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SOTTO FORMA DI LUCE

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Academic year: 2021

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Candidata:Martina Stenta

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SOTTO FORMA DI LUCE

Progettazione e studio illuminotecnico dell’ampliamento del Museo dei Bozzetti di Pietrasanta.

Università di Pisa Ingegneria Edile-Architettura

a.a 2016/2017 Tesi di laurea magistrale

Candidata: Martina Stenta Relatori: Dott. F. Leccese Arch. E. Bascherini Tutor: A.L.P. Rosemann

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«L’Architettura è il gioco

sapiente, rigoroso e

magnifico dei volumi

sotto la luce.

I nostri occhi sono fatti

per vedere le forme

sot-to la luce; ombre e luci

rivelano le forme; i cubi,

i coni, le sfere, i cilindri

o le piramidi sono le

grandi forme

origina-rie che la luce rivela; la

loro immagine ci appare

netta, tangibile, senza

ambiguità. È per questo

che sono belle forme,

le più belle forme. Tutti

concordano su questo, il

bambino, il selvaggio, il

metafisico».

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INDICE

INTRODUZIONE

PIETRASANTA

1.1 L’urbanistica 1.2 La storia 1.3 Le cave 1.4 La scultura

1.5 Il Parco della Scultura Contemporanea

IL MUSEO DEI BOZZETTI

2.1La storia

2.2 Le sedi e i bozzetti

LUCE E ARCHITETTURA

3.1 La luce naturale

3.2 Evoluzione del rapporto luce-architettura 3.3 Luce e architettura oggi: i musei

ASPETTI NORMATIVI

4.1 Normativa per l’illuminazione di opere in interni 4.2 Indice di modellato

4.3 Illuminamento medio mantenuto

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IL PROGETTO ARCHITETTONICO

5.1 L’accentramento del polo 5.2 La forma

5.3 La facciata

5.4 Il rapporto con le preesistenze 5.5 La distribuzione degli spazi

IL PROGETTO ILLUMINOTECNICO

6.1Analisi preliminari

6.2 Sistema a tetto

6.3 Il calcolo dell’ indice di modellato 6.4 Calcolo della stanza S1

6.5 Calcolo della stanza S2

6.6 Calcolo illuminamento medio mantenuto

CONCLUSIONI

Note

Bibliografia Sitografia

APPENDICE

Definizione delle grandezze illuminotecniche

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106

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Non c’è bisogno di dare una definizione di ciò che è la luce naturale, ma abbia-mo bisogno di ricordare che questo tipo di luce ci permette di definire ciò che è intorno a noi, sia di giorno che di notte. Con la luce, o in assenza di luce, abbiamo una mutazione dello spazio in ogni sta-gione, ogni giorno dell’anno, ogni ora del giorno, praticamente in ogni momento. Etianne-Louis Boullé afferma che “l’arte

di toccare con effetti di luce appartiene alla architettura” e ha ragione perché, a

seconda di come questa arte viene uti-lizzata, può trasformare radicalmente il contesto spaziale, creando sensazioni gradevoli o sgradevoli, sublimi o miste-riose, allargare uno spazio o renderlo più piccolo, o semplicemente evidenziare aspetti che più o meno ci interessano. Per tutte queste ragioni luce e architet-tura sono stati concetti interdipendenti nel corso della storia, dai Romani ai gior-ni nostri.

La seguente tesi si prefissa quindi di stu-diare come un ambiente possa variare ed essere ottimizzato attraverso un sapien-te uso della luce naturale, investigando

le caratteristiche illuminotecniche spe-cifiche per una determinata destinazione d’uso.

Quale miglior caso studio esiste di un edificio che contiene sculture, dove ogni elemento della struttura può essere esso stesso arte?

Il tema preso in esame è perciò l’amplia-mento del Museo dei Bozzetti di Pietra-santa, da tempo voluto dalla cittadina per sostituire il decadente e ormai chiuso Museo dei Bozzetti 2.

Questo edificio sarà progettato su ampia scala, in relazione alle preesistenze e al contesto in cui si trova inserito, che ne definirà le caratteristiche.

Quindi verrà studiato un adeguato siste-ma di illuminazione naturale, con parti-colare riferimento alle sale espositive, valutate attraverso il parametro dell’in-dice di modellato cilindrico e semicilin-drico; per le altre aree verrà invece svolta una verifica con l’illuminamento medio mantenuto, valutato dal punto di vista della media e della distribuzione.

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We don’t need to define what daylight is, but we need to remember that this kind of light allows to describe what there is around us, both during the day and the night.

With light, or without light, we have a change of the space in every season, in every day, in every hour, almost in every moment.

Etianne-Louis Boullé says that ”The art

of touching with light effects belongs to the architecture” and he’s right

becau-se, depending on how this art is used, it can radically transform the space, crea-ting pleasant or unpleasant sensations, it can enlarge or reduce a space, or just underline characteristic we are more or less interested in.

According above light and architecture have been interdependent concepts over the centuries, since ancient Romans un-til now.

Therefore the following thesis sets it-self the goal to study how a location can change and be optimised by a pondered use of daylighting, examining light’s fea-tures for a specific demand.

What is the best example to study than a building that contains sculptures, where every element of the structure can be it-self art?

So the analyzed topic is the expansion of Museo of Bozzetti in Pietrasanta, since long time desired from the city to sub-stitute the closed and crumbling Museo of Bozzetti 2.

This building will be projected in a big scale, in connection with the pre-exi-stence and the context in which it will be integrated, that will help to define the characteristics.

Therefore it will be studied a daylighting system to apply, paying specific atten-tion to exhibiatten-tion rooms, that will be eva-luated by the modelling index, both cylin-drical and semicylincylin-drical.

The other spaces will instead be verified by testing the average illuminance, eva-luated from the point of view of the nu-merical average and of the distribution.

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Fig. 2 Il confine del Comune di Pietrsanta.

Fig. 3 Il centro storico di Pietrasanta. Messa in evidenzia del sito diel progetto nel contesto cittadino.

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1.1 L’URBANISTICA

Pietrasanta è un comune italiano di 23.766 abitanti appartenente alla pro-vincia di Lucca, in Toscana, e capoluogo della Versilia.

Le sue origini si ritrovano nella com-plessa situazione feudale medievale che portò alla formazione di questa e di al-tre terrenuove in Europa e in Italia centro settentrionale, dopo l’anno 1000 d.C. I principali centri iniziarono un frazio-namento amministrativo, giuridico ed economico che portò alla nascita di nuo-vi borghi: questi sorsero in un primo mo-mento in posizioni difendibili attorno a pievi rurali, monasteri e castelli, poi alla confluenza di due importanti strade o di due fiumi.

E’ assai probabile che Pietrasanta abbia avuto per prima quel particolare aspetto delle terrenove fiorentine che nei docu-menti dell’epoca vennero chiamate “ter-ra sive castrum “ cioè un nucleo costrui-to con un carattere intermedio tra quello indipendente di campagna (di grandezza limitata) e quello armato a carattere

difensivo.

Due sono le ipotesi progettuali sullo schema di fondazione che percorrendo vie interpretative diverse giungono ad analoghe conclusioni.

La prima è dell’architetto Paolo Maccari e si basa sulla concezione che nella mag-gior parte dei casi le nuove città si veniva-no a creare sul modello della città madre: anche il progetto urbano di Pietrasanta nacque quindi da uno schema modulare sulla base dell’unità di misura derivante dalla città madre Lucca, il “braccio luc-chese” che corrisponde a 0,5905 m. Il modulo elementare era costituito da un quadrato di sei braccia corrispondenti a 3.543 m. Ogni lotto era rappresentato da un rettangolo di 5 moduli consecutivi. I lotti erano disposti sui due lati di una strada, definita ruga, avente larghezza pari a 2 moduli corrispondenti a 7,086 m. L’insieme dei dodici moduli (5+2+5) an-dava a definire il borgo: i borghi erano as-semblati alla distanza di un modulo che costituiva il cosiddetto “chiasso”, il quale

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aveva la funzione di canale di scolo delle acque.

La città era quindi composta in origine da dodici borghi disposti su tre file chiamate rughe denominate Ruga Soprana, Ruga Mezzana e Ruga Sottana.

