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IL MOBBING: DA UN CONCETTO DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO AD UNA CATEGORIA DEL DIRITTO

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IL MOBBING:

DA UN CONCETTO DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO AD UNA CATEGORIA DEL DIRITTO

Avv. Umberto Oliva

Come noto, il termine mobbing è stato elaborato in ambito medico, ed in particolare in psicologia, per descrivere un fenomeno di alterazione dei rapporti interpersonali nell’ambiente di lavoro in grado di produrre patologie di tipo psichico e psico-somatico in capo alla persona vittima della situazione.

Nel suo contesto di origine per “mobbing” si intende dunque un fenomeno di accerchiamento e di aggressione nei confronti di un soggetto, da parte di uno o più colleghi di lavoro e/o sovraordinati. Il fenomeno non deve essere episodico, ma deve durare nel tempo, un periodo non inferiore a sei mesi.

Il termine in breve tempo è divenuto di comune utilizzo e ad appropriarsi dell’elaborazione concettuale del mobbing sono stati, fra gli altri, gli operatori del diritto.

Il mobbing quindi, nell’arco di un anno, è divenuto anche una categoria del diritto, perlomeno nel senso che di questo termine si è iniziato a fare uso in sentenze, in ricerche, in articoli di dottrina. Soprattutto, un grande numero di persone ha iniziato a rivolgersi agli avvocati lamentando di essere vittime di mobbing. Da qui il passo verso un nuovo fronte di contenzioso è stato breve ed automatico.

Diventa allora importante cercare di capire che cosa sia oggi il mobbing per il giurista, dopo un primo periodo di conoscenza e i primi casi di giurisprudenza.

Utilizzando una metafora medica si può dire che il trapianto non ha lasciato inalterato l’organo trapiantato e il corpo in cui è stato innestato: il nuovo elemento si è spontaneamente adattato mutando in parte la propria natura.

L’impressione è che oggi, quando si parla di mobbing, solo in pochi casi si intenda esattamente la stessa cosa descritta dai manuali di psicologia del lavoro; il più delle volte, si parlerà di fenomeni diversi, anche se sempre riconducibili nella categoria degli atti vessatori.

Se il mobbing in psicologia consiste in un fenomeno preciso, con fasi di progressione e tempi ben individuati, attuato principalmente dai colleghi di lavoro (non dimentichiamoci che l’etimologia del termine presuppone l’idea

Avvocato, Torino.

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del gruppo che allontana un suo simile, quindi un fenomeno di aggressione inter pares), nel mondo del diritto il mobbing è divenuto qualcosa di diverso.

Si può dire, a mio parere, che il mobbing nel diritto si caratterizza piuttosto come una categoria unificante, utile a raggruppare tutti gli atteggiamenti intimidatori e persecutori messi in atto nei confronti di un lavoratore, nella stragrande maggioranza dei casi ad opera dei superiori, spesso con l’appoggio –omissivo quasi sempre, qualche volta attivo- dei colleghi.

Il diritto si è voracemente appropriato del mobbing non solo e non tanto perché intendesse fare giustizia delle vittime di mobbing vero e proprio (la qual cosa non è affatto facile, come vedremo), ma piuttosto perché aveva bisogno di uno strumento che permettesse di cogliere, in una unitaria visione d’insieme, tutta una serie di comportamenti vessatori e prevaricatori che necessitavano, per così dire, di un approccio nuovo, rivitalizzante e più moderno.

Gli studi di psicologia sul mobbing infatti hanno permesso di unire insieme condotte illecite tipiche, ben note e conosciute dal diritto (quali demansionamento, atti discriminatori, abuso di poteri disciplinari, molestie sessuali ecc.), ad altre neutre, mai utilizzate dal giurista perché di per sé non giuridicamente rilevanti (come la non comunicazione, l’ostilità diffusa, la mancanza di supporto logistico per lo svolgimento delle mansioni, ecc).

Grazie a questi studi, per la prima volta, il diritto si è potuto interessare a delle condotte che prima del mobbing non potevano neanche minimamente essere considerate dal punto di vista legale: ora, attraverso la costruzione di un quadro di insieme, tutti questi comportamenti possono essere considerati in una luce diversa, che può –a determinate condizioni- mettere in chiaro il carattere antigiuridico della molestia.

