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L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c.: - Judicium

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ANGELO FRABASILE

L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c.:

questioni controverse e soluzioni possibili

SOMMARIO: 1. PREMESSA –2. la quaestio sulla decadenza. – 3. proponibilità diretta ed immediata della domanda di merito: scenari alternativi e superamento del rischio di inammissibilità. 4.- il procedimento. 5- il decreto di omologa dell’accertamento del requisito sanitario e le spese. 6- la notifica del decreto di omologa ed il pagamento della prestazione. 7.- mancato “accordo” e mancata introduzione (o ripresa) del giudizio di merito. 8. – la reintrodotta inappellabilità delle sentenze nei giudizi conseguenti all’atp obbligatorio.

1. PREMESSA

Con il presente scritto mi propongo di ritornare sul procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio introdotto dall’art.445 bis cpc (di cui mi occupai con note a margine D.L.

98 del 6.7.2011 convertito in Legge 15.7.2011 n.1111) che è in vigore dal 1° gennaio 2012 e che ha già fatto registrare un vivace dibattito su larga scala tra gli operatori del diritto, nutrito da una serie di dubbi scaturiti dall’infelice e miopica formulazione della norma che non esitai ad evidenziare a prima lettura.

Pertanto tenterò, anche recuperando parte delle mie precorse considerazioni, di rendere più organica e tendenzialmente più approfondita la disamina del procedimento che ci occupa, con la consapevolezza che difficilmente potranno esaurirsi o essere trattate esaustivamente tutte le problematiche derivanti dalla norma in esame.

2.- LA QUAESTIO SULLA DECADENZA.

Il primo dubbio postosi all’attenzione degli operatori ed interpreti è originato dal richiamo del comma 3° dell’art.445 bis cpc soltanto alla “prescrizione” («la richiesta di espletamento dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione»), ma non anche alla decadenza. Infatti, l’art.42 del D.l. n.269/03 conv. in L. n.326/03 sancisce il termine decadenziale di sei mesi dalla data di comunicazione del provvedimento sanitario amministrativo relativamente alle controversie in materia di invalidità o cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità; mentre l’art.47 comma 2°

DPR n.639/70 sancisce il termine decadenziale di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso ovvero dalla scadenza del termine stabilito ai fini della predetta decisione relativamente alle controversie in materia di prestazioni di invalidità ordinaria ex L. n.222/84.

È, quindi, palese il difetto di coordinamento tra queste ultime norme, prescrittive di termini decadenziali per l’esercizio della tutela giurisdizionale dei diritti, e l’art.445 bis cpc, con l’aggravante che risulta discussa l’idoneità degli strumenti di istruzione preventiva, come l’accertamento tecnico preventivo classico (art.696 cpc) o la consulenza tecnica preventiva ai fini

1 www.judicium.it, 27.7.2011, «Osservazioni a margine delle modifiche e novità introdotte dalla c.d. “manovra finanziaria” dell’ estate 2011 nel contenzioso assistenziale e previdenziale».

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della composizione della lite (art.696 bis), ricondotti alla categoria dei giudizi conservativi2, ad impedire la decadenza legale. Infatti la scarna giurisprudenza in tema appare divisa circa l’idoneità o meno dell’accertamento tecnico preventivo, in quanto non avente carattere di azione di cognizione o esecuzione, ad impedire la decadenza3.

Per prima cosa occorre rammentare che il luogo di “nascita” dell’art.445 bis cpc risiede nell’art.38 del su menzionato D.l. 98/11, conv. in L. n.111/11 il quale si prefigge dichiaratamente al comma 1°, tra gli altri obiettivi, di «deflazionare il contenzioso in materia previdenziale». Posta, dunque, in chiaro la ratio ispiratrice del nuovo accertamento tecnico, l’impedimento della decadenza può essere positivamente sostenuto sulla base delle seguenti argomentazioni.

Recita il comma 2 dell’art.445 cpc che «l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo costituisce condizione di procedibilità della domanda di cui al primo comma», ossia della

«domanda per il riconoscimento dei propri diritti». Orbene appare pertinente il richiamo all’art.2966 c.c. che, intitolato «cause che impediscono la decadenza», recita nel primo periodo che

«la decadenza non è impedita se non dal compimento dell’atto previsto dalla legge o dal contratto».

Attesa la pacifica valenza sia sostanziale che processuale del sostantivo “atto” ivi previsto, non v’è dubbio che a norma dell’art.445 bis cpc il deposito del ricorso ai fini della «istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere»

vada identificato in quell’atto prescritto dalla legge come «obbligatorio» e perciò stesso avente efficacia impeditiva della decadenza.

Se è vero che il Legislatore del D.l. 98/11, conv. in L.111/11, ha omesso nell’art.445 bis cpc ogni riferimento ed ogni raccordo con l’art.42 comma 3° D.l.269/03, conv. in L.326/03, ciò nondimeno proprio dalla coesistenza di entrambe le norme deve trarsi la conclusione che la decadenza semestrale prevista nel primo articolo ai fini della domanda giudiziale di merito, è impedita altresì dal rispetto della condizione di procedibilità della stessa domanda. In ciò va ravvisata anche la differenza tra gli strumenti di istruzione probatoria preventiva ex artt.696 e 696 bis cpc, non aventi pacifica idoneità ad impedire la decadenza ed affidati alla libera scelta della parte di avvalersene, ed il nuovo accertamento tecnico di cui all’art.445 bis cpc che è obbligatoriamente preveduto dalla legge quale condizione di procedibilità per l’azione di merito. Inoltre con riferimento agli strumenti di istruzione preventiva non obbligatori, si suole riconoscere effetto interruttivo della prescrizione e così pure impeditivo della decadenza solo dalla notifica del ricorso e del pedissequo decreto4 o addirittura dalla comunicazione del relativo esito5. Diversamente nel procedimento per ATP obbligatorio ex art.445 bis cpc, poiché è la legge a prescriverlo in termini di condizione di procedibilità dell’azione, l’effetto impeditivo della decadenza si produce nel momento del deposito del relativo ricorso, allorquando è rispettata la condicio legis.

Siffatta conclusione è poi corroborata da una lettura costituzionalmente orientata dell’art.445 bis cpc, non potendo né immaginarsi, né ammettersi la legittimità di una norma che celi una “trappola”

o un’insidia per l’esercizio del diritto inviolabile di azione sancito e tutelato dall’art.24 cpc, come

2 Ex ceteris, Cass. civ., sez. II 24-08-2000, n. 11087.

3 In senso sfavorevole cfr. Cass. civ., sez. II 14-01-1997, n. 283; Cass. civ., sez. III 19-11-1999, n. 12829, quest’ultima in materia di decadenza dall’azione di responsabilità nei confronti del vettore, prevista dall'art. 3.6 della Convenzione di Bruxelles del 25-08-1924, resa esecutiva in Italia con legge n. 1638 del 192; Tribunale Cagliari, 20-05-1995 in Banca Borsa, 1997, II, 71; in senso opposto cfr. Cass. civ., sez. III 13 gennaio 2005, n. 567; Cass. civ., sez. II 29-03-2002, n.