Tre borghi allineati misuravano 36 mo-duli, ma se a questi aggiungiamo i due moduli che rappresentano i chiassi otte-niamo il valore di 38 moduli, che rappre-senta il valore del quadrato di base. Il progetto si sviluppò con l’accostamen-to di quattro quadrati (mel’accostamen-todo comune per la progettazione urbana medievale) aventi il lato corrispondente a 38 modu-li. L’abitato era perimetrato da strade di due moduli di ampiezza in senso longi-tudinale e di quattro ai lati; l’area totale assunse così le dimensioni di 160 x 42 moduli.

La perfetta geometria dell’impianto di Pietrasanta concretizzò la concezione della città ideale del mondo medievale in quanto i dodici borghi nascevano dai numeri tre e quattro assunti a modello di perfezione dalla religione Cristiana; inol-tre la via maestra formava con la piazza

una grande croce e quattro croci mino-ri erano date dalle vie laterali all’incon-tro con le all’incon-troncatoie, proponendo così il simbolo della città cristiana per eccel-lenza: Gerusalemme.

La città madre fondatrice era rappresen-tata dall’unico edificio monumentale, la chiesa dedicata a San Martino patrono di Lucca.

Gli atti ufficiali riguardanti la fondazione della città non sono rintracciabili, quindi è sconosciuto l’autore dello schema ur-bano di impianto; tra le ipotesi vi è quella che il disegno sia opera di un costruttore di cattedralI vissuto tra il 1236 ed il 1292, che in quegli anni era a Lucca per il can-tiere del duomo.

La seconda ipotesi è dell’architetto Franco Buselli: secondo lui il progetto di Pietrasanta potrebbe essere ricondotto ad una applicazione della matematica dei Pitagorici, i quali scoprirono che il lato del decagono inscritto in una circonferenza rappresenta la sezione aurea del raggio. Il progettista quindi procedette col determinare le misure generali di Pietrasanta in un rapporto di

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1 a 4 tra larghezza e lunghezza, relativa-mente alla parte da assegnare all’abitato vero e proprio, separata dal fossato ter-rapieno da uno spazio libero di larghezza uguale a quello della strada, pari ad 11 braccia (circa 6,494 m), misura che cor-risponde al modulo dell’intera progetta-zione.

Il perimetro murario venne quindi defini-to in 21 x 86 moduli e, a seguidefini-to di vari calcoli, il Buselli determinò che le dimen-sioni di Pietrasanta stanno tra loro se-condo un rapporto derivato dalla deter-minazione della sezione aurea.

Le dimensioni trasversali delle varie parti sono rappresentate da una serie di nu-meri (1, 3, 1, 6, 1, 6, 1, 3, 1): il numero 1

rappresenta la strada e la zona di rispet-to (1 modulo pari a 6.494 m), il numero 3 rappresenta l’isolato minore (3 moduli pari a 19.4834 m) ed il numero 6 rapp-presenta l’isolato che si affaccia sulla ruga centrale (6 moduli pari a 38.9669 m). L’impianto progettuale è fortemente caratterizzato dalla simbologia numeri-ca medievale: il numero 7 simboleggiava l’uomo che era composto da un corpo, rappresentato dal numero 4 e riflesso nelle quattro parti che costituiscono il borgo, e da un’anima, rappresentata dal numero 3 ad immagine di Dio e rispec-chiata nelle tre strade principali, anima del commercio.

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1.2 LA STORIA

Le ricche testimonianze archeologiche attestano la lunga presenza dell’uomo nella terra dominata dall’antica Pie-tra Apuana; si avvicendarono infatti in questi luoghi Etruschi, Liguri-Apua-ni, Romani e, dopo il crollo dell’Impe-ro Romano d’Occidente, i Longobardi. Quest’ultimi occuparono il territorio luc-chese fino al fiume Versilia, e succes-sivamente si resero padroni dei “fundi” di origine romana e li raggrupparono in “massariciae” o “Masse”, al cui centro v’era la “Sala” (corrispondente alla latina “villa” o “fattoria”), che furono poi trasfor-mate in castelli fortificati. Sorsero così “Massa Grausi” (da cui Massarosa), “Mas-sa Cuccoli” (corrotta in “Mas“Mas-saciuccoli”), “Sala Versiliae” (la Rocca dell’odierna Pie-trasanta), “Sala Vetza” (Seravezza), ecc. La nascita della città di Pietrasanta vera e propria è dovuta alla situazione politico economica che si era delinea-ta tra il XII ed XIII secolo d.C., durante il quale i signori della Versilia, proprieta-ri di grandi latifondi, con il progressivo

indebolirsi dell’autorità degli imperatori e successivamente con la dominazione longobarda, divennero di fatto padroni assoluti di questo territorio, arrogandosi diritti di governo sulle popolazioni. La loro autolegittimazione veniva manifestata attraverso la costruzione di fortilizi, fra i quali quelli di Rotaio e Sala, che consen-tivano un maggiore controllo e difesa del territorio.

Questa situazione portò ad un conse-guente inasprirsi dei rapporti con Lucca la quale aveva la necessità di mantenere saldo il predominio sul porto di Motrone, unico sbocco al mare per la città attra-verso il quale svolgeva commerci con Ge-nova, a discapito di Pisa.

Nella lunga guerra condotta contro le consorterie versiliesi vennero distrutte le località le località di Corvaia e Vallecchia e i loro abitanti nel 1255 d.C, sotto il no-bile lombardo Guiscardo da Pietrasanta, divenuto Podestà di Lucca, furono obbli-gati ad abitare i nuovi borghi di Pietra-santa, sorta ai piedi del colle sul quale

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era stata innalzata la Rocca di Sala e di Camaiore. Il forzato trasferimento di queste popolazioni doveva contribuire a porre fine alla dominazione dei feudatari versiliesi in quelle terre.

Questo è fra i primi esempi di urbanistica programmata in Toscana: essa è carat-terizzata da un impianto a schema orto-gonale a sviluppo chiuso, con gli isolati in senso longitudinale, delimitati e conte-nuti entro un perimetro regolare, inizial-mente costituito da un alto steccato e da fossi profondi, e successivamente (1308 d.C.) da mura.

Dopo un periodo di nuove lotte, Castruc-cio Castracani degli Altelminelli divenuto signore di Lucca riconquistò Pietrasan-ta e fece costruire nelle vicinanze della Porta Ghibellina o Porta a Pisa una roc-ca, detta Rocchetta Arrighina in onore del figlio Arrigo (1327 d.C.). Per ulterio-re rinforzo alle mura fece costruiulterio-re due torri secondarie : Torre Brandeglio e Torre Buonriposo dell’Aquila rispettivamente presso la Porta Genovese o Porta a Mas-sa e la Porta a Lucca; inoltre vennero erette sotto il suo governo la cattedrale

Fig.7 Rocchetta Arrighina, 1327 d.C. Fonte: http://www.versiliahistorica.org

Fig.8 Porta a Lucca, distrutta nel 1889 d.C. Fonte: http://www.comune.pietrasanta.lu.it

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di S.Martino(1330), la chiesa di S.Agosti-no(1340) ed il palazzo Pretorio in corri-spondenza alla Porta Ghibellina.

Nel 1400 iniziò a Lucca la Signoria di Paolo Guinigi, e dal momento che la sua famiglia viveva in magnifici palazzi a Pie-trasanta, egli si preoccupò di risolvere varie problematiche: modificando la di-rezione dei torrenti risolse la questione degli scoli delle acque, rese la città più pulita ed accogliente e costruì il palaz-zo Guinigi nei pressi della Rocca di Sala. Sotto il governo di Guinigi, a seguito del-le forti e continue pressioni di Firenze, Pietrasanta insieme al porto di Motrone venne ceduta a Genova per dieci anni. Nel 1484 d.C. passò sotto Firenze e nel 1496 d.C, a seguito del passaggio in Ita-lia dell’ esercito francese di Carlo VIII, venne nuovamente venduta ai lucchesi. Dopo vent’anni di dominazione Lucche-se, come conseguenza di nuovi scontri, Pietrasanta tornò in possesso di Firenze mediante l’intervento di Papa Leone X, quindi nelle mani della famiglia dei Me-dici (1513 d.C.) e due anni dopo venne assegnata ufficialmente alla Repubblica

Fiorentina. Questo evento fu ricordato con la colonna del Marzocco, detta anche colonna della libertà: il Marzocco era una figura simbolica, costituita da un leone seduto con la zampa destra appoggiata su di uno scudo gigliato rappresentante il comune di Firenze, e veniva eretto in tut-te le città conquistatut-te dai fiorentini.