L’ingresso del mobbing nel diritto ha pertanto fornito ai suoi operatori una nuova chiave di lettura dei rapporti personali, gerarchici e di semplice colleganza, che si instaurano nel mondo del lavoro; soprattutto il mobbing ha permesso di acquisire la consapevolezza che certe relazioni inter-personali, intimidatorie ed aggressive, esistono in modo diffuso e possiedono una capacità distruttiva devastante per la vittima.

L’importazione del mobbing nel diritto ha quindi avuto diversi effetti positivi;

non solo il riconoscimento dell’esistenza e –in determinati casi- della rilevanza giuridica del fenomeno del mobbing e del bossing, quale individuato dalla scuola di Leymann e dagli altri studiosi che ne hanno ripreso e sviluppato il lavoro (Hege); non solo ha permesso lo sviluppo dello studio del danno psichico quale malattia professionale. Soprattutto il mobbing ha costretto un po’ tutti, sindacati avvocati e magistrati, a riconsiderare e

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rivalutare tutto quel coacervo di rapporti che può definirsi etica del lavoro, o meglio ancora del rapporto di lavoro.

Sul mobbing deve essere fatto un preliminare chiarimento: se gli studi in psicologia nascono soprattutto in merito a fenomeni di ostilità tra colleghi, nell’esperienza giuridica italiana è parso subito chiaro come di mobbing si stesse parlando quasi esclusivamente in senso verticale (quello che tecnicamente dovrebbe essere definito bossing), e cioè con riferimento alle strategie di pressione psicologica attuate dai superiori verso i sottoposti.

Il mobbing attuato esclusivamente dai colleghi ai danni di un loro pari potrà divenire oggetto di una sentenza di condanna molto più raramente, e ciò non perché non vi siano norme in grado di considerare e colpire il fenomeno (l’art.2087 e l’art.2049, ad esempio, possono funzionare benissimo anche in questi casi).

Le ragioni sono di altro tipo, anche perché, in questo genere di vicende non si può prescindere dall’atteggiamento della vittima, che può contribuire, per quanto involontariamente, alla formazione della spirale di aggressione psicologica. Motivo per cui l’atteggiamento altrui si può anche considerare una sorta di naturale chiusura di un sistema verso elementi che ne minano l’interna coesione e serenità. Con la conseguenza che poi, in giudizio, diviene praticamente impossibile distinguere la causa dall’effetto, l’azione dalla reazione, il lecito dall’illecito. Ma soprattutto il mobbing tra colleghi presenta degli ostacoli probatori difficilmente sormontabili.

Credo pertanto che il mobbing vero e proprio, quello cioè realizzato tra colleghi, sia destinato a diventare, nel diritto, un fenomeno di proporzioni molto più ristrette rispetto al novero di lavoratori che, per queste ragioni, hanno sviluppato una patologia psichica.

Molto più facile invece portare il mobbing in giudizio quando la vittima è il bersaglio dei suoi superiori e quindi della sua stessa azienda.

Tuttavia, anche in questi casi, credo di poter dire che sarà ben difficile per l’operatore del diritto rinunciare a delle categorie note, quali demansionamento, molestie, licenziamento, ecc., per riuscire ad arrivare ad un risultato positivo in termini di giudizio di condanna.

Quando si prepara un ricorso in tema di mobbing, e a maggior ragione quando si deve stendere una sentenza, si dovranno esporre tutti i numerosi comportamenti attraverso i quali si è sviluppata la condotta vessatoria (e il lavoro è difficile, trattandosi di elaborare decine e decine di dati, che si snodano nel tempo, mesi e più spesso anni).

In questa situazione ci si accorge ben presto che diventa praticamente indispensabile che vi sia nella vicenda almeno un comportamento vessatorio per così dire “tipico”, noto e riconosciuto come ingiusto.

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In altre parole, se è vero che il mobbing è fatto di una pluralità di comportamenti diversi, accomunati dal fine persecutorio, molti dei quali di per sé neutri, è anche vero che il giurista ha bisogno che in questa serie di episodi vi sia almeno una di quelle condotte che il diritto del lavoro ha da tempo conosciuto ed elaborato.

