parlamentari e rappresentanti del Consiglio (o loro delegati) e viene elaborato un PROGETTO COMUNE, in collaborazione con la Commissione. Se entro 6 settimane non viene elaborato alcun progetto, l’atto si considera NON ADOTTATO. Se invece viene elaborato un progetto in tal senso si passa alla TERZA LETTURA, in cui Parlamento e Consiglio devono approvare il progetto (il Consiglio a maggioranza qualificata) per adottare l’atto, altrimenti si considererà NON ADOTTATO.

Analizziamo il ruolo delle istituzioni: il Parlamento ha acquisito, senza dubbio, un notevole potere. Esso è, infatti, attivo nel procedimento legislativo e senza il proprio consenso l’atto non può essere adottato in alcuna maniera.

Il ruolo del Consiglio,invece, rimane lo stesso seppur il Parlamento sia posto sullo stesso piano.

La Commissione, invece, ne esce del tutto sconfitta. L’organo che dovrebbe rappresentare l’interesse delle comunità ha solo il compito di formulare la proposta e la possibilità di ritirarla sino alla seconda lettura. In terza lettura non può più ritirare la suddetta e funge, all’interno del Comitato di conciliazione, solo da paciere tra Parlamento e Consiglio.

Abbiamo visto, inoltre, che il Consiglio può deliberare il più delle volte a maggioranza qualificata. Il Trattato di Amsterdam dapprima, ed il Trattato di Nizza del 2001 in un secondo momento hanno reso necessario il voto all’unanimità del Consiglio.

Inoltre, il Trattato di Lisbona ha sostituito la procedura di codecisione con la PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, estendendone il campo di applicazione. La procedura rimane la medesima, con l’unica differenza che il Parlamento in prima lettura non può emettere un parere consultivo, ma prendere, come era già previsto per il Consiglio, una posizione comune. In tal modo le due istituzioni sono del tutto parificate, poste sullo stesso piano.

PARTE III – L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

Il complesso di norme contenute nel TCE e nel TUE costituiscono un ordinamento autonomo rispetto agli ordinamenti interni degli Stati membri e rispetto al diritto internazionale?

E’ da questo quesito che dobbiamo partire per capire quanto il diritto comunitario influisca sul diritto dei Paesi membri e sulla vita dei cittadini dell’Unione. Per quanto concerne tutto il contenuto del TCE, la Corte di giustizia ha affermato, in più di un’occasione, che il diritto comunitario non solo risulta a se stante rispetto agli ordinamenti interni agli Stati in quanto ne limita la sovranità seppur solo in alcuni settori, ma che vive come ordinamento autonomo anche nei confronti di coloro che a tali norme sono sottoposti, in particolare rispetto ai cittadini (Sentenza Van Gend & Loos del 1963 e sentenza Costa c.ENEL del 1964).

Un’analoga affermazione giurisprudenziale non si ha invece per quanto riguarda l’Unione Europea. Le discipline del II e del III pilastro, infatti, sembrano delineare più che un ordinamento fuso con quello comunitario, un nuovo ramo dell’ordinamento internazionale. Il Trattato di Lisbona, eliminando la struttura a pilastri e riconoscendo l’Unione Europea come persona giuridica in forza della soppressione della CE, ha riconosciuto il diritto dell’Unione come omnicomprensivo, come un grande unico ordinamento.

Come ogni ordinamento, anche quello comunitario ha un sistema di fonti di produzione del diritto. Distinguiamo, a tal proposito, fonti primarie e fonti secondarie. Sono fonti di diritto primario il TCE e le altre fonti che il TCE riconosce

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di pari natura. Sono, invece, fonti di diritto secondario tutti gli atti che le istituzioni possono adottare in forza dello stesso TCE. Tra i due livelli figurano anche fonti intermedie, che prevalgono sul diritto secondario.

Tra le fonti di diritto secondario o derivato troviamo tutta una serie di atti, molto spesso diversi tra loro: regolamenti, direttive e decisioni. Non è previsto un ordine gerarchico, tuttavia è lo stesso TCE a prevedere che vadano adottati in situazioni diverse, o meglio viene specificato quale tipo di atto andrà adottato in determinate discipline.