4622, in Giust. civ., I, 1337; Cass. civ., sez. II 23-05-2000, n. 6735, in Foro it., I, c.2497.

4 Ex ceteris, Tribunale sez. VII Milano, 17-03-2005

5 Ex ceteris, Cass. civ., sez. III 13 gennaio 2005, n. 567;

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peraltro già rilevato in dottrina con specifico riguardo all’effetto dell’interruzione della prescrizione6.

Pertanto, nel rispetto di canoni di logica e razionalità interpretativa, va riconosciuta una necessaria e coordinata relazione tra l’art.445 bis cpc e l’art.42 comma 3° del D.l. 269/03 conv. in L.326/03 ovvero con l’art.47 comma 2° DPR 639/70, per effetto della quale il deposito del ricorso per l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio è atto processuale idoneo a termini dell’art.2966 c.c.

ad impedire la decadenza legale.

3.- PROPONIBILITÀ DIRETTA E CONCOMITANTE DELLA DOMANDA DI MERITO:

SCENARI ALTERNATIVI E SUPERAMENTO DEL RISCHIO DI INAMMISSIBILITÀ.

Il comma 2° dell’art.445 bis cpc precisa che, non già l’istanza, ma l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo, costituisce condizione di procedibilità della domanda (di merito s’intende, distinguendola dalla istanza in questa fase), tanto che se il giudice rileva che esso accertamento

«non è stato espletato», assegna alle parti (il plurale “parti” non può che essere un refuso, giacché solo la parte “che intende proporre in giudizio domanda” è quella portatrice dell’interesse a procedere, e non certo l’Inps che non avrebbe alcun interesse alla verifica del verdetto sanitario espresso dalle proprie commissioni in sede amministrativa) il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico preventivo. La formulazione del periodo lascia intendere che l’ipotesi di accertamento che «non è stato espletato», dovrebbe verificarsi sia quando è mancata l’istanza a tal fine, sia quando l’istanza è stata presentata ma, per varie ragioni, l’accertamento non ha avuto inizio. Analogo termine di quindici giorni verrà assegnato dal giudice alle parti altresì nel caso di accertamento tecnico regolarmente chiesto ed «iniziato», ma che «non si è concluso».

Giova rammentare che nel nostro ordinamento processuale è pacificamente ammessa una condizione di procedibilità dell’azione di merito, parlandosi in proposito di c.d. “giurisdizione condizionata”7, con numerose applicazioni ed avvalli anche da parte della Consulta pur attenta al rispetto della garanzia del diritto di azione-difesa ex art.24 Cost. ed aperta alle esigenze di razionalizzazione e deflazione del contenzioso.

Autorevole dottrina ha osservato che la condizione di procedibilità prevista dall’art.445 bis cpc funziona come “filtro obbligatorio di mera procedibilità della tutela giurisdizionale”8. Ne consegue che ove la domanda giudiziale di merito sia proposta senza essere stata preceduta dall’istanza per ATP obbligatorio, andrà incontro soltanto alla declaratoria di improcedibilità su eccezione del convenuto ovvero su rilievo d’ufficio, che ne sospenderà gli effetti. Il doppio sbarramento previsto dal comma 2° dell’art.445 bis cpc secondo cui «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza», lascia chiaramente intendere che, in difetto di eccezione o rilievo d’ufficio entro la prima udienza, il giudizio di merito introdotto dalla domanda dovrà procedere benché non sia stata rispettata la condizione di procedibilità. Tenuto conto che la condizione di procedibilità assolve a funzione di filtro e che non è prevista alcuna sanzione alla sua inosservanza, l’art. 445 bis cpc va annoverato tra le norme imperfette.

6 D. Dalfino, La nuova giustizia del lavoro, Bari, 2011, 59.

7 Corte cost. 04-03-1992, n. 82, in Giur. it., 1992, I, 1843.

8 D. Dalfino, op. cit., 60.

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L’acclarata ammissibilità della proposizione di una domanda giudiziale di merito non preceduta dall’istanza di accertamento tecnico obbligatorio di cui all’art.445 bis cpc, oppure concomitante con detta istanza, pone un problema di raccordo almeno teorico con il comma 6° dell’art.445 bis cpc.

Infatti, qui si prevede che la parte che abbia dichiarato con atto scritto (a norma del comma 4°) di contestare le conclusioni del Ctu «deve depositare…entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio…». Nel silenzio della norma, cosa accade alla domanda di merito che sia stata dichiarata improcedibile in conseguenza dell’eccezione dell’istituto convenuto o del rilievo d’ufficio?

Sul rilievo che il deposito, nella forma del ricorso, della domanda di merito incardina il processo con l’effetto della litispendenza, e che l’improcedibilità prevista dall’art.445 bis cpc sicuramente non assolve ad una funzione sanzionatoria ma dà luogo ad una sospensione anomala del giudizio pendente, si dovrebbe poter concludere che, una volta espletato l’accertamento tecnico preventivo (che costituisce la condizione di procedibilità e non già la mera “presentazione dell’istanza di accertamento tecnico o di completamento dello stesso” a termini del comma 2° dell’art.445 bis cpc), il giudizio quiescente introdotto dalla domanda di merito può essere riattivato ad istanza di parte

«entro il termine perentorio di trenta giorni».

A fronte della mancanza di una simile disciplina in seno all’art.445 bis cpc, viene da rammentare che il Legislatore in altri tempi e per analoghe fattispecie di condizioni di procedibilità, aveva previsto i meccanismi della riassunzione ed estinzione del processo, come ad esempio nell’abrogato art.412 bis9 commi 4° e 5° cpc o nell’art.443 cpc rispettivamente con riguardo alle controversie di lavoro (quando ne era obbligatorio il tentativo di conciliazione) ovvero a quelle previdenziali e assistenziali.

Nondimeno la lacuna dell’art.445 bis cpc circa la possibile ripresa del processo posto in stato di quiescenza per effetto della declaratoria di improcedibilità, può essere colmata facendo ricorso alle regole generali, e nello specifico all’art.297 cpc che, intitolato «Fissazione della nuova udienza dopo la sospensione», così recita:

[1] Se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l'udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di tre mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui all'art. 3 del Codice di procedura penale o dal passaggio in giudicato [324] della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all'art.

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[2] Nell'ipotesi dell'articolo precedente l'istanza deve essere proposta dieci giorni prima della scadenza del termine di sospensione.

[3] L'istanza si propone con ricorso al giudice istruttore o, in mancanza, al presidente del tribunale.

[4] Il ricorso, col decreto che fissa l'udienza, è notificato a cura dell'istante alle altre parti nel termine [152, 170] stabilito dal giudice.