Fig.9 Duomo di S. Martino e chiesa di S. Agostino. Fonte: https://www.framor.com/pietrasanta/

Fig.10 La colonna del Marzocco. Fonte: http://www.versiliahistorica.org

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Nel 1516 d.C. vennero approvati gli sta-tuti civili di Pietrasanta divenuta Capita-nato. Sotto Firenze Pietrasanta conservò una certa superiorità rispetto ai piccoli comuni del territorio, fra i quali Seravez-za, Valdicastello, Azzano, Solaio, Cappel-la e Corvaia, e si cercò di sviluppare una maggiore attenzione alle regole urbani-stiche.

Cosimo I nel 1540 d.C si occupò dei pro-blemi relativi alla bonifica della pianura, alle escavazioni delle miniere e delle cave: l’estrazione del marmo venne incremen-tata e vennero aperte nuove strade per il trasporto, liberando così lo stato fioren-tino dalla dipendenza da Carrara. Duran-te i due secoli di governo Mediceo inoltre vi fu un progressivo aumento dell’attività culturale, testimoniata dalla presenza di numerosi artisti nella città, tra i quali Mi-chelangelo, Banti, Vasari, Giambologna e Buontalenti.

Divenuta parte del Granducato di Tosca-na sotto FerdiTosca-nando I, Pietrasanta subì la crisi economica durante il XVII secolo alla quale si aggiunse l’epidemia di malaria, provocata dalla natura paludosa del

territorio esterno alle mura: tutto ciò re-legò, per un periodo, la città ai margini della vita economica e politica.

Nonostante tutto Ferdinando I, e alla sua morte la moglie Maria Cristina di Lorena, si impegnarono per un lenta ripresa della città: vennero chiuse le miniere non più produttive e inquinanti, vennero poten-ziate le strutture alberghiere e restaura-te varie opere di inrestaura-teresse pubblico, tra i quali la Rocchetta Arrighina.

Fig.11 Capitanato di Pietrasanta. Fonte: http://www.rossellipietrasanta.com

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Nel 1738 d.C, ormai estintasi la dinastia dei Medici e conclusasi la guerra tra Au-stria e Spagna, divenne Granduca di To-scana Francesco I di Lorena, dando inizio alla dinastia degli Asburgo di Lorena de-stinata a regnare fino al 1859 d.C.

Nel 1772 Pietro Leopoldo riformò l’ordi-namento dello stato in modo che il terri-torio della Versilia granducale prendesse il nome di Vicariato Regio di Pietrasanta; questo comprendeva tre comunità: Pie-trasanta, Seravezza, e Stazzema.

Dopo l’ascesa al potere di Napoleone la città, come tutto il Granducato di Tosca-na, venne occupato dai francesi; tornò ad essere un Granducato sotto Ferdinando III di Lorena, in seguito alla Restaurazio-ne conseguente al congresso di Vienna del 1814. In questi anni venne redatto il catasto Leopoldino Ferdinandeo.

Nel 1841 Pietrasanta fu dichiarata città nobile dal granduca Leopoldo II e venne istituita la scuola d’arte in onore dello scultore Santini; inoltre nello stesso anno iniziarono i lavori per la sistemazione del tratto ferroviario Pisa –Lucca e il proget-to per la linea Livorno-Forte dei Marmi.

Il primo treno arrivò nella stazione di Pietrasanta nel 1861. La lavorazione del marmo beneficiò moltissimo della costruzione della ferrovia e i laboratori, per risparmiare sul trasporto dei pesanti blocchi di pietra, vennero costruiti a ri-dosso delle mura vicino a Porta Pisana. Agli inizi del 1900 lo sviluppo economico ed urbano della fascia litoranea fu così importante che nel 1922 venne promul-gata una legge sulla tutela del paesaggio per controllare l’enorme crescita edilizia sulla costa. Tra le due guerre l’espan-sione urbana di Pietrasanta si concen-trò sull’area esterna di porta massese e continuò verso ponente nel dopoguerra.

Fig.12 Il catasto Leopoldino Ferdinandeo. Fonte:

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25 37 d .C . M un ic ip io 61 d .C . St az io ne fe rr ov ia ria X c d. C . Pa la zz o M or on i 80 d .C . Ca m pa ni le d i S. A go st in o 30 d .C . To rr e de ll’ Or ol og io -X VI c d. C. Ca m pa ni le de l D uo m o 08 d .C . Pa la zz o Gu in ig i Co nv en to d i S. A go st in o 30 d .C . Ch ie sa d i S. A go st in o D uo m o di S . M ar tin o 30 d .C . 24 d .C . Ro cc he tt a Ar rig hi na -V II c d. C. 08 d .C . M ur a fo rt ifi ca te 16 -29 d .C . 87 -X VI d. C. N uo va R oc ca di S al a Sa la V er si lia e Edifici precedenti al 1825 Edifici posteriori al 1825 Porta a Lucca Porta a Pisa Porta a Massa

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1.3 LE CAVE APUANE

L’estrazione del marmo ha da sempre avuto un’importanza fondamentale per l’architettura e la scultura, fornendo il materiale principe per la concretizzazio-ne della vena artistica dell’uomo.

Le Alpi Apuane hanno costituito (e co-stituiscono tutt’oggi) il principale baci-no di fornitura di questo materiale e di conseguenza nel loro intorno sono nate comunità particolarmente attrezzate e impegnate nella sua lavorazione.

Le notizie certe sulla coltivazione dei giacimenti del marmo apuano risalgono all’inizio del I secolo a.C. quando la re-gione era già da tempo sottomessa alla dominazione romana: Torano, Miseglia e Colonnata, pittoreschi paesi sulle pendici dei monti, costituiscono l’area più antica. Antiche testimonianze relative all’utiliz-zo del marmo lunense per costruzioni pubbliche e private di Roma indica che a quell’epoca l’estrazione del marmo do-veva già avere un carattere industriale. Purtroppo sono poche le testimonianze scritte giunte fino a noi, ma ci sono dei

resti di antiche lavorazioni ancora visibili nei bacini marmiferi del carrarese che pur non appartenendo sempre a quell’ epo-ca, ne riproducono fedelmente la tecnica. Tutte le cave romane si trovano, di solito, laddove i bacini marmiferi risultano pro-fondamente incisi dall’ azione erosiva dei corsi d’acqua che hanno messo in vista il marmo e le sue caratteristiche; i roma-ni, infatti, sfruttavano al massimo queste fratture naturali, chiamate dai cavatori apuani “peli”, presenti nella massa mar-morea, in quanto suddividono la massa in porzioni prismatiche facilmente rico-noscibili.

Le “tagliate” non sono i soli reperti rin-venuti: oltre a molti utensili utilizzati per lo scavo, nelle zone di coltivazione sono state trovate anche iscrizioni, epigrafi, manufatti che testimoniano come l’atti-vità estrattiva fosse strutturata secondo una organizzazione ben definita, che, per il tipo di operazioni da svolgere e per la suddivisione delle mansioni dei cavatori, mostra forti analogie con le tecniche di

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estrazione in uso nelle cave Apuane fino a qualche decennio fa.

Gli utensili a disposizione dei cavatori erano molto semplici: cunei, punteruoli, mazzuoli, mazze e scalpelli; in assenza di macchine, il taglio doveva essere ef-fettuato a mano tramite l’utilizzo di maz-zuolo e scalpello, cercando di sfruttare al massimo sia le fratture naturali sia i pia-ni di minor resistenza meccapia-nica della massa rocciosa. Altro strumento spesso adoperato per abbattere rocce fessurate o disgregare i fronti di abbattimento era la leva, o palanchino, avente una estre-mità a punta e l’altra a forma di unghia: questo strumento è ancora oggi in uso nelle cave di marmo, specie per la ripuli-tura della “tecchia”, cioè della parete. Ai Romani erano poi noti altri attrezzi che agevolano in vari modi lo stacco dei mar-mi dal monte ed il suo spostamento nella cava: carrucole, paranchi, taglie e verri-celli. Successivamente riquadratura o anche semilavorazioni riducevano il peso del blocco, in modo da facilitarne il tra-sporto al poggio e il successivo carica-mento sui carri. Una rilevante differenza

concettuale rispetto alle tecniche estrat-tive più recenti era rappresentata dal fatto che il marmo grezzo veniva trasfor-mato in prodotto semifinito direttamen-te in cava, il che da una pardirettamen-te evitava il trasporto a valle di inutili pesi aggiuntivi, ma dall’altra obbligava ad una particolare attenzione nel calare a valle i manufatti, assai più fragili dei blocchi grezzi.