Un’ulteriore distinzione è quella tra atti di PRIMO GRADO ed atti di SECONDO GRADO: tra questi vi è una differenza del tutto gerarchica. Quelli di secondo grado sono, infatti, subordinati ai primi. Non possono né abrogare né entrare in contrasto con quelli di primo grado e devono rispettarne i principi di base, altrimenti l’atto di secondo grado potrebbe essere annullato.

Gli atti di diritto derivato possono, tra l’altro, essere distinti in base all’istituzione dalla quale provengono: Parlamento congiuntamente con il Consiglio, Commissione o solo Consiglio. In genere, però, la Commissione può emanare atti solo in forza di una delega concessa dalle altre due istituzioni: l’atto in tal caso non dovrà eccedere la delega, rispettandone i principi ed il campo di operatività.

L’eventuale conflitto tra atti indipendenti di diverse istituzioni dovrà risolversi, in mancanza di una norma specifica, ricollegandosi alla base giuridica dell’atto ed analizzando quale istituzione fosse idonea ad emanare quel determinato atto. Il Trattato di Lisbona ha introdotto una differenziazione tra atti giuridici che spiegheremo più avanti.

FONTI DI DIRITTO PRIMARIO

Abbiamo già detto che fonte primaria per eccellenza è sicuramente il TCE, come emendato dai trattati di revisione e di adesione che si sono succeduti nel tempo. Sono, inoltre, fonti primarie anche i Protocolli allegati agli stessi Trattati, non solo quelli riferiti al TCE, ma anche quelli inerenti la CECA (fino a che è stata in vigore) e la CEEA. Inoltre, dopo una qualsiasi revisione dei trattati, solitamente vengono allegate delle DICHIARAZIONI, che possono essere di due tipi:

 Dichiarazioni della Conferenza, ossia di tutti gli Stati membri, che hanno funzione interpretativa delle disposizioni dei trattati;

 Dichiarazioni di uno o più Paesi membri, che possono essere prese in considerazione dall’interprete, ma sottolineando che esse non provengono da tutti gli Stati.

Nello studio del TCE, almeno sotto il punto di vista tecnico, ci si domanda quale sia la NATURA GIURIDICA dello stesso. Una risposta univoca è impossibile, ma sono state seguite due tesi diverse. La prima vede il TCE come un TRATTATO INTERNAZIONALE: la struttura degli articoli, i procedimenti seguiti, i destinatari dell’atto (gli Stati membri) che mantengono una propria autonomia (sovranità) sono tutti fattori che riconducono il TCE ad un atto costitutivo di un’organizzazione sovrannazionale. La seconda tesi, invece, vede il TCE come una vera e propria CARTA COSTITUZIONALE: il fatto che la disciplina contenuta nel trattato sia inderogabile dagli Stati membri se non tramite revisione dello stesso e l’operatività giurisdizionale di cui gode la Corte di Giustizia manifesterebbero, infatti, una tendenza ad una carta costituzionale di tipo statuale. E’ vero, però, che alle spalle del Trattato non vi è un unico Stato europeo di cui il trattato costituisca la carta fondamentale. Potremmo concludere che la natura giuridica del TCE si può ritrovare a metà strada tra le due definizioni appena date, essendo il TCE stesso una figura in corso di trasformazione.

Anche la Corte di Giustizia, tuttavia, tratta il TCE come una carta costituzionale. Essa tende sempre ad un’interpretazione estensiva sia delle norme inerenti le quattro libertà di circolazione (merci, persone, capitali e servizi), sia delle norme che attribuiscono competenze alla CE. Al contrario la Corte tende ad interpretare restrittivamente tutte quelle norme che garantiscono agli Stati membri di trattare le stesse materie in maniera parallela.

Tra l’altro va sottolineato come la Corte, tra i propri criteri interpretativi, adoperi quello dell’EFFETTO UTILE, interpretando una norma sempre nel modo che più riconosce alla stessa la maggiore effettività possibile.

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Il TCE può essere modificato in base alla PROCEDURA DI REVISIONE contenuta all’interno dell’art.48 TUE. La procedura presenta due fasi: una PREPARATORIA, cui partecipano le istituzioni dell’Unione ed una DELIBERATIVA, cui partecipano gli Stati membri. La fase preparatoria si apre con la consegna al Consiglio di un progetto di revisione da parte di uno Stato membro o della Commissione. Il Consiglio deve esprimere parere favorevole alla convocazione di una CIG per la discussione della revisione, sentito però il Parlamento Europeo.