Senza di questa, e cioè senza un licenziamento, un fenomeno di demansionamento, un caso di molestia, ecc., al quale poter ricollegare tutti gli altri episodi della catena di vessazioni, diventa molto difficile, ritengo, condurre in porto una causa di mobbing.

Allo stesso modo però, e questo è la vera innovazione portata dal mobbing, il fatto che questa condotta illecita tipica, che potremmo definire trainante, sia stata preceduta e seguita da una costellazione di altri atteggiamenti a contenuto vessatorio, rinsalda ed esalta l’antigiuridicità della condotta nel suo insieme, che in questo modo può essere colta nella sua intera violenza e capacità lesiva.

Personalmente ritengo che, anche se teoricamente possibile, soltanto con dei comportamenti giuridicamente “neutri” raggiungere la prova dell’illiceità della condotta, e quindi approdare al risarcimento del danno, sia oltremodo difficile; anche perchè, in siffatti casi, si rischia di dover entrare nel terreno minato dell’elemento soggettivo, apparendo necessario dimostrare, fosse anche per presunzioni, che quelle condotte erano poste in essere –in un disegno più ampio- allo scopo di nuocere: la qual cosa, notoriamente, costituisce una probatio diabolica vera e propria.

Ovviamente, tutto ciò non interessa allo psicologo: egli ha soltanto il dovere di curare. Diverso il discorso per l’avvocato: occorre dire, anche per non creare facili illusioni e deludere aspettative, che non tutti i casi di mobbing accertati dal medico sono validi per l’avvocato.

Altro discorso riguarda i meriti degli studiosi del mobbing nell’aver portato l’attenzione del giurista sul danno psichico come forma di malattia professionale.

E’ stato indubbiamente grazie al forte interesse suscitato dal mobbing se, nel mondo del lavoro, il danno psichico è uscito dal rango di malattia immaginaria (e di buona scusa per sottrarsi ai propri doveri), per divenire una vera e propria malattia professionale, come confermato dall’attenzione dedicata a questo genere di patologie dalla nuova tabella delle tecnopatie INAIL.

In questo settore i progressi della medicina sono stati enormi, se si pensa che solo fino al 1996 la situazione era tale che due grandi esperti come Brondolo e Marigliano erano costretti a riconoscere che “L’atteggiamento culturale del medico legale di fronte alla malattia mentale è ancora prevalentemente

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orientato nel senso del misconoscimento della malattia stessa, del sospetto della sua simulazione, oppure nell’accettare ed accertarne la presenza solo come conseguenza di una lesione organica del sistema nervoso centale”.

Analoghe considerazioni, qualche anno prima, erano portate da De Fazio e Beduschi “Occorre riconoscere da un lato che la psichiatria si è costantemente disinteressata del problema della valutazione del danno alla salute mentale e dall’altro che la medicina legale, pur costretta episodicamente ad affrontarlo, lo ha sostanzialmente eluso …. Il problema è divenuto insostenibile, in una fase storica in cui viene rivolta una particolare attenzione ai problemi della salute mentale” (BRONDOLO e MARIGLIANO, Il danno psichico, 1996, 2-3).

Ora la situazione è profondamente mutata, tanto che si è potuto convenire tutti sul fatto che la lesione della salute psichica può essere determinata da stress ed esperienze traumatiche subite sul luogo di lavoro.

Grande merito quindi al mobbing, per avere alzato il sipario sul mondo del lavoro quale luogo di violenza morale, e ciò per quanto esso sia luogo istituzionale di conflitto, come ricorda la studiosa francese M.F. HIRIGOYEN

“la molestia sul lavoro è un fenomeno antico quanto il lavoro stesso”.

Il fatto è che, su questo terreno fertile, si è innestato negli ultimi decenni, nei paesi ad economia sviluppata, un vasto e profondissimo processo di trasformazione del lavoro, che ha indubbiamente esaltato la conflittualità e quindi il logorio nervoso di chi presta lavoro.

Basti ricordare alcune delle grandi trasformazioni che hanno inciso in modo determinante: il passaggio da una economia di produzione di beni ad una economia di produzione di servizi; la progressiva scomparsa del lavoro fisso e salariato, in favore di forme contrattuali atipiche; la flessibilità che diviene facilmente precarietà; il trasferimento di intere produzioni verso paesi a basso costo di manodopera; la fusione e la concentrazione di grandi imprese; la perdita del legame individuale lavoratore/azienda; l’allentamento della solidarietà sindacale; la frammentazione dei lavoratori; l’esasperazione della concorrenza e della produttività.