Al fine di prevenire ogni perplessità circa la valenza generale dell’art.297 cpc, corre utile riportare una decisione della Suprema Corte10: «Con la nuova formulazione dell'art. 111 della Costituzione, il quale, al comma secondo, ult. parte, assicura la ragionevole durata del processo (ma, il valore ivi espresso era già contenuto nell'art. 6 della CEDU, cui pure il nostro Paese aveva prestato adesione e ratifica con la legge 4 Agosto 1955, n. 848 e, secondo molti, già presente nella stessa Costituzione repubblicana, nel suo testo originario, quale risultante del combinarsi di una pluralità

9 Articolo abrogato dall'art. 31, comma 16, L. 4 novembre 2010, n. 183.

10 Cass. civ., sez. I 30 agosto 2004, n. 17419.

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di disposizioni: ovvero gli artt. 2, 3, 24 e 97 Cost.), non sono più concepibili, nell'ambito del processo, inerzie o inattività di mera attesa. Ove il legislatore non abbia provveduto a regolare, con una disciplina speciale, il congegno della riassunzione o nuova fissazione del processo sospeso, a questo deve applicarsi la previsione, che così acquista valore generale, contenuta nell'art. 297 cod. proc. civile, riguardante la fissazione della nuova udienza dopo la cessazione della causa di sospensione». Al principio presta adesione anche la dottrina osservando che la disciplina dettata dall’art.297 cpc, con gli opportuni adattamenti, deve ritenersi applicabile, in assenza di disposizioni ad hoc, a tutte le altre ipotesi di riassunzione conseguente a sospensione11. Questa appare l’unica via processualmente percorribile per ammettere la ripresa di un processo rimasto quiescente per effetto della declaratoria di improcedibilità, e per non pregiudicare il diritto inviolabile all’azione tutelato dall’art.24 Cost., dovendosi a margine considerare che non risponderebbe ad alcuna utilità economico-processuale non dare continuità ad una condizione di procedibilità (la Ctu) comunque soddisfatta e non necessariamente ripetibile in sede di merito.

Appurato, dunque, che l’art.445 bis cpc consente anche una proposizione della domanda di merito non preceduta dall’istanza di accertamento tecnico preventivo e non esclude, dopo che questa sia stata dichiarata improcedibile, la ripresa del processo rimasto quiescente, per rispondere alla domanda di cui sopra occorre prefigurarsi due ipotesi: la prima, in cui l’esito dell’accertamento tecnico sia favorevole alla parte ricorrente che aveva già proposto domanda per il riconoscimento dei suoi diritti; la seconda ipotesi, in cui l’esito del medesimo accertamento sia favorevole all’istituto “convenuto”.

Nella prima ipotesi, in cui la «verifica preventiva delle condizioni sanitarie» sia stata favorevole alla parte ricorrente, mentre l’Istituto «convenuto» abbia dichiarato «con atto scritto depositato in cancelleria» di voler «contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio» (comma 4° art.445 bis cpc), spetterà al resistente riattivare nel termine di gg.30 ex art.445 bis comma 6° cpc il giudizio già pendente (introdotto dalla domanda di merito dichiarata improcedibile), chiedendo la fissazione dell’udienza di comparizione. Ovviamente con la memoria con cui riattiva il giudizio l’istituto dovrà concludere per il rigetto per infondatezza della domanda del ricorrente (originario) sulla scorta dei «motivi della contestazione» alle «conclusioni del consulente tecnico d’ufficio» da esplicitare «a pena di inammissibilità» a rigore del suddetto comma 6°, contestando altresì i requisiti socio-economici costitutivi del diritto in questione (appare corretto fare riferimento al diritto il cui contenuto può essere economico oppure no, sol che si pensi ad es. alla contribuzione figurativa, all’iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio, riconoscimenti di agevolazioni e diritti per soggetti handicappati). Se l’istituto, nel termine perentorio di gg.30, non riattivasse il giudizio già pendente e quiescente, all’originario ricorrente, ovviamente svincolato dal suddetto termine non rispettato dal “dissenziente”, non resterà che proporre a norma dell’art.297 comma 1°

cpc l’istanza di ripresa del processo «entro il termine di tre mesi», anch’esso perentorio, decorrente dalla scadenza del termine di gg.30 fissato dall’art.445 bis comma 6° cpc. In tal modo il ricorrente potrà chiedere ed ottenere la condanna dell’istituto al pagamento della prestazione il cui requisito sanitario sia stato già accertato, e di cui si data prova della sussistenza dei requisiti socio-economici di legge.

Nella seconda ipotesi, in cui le «conclusioni del consulente tecnico d’ufficio» siano state sfavorevoli alla parte ricorrente e da questa contestate con l’analoga modalità di cui al comma 4° dell’art.445 bis cpc, la stessa parte avrà interesse a dare impulso al giudizio quiescente già introdotto con la

11 G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2010, 254.

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domanda di merito, ma nel termine stringente di gg.30 prescritto dal comma 6° della norma.

Tuttavia, si profilerebbe prima facie il rischio dell’inammissibilità di tale domanda originaria in quanto non recante «i motivi della contestazione» alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio.

Invero il paventato rischio è evitabile con il semplice accorgimento di indicare i «motivi della contestazione» direttamente nell’atto di contestazione di cui al comma 4° del ridetto art.445 bis cpc., Infatti, quest’ultima disposizione nulla dice sul contenuto dell’atto de quo, limitandosi a prescriverne la forma scritta ed il deposito in cancelleria nel termine assegnato all’uopo dal giudice, tanto che al comma 6° della medesima norma si parla di mera «formulazione di dichiarazione di dissenso»; sicché riesce agevole concludere che il Legislatore non ha richiesto alcuna esplicitazione delle ragioni del dissenso nella suddetta dichiarazione, e dunque alcuna motivazione, tanto confermandosi ulteriormente sul rilievo della impossibilità di alcun sindacato del giudice ovvero della controparte in quella sede, nonché sul rilievo che il citato comma 6° recupera «i motivi della contestazione» nel ricorso introduttivo del susseguente giudizio di merito. Va da sé che ciò che non è prescritto (la motivazione del dissenso), non è al tempo stesso escluso o precluso, con la conseguenza che alla parte ricorrente sarà consentito nella «dichiarazione di dissenso» «specificare i motivi della contestazione» alle conclusioni del Ctu. Del resto se la ratio del comma 6° dell’art.445 bis cpc è quella specificare le ragioni del dichiarato dissenso in funzione dell’instaurando giudizio di merito, l’anticipazione delle stesse ragioni direttamente nella dichiarazione di cui al comma 4°

consente (sulla falsa riga dell’art.156 ult. co. cpc) il raggiungimento dello scopo oggettivo (ossia la funzione tecnica e pratica) dell’atto processuale, e per l’effetto di ritenere integrata l’originaria domanda di merito che verrà riassunta.

Fatte queste ipotesi e con riguardo ad entrambe viene da chiedersi che succede se il ricorrente, nel termine di gg.30 di cui all’art.445 bis comma 6° cpc ovvero nel termine di cui all’art.297 cpc, non provveda alla riattivazione del giudizio?