Qualora il parere sia favorevole, il Presidente del Consiglio convoca la CIG (CONFERENZA INTERGOVERNATIVA) e si passa alla fase deliberativa: le decisioni andrebbero prese all’unanimità e senza che ad esse partecipi alcuna delle istituzioni dell’Unione. L’esito della CIG configura un nuovo trattato, che i Paesi membri devono ratificare. Nella prassi, però, anche all’interno della fase deliberativa gioca un ruolo chiave il Consiglio Europeo, il quale si esprime sul trattato prima che questo venga sottoposto alla firma dei rappresentanti degli Stati membri. Il Trattato di Lisbona ha modificato anche la procedura di revisione: è previsto, infatti, che il Consiglio si pronunci a maggioranza semplice su una proposta di revisione proveniente o da uno Stato membro, o dal Parlamento o dalla Commissione e che convochi una CONVENZIONE all’interno della quale siedono anche rappresentanti delle istituzioni (è stato preso spunto dalla Convenzione sul futuro dell’Europa): essa esprimerà una raccomandazione sulla proposta di revisione, della quale la CIG che deciderà dovrà tener conto.

Il potere di revisione, tra l’altro, sembra essere, a norma dell’art.48, illimitato. Più volte, però, la Corte di Giustizia ha sancito come inviolabili alcuni principi comunitari, quali quelli inerenti la libera circolazione o la concorrenza, o comunque i principi generali del diritto comunitario.

Il Trattato di Lisbona, accanto alla procedura di revisione ordinaria, ha introdotto due PROCEDURE SEMPLIFICATE DI REVISIONE: la seconda di queste prevede l’aumento dei casi di decisione a maggioranza semplificata da parte del Consiglio e del Consiglio Europeo, ed i casi di procedura legislativa ordinaria. Le modifiche saranno adottate con decisione all’unanimità del Consiglio, tenendo conto del parere conforme del Parlamento e senza ratifica dei Parlamenti nazionali.

Un altro procedimento di revisione dei trattati lo ritroviamo all’interno dell’art.49 del TUE, il quale disciplina l’ADESIONE di nuovi Stati. Può presentare domanda di adesione all’Unione ogni Stato europeo in senso geografico e che rispetti, al proprio interno, principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. La procedura è anch’essa suddivisa in due fasi, la prima delle quali è sicuramente più rilevante rispetto alla procedura di revisione trattata dall’art.48 TUE, in quanto la domanda di adesione deve essere approvata all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e parere conforme del Parlamento. Occorre, quindi, il consenso del Parlamento e del Consiglio per accettare tale adesione. Solo nella seconda fase gli Stati membri si occupano di modificare i trattati in base all’adesione dei nuovi Paesi, ma si tratta di modifiche minori. Anche tale procedura, nella prassi, ha subito notevoli modifiche: le due fasi si svolgono contemporaneamente e tutta la procedura è seguita e coordinata dal Consiglio Europeo. Inoltre la prima fase è preceduta da negoziati pre-adesione, all’interno dei quali gli Stati candidati devono dimostrare di rispondere ad alcuni criteri (criteri politici, economici, criteri relativi all’acquis comunitario). Solo in un secondo momento si può passare alla prima fase. Il Trattato di Lisbona ha mantenuto questa procedura, prevedendo soltanto come innovazione che sia il Consiglio Europeo a dettare i criteri da rispettare, di cui le istituzioni devono tener conto. Inoltre è stato introdotto il diritto di recesso unilaterale da parte di uno Stato membro.

Va sottolineato come, se considerassimo il TCE come un semplice trattato internazionale, gli Stati membri potrebbero anche non attenersi al dettaglio della procedura di revisione per modificarlo, ma basterebbe l’accordo unanime.

Nell’ottica, invece, di carta costituzionale risulta necessaria l’osservazione dell’art.48 TUE per la modifica del TCE.

La Corte di Giustizia non si è mai potuta pronunciare sull’argomento, ma seguendo la sua giurisprudenza possiamo notare come si orienterebbe verso l’impossibilità della modifica nella mancata osservanza dell’art.48 TUE.