Quest’ultima operazione avveniva col metodo della lizzatura, in uso nei bacini apuani fino a una quarantina di anni fa, la quale consiste in una grossa slitta assi-curata con un cavo metallico che, scivo-lando su tronchi lubrificati con il grasso, permette il trasporto a valle dei blocchi.

Fig.14 Il metodo della lizzatura.

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Secondo una stima si calcola che in una cava romana di media grandezza che la-vorava a pieno ritmo fossero impiegate circa un centinaio di persone, tra operai e corpo direttivo.

Più tardi, decadendo l’Impero Romano politicamente ed economicamente, la produzione dovette subire un rallenta-mento a causa del ristagno nell’urbani-stica e nell’edilizia; le nuove costruzioni diventavano sempre più rare e spesso erano costituite da recuperi tratti da al-tre preesistenti.

Dopo l’epoca romana per moltissimo tempo non si hanno più notizie sulla col-tivazione dei marmi apuani e almeno fino all’XI secolo è presumibile che l’escava-zione, se non completamente interrotta, abbia avuto scarsa rilevanza.

E’ solo verso la fine del 1200 che si può datare la rinascita delle attività estrat-tive: una notevole ripresa si ha nel Ri-nascimento, durante il Neoclassicismo, e nell’età comunale, quando rinasce il gusto per la costruzione elegante e son-tuosa; il marmo escavato dalle Apuane, denominato ormai marmo di Carrara,

soddisfa il gusto del bello di tutti i signo-ri d’Italia e dei psigno-rincipi Europei.

Le tecniche di escavazione non diffe-rivano molto da quelle utilizzate dai Romani: l’attività era ancora esclusi-vamente manuale e lo rimase almeno fino al ‘700, quando iniziarono le prime escavazioni per mezzo dell’esplosivo ed in particolare della “polvere nera”, prati-ca indiprati-cata con il nome di “varata”. L’uso dell’esplosivo si affermò rapidamente per la rapidità delle operazioni, ma allo stesso tempo aveva il difetto di distrug-gere gran parte del marmo escavabile e produrre molto materiale di scarto.

Fig.15 Varata ottenuta con il metodo esplosivo. Fonte: http://www.marmotest.com

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Lungo queste colate di scarti si snodano ora le ripide “vie di arroccamento” grazie alle quali si possono raggiungere i bacini di estrazione.

Poco a poco nacquero le prime attività industriali di lavorazione del marmo con laboratori per il taglio delle lastre e la loro lucidatura, ma si dovette aspettare fino alla fine del 1800 affinché si propones-sero nuove tecniche in sostituzione di quella distruttiva e antieconomica della varata.

La nuova tecnica, il filo elicoidale, era ba-sata sul movimento di un lungo filo di ac-ciaio chiuso ad anello, costituito da tre fili elementari attorcigliati ad elica, tenuto a contatto con la pietra da tagliare. L’uso di questo filo ricevette ben presto numerosi perfezionamenti, fino a quando, nel 1889 all’Esposizione Internazionale di Parigi, venne presentato un impianto che con-sentiva il taglio del marmo con filo elicoi-dale: questo, che aveva il grande pregio di effettuare tagli di grandi dimensioni direttamente al monte, costituì una vera e propria rivoluzione nel campo

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La tecnica del filo elicoidale per l’esca-vazione del marmo (tutt’oggi utilizzata con la sostituzione del filo, ora diaman-tato) soppiantò quasi completamente gli esplosivi e determinò un altro visibi-le cambiamento paesaggistico: visibi-le cave assunsero per la prima volta l’aspetto a bancate che ora presentano abitual-mente e la montagna non venne più di-strutta lasciando cumuli di macerie, ma letteralmente tagliata, incisa con preci-sione creando paesaggi surreali fatti di immense gradinate.

Le bancate venivano ”affettate” in grossi blocchi di forma già abbastanza regola-re; questi, sul piazzale di cava venivano poi riquadrati in blocchi di misure e di-mensioni commerciabili e portati a valle con autocarri sulle vie di arroccamento. Il trasporto a valle, prima dell’utilizzo de-gli autocarri, veniva effettuato in varie maniere: prima con la lizzatura, già spie-gata precedentemente, e poi attraverso la “ferrovia marmifera”, che collegava i principali centri di stoccaggio dei blocchi dei tre bacini marmiferi con le segherie in pianura, il porto di Marina di Carrara e la

rete ferroviaria nazionale. Nel 1907 fu costruita addirittura una teleferica.

Una volta arrivati a valle i blocchi di mar-mo venivano trasportati a destinazione su carri trainati da buoi.

La ferrovia fu utilizzata a lungo in sosti-tuzione della rete stradale, ma la concor-renza con i moderni mezzi di trasporto la rese antieconomica ed il trasporto del marmo su strada ferrata cessò definiti-vamente nel 1964.

Fig.17 La ferrovia marmifera a Ponti di Vara. Fonte: http://www.ferroviamarmifera.com

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Fig.18 Una cava di marmo di Carrara. Fonte: http://massacarraraattrazioni.blogspot.it

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1.4 LA SCULTURA

Pietrasanta è celebre ormai da secoli per la lavorazione del marmo e del bronzo, ed oggi è anche centro artistico di im-portanza mondiale, città dell’arte e degli artisti, chiamata “la piccola Atene della Versilia”.

Nel passato di questa città d’arte ci sono firme illustri quali Michelangelo, che vi soggiornò per circa tre anni, Niccolò Pe-ricoli detto il Tribolo, il Giambologna, Vin-cenzo Danti, l’Ammannati ed il Vasari. Nell’area della Versilia la lavorazione arti-stica del marmo ha quindi origini antiche, ma ha visto l’alternanza nei secoli di pe-riodi di grande sviluppo a pepe-riodi di totale decadenza. Dopo l’impulso del Rinasci-mento e di Papa Leone X all’inizio del XVI sec, la ripresa nell’era moderna avvenne dopo la Restaurazione, soprattutto per l’iniziativa di Marco Borrini di Seravezza, al quale si deve la riapertura delle cave del Monte Altissimo nel 1820 e, l’anno dopo, la fondazione assieme al francese Henraux della società che da questi pre-se il nome.

E’ proprio nel corso dell’Ottocento che si è particolarmente sviluppata l’attività dei laboratori artigianali legata allo sfrutta-mento dei giacimenti marmiferi ed al 1841 risale, per volere del Granducato, l’istituzione a Pietrasanta di una scuo-la d’arte, dal 1961 ribattezzata Istituto d’Arte Statale “Stagio Stagi”, per l’inse-gnamento della lavorazione artistica del marmo.

Fig.19 Istituto Statale “Stagio Stagi”. Fonte: https://www.iisdonlazzeristagi.gov.it

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I grandi laboratori di allora possono es-sere considerati vere e proprie industrie: sia per l’impiego anche di 200 maestran-ze, ma soprattutto per il fatto che il la-voro era organizzato come una specie di catena di montaggio artistica, in cui per la realizzazione di ogni singolo pez-zo occorrevano diversi specialisti che si occupavano dell’esecuzione di opere di scultura, architettura e ornato; ogni ar-tigiano aveva il proprio compito e la scul-tura passava attraverso molte mani. Vi era lo sbozzatore che riduceva gros-solanamente il blocco dandogli i contorni approssimativi della statua da realizzare, lo smodellatore che lo portava alle linee essenziali definendo le espressioni del volto, gli arti, tutto ciò insomma che fa-ceva parte del corpo nudo, il pannista che si occupava dei vestimenti del soggetto, l’accessorista degli oggetti, l’ornatista degli elementi decorativi, lo scultore che definiva nei minimi particolari i caratteri del volto, dei capelli, delle mani e dei pie-di, mentre il lustratore infine provvedeva a lucidare l’intera scultura.

Tali specializzazioni esistono ancora oggi

tra i vecchi artigiani, anche se a partire dagli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, si è teso sempre di più a formare artigiani completi ed attualmente sono rimaste due divisioni essenziali: scultore e smo-dellatore.

Non passarono molti anni dunque e il buon nome degli artigiani versiliesi tra-valicò i confini nazionali e arrivò fino negli Stati Uniti.

La prima guerra mondiale costrinse ad una pausa delle attività che, al termine del conflitto, ripresero con maggior vigo-re: arte funeraria, monumenti ai caduti, restauri e ricostruzioni.