La risposta risiede nell’art.307 comma 3° cpc, quale norma c.d. in bianco, di carattere generale, che sanziona con l’estinzione del processo il mancato compimento dell’atto di impulso entro i termini perentori stabiliti dalla legge o dal giudice (c.d. inattività qualificata12). Il comma 3° dell’art.307 cpc così recita: «Oltre che nei casi previsti dai commi precedenti, e salvo diverse disposizioni di legge, il processo si estingue altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Quando la legge autorizza il giudice a fissare il termine, questo non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre.13». A ben vedere a) la preposizione “oltre” spinge l’applicazione della norma fuori dai casi previsti dai commi precedenti; b) non vi ostano “diverse disposizioni di legge”; c) si è visto a quale parte spetti, a seconda delle ipotesi prospettate, di riattivare entro dati termini il giudizio già pendente e quiescente; d) i termini per la riattivazione del giudizio (445 bis comma 6° o 297 cpc) sono perentori in quanto stabiliti dalla legge o dal giudice ex lege autorizzato a fissarlo. Ne consegue che in difetto di riattivazione del giudizio già pendente ad opera della parte cui spetti o che vi abbia interesse, si dovrebbe ipso iure verificare l’estinzione immediata del giudizio medesimo.

Quanto a quest’ultimo esito estintivo del processo v’è da osservare che esso potrebbe non essere dichiarato se la riattivazione del processo non avvenisse mai, oppure essere dichiarato, pur in

12 F. P. Luiso, Diritto processuale civile, VI, Milano, 2011, 261 ss.

13 Comma così modificato dall'art. 46, comma 15, lett. b), L. 18 giugno 2009, n. 69.

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assenza di eccezione, con un pronuncia di mero rito a norma dell’ultimo comma dell’art.307 cpc che prevede per l’appunto la rilevabilità d’ufficio.

Recuperando gli approdi del ragionamento innanzi fatto, si può in estrema sintesi concludere che il procedimento ex art.445 bis cpc non esclude la proposizione di una domanda di merito non preceduta dall’accertamento tecnico preventivo obbligatorio; che questa domanda è suscettibile di declaratoria di improcedibilità (ove eccepita o rilevata ex officio) con conseguente effetto di sospensione c.d. impropria del giudizio di merito così introdotto; che pur nel silenzio dell’art.445 bis cpc è certamente ammessa una ripresa del processo quiescente in virtù dell’applicazione della disciplina generale dell’art.297 cpc con riguardo alla precipua ipotesi illustrata; che il mancato compimento dell’atto di impulso per la ripresa del processo nei termini perentori rispettivamente previsti dall’art.445 bis comma 6° cpc o dell’art.297 cpc, conduce all’estinzione immediata del processo, con sacrificio definitivo dell’azione.

4.- IL PROCEDIMENTO.

Presentata l’istanza di accertamento tecnico preventivo «il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc, in quanto compatibile, nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art. 10, comma 6 bis del D.L. 30.9.2005 n.203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2.12.2005 n.248, e dall’art.195», del quale ultimo articolo è omessa per lapsus calami la fonte normativa (cpc).

Già avevo evidenziato nella mie precedenti note a prima lettura che il legislatore ha operato un confusionale ed inopportuno rinvio alle suddette norme, nonostante la regolamentazione innovativa introdotta per questo particolare accertamento tecnico dai comma 4° e 5° dell’art.445 bis cpc.

Sarebbe stato perciò auspicabile dedicare al procedimento in esame una disciplina ad hoc, senza alcun rinvio ad altre norme delle quali, tra l’altro, verificare la compatibilità.

Il primo rilievo critico lo si ricava dalla contraddittorietà tra intitolazione della norma, ossia

«Accertamento tecnico preventivo obbligatorio» e l’espresso riferimento all’art.696 bis cpc in quanto compatibile, il quale ultimo invece disciplina la “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite”. Quali sono i punti di compatibilità tra la procedura di cui all’art.445 cpc e l’art.696 bis cpc da ultimo citato?

Da principio verrebbe da escludere ogni compatibilità14 in ragione del ben definito ambito applicativo della “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” ex art.696 bis cpc, concepita «ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzioni di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito». Tralasciando le interpretazioni non univoche in dottrina circa l’ambito di applicazione dello strumento peritale de quo, che si suole ammettere –non senza argomenti contrari in punto di an- anche in tema di valutazione di danni alla persona ai fini del quantum risarcitorio, per quel che riguarda da vicino le materie evocate dall’art.445 bis cpc è indiscussa la loro estraneità ontologica alle obbligazioni contrattuali e men che mai alle obbligazioni ex delictu.

Superando tale evidenza, visti gli espressi riferimenti alla consulenza tecnica preventiva ex art.696 bis cpc contenuti nel testo dell’art.445 bis cpc, viene da sé istituire similitudini tra detti

14 Cfr. D. Dalfino, op. cit., 61.

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procedimenti, ma al tempo stesso deve prendersi atto che il nuovo procedimento, per sue peculiarità, si differenzia nettamente dall’altro.

Tanto premesso, appare compatibile il richiamo dell’art.445 bis cpc all’art.696 bis comma 1° cpc limitatamente alla parte in cui rinvia al terzo comma dell’art.696 cpc, che a sua volta rinvia agli artt.694 e 695 cpc per quanto concerne le modalità di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti ed i correlati incombenti di rito; è compatibile il richiamo al comma 5° dell’art.696 bis cpc limitatamente alla parte in cui prevede che «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito»; è compatibile il richiamo all’ultimo comma dell’art.696 bis cpc che fa rinvio agli articoli da 191 a 197 cpc dedicati, per l’appunto, alla nomina ed alle indagini del consulente tecnico. Orbene, poiché tra esse norme v’è pure l’art.195 c.p.c., risulta essere una superfetazione l’espresso richiamo a quest’ultimo articolo da parte dell’art.445 bis cpc

Ulteriore rinvio è contenuto nel periodo conclusivo del comma 1° dell’art.445 bis cpc secondo cui

«Il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc….nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art.10 comma 6 bis…». Quest’ultima norma speciale introdotta dal D.L. 30.9.2005 n.203, convertito con modificazioni dalla legge 2.12.2005 n.248 15 e poi modificata dal comma 7 dell’art.38 D.l. n.98/2011, convertito in L. 111/11 e collocato al comma 8, prevede che: “Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste un medico legale dell'ente, su richiesta del consulente nominato dal giudice il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni antecedenti l’inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell’Inps competente o a suo delegato.

Alla relazione peritale è allegato, a pena di nullità, il riscontro di ricevuta della predetta comunicazione. L’eccezione di nullità è rilevabile anche d’ufficio dal giudice. Il medico legale dell’ente è autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’art.201 del codice di procedura civile”.

Il richiamo al novellato art.10 comma 6° bis del D.l. 203/2005 così come modificato, che involge regole operative indirizzate al consulente tecnico d’ufficio, induce a ritenere opportuno che nel verbale di giuramento e di affidamento dell’incarico peritale, il giudice inviti formalmente il proprio consulente a conformarsi agli adempimenti ed ai termini indicati nella norma speciale, e ciò soprattutto al fine di prevenire un vizio di nullità delle operazioni peritali.

L’approccio al comma 4° dell’art.445 bis cpc dà consistenza ulteriore all’idea che il legislatore del D.L. 98/2011, poi convertito, abbia difettato di qualificate doti processuali e soprattutto non abbia avuto avanti a sé, chiaro e ricomposto, il quadro di disposizioni normative evocate. Conferma ne

15 Il comma inserito dall'art. 20, comma 5-bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102. Precedentemente tale modifica era contenuta nell'art. 20, comma 5, lett. d), D.L. 1° luglio 2009, n.