Infine dobbiamo analizzare come il TCE sia mutato dal momento in cui è entrato in vigore il TUE. Tra essi non vi è mai stato un rapporto gerarchico, ma bisogna riconoscere che con l’entrata in vigore del TUE, il TCE ha perso la natura di carta fondamentale autonoma, in quanto è entrato a far parte di un complesso di trattati, di cui è il più importante, che fanno parte del TUE. Il Trattato di Lisbona ha sottolineato ancora maggiormente questa dipendenza,

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attuando una differenziazione tra TUE, in cui sono comprese le norme più importanti, e TF (trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) che ha sostituito il TCE, il quale reca norme di minore importanza. I due trattati (TUE & TF), tuttavia, hanno pari natura giuridica.

PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO

Abbiamo già definito le FONTI INTERMEDIE, quelle cioè che si trovano a metà strada tra fonti primarie e fonti secondarie. Tra queste rientrano, sicuramente, i PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO, la cui tipologia è abbastanza ampia.

Una prima categoria è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO COMUNITARIO, i quali vengono espressi, esplicitamente o implicitamente, all’interno del TCE e godono di una notevole importanza. Un esempio è dato dal PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE, tutelato all’interno di diversi articoli del TCE e che non permette agli Stati membri di attuare distinzioni di alcun tipo tra gli stessi cittadini. La Corte di Giustizia, inoltre, ha fatto in modo che alle discriminazioni palesi si aggiungessero le discriminazioni occulte, ossia quelle che pur essendo basati su principi diversi, portano comunque allo stesso risultato di quelle palesi configurando una vera e propria discriminazione. Il principio di non discriminazione gode, tra l’altro, di una propria AUTONOMIA, nel senso che può essere applicato anche in situazione non specificatamente previste dalle norme del TCE. La Corte di Giustizia ha, invece, respinto il fatto che nel campo di applicazione del suddetto principio rientrino le DISCRIMINAZIONI ALLA ROVESCIA, ossia quelle nate quando un principio comunitario entra a far parte del diritto interno di uno Stato membro: un cittadino di un Paese dell’Unione non può evocare la discriminazione attuata nei propri confronti perché magari un cittadino comunitario di un diverso Stato membro gode di un più vantaggioso diritto. La Corte ha, infatti, previsto che sia il legislatore interno a sanare le differenze, perché in contrasto con il principio di eguaglianza rispetto ad altri cittadini comunitari.

Altri principi generali del diritto comunitario sono, senza dubbio, quello della LIBERA CIRCOLAZIONE e quello della TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA. Anch’essi rappresentano fonti intermedie e per tal motivo prevalgono sulle fonti secondarie, ma non sui trattati, che costituiscono fonti primarie.

Una seconda categoria di fonti intermedie è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO COMUNI AGLI ORDINAMENTI DEGLI STATI MEMBRI. In tal caso, quindi, si tratta di principi accolti a livello comunitario dopo un esame parallelo degli ordinamenti nazionali. Tra i principi comuni ritroviamo:

 Principio di LEGALITA’, secondo cui ogni potere esercitato dalle istituzioni deve trovare nei trattati la propria fonte legittimante;

 Principio della CERTEZZA DEL DIRITTO, in base al quale chi è tenuto al rispetto di una norma giuridica deve essere messo nella condizione di conoscerla e poterla rispettare;

 Principio del LEGITTIMO AFFIDAMENTO, che impone alle modifiche normative improvvise di essere giustificate da un interesse generale;

 Principio del CONTRADDITTORIO, secondo cui l’autorità comunitaria che intende assumere un provvedimento nei confronti di un singolo deve concedergli di esprimere il proprio punto di vista;

 Principio di PROPORZIONALITA’, in base al quale l’autorità può limitare diritti dei singoli SOLO nel raggiungimento di un interesse pubblico e prevedendo atti necessari a tal fine, che non facciano subire ai singoli sacrifici superflui.

Tra i principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri vi è una particolare categoria che merita una trattazione separata, ossia quella della PROTEZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UOMO. In origine il Trattato non sanciva l’intangibilità di tali diritti. Nel 1973, con la sentenza Frontini, la Corte Costituzionale italiana decide che non possono essere ammessi all’interno del nostro ordinamento principi comunitari che entrino in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo tutelati all’interno della nostra carta costituzionale. La Corte