Il flusso venne rallentato dalla grave crisi economica del 1929. Il calo di commesse americane venne tuttavia parzialmente compensato dalle crescenti richieste del mercato interno, soprattutto da parte del regime.

Dopo la seconda guerra mondiale ci fu un ridimensionamento delle aziende, detta-to dai cambiamenti culturali e di merca-to dovuti alla decadenza della statuaria classica e al rifiuto del marmo caricato di significati culturali pregressi; infine il

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Concilio Vaticano II, nel 1962, provocò un calo delle commissioni di opere religiose stabilendo una maggiore sobrietà degli arredi di culto.

Da questa crisi presero le mosse impor-tanti iniziative per il rilancio del marmo a partire dall’arte, alla scultura, all’archi-tettura, al design. In questo ambito risul-tò essenziale il ruolo svolto dall’Henraux e dal suo direttore e mecenate Erminio Cidonio, grazie al cui intervento nel giro di breve tempo giunsero in Versilia da tutto il mondo i maggiori artisti contem-poranei. A partire dal 1962 infatti Cido-nio, con la collaborazione di Giuseppe Marchiori e Bruno Alfieri, s’impegnò per fondare la rivista d’arte e d’architettura “Marmo” e per dar vita, presso l’azienda versiliese, ad un laboratorio di scultura nel quale potessero convergere i mag-giori rappresentanti della ricerca plastica contemporanea.

Giunsero nomi prestigiosi come Henry Moore, Jean Arp, Fernando Botero, Emile Gilloli, François Stahly, Alicia Penalba, Giò Pomodoro e Pietro Cascella, che scelsero di realizzare le loro opere in Versilia.

La rivista Marmo distribuita a livello in-ternazionale, si prefisse di divenire uno strumento di comunicazione tra artisti, architetti e critici d’arte, impegnati a pro-muovere una rielaborazione teorica per il rilancio del marmo non solo in campo artistico, ma anche nel settore architet-tonico e del design.

Il secondo Novecento presentò quindi una situazione in pieno sviluppo: la for-mazione di numerosi esperti artigiani e maestri scultori, il potenziamento del-le strutture produttive e la diffusione di studi e laboratori artistici a Pietrasanta, inaugurando una tradizione che ancora oggi perdura.

I laboratori nacquero in mezzo alla cit-tà, per quanto piccoli o grandi potesse-ro essere, entrapotesse-rono nel tessuto urbano cittadino, dentro il centro abitato, tanto che spesso la casa del titolare si trovava all’interno della struttura stessa.

Oggi ancora molti permangono all’inter-no della città, basti pensare ai laboratori di Sem Ghelardini, di Franco Cervietti, di Giuseppe Giannoni o alla Bottega Versi-liese.

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Accanto ai laboratori artigianali del mar-mo, un ruolo importante fu- ed è- rico-perto dalle fonderie artistiche (la più an-tica risale al 1885), sorte come diretta conseguenza dell’espandersi della lavo-razione del marmo; si dedicano soprat-tutto alla realizzazione di opere d’arte contemporanea e hanno dei laboratori che si dedicano alla realizzazione di mo-saici e opere in terracotta e ceramica. La grande maestria e sensibilità degli ar-tigiani locali, il loro eccezionale talento, hanno fatto sì che la Versilia non si limi-tasse all’estrazione ed all’esportazione di marmo grezzo, ma divenisse luogo di produzione di opere di scultura com-piute. E pur modificando nel tempo, con l’acquisizione delle innovazioni tecnolo-giche, le modalità di esecuzione del la-voro, la sostanza dell’intervento manuale è rimasta inalterata, costituendo ancora oggi elemento indispensabile e pregnan-te per una perfetta e completa realizza-zione delle opere.

Tutti gli scultori che sono venuti in Versilia vedono nell’artigiano l’alter ego dell’arti-sta. Insieme contribuiscono a creare quel

clima unico che ha fatto di Pietrasanta un luogo di pellegrinaggio artistico con-sacrato dalla permanenza di personaggi più che famosi.

“I laboratori artistici del marmo sono i luoghi della creazione dove mani esperte trasformano le pietre in oggetto di culto, religioso, estetico”.2

Fig.20 Interno del laboratorio di M. Giannoni. Fonte: http://www.museodeibozzetti.it

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1.4 IL PARCO DELLA SCULTURA CONTEMPORANEA

Come si è visto finora, il processo

pro-duttivo e artistico della lavorazione del marmo perdura da secoli, senza mai fer-marsi del tutto.

A Pietrasanta gli artisti non creano solo le opere destinate alle gallerie e ai musei più prestigiosi, ma numerosi sono coloro che hanno donato una loro opera dopo una mostra allestita nel centro storico o dopo aver ricevuto il “Premio Internazio-nale Pietrasanta e la Versilia nel mondo”, contribuendo così a lasciare concrete testimonianze del loro attaccamento alla città.

L’artista colombiano Fernando Botero, per esempio, ha regalato al comune di Pietrasanta “il Guerriero”, una delle sue sculture naturalmente realizzata in una fonderia locale, che sta a guardia all’in-gresso del borgo.

L’omaggio è stato poi replicato dallo scul-tore polacco Igor Mitoraj, che ha regalato alla sua città adottiva il suo “Centauro”. Recentemente è stata installata “Memo-ria di Pietrasanta” di Pietro Cascella,

un’opera che, con le figure dei due buoi che trasportano un blocco, rappresenta simbolicamente l’antica tradizione della lavorazione del marmo.

Questo ampio percorso museale all’a-perto si snoda per strade, piazze, giar-dini non solo del centro, ma anche delle frazioni. La collocazione di queste opere qualifica altamente il paesaggio urbano, unendosi ad appositi interventi per am-bientare opportunamente le sculture, e gli conferisce una connotazione tipica che evidenzia il connubio tra Pietrasanta e l’arte.

Mettendo le sculture in piazza non solo si restituisce alle opere il senso di prestan-za monumentale, ma si cerca di sanare una frattura fra chi guarda e l’opera ar-tistica: il rapporto con le sculture non si limita alla sola sporadica visita al museo, ma diventa parte della quotidianità stes-sa, creando con il paesaggio una prose-cuzione di esperienza visiva, narrativa, figurativa, di fantasia e di realtà.

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Fig.21 Il Guerriero di Botero. Fonte: http://www.photo4u.it

Fig.22 Il Centauro di Mitoraj. Fonte: http://www.agenziaimpress.it

Fig.23 Memoria di Pietrasanta di Cascella. Fonte: https://www.musapietrasanta.it

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2.1 LA STORIA DEL MUSEO

Il Museo dei Bozzetti è un’ istituzione unica nel suo genere ed è il riflesso di-retto dell’attività che caratterizza il ter-ritorio apuo-versiliese ed in particolare Pietrasanta: la scultura.

Dal momento che gli artisti che lavorano in questi laboratori sono di tutte le na-zionalità, le opere realizzate si collocano in ogni parte del mondo e, fino a qualche anno fa, poteva succedere che nessuna traccia restasse di loro.

L’idea di creare un museo dei bozzetti è nata proprio per evitare questo rischio e documentare con una collezione perma-nente la produzione di opere concepite a Pietrasanta e spesso destinate ad altri luoghi. Agli inizi degli anni ’80, su iniziati-va della critica d’arte danese, giornalista e fotografa Jette Muhlendorph, prese vita l’idea di costituire una raccolta di gessi per testimoniare l’attività dei laboratori artistici in Versilia, illustrare la creazione e realizzazione di un’opera in marmo e in bronzo partendo da un bozzetto e valo-rizzare generazioni di artisti di tutto il

mondo e di artigiani locali. La felice in-tuizione fu infatti quella di pensare che i bozzetti potessero essere diretta testi-monianza della presenza della scultura a Pietrasanta, nel duplice aspetto di opera d’arte fin dall’idea primordiale dell’au-tore e di elemento pregnante del lavo-ro e dell’economia della zona in quanto elemento di intersezione tra l’attività dell’artista e quella dell’artigianato.

Il primo nucleo si formò quando, in segui-to all’organizzazione di rassegne sull’at-tività degli artisti nel territorio in rappor-to ai laborarappor-tori del marmo, alcuni sculrappor-tori e alcuni artigiani donarono alla città di Pietrasanta le opere esposte (bozzetti e modelli) di loro proprietà. Contempora-neamente nacque il “Documentart”, un apposito archivio di fotografie e docu-menti sugli artisti attivi nella zona. Il Museo dei Bozzetti fu aperto ufficial-mente nel 1984, e nel 2007 fu intitolato a Pierluigi Gherardi, artefice della nascita e della crescita del museo e degli Istituti Culturali del Comune di Pietrasanta.