78, che così recitava, prima della sua modifica per effetto dell’art.38 comma 7 D.L. 98/2011 conv. con modifiche nella legge n.111/2011 comma 8: «6-bis. Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste un medico legale dell'ente, su richiesta, formulata, a pena di nullità, del consulente nominato dal giudice, il quale provvede ad inviare apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell'INPS competente. Al predetto componente competono le facoltà indicate nel secondo comma dell'articolo 194 del codice di procedura civile».

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viene altresì dal periodo conclusivo del comma 1° dell’art.445 bis cpc in cui rinvia all’art.195 cpc che, così come da ultimo novellato, recita che:

“Delle indagini del consulente si forma processo verbale quando sono compiute con l'intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta.

[2] Se le indagini sono compiute senza l'intervento del giudice, il consulente deve farne relazione, nella quale inserisce anche le osservazioni e le istanze delle parti.

[3] La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all'udienza di cui all'articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse.”

Se il richiamo deve intendersi all’art.195 cpc per intero, e quindi anche al comma 3° che consente il diritto delle parti di replicare alle conclusioni del Ctu, non si comprende la ratio del meccanismo previsto al comma 4° dell’art.445 bis cpc che appesantisce la procedura in esame anziché snellirla anche nei tempi. Infatti, si prevede in quest’ultimo comma che, una volta «terminate le operazioni peritali», il giudice emette un decreto in cui fissa un termine «non superiore a trenta giorni» entro il quale le parti «devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio». Insomma, non si comprende quale valore dovrebbe riconoscersi alle osservazioni critiche (e quindi motivate) alla Ctu previste dal comma 3° dell’art.195 cpc, se poi è la mera «dichiarazione di dissenso» (anche priva di motivazione) a rilevare ai fini del procedimento di cui all’art.445 bis cpc.

Proseguendo, desta davvero perplessità la previsione del comma 5° della norma in esame, ove si prevede che «in assenza di contestazione, il giudice, se non procede ai sensi dell’articolo 196…».

Quest’ultimo articolo, consente sempre al giudice «di disporre la rinnovazione delle indagini e, per gravi motivi, la sostituzione del consulente tecnico», ma trattasi di potere rientrante tra quelli istituzionali del giudice di merito. Una ragione plausibile per giustificare, «in assenza di contestazione» l’esercizio da parte del giudice di un tipico sindacato di merito, in quanto implicante una valutazione fondata su «gravi motivi» e, peraltro, al di fuori del contraddittorio delle parti, potrebbe risiedere nel mancato rispetto delle garanzie procedurali prescritte dalle norme sopra menzionate. Ma una simile ipotesi mal si concilia con la premessa di «assenza di contestazione», a meno di non immaginare che sia il giudice d’ufficio a rilevare un vizio nell’espletamento della ctu.

Così pure mal si concilia con la specifica disciplina dell’art.92 disp. att. cpc in tema di «questioni sorte durante le indagini del consulente», a fronte delle quali, su informativa del ctu o su ricorso della parte interessata, il giudice deve sentire le parti prima di dare i provvedimenti opportuni.

Sicché potrebbe profilarsi un’aporia tra la previsione del comma 5° dell’art.445 bis cpc, che non prevede alcuna audizione delle parti, ed il sub procedimento disciplinato all’art.92 disp. att. cpc che, invece, la impone al giudice prima di adottare i provvedimenti del caso.

Al di fuori dell’ipotetico scenario appena illustrato, è d’uopo evidenziare che dopo la prima ed unica udienza di comparizione, le parti non compaiono più avanti al giudice (come del resto avviene nel classico procedimento per ATP ex art.696 cpc). Difatti, la progressione del procedimento è segnata da attività che prescindono del tutto dal contatto tra le parti ed il giudice, dovendo quest’ultimo a norma del 4° comma, fuori udienza, fissare «con decreto comunicato alle parti…un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio»; e dopo pronunciare, a norma del comma 5° «fuori udienza» il decreto di omologa in

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assenza di contestazione delle parti alla ctu e quando non ne disponga la rinnovazione e/o la sostituzione ai sensi dell’articolo 196 cpc.

Cosa consegue al mancato rispetto del termine non superiore a gg.30 (e quindi anche inferiore) assegnato dal giudice e decorrente dal «decreto comunicato alle parti» al fine di dichiarare il proprio dissenso alle conclusioni del Ctu? È espressamente qualificato come «termine perentorio», tale essendo a mente dell’art.152 cpc anche quello previsto dalla legge ed affidato al giudice nella sua concreta fissazione. Lo spirare del termine de quo determina automaticamente la decadenza dall’attività processuale da compiere, ossia sub specie il deposito dell’atto di contestazione delle conclusioni del Ctu. Pertanto, l’inosservanza del termine fissato dal giudice produrrà effetti preclusivi alla contestazione della Ctu, equipollenti alla «assenza di contestazione» di cui al successivo comma 5° dell’art.445 bis cpc in esame, senza tuttavia che sia configurabile una fictio iuris legittimante l’emissione da parte del giudice del decreto di omologa. Infatti, non è revocabile in dubbio che il giudice in questa fase procedimentali non ha poteri di iniziativa esulanti dallo schema delineato dalla stessa norma.

Come si avrà modo di specificare di seguito, la fine del procedimento appare chiaramente segnata dal decreto di omologa, in assenza di contestazioni delle parti, oppure dal deposito della

«dichiarazione di dissenso» di una o di entrambe le parti, depositata in cancelleria.

5.- IL DECRETO DI OMOLOGA DELL’ACCERTAMENTO DEL REQUISITO SANITARIO E LE SPESE.

In base alla disciplina del comma 5° dell’art.445 bis cpc, se le parti nel suddetto termine non superiore di gg.30 loro assegnato dal giudice ex comma 4°, non hanno inteso contestare (con atto scritto e depositato) le conclusioni del Ctu e se il giudice non ha ritenuto a norma dell’art.196 cpc di rinnovare le indagini e sostituire il consulente, “con decreto pronunziato fuori udienza” entro trenta giorni dalla scadenza dei precedenti trenta concessi alle parti, “omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle spese”.

Anzitutto si rileva l’improprio uso del singolare nell’incipit del comma 5° «in assenza di contestazione”, ben potendo le contestazioni per diverse ragioni (ad. es. decorrenza del requisito sanitario; percentuale valutativa ascritta ad una data patologia o errore di valutazione funzionale dell’insieme di patologie coesistenti; omissione di indagini sanitarie suppletive sollecitate ovvero omessa valutazione di una o più patologie; tabelle o scale di valutazione applicate, etc.) essere mosse da entrambe le parti del procedimento.

Si osservi l’uso inedito da parte del Legislatore del verbo “omologare” che non è contenuto nel testo dell’art.696 bis cpc (nel quale si prevede che «il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo al processo verbale…»), ma che è stato mutuato dalla dottrina16.

Viene da chiedersi se, pur «in assenza di contestazione», il decreto di omologa previsto dal comma 5° presupponga in ogni caso l’accertamento positivo delle condizioni sanitarie legittimanti il diritto che si intende far valere, oppure possa essere emesso dal giudice anche quando il Ctu abbia

16 A. Panzarola, Commento sub artt.696 e 696 bis c.p.c., in A. Briguglio e B. Capponi (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, Padova, 2007, 292.