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Costituzionale sottolinea di non potersi esprimere sulla legittimità dell’atto comunitario, in quanto non rientra nelle proprie competenze a norma dell’art.134 della Costituzione italiana, ma potrà esprimersi a favore dell’incostituzionalità della legge di ratifica del Trattato e dell’ordine di esecuzione in essa contenuto. La Corte, quindi, minaccia di dichiarare incostituzionale e quindi di disapplicare l’intero trattato. Nel 1974 anche la Corte costituzionale tedesca attua una decisione simile, addirittura spingendosi oltre e sindacando sulla legittimità dell’atto comunitario perché in contrasto con la costituzione federale tedesca. Le due decisioni rischiano, a quel punto, di minare l’intero sistema di diritto comunitario. La Dichiarazione Comune del PE, del Consiglio e della Commissione del 1977 sancisce il rispetto dei diritti fondamentali, ma non è in alcun modo un atto di valore giuridico, e pertanto risulta inidoneo a produrre effetti. E’ semplicemente una presa di posizione, a favore della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, da parte delle istituzioni. Con la sentenza NOLD del 1974 la Corte di Giustizia aveva però già previsto che i diritti fondamentali venissero tutelati all’interno dell’ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto, di cui fonte di ispirazione erano le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed i trattati internazionali sui diritti dell’uomo.

Le tradizioni costituzionali comuni ed i trattati internazionali di cui parla la Corte di Giustizia, però, non hanno valore normativo immediato e pertanto non vincolano la Corte, anche per quanto riguarda la CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDI DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI, firmata a Roma nel 1950. Benché la Corte si sia espressa più volte a favore della Convenzione, questo non basta a renderla vincolante nei confronti della Comunità. Il Trattato di Lisbona ha previsto, infatti, che l’Unione aderisca alla Convenzione, mantenendo però inalterate le proprie competenze definite nei trattati.

Il fatto di considerare il diritto fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comunitario, infatti, dava ampio spazio al ruolo della Corte di Giustizia, che poteva, in maniera del tutto flessibile, dare maggior rilievo a determinati diritti fondamentali, escludendone degli altri, data l’assenza di un documento scritto che fosse un atto normativo al quale fare riferimento. Ecco che quindi nel 1999 si decide di promuovere l’elaborazione di una CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, che riassuma tutti quelli che sono i diritti fondamentali accolti a livello comunitario. Alla realizzazione di un così importante documento partecipano i rappresentanti degli Stati, ma anche quelli delle istituzioni comunitarie. La CARTA viene proclamata dai Presidenti di Commissione, PE e Consiglio in occasione del Consiglio Europeo di Nizza del 2000. I tre presidenti non perdono occasione per emendarla anche in occasione della firma del Trattato di Lisbona. Tale CARTA ha, più che un valore normativo, un valore documentale, in quanto appare come un riassunto di quelli che sono i diritti fondamentali, prendendo spunto anche dalla Convenzione di Roma del 1950. Viene prevista anche una CLAUSOLA DI COMPATIBILITA’, che garantisca, qualora la CARTA stessa non sia sufficiente, l’applicazione di altri documenti internazionali (es. CONVENZIONE di Roma del 1950) che meglio salvaguardino determinati diritti. Contrariamente, però, agli auspici iniziali, la Carta è priva di un proprio valore normativo quale FONTE AUTONOMA DEL DIRITTO: essa è più che altro uno strumento interpretativo. Il progetto di Costituzione dell’Unione prevedeva la completa adesione alla Convenzione di Roma del 1950, il che non è avvenuto, neanche con il Trattato di Lisbona.

FUNZIONE DEI PRINCIPI GENERALI

Ma qual è la funzione dei principi generali del diritto?

Essi fungono anzitutto da CRITERI INTERPRETATIVI delle altre fonti del diritto comunitario: tanto i trattati quanto gli atti delle istituzioni devono essere interpretati il più coerentemente possibile con i principi generali.

Inoltre i principi generali sono il PARAMETRO DI LEGITTIMITA’ PER GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI: essi possono essere annullati o invalidati per violazione di un principio comunitario di diritto.

I principi generali operano anche come PARAMETRODI LEGITTIMITA’ PER ALCUNI COMPORTAMENTI DEGLI STATI MEMBRI: i Paesi dell’Unione, infatti, anche nell’applicare le norme di un trattato o dell’atto di un’istituzione devono rispettare tali principi ed i diritti fondamentali. Ovviamente per contestare ad un Paese membro la violazione di un principio occorre un COLLEGAMENTO TRA IL COMPORTAMENTO DELLO STATO MEMBRO ED IL DIRITTO COMUNITARIO: la violazione, in poche parole, deve scaturire dall’attuazione, da parte

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