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2.2 LE SEDI E I BOZZETTI

Attualmente il Museo dei Bozzetti è ospi-tato in una parte del cinquecentesco chiostro del complesso monumentale di S. Agostino, costituito dall’ ex convento e dalla ex chiesa, chiusa al culto dal 1970 e riaperta nel 1987 come spazio espositivo per mostre d’arte.

La Chiesa venne edificata nel 1330 d.C. per volontà dei frati agostiniani i quali, nel 1387, fecero costruire sul lato sini-stro dell’edificio il loro Convento passato poi nel 1818 ai padri Scolopi. Durante il XVI secolo d.C. fu completato con il chio-stro, mentre il campanile venne alzato nel 1780.

Fig.24 Interno del convento di S.Agostino. Fonte: www.dovealucca.it

Il complesso dal 1866 è di proprietà co-munale e nel 1877 fu sistemata nelle sale del convento la Biblioteca comunale, a cui recentemente sono stati annessi anche il Centro Culturale Luigi Russo e il Museo dei Bozzetti.

Il museo accoglie una collezione di cir-ca 700 bozzetti e modelli realizzati dagli inizi del ‘900 ai giorni nostri da più di 300 artisti italiani e stranieri, dando così una visione ampia e complessiva della scul-tura contemporanea.

I bozzetti (in scala ridotta) e i modelli (di dimensioni reali) esposti, rappresenta-no la prima elaborazione, l’idea originale delle opere d’arte create in Versilia pri-ma della traduzione in opera compiuta, spesso in pietra o in bronzo, distribuiti in musei, collezioni e parchi di tutto il mon-do.

Realizzati nei materiali più disparati (gesso, legno, terracotta, carta, etc.), le loro dimensioni variano da pochi centi-metri a oltre sette centi-metri e diverse ton-nellate di peso.

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Su alcuni di questi bozzetti e modelli sono ben visibili le indicazioni che gli ar-tisti lasciavano agli artigiani per la realiz-zazione dell’opera definitiva: una serie di chiodi ingessati che servivano per pren-dere le misure con il compasso e fare poi gli ingrandimenti, nonché dei numeri in-dicanti le pietre da usare per la scultura. Per citare solo alcuni degli artisti italiani e stranieri più famosi presenti nel museo, nomi come Henry George Adam (Fran-ce), Ivan Avoscan (France) Adam Bloc, Fernando Botero (Columbia), Pietro Ca-scella, César (France), Pietro Consagra, Novello Finotti, J. M. Folon (France), Gon-zalo Fonseca (Uruguay), Rosalda Gilar-di, Emilio Gilioli, Gigi Guadagnucci, Jean Robert Ipousteguy (France), Igor Mitoraj (Poland), Rosario Murabito, Junkyu Muto (Japan), Costantino Nivola, Isamu Nogu-chi (Japan), Alicia Penalba (Argentina), Giò Pomodoro, Carlo Sergio Signori, Ivan Theimer (Moravia), Leone Tommasi, Mar-cello Tommasi, Kan Yasuda (Japan), ba-stano da soli ad illustrare l’interesse ed il valore della raccolta museale.

Il Museo cura anche l’organizzazione di

esibizioni itineranti della sua collezione artistica in Italia e all’estero.

Fig.25-26 Viste del Museo dei Bozzetti.

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Rientra in questo la collaborazione in atto con la città di Utsunomiya per l’alle-stimento di un Museo di arte Contempo-ranea nel quartiere di Ohya con trentasei sculture provenienti proprio dal Museo dei Bozzetti.

Essendo per sua stessa natura un museo in progressiva espansione e per dotare l’istituzione di nuove sezioni in grado di guidare il visitatore a scoprire la nascita di un’opera, nel 2000 è stata aperta una sede aggiuntiva e complementare, deno-minata Museo dei Bozzetti 2, ospitata in un’ampia costruzione della prima metà del ‘900, un tempo magazzini di una Co-operativa di Consumo.

Nella nuova sede erano esposti, oltre ad una parte della collezione dei bozzetti degli artisti contemporanei, una sezione dedicata al primo Novecento, strumenti di lavoro, mostre fotografiche e docu-mentarie sulla lavorazione artistica del marmo e del bronzo.

Purtroppo intorno al 2013 questa nuova sede del museo è stata chiusa per inagi-bilità e con gli anni gli agenti atmosferici ne hanno fortemente danneggiato anche

la copertura, mettendo a rischio i bozzet-ti che erano sempre collacabozzet-ti nell’edificio. Le perizie hanno stabilito l’inutilità di spendere grandi cifre per la ristruttura-zione di questo vecchio immobile e quin-di tuttora il Comune è alla ricerca quin-di una nuova sede per le opere.

Recentemente è stata aperta una se-zione denominata “Bozzetti in vetrina” a Palazzo Panichi (XV sec d.C.) situato in una traversa di piazza del Duomo.

Purtroppo essendo uno spazio limitato vi si possono alternare solo una cinquan-tina di bozzetti, esposti a seconda di te-matiche variabili. Inoltre questo edificio non è dotato di servizi per i portatori di handicap, che rimangono quindi esclusi dalla visita.

Da questo fatto è nata l’idea della se-guente tesi, la quale si presenta come la proposta di una soluzione alla chiusura del museo, ritenuto fondamentale per la piccola città di Pietrasanta, in quanto contentente gran parte dei bozzetti della collezione comunale che risultano al mo-mento non esposti da nessuna parte.

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3.1 LA LUCE NATURALE

La progettazione della luce è ciò che con-sente di migliorare la qualità percettiva degli spazi in relazione alle caratteristi-che stesse dell’ambiente e alle predispo-sizioni e ai desideri di chi ne usufruisce. La luce quindi è un elemento composi-tivo dello spazio costruito e degli ambiti esterni, ma è anche un elemento fon-damentale per rendere gli ambienti più piacevoli in termini di comfort e qualità abitativa.

Attualmente quando si parla di illumina-zione di un edificio si tende a far riferi-mento a quella artificiale, che ci permette di scegliere, grazie ad un’ampia varietà di prodotti, la luce migliore per un determi-nato ambiente.

Ma c’è un altro tipo di illuminazione che non dovrebbe mai essere trascurata, di-sponibile per gran parte della giornata, ovvero quella naturale; vediamo di segui-to le sue caratteristiche e come è stata usata dall’antichità ad oggi.

L’energia che arriva dal sole sulla Terra è disponibile sotto forma di energia lu-minosa sia diretta sia riflessa dalla volta celeste: queste insieme costituiscono la luce naturale.

In particolare il sole “produce” circa 6 miliardi di lumen per ogni metro quadro della sua superficie: di questi circa 134 kilolux si diffondono nell’atmosfera ter-restre che ne assorbe circa il 20% e ne riflette nuovamente nello spazio circa il 25%. Una parte del rimanente 55% rag-giunge la Terra come radiazione lumi-nosa diretta (condizioni meteorologiche permettendo), mentre il resto è diffuso nell’atmosfera: entrambe queste com-ponenti costituiscono la luce diurna. Oltre alla luce visibile, la radiazione solare contiene, tra gli altri, le radiazione ultra-violette e infrarosse.

La sua composizione spettrale, l’intensi-tà e la distribuzione spaziale all’interno degli spazi dipende dalle condizioni cli-matiche, dall’ora del giorno, dalla stagio-ne, dalla latitudine e dall’orientamento

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della finestra. Inoltre la temperatura di colore abbraccia un ampio range: da 2500 K (sole al tramonto) a 20000 K (clear sky in un’area continentale) o an-che di più in condizioni particolari. L’abile uso dell’ illuminazione natura-le negli ambienti costruiti è considerato elemento qualificante della progetta-zione architettonica in quanto ci sono molti benefici associati con il suo incor-pormento negli edifici. La sua variabilità aggiunge interesse agli interni, lascian-do un contatto con il monlascian-do esterno, la sua distribuzione e la sua eccellente resa cromatica migliorano l’aspetto de-gli spazi e l’entrata controllata della luce solare provvede al riscaldamento.