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confermato il giudizio sanitario espresso a verbale dalle competenti commissioni in sede amministrativa.

A ben vedere, quantunque non chiaramente, la disposizione lascia intendere che l’emissione del decreto di omologa presupponga un accertamento comunque favorevole all’istante, in quanto il secondo periodo di essa soggiunge che «il decreto…è notificato agli enti competenti che, provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni». In altri termini, è dato comprendere che solo il decreto di omologa di un accertamento positivo va notificato agli «enti competenti» affinché provvedano al pagamento della prestazione spettante, previa verifica degli altri requisiti previsti dalla legge. Diversamente appare logico escludere che il giudice debba omologare un accertamento negativo «secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico d’ufficio», laddove nulla muta nella realtà giuridico-sostanziale in cui resta fermo e confermato il verbale sanitario amministrativo e gli « enti competenti» non debbano provvedere ad alcunché.

Attesa la non impugnabilità e modificabilità del decreto di omologa a rigore del secondo periodo del comma 5°, viene da domandarsi se esso provvedimento, ove affetto da un errore materiale, sia emendabile con la procedura di correzione di errore materiale di cui all’art.287 cpc Ebbi già a dire che non è facile rispondere al quesito. Da un parte si potrebbe rispondere affermativamente in linea con la tesi dottrinale17 secondo cui tutti i provvedimenti non revocabili, sebbene diversi dalla sentenza, e che abbiano una funzione decisoria, si prestano al procedimento di correzione di cui all’art.287 cpc. Per converso si potrebbe obiettare per la non correggibilità del decreto in questione, in ossequio alla limitazione edittale (“sentenze ed ordinanze”) posta dall’art.287 cpc. Tuttavia, considerata la natura e l’effetto del decreto di omologa, considerato che con esso il giudice provvede anche sulle spese, per esse intendendosi non solo quelle del compenso al ctu ma anche quelle delle parti del procedimento, e considerato che esso, in quanto non impugnabile né modificabile, è vincolante per gli «enti competenti», appare sostenibile che detto provvedimento riveli una funzione in parte qua decisoria, tale da renderlo assoggettabile al procedimento di correzione dell’errore materiale. Militano in ogni caso a favore della tesi affermativa ragioni di buon senso ed opportunità a mente di una ricca casistica di errori materiali di frequente verificazione nelle materie oggetto dell’accertamento tecnico ex art.445 bis cpc.

L’altro tema di interesse che si pone anche quando il giudice non debba procedere con l’omologa, investe la liquidazione delle spese. La generica formulazione in proposito del comma 5° dell’art.445 bis cpc, e soprattutto il fatto che analoga previsione sulle spese manchi del tutto nei procedimenti

“cugini” regolati agli artt.696 e 696 bis cpc, conduce a ritenere che le spese cui fa riferimento l’art.445 bis cpc non siano limitate al compenso in favore del Ctu, ma debbano estendersi a quelle per diritti ed onorari di difesa (rectius, alla luce dell’art.9 D.l. 24.1.2012 n.1, sarebbe meglio parlare più genericamente di competenze legali). In tal modo è possibile dare ingresso ed applicazione in un procedimento di istruzione preventiva (quantunque obbligatoria) alle regole proprie del processo di cognizione in tema di spese, e cioè l’art.91, 92, 93 e 152 disp. att. cpc.

Così nel caso di esito positivo dell’ATP per la parte istante, le relative spese legali per l’assistenza tecnica dovranno essere poste a carico dell’Istituto convenuto, e se richiesto distratte in favore del difensore anticipatario. Nel caso di esito negativo dell’ATP per la parte istante, il giudice valuterà se sussista il diritto di quest’ultima, purché ritualmente dedotto, all’esenzione dalla condanna alle

17 M. Acone, Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice, I, EGI, IX, Roma, 1988.

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spese del procedimento in applicazione dell’art.152 disp. att. c.p.c. Tuttavia si profila un’anomalia che può essere letta come una peculiarità del procedimento in esame, rispetto agli altri procedimenti

“cugini”: e cioè che se si ammette il significato estensivo al sostantivo “spese” nell’art.445 bis cpc, comprendendo come detto anche quelle per patrocinio legale, allora si dovrà ammettere anche il potere del giudice di disporre la compensazione totale e parziale delle stesse a norma dell’art.92 cpc, benché quest’ultima norma presupponga un processo in senso stretto ed un provvedimento decisorio-condannatorio.

6. – LA NOTIFICA DEL DECRETO DI OMOLOGA ED IL PAGAMENTO DELLA PRESTAZIONE.

Già si è detto che il decreto di omologa, quello relativo al positivo accertamento dei requisiti sanitari, «è notificato agli enti competenti». Posto che in tal caso si specifica che trattasi di notificazione (e non già di mera comunicazione come invece nel comma 4°) e considerato che l’art.137 cpc consente le notificazioni anche ad istanza della cancelleria del giudice, non è dato comprendere se la notifica in interesse debba avvenire ad istanza di quest’ultima o ad istanza della parte. Non si può negare l’interesse della parte al sollecito decorso del termine di gg.120, previsto dallo stesso comma 5° ai fini del pagamento della prestazione spettante, e quindi si deve ammettere senza indugio la facoltà della parte avente diritto di provvedere alla notifica del decreto di omologa.

A partire dal giorno del perfezionamento della notificazione per l’ente ricevente, si apre il c.d spatium solvendi ai fini del pagamento della prestazione economica spettante, rammentandosi tuttavia l’esistenza di azioni sorrette da interessi di carattere non economico che esulano da detta regola (ad es. accertamento di un’invalidità superiore al 74% ai fini della contribuzione figurativa ex art.80 co.3 L.388/2000; accertamento di un’invalidità almeno del 46% ai fini dell’iscrizione negli elenchi del collocamento mirato ex art.8 L.68/1999; etc.). In questo lasso temporale di gg.120 non è ben chiaro se sarà cura della parte interessata fornire all’ente la prova del possesso dei requisiti socio-economici prescritti ex lege ai fini dell’erogabilità delle prestazioni richieste. In proposito non si può fare a meno di richiamare l’art.15 della Legge 12.11.2011 n.183 (Legge di stabilità 2012) al comma 1° lett. c) che ha modificato il comma 1° dell’art.43 del DPR 28.12.2000 n.445 nei termini in cui «Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il regolamento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato». Il periodo della norma debitamente evidenziato consente di spostare in capo all’Istituto l’onere dell’acquisizione di «tutti i dati e i documenti» necessari al pagamento delle prestazioni del caso.

Infatti, costituisce fatto notorio che l’Istituto sia non solo già in possesso dei dati e delle informazioni utili a tal fine, ma si trovi nella condizione di procurarseli ove mancanti (perché ad esempio trattasi di prima liquidazione) attingendoli direttamente da sistemi di banche dati pubbliche cui ha accesso diretto, a cominciare dall’anagrafe tributaria, dall’anagrafe civile, sistemi previdenziali integrati, etc. Pertanto sembra corretto ritenere che debba essere l’istituto a procedere d’ufficio all’acquisizione dei dati occorrenti alla liquidazione per la messa in pagamento della prestazione spettante all’avente diritto, invitando semmai quest’ultimo ad integrare altro genere di informazioni non altrimenti reperite o per le quali sia necessaria un’assunzione di responsabilità del dichiarante.