Ora, mettendo insieme tutti questi elementi (predisposizione strutturale al conflitto e rivoluzione dell’organizzazione del lavoro) ne risulta che oggi, più che mai, il lavoro è diventato luogo elettivo di vessazione, con importanti risvolti dal punto di vista della salute di che è coinvolto.

Il mobbing, dicevamo, ha avuto il merito di far emergere questa diffusa area di malessere e di sollecitare gli operatori del diritto a porvi particolare attenzione e tutela.

In questo modo auspichiamo che si sviluppi una vasta opera di rivisitazione e di rivalutazione non solo di tutte quelle figure, note da tempo, che stanno

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trovando attraverso il mobbing nuova fama (demansionamento, aggressioni verbali, dequalificazione, molestie sessuali, atti discriminatori, abuso del potere disciplinare ecc.), ma anche, più in generale, che si possa ripensare i concetti stessi di buona fede e correttezza nell’adempimento del contratto di lavoro.

In questo modo, attraverso il mobbing, si potrà effettuare un salto di qualità nella difesa del lavoratore: questi, posto di fronte a nuove forme di sopruso, realizzate in un mondo del lavoro non più organizzato secondo i tradizionali schemi della lotta sindacale, necessita dell’elaborazione di nuove categorie per la sua difesa.

Le armi giuridiche non mancano: nel nostro ordinamento sopivano da tempo due norme praticamente inapplicate, che possono diventare i cardini di un modo nuovo di regolamentare l’etica del rapporto di lavoro.

La prima è l’art.41 della Costituzione, nella parte in cui afferma che

“l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla dignità umana”.

La seconda si rinviene nell’art.2087 c.c., nella parte in cui stabilisce che

“l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” sono necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche “la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Il punto centrale del mobbing, visto dagli occhi del giurista, è proprio questo:

non aggressione della dignità umana e tutela della personalità morale di chi lavora (oltre che della sua salute, ovviamente).

Questi due principi, per quanto di immediata forza cogente, fino ad ora erano rimasti inespressi.

Le ragioni di questo trascurare sono facilmente comprensibili: dal 1948 in poi il diritto del lavoro si è adoperato per raggiungere gli obiettivi che il Costituente aveva indicato attraverso un costante sviluppo, ammodernamento ed affinamento di normative, interpretazioni giurisprudenziali, contributi dottrinari.

Tutto questo lavoro naturalmente si è svolto con delle priorità storiche: il diritto alla retribuzione equa e sufficiente, con l’interpretazione del tutto peculiare dell’art. 36 Cost.; la tutela della maternità, attuata con la legge n.1204/1971 (ed ora perfezionata con le misure di sostegno di cui alla legge n.53/2000); lo Statuto dei Lavoratori; il diritto ad un processo adeguato alle esigenze delle parti; la regolamentazione del diritto di sciopero; la sicurezza fisica, tutelata prima con il DPR 547/1955 e poi con la famosa 626/94, e via dicendo.

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In tutti questi anni valori quali dignità e tutela della personalità morale erano sempre stati a latere: ora è venuto il momento di dare attuazione anche a questi precetti.

Questo fenomeno, d’altra parte, si inserisce in un contesto più ampio, di respiro europeo, volto a rivalutare gli obblighi di tutela della dignità di chi lavora.

Si pensi al principio generale dell’adeguamento del lavoro all’essere umano, inizialmente esplicitato dalla direttiva del Consiglio n.104/1993 in materia di ritmi e tempi di produzione, e poi elaborato dalla dottrina nel senso di un generale principio di umanizzazione del lavoro, che deve pervadere tutta la legislazione in materia.

Si pensi anche alla Carta Europea dei diritti fondamentali, di recente approvazione, che inserisce al primo posto dei valori da tutelare la dignità dei cittadini europei.

La psicologia, come detto, ha fatto la sua parte; spetta adesso a noi, operatori del diritto, costruire delle nuove regole di civiltà del lavoro.

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