Inoltre, dal momento che l’apparato vi-sivo umano si è sviluppato in funzione dell’utilizzo della luce naturale, è intuiti-vo che quest’ultima risulti per esso qua-litativamente migliore di qualsiasi luce artificiale. Basti pensare che la sensibi-lità del nostro occhio è massima in cor-rispondenza della parte centrale dello spettro della luce solare a mezzogiorno, che corrisponde al giallo citrino, e questo

colore risulta essere anche il più riposan-te.

Le sorgenti di luce artificiali riescono solo ad approssimare con vari artifizi lo spet-tro della luce solare.

In aggiunta agli aspetti qualitativi, la luce naturale permette di ridurre il consumo di energia dovuto all’uso della luce artifi-ciale che è responsabile in larga parte dei consumi energetici dell’ edificio.

Fig.29 Distribuzione spettrale dell’energia solare a livello del mare.

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3.2 EVOLUZIONE DEL RAPPORTO LUCE-ARCHITETTURA

Nell’arte plastica la funzionalità della luce

è un elemento imprescindibile, capace di conferire volume e densità a spazi che non sono soltanto oggetto dello sguardo ma soprattutto luoghi vissuti.

La luce, contrapponendosi alle tenebre, è sempre stata uno dei temi del simbo-lismo che ha influenzato l’architettura a livello religioso e psicologico; inoltre le modalità con cui la luce viene fatta per-meare all’interno di un edificio dipendono da ragioni di tipo climatico-costruttive, quindi socio-culturali.

Vediamo come nel corso della storia questi due elementi siano stati concetti perennemente interdipendenti.

Le architetture più antiche sappiamo che erano concepite come enormi sculture vivibili e come tali, il loro rapporto con la luce del sole era tutto giocato sulle superfici esterne. Questo rapporto era spesso basato sull’orientamento spazia-le degli espazia-lementi strutturali e compositivi alla ricerca di un perfetto ordine cosmico.

Fig.30 Stonehenge, Amesbury. Fonte: https://www.history.com

Fig.31 Tempio della Concordia, Agrigento. Fonte: https://media-cdn.tripadvisor.com

Fig.32 Piramide di Kukulkán, Chichén Itzá. Fonte: https://maestroviejo.es

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Con i Romani si iniziano a realizzare, per la prima volta, spazi architettonici vivi-bili definiti dalla luce. Basti pensare allo stesso Pantheon, struttura perfetta-mente armoniosa con un’unica apertura al centro, l’oculus, da cui i raggi penetra-no nell’interpenetra-no, creando la sensazione di una luce che viene dall’infinito, insieme naturale e divina.

Più in generale l’illuminazione che pe-netra nell’oculo della cupola, o nel com-pluvium di una domus, o ancora dalle aperture di un ambiente termale o di un mercato coperto, svela proporzioni, ar-monie, materiali, tessiture.

La luce indiscutibilmente crea l’architet-tura, anche se nella maggior parte dei casi si tratta ancora di una luce funzio-nale, studiata per consentire un uso ot-timale degli spazi in qualsiasi momento della giornata.

Nel IV secolo d.C. l’architettura romana confluisce in quella paleocristiana e la luce comincia ad assumere un carattere più spiccatamente simbolico.

È luce divina, segno di una

Fig.33 Pantheon, Roma Fonte: http://www.artribune.com

Fig.34 Compluvium di una domus romana. Fonte: http://www.didatticarte.it

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Fig.35 Mausoleo di S. Costanza, Roma. Fonte: http://www.meetart.it

Fig.36 Basilica di S.Maria Maggiore, Roma. Fonte: https://www.renatevillas.com

soprannaturale presenza all’interno del luogo sacro.

Poco tempo dopo, con la diffusione dell’arte bizantina, la luce divina raggiun-ge un’importanza immensa, tanto da far definire questo periodo “un’epoca foto-tropica” da Hans Sedlmayr3 per il

profon-do rapporto con la luminosità realizzato anche attraverso nuovi materiali.

La parete perde quasi consistenza, di-venta un muro di luce, una superficie che brilla da ogni parte grazie alla posa non complanare delle tessere dei mosaici a fondo oro: questi elementi infatti, collo-cati con lievi inclinazioni rispetto al piano sottostante, offrono diversi angoli di ri-flessione alla luce naturale frammentan-dola in tutte le direzioni.

Un esempio spettacolare è la Basilica di Santa Sofia a Istanbul voluta dall’impe-ratore Costantino, che è una vera e pro-pria architettura di pietra e luce.

Un’immensa cupola (crollata diverse volte) poggia su una cornice continua di quaranta finestre lasciando che la luce inondi lo spazio interno.

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La magia dei mosaici dorati continuerà a manifestarsi per tutto il Medioevo in quelle aree rimaste sotto l’influenza bi-zantina, come in Sicilia dove troviamo esempi di questo stile (Cappella Palatina, Duomo di Monreale,..) fino al XII secolo.

Fig.37 Basilica di S.Sofia, Istanbul. Fonte: http://www.pinterest.com

Fig.38 Cappella Palatina, Palermo Fonte: http://www.spreafotografia.it

Fig.39 Basilica di S.Vitale, Ravenna. Fonte: http://www.pinterest.com

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Nel resto dell’Europa, con il Romanico dell’XI e XII secolo, le chiese tornano ad esprimere la nuda massa muraria, spo-glia e massiccia. Le finestre sono delle semplici monofore di dimensioni molto limitate e la poca di luce che ne deriva conferisce all’interno un tipico aspetto austero e un’atmosfera di raccoglimen-to.

Fig.40 Duomo di S. Maria Assunta e S. Geminiano,Modena. Fonte: http://www.modenatoday.it

Per assistere ad un nuovo periodo foto-tropico occorre aspettare che la struttu-ra della chiesa si faccia di nuovo più esile e trasparente, lasciando passare luce in abbondanza. Ciò avverrà con la nascita dell’arco a sesto acuto, della volta a

cro-ciera ogivale e degli archi rampanti tipici Fig.42 Saint Chapelle, Parigi.Fonte: https://www.telegraph.co.uk

dell’architettura gotica del XIII e XIV se-colo: la parete massiccia dei secoli pre-cedenti lascia il posto ad immense ve-trate policrome cosicchè la luce, densa e divina, riempia e colori lo spazio attra-verso il complesso ricamo di vetro delle immense finestre e dei rosoni.

Fig.41 Saint Denis, Parigi. Fonte: http://www.alamy.com

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Fig.43 Notre Dame, Parigi. Fonte: http://www.didatticarte.it

Con il Rinascimento (XV e XVI sec.) la luce torna ad essere rigorosa ed equili-brata. Nelle chiese e negli altri spazi sacri crea ritmo e solennità e rende leggibile la struttura architettonica in ogni sua membratura grazie ad una luce morbida e principalmente diffusa.

Fig.44 Chiesa S. Spirito, Firenze. Fonte: http://musefirenze.it

In seguito con il periodo Barocco (XVII e XVIII sec.) invece, coerentemente con una concezione scenografica dell’archi-tettura, la luce tende a rendere gli spazi teatrali e suggestivi, con forti contrasti di luce e ombra che generano drammatici-tà.

In molti casi la finestra è nascosta per-ché si possa percepire l’effetto della luce ma non la sua fonte (esattamente come

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avviene a teatro in cui le quinte scher-mano i proiettori); in altri la casi invece le aperture sono ampie ed evidenti per esaltare il gioco del chiaroscuro.

Fig.45 Cappella della Sacra Sindone, Torino. Fonte: http://picshype.com

Fig.46 Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, Roma. Fonte: http://pinterest.com

Nel corso dell’Ottocento, tra il Neoclas-sicismo e altri Revival storicistici, la luce non pare rivelare nuove modalità espres-sive in architettura.

È solo grazie alle innovazioni introdotte dagli ingegneri che questa trova di nuovo la sua importanza: grandi volte in ferro e vetro, agili e modulari, vanno a coprire strade e stazioni sostituendosi del tutto al mattone e alla pietra dei secoli prece-denti e, soprattutto, portano la questione della luce al di fuori degli spazi sacri nei quali si era sviluppata per oltre mille anni. La luce diffusa dai grandi lucernai vetrati diventa un elemento tipico dell’Art Nou-veau a fine Ottocento.

Fig.47 Galleria Umberto I, Napoli. Fonte: https://www.10cose.it

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È una luce morbida ed avvolgente che, senza creare contrasti drammatici, ri-empie gli eleganti ambienti sottostanti come negli hotel di Victor Horta.