Infine, v’è da chiedersi come procedere nel caso in cui il competente ente, pur avendo verificato gli ulteriori requisiti, non provveda nel termine di gg.120 al pagamento della prestazione dovuta. Certo

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è che a rigore dell’art.474 cpc il decreto di omologa previsto dal coma 5 dell’art.445 bis cpc, pur rientrando generaliter nella categoria dei “provvedimenti”, non reca alcuna condanna e, quindi, non ha vocazione di titolo esecutivo, né potrebbe mai diventarlo in mancanza di una espressa attribuzione di efficacia esecutiva ope legis. Anche in tal senso si coglie una netta differenza con la procedura di cui all’art.696 bis cpc nella quale invece, a termini del comma 3°, è previsto che il giudice possa attribuire “efficacia di titolo esecutivo al processo verbale di conciliazione”18. Pertanto appare consigliabile alla parte interessata ad ottenere il pagamento della prestazione, promuovere un giudizio di merito a scopo condannatorio dell’ente previdenziale, risultando la condizione di procedibilità già soddisfatta e non ripetibile, mentre dovrebbe porsi alcuni sani dubbi, peraltro non severamente preclusivi, circa la sussistenza dei presupposti di ammissibilità della tutela monitoria ex art.633 e ss cpc.

7.- MANCATO “ACCORDO” E MANCATA INTRODUZIONE (O RIPRESA) DEL GIUDIZIO DI MERITO.

Il comma 6° dell’art.445 bis cpc si apre con uno scenario opposto, ossia «nei casi di mancato accordo». Questa infelice espressione è forse frutto di una sottaciuta evocazione della conciliazione di cui all’art.696 bis cpc. Ma, a ben vedere, il procedimento dell’art.445 bis cpc non può prevedere

“accordi” di tipo conciliativo, poiché l’oggetto della valutazione affidata al Ctu, ossia il requisito sanitario, non si presta ad un accordo alla stregua di beni o diritti disponibili. La parte può solo concordare tacitamente con la valutazione e con le conclusioni espresse dal Ctu, oppure contestarle

«con atto scritto depositato in cancelleria» secondo quanto prescritto dal comma 4°.

In quest’ultima ipotesi, «entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso», la parte «deve depositare» avanti al medesimo giudice, da intendersi ovviamente come Ufficio, «il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione». La formulazione del comma 6° vede come unico soggetto attivo la parte che abbia contestato le conclusioni del Ctu, escludendo del tutto un qualche ruolo del giudice. Con ciò evidenziandosi che il deposito della «dichiarazione di dissenso» chiude la fase dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per cedere il passo eventuale al processo ordinario, senza che sia possibile o ammissibile una qualsiasi riapertura del procedimento medesimo.

Cosa accade se la parte che aveva tempestivamente depositato la propria dichiarazione di dissenso alle conclusioni della Ctu, poi non deposita tempestivamente o non deposita affatto il ricorso introduttivo del giudizio oppure il ricorso per riassunzione del processo di merito già pendente? È ovvio che il maturarsi del termine perentorio di gg.30 fissato dall’art.445 bis comma 6° cpc fa decadere la stessa parte dal deposito di un ricorso introduttivo del giudizio ovvero dal deposito dell’istanza di riattivazione di quello già pendente. Tuttavia anche in tal caso appare indispensabile distinguere due ipotesi.

Se le conclusioni del Ctu in sede di accertamento tecnico obbligatorio siano sfavorevoli per l’istituto convenuto e da questi contestate con l’apposita dichiarazione di dissenso, senza tuttavia aver tempestivamente o per nulla introdotto (o riattivato se già pendente) il giudizio di merito, la parte ricorrente può iniziare un giudizio ordinario ex art.442 cpc (se si trattasse invece di riassumere quello già pendente e quiescente si rinvia a sub paragrafo n.3) al fine di domandare il riconoscimento dei propri diritti economici o non economici, sulla scorta delle conclusioni

18 In senso opposto, circa la compatibilità dell’art.696 bis cpc comma 3° v. D. Dalfino, op. cit., 63.

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dell’espletata Ctu in ordine alle condizioni sanitarie. A tal fine, potendo annoverarsi l’art.696 bis comma 5° cpc tra le previsioni compatibili richiamate dal 1° comma dell’art.445 bis cpc, è opportuno che la parte ricorrente chieda l’acquisizione della relazione depositata dal consulente (anzi detta richiesta dovrebbe essere già preventivamente contenuta nel ricorso ex art.445 bis cpc).

Nell’altra ipotesi, se a decadere dall’instaurazione o dalla riattivazione (se già pendente) del giudizio di merito fosse la parte ricorrente, alla stessa sarebbe precluso, per effetto della decadenza di cui al comma 6° dell’art.445 bis cpc, di agire in sede di giudizio cognitorio ed in ogni caso di porre in discussione l’esito negativo dell’espletato accertamento tecnico preventivo.

Infine, alla stessa conclusione si addiviene nell’ipotesi in cui entrambe le parti avessero dichiarato il proprio dissenso alle conclusioni del Ctu, per svariate ragioni, ma poi nessuna di esse avesse instaurato o riassunto il giudizio di merito nel termine di gg.30 prescritto dal ridetto comma 6°.

8. – LA REINTRODOTTA INAPPELLABILITÀ DELLE SENTENZE NEI GIUDIZI CONSEGUENTI ALL’ATP OBBLIGATORIO.

In sede di conversione del Dl. 98/11, la legge n.111/11 aveva soppresso il comma 7° dell’art.445 bis cpc ove prevedeva l’inappellabilità delle sentenze pronunciate nei giudizi conseguenti al procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio.

A sorpresa la Legge 12.11.2011 n.183 (alias legge sulla stabilità 2012), all’art.27 comma 1° lett. f) ha ripristinato l’inappellabilità con la previsione, al comma 2°, che detta modifica ha vigore a decorrere dai trenta giorni successivi al 1° gennaio 2012 (ossia la data di entrata in vigore della stessa legge a norma del suo art.36). Anche in tal caso è dato rilevare un difetto di coordinamento tra discipline dettate in tempi diversi, non essendosi avveduto il Legislatore che la vigenza del comma 7° in questione, differita al 1° febbraio 2012, genera una certa problematicità circa la sua applicabilità con riferimento ai giudizi introdotti da domande di merito depositate dopo il 1°

gennaio e sino al 31.1.2012 oppure con riferimento ai ricorsi per ATP obbligatorio depositati nello stesso arco temporale.

Relativamente alla prima ipotesi occorre rammentare quanto detto circa l’ammissibilità di un ricorso di merito non preceduto dall’istanza per ATP obbligatorio (pur con la conseguenza della sua improcedibilità). In tal caso si potrebbe sostenere che per i ricorsi di merito così depositati tra il 2 ed il 31.1.2012 (litispendenza), e quindi nel breve lasso temporale in cui il suddetto comma 7°

dell’art.445 bis cpc non era entrato in vigore, la regola dell’inappellabilità ivi sancita non può trovare applicazione in coerenza con il principio generale tempus regit actum. Infatti, anche se detti ricorsi siano stati dichiarati improcedibili per consentire l’espletamento e la conclusione dell’ATP obbligatorio, la ripresa del processo, in dipendenza di contestazioni alla Ctu, lascia immutata la pendenza e con essa la disciplina a quel momento vigente ed applicabile alla fattispecie. Ne consegue che le sentenze comunque emesse all’esito di giudizi introdotti dopo il 1° gennaio 2012 ed entro il 31 gennaio dello stesso anno, non dovrebbero soggiacere alla disposizione di cui al comma 7° (da ultimo reintrodotto) dell’art.445 bis cpc, e pertanto sono appellabili.

Ad analoga conclusione di dovrebbe addivenire nell’altra ipotesi sopra anticipata, in riferimento a ricorsi per ATP ex art.445 bis cpc ritualmente presentati senza essere stati preceduti da ricorsi di merito. È vero ed indiscusso che il deposito del ricorso per ATP obbligatorio, per sua natura, non determina litispendenza, la quale può conseguire soltanto al deposito del ricorso di merito, ma è pur vero che, a termini del comma 6°, appare sussistere un rapporto di contiguità necessaria o di

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progressività obbligata tra il procedimento di verifica obbligatoria ed l’introduzione del giudizio.

Conferma ne viene anche dalla previsione, in seno allo stesso articolo che disciplina un procedimento ante causam, della inappellabilità delle sentenze emesse nel susseguente giudizio.

L’evidenziata e singolare saldatura tra un procedimento ante causam obbligatorio ed un processo ordinario condizionato, induce a guardare all’una ed all’altra fase senza soluzione di continuità tra loro (e tale soluzione in effetti non sussiste, se le parti interessate vogliano far valere i motivi di contestazione alla Ctu nel giudizio di merito), con la conseguenza che, ai fini dell’applicazione della regola tempus regit actum sancita dall’art.11 disp. prel. c.c., dovrebbe valere il momento del deposito del ricorso per ATP obbligatorio, quale atto processuale che immette alla condizione di procedibilità del giudizio di merito. La conclusione non cambia sia che si voglia intendere la regola tempus regit actum come tempus regit effectum, ossia nel senso del rispetto dei diritti acquisiti in virtù della norma vigente al momento del compimento di atti del procedimento, sia che si voglia intenderla come tempus regit factum, nel senso del rispetto delle conseguenze del fatto compiuto19. V’è poi chi ha reinterpretato, sebbene dalla prospettiva del diritto pubblico, la regola in questione in termini tempus regit actionem, valorizzando l’idea che l’azione di innesco del procedimento, che va inteso in senso unitario, determina in quel momento la legge applicabile ad esso, anche se si risolva in attività sequenziali ricadenti in un sopravvenuta disciplina20.

A corroborare, d’altro canto, la teorizzata conclusione è d’uopo il richiamo al principio affermato dalla Consulta del legittimo affidamento delle parti nello svolgimento del processo21, da intendersi lato sensu come qualsiasi procedimento di carattere giurisdizionale, secondo le regole vigenti all’epoca del compimento dell’atto processuale di impulso.

In ossequio ai suddetti principi si potrebbe, dunque, affermare che, allorquando la parte ricorrente si è conformata alla norma compiendo l’atto da essa prescritto, tra gli effetti giuridici che ne conseguono sul piano processuale v’è quello della fissazione ed applicazione ultrattiva della disciplina applicabile alla fattispecie, che resterà insensibile ed immune alla sopravvenienza di una norma la quale, in difetto di espresso carattere retroattivo, non potrà incedere sui diritti sorti in virtù della disposizione anteriore. Pertanto, alla stregua dei principi sin qui argomentati, si può trarre la conclusione che in relazione ai ricorsi per ATP ex art.445 bis cpc depositati tra il 2 ed il 31.1.2012 ed ai giudizi (eventuali) di merito ad essi susseguenti, non sarebbe applicabile la disposizione di cui al comma 7° di inappellabilità delle sentenze che, stante la sua sopravvenuta vigenza e la mancata previsione di carattere retroattivo, non può incidere sul diritto acquisito della parte ricorrente all’impugnazione in appello ammessa dalla norma anteriore.

Al di fuori di questa anomala ipotesi intertemporale, per tutti i giudizi di merito conseguenti a ricorsi per ATP obbligatorio promossi dopo dal 1° febbraio 2012, per effetto del reintrodotto comma 7° dell’art.445 bis cpc, trova applicazione la regola della inappellabilità delle sentenze.

L’uso del plurale «sentenze» assume senso se riferito sia a sentenze di rito, sia quelle di merito, a seconda degli scenari verificabili, come quelli esemplificati nei precedenti paragrafi.

La disposizione, benché fortemente discussa, non lascia spazio a questioni di illegittimità costituzionale classicamente per contrasto con gli artt.3 e 24 Cost, in quanto, per un verso, nessuna

19 R. Caponi, Tempus regit processum, Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc., 2006, 454 ss.

20 G. D. Comporti, Tempus regit actum, Torino, 2001, 78 ss.

21 Corte Cost, 22 novembre 2000, n.525, in Giust. civ., 2001, I, 17, con nota di F. Auletta, La (ribadita) costituzionalizzazione del principio tempus regit actum anche in diritto processuale.

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norma della Carta costituzionale garantisce il doppio grado di merito nel processo civile22 e, per altro verso, rientra nel potere discrezionale del Legislatore escludere per talune categorie di cause il secondo grado di giudizio, come già da tempo è previsto in variegate discipline speciali. Anzi al riguardo si rivelano sempre attuali le considerazioni di certa dottrina sulla crisi del doppio grado di giudizio di merito e sull’istituto dell’appello23.

Preso atto, dunque, che la garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito non gode di copertura costituzionale generalizzata, la sentenza emessa all’esito dell’unico grado merito previsto dall’art.445 bis cpc sarà impugnabile esclusivamente con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., per violazione di legge, rispetto al quale deve però rammentarsi, alla luce delle modifica introdotta dall’art. 2 D.lgs. 2.2.2006 n.40, l’allineamento con il ricorso ordinario in virtù dell’art.360 ultimo comma cpc. ai fini della uniformazione dei motivi di impugnazione24. Ne deriva che l’attuale impugnazione straordinaria ex art.111 Cost. immette la Suprema Corte ad un sindacato della sentenza alla stregua di quello tipico del ricorso per cassazione ordinario25.

22 G Spangher, Doppio grado di giurisdizione (principio del), in Enc. Giur., vol. XII, Roma, 2001, 1 ss.

23 G. Balena, La rimessione della causa a primo giudice, Napoli, 1984, 2 ss., spec. 6.

24 M.R. San Giorgio, I provvedimenti impugnabili per cassazione, in La Cassazione civile, Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M. Acierno – P. Curzio – A. Giusti, Bari, 2011, 59 ss.

25 G. Vignera, La garanzia costituzionale del giusto processo, par.6, in www.diritto.it, 9.6.2011.

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