Fig.48 Hotel Van Eetvelde, Bruxelles. Fonte: http://pinterest.com

Da fine Ottocento e per tutto il Novecento molti tra i maggiori architetti, anche se appartenenti a diverse correnti di pen-siero, si cimenteranno nell’uso della luce naturale per illuminare i loro spazi.

Ognuno di questi sceglierà come usare i raggi solari per esaltare le proprie archi-tetture: una luce zenitale o laterale che accarezza le enormi forme organiche per

gli ambienti di Antoni Gaudì, una luce mi-stica e suggestiva che riprende lo spazio religioso medievale per Le Corbusier, una luce che rende le superfici dei grandi am-plificatori di luce nel caso di Alvar Aalto.

Fig.49 Casa Batllo, Barcellona. Fonte: https://www.flickr.com

Fig.50 Notre-Dame du Haut, Ronchamp. Fonte: https://www.pinterest.com

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Ma il terreno di esplorazione delle nuove possibilità di uso della luce nel Novecen-to non saranno più le chiese ma i musei, i quali fin dai tempi del Louvre erano siste-maticamente organizzati con sale chiuse da lucernai per la perenne influenza degli spazi classici.

La suggestione di questo tipo di museo è ancora evidente nel Guggenheim (1956) di Frank Lloyd Wrighta New York, dove lo spazio centrale è illuminato dall’alto come nei modelli ottocenteschi, ma con una nuova interpretazione come i fasci di luce lungo le rampe.

E come Wright, altri grandi architetti

Fig.51 Chiesa di S. Maria Assunta, Riola di Vergato. Fonte: http://www.jerusalem-lospazioltre.it

hanno accettato la sfida che da sempre si propone: da Luis Kahn con il suo Kim-bell Art Museum a Fort Worth, a Steven Holl con il Kiasma Museum a Helsinki fino a Peter Zumthor con il Kunsthaus a Bre-genz e molti altri ancora.

Perché come scrive Alberto Campo Ba-eza “in definitiva, la luce non è la ragion

d’essere dell’architettura? La Storia dell’architettura non è ricerca, compren-sione e dominio della luce? Il Romanico non è forse un dialogo tra le ombre dei muri e la luce solida che vi penetra come un coltello? E il Gotico non è un’esalta-zione della luce che avvampa gli incre-dibili spazi con fiamme ascendenti? Il Barocco non può forse essere conside-rato come un’alchimia di luce dove, sul-la saggia mescosul-lanza delle luci diffuse, irrompe un raggio forte, capace di pro-durre ineffabili vibrazioni? Infine, il Mo-vimento Moderno, abbattuti i muri, non è una inondazione di luce che ancora cerchiamo di controllare? Non è questa un’epoca in cui possediamo tutti i mezzi possibili per dominare la luce?”.4

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3.3 LUCE E ARCHITETTURA OGGI: I MUSEI

Dopo aver riassunto come per secoli la

luce sia stata usata negli edifici princi-palmente di matrice religiosa, passiamo ad illustrare tre esempi di costruzioni contemporanee a carattere museale. Tra i molti casi possibili sono stati se-lezionati tre edifici le cui caratteristiche sono state fonte d’ispirazione per il pro-getto realizzato: una gipsoteca, per il tipo di opere esposte, e due musei di più re-cente costruzione per la tipologia di illu-minazione usata.

Andiamo adesso ad illustrarli brevemen-te.

1. Gipsoteca Canoviana, ala C. Scarpa

Possagno, 1957

La parola Gypsotheca deriva dal greco e significa “raccolta di gessi”.

L’edificio, voluto dal vescovo Giovanni Battista Sartori Canova per poter ospita-re tutte le opeospita-re del fratello Antonio pospita-re- pre-senti nello studio romano, fu progettato

dal professore di architettura alla Acca-demia di Belle Arti di Venezia Francesco Lazzari, tra il 1834 e il 1836, mentre l’al-lestimento delle opere fu completata nel 1844.

Nella prospettiva di Sartori, vigeva il con-cetto di riproporre l’esposizione delle opere come all’interno dell’atelier del-lo scultore: l’attuale sistemazione della Gipsoteca è quindi il frutto di un rispetto assoluto di questo spirito museologico, delle variazioni allestitive conseguenti ai danni dei due conflitti mondiali e del con-tributo di Carlo Scarpa attuato nel 1957. Questi provvide ad ampliare il museo con nuovo spazio espositivo, con l’obiettivo di valorizzare tutto il patrimonio canoviano non esposto, ma giacente nel deposito e, soprattutto, predisporre un’opportuna esposizione per i bozzetti in gesso ed in terracotta.

Scarpa riuscì a mettere in atto una sce-nografica disposizione dei capolavori di-stribuendoli su lucidi livelli sfalsati, collo-cati all’interno di un involucro

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architettonico che, come scrisse France-sco Dal Co, “consente alla luce di filtrare

dall’alto, col compito di dosare sul pal-coscenico una stupefacente, mutevole luminosità, al cui servizio pone un appa-rato strutturale semplificato e

sorpren-dentemente asciutto”.5

Come racconta lo stesso Scarpa :“Il

pro-blema che dovevo affrontare nella siste-mazione della Gipsoteca era la luce: si trattava non di quadri, ma di sculture, e le sculture non erano di marmo o di le-gno, ma di gesso, materiale amorfo che non soffre solo delle intemperie ma che ha anche bisogno di luce, e quindi ha la necessità di un posto al sole. E il sole, movendosi su una scultura, non dà mai effetti negativi”.6

Appare quindi chiaro come la luce natu-rale sia, oltre alle opere stesse, la prota-gonista indiscussa e regista dell’allesti-mento, tanto che l’ala è tuttora sfornita di fonti di luce artificiale.

Inoltre a Possagno Scarpa introdusse un’altra caratteristica che a quei tempi suscitò scalpore tra i critici: i candidi e

bianchissimi modelli in gesso sono col-locati contro pareti altrettanto candide, considerate dall’architetto le più adatte ad esaltare le qualità formali delle ope-re in confronto alle paope-reti colorate o alle tappezzerie in uso fino a pochi anni pri-ma.

Le sculture, anche in virtù della disposi-zione diradata che permette ad ognuna di esse di occupare uno spazio non limi-tato, non si disperdono nella coltre bian-ca delle pareti ma bensì risultano valo-rizzate.

Fig.53 Planimetria Gipsoteca Canoviana, Possagno. Fonte: http://www.pinterest.com

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Fig.54 Esterno ala C. Scarpa, Possagno. Fonte: http://www.oltrepistoia.it

Fig.55-56 Interno ala C. Scarpa, Possagno. Fonte: http://www.oltrepistoia.it

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2. North Carolina Museum of Art, West Building, Thomas Phifer& Partners

Raleigh, 2010

Il museo nasce nel 1929 con la prima do-nazioni di 75 quadri da parte di R. F. Phifer e dagli anni ‘40 in poi inizia ad espandersi sempre più, grazie a donazioni di ricchi mecenati e soldi statali, tanto da dover essere spostato di sede per ben due vol-te. In particolare da quando nel 1994 L. Wheeler diventò il direttore del museo si iniziò a pensare alla costruzione di un nuovo edificio per alloggiare la collezione permanente e il progetto fu affidato agli architetti T. Phifer and Partners.

L’idea abbracciò fin dagli inizi i principi dell’architettura sostenibile in relazione anche allo sviluppo del Museo del Parco con il suo programma ecologico: sistemi di controllo delle acque piovane, aumen-to dell’efficienza energetica, sistemi di controllo climatico, ecc.

La visione di Wheeler inoltre prevedeva un edificio pieno di luce aperto sul pano-rama circostante in cui l’arte fosse pre-sentata in un ambiente meno costretto

del precedente e risultasse luogo di pace e serenità per i visitatori.

Fu così che nel 2010 l’Ala Ovest, con le sue statue nel giardino e la piscina ri-flettente, sorse nei pressi del sito dell’o-riginario museo: i 12000 m2 di gallerie

espositive con pareti mezze vetrate per-mettono l’ingresso di una grande quanti-tà di luce naturale e un perenne contatto con la natura all’esterno.

Oltre che dalle facciate la luce solare in-diretta proveniente da nord può entrare nelle sale anche dal soffitto, attraverso 362 lucernari ricoperti da brise soleil: ve-tri che schermano i raggi UV proteggono le opere più sensibili insieme ad inserti di tessuti di diverse densità, mentre la luce “buona” si diffonde in schermi diffusori a forma di oculi ovali. Inoltre un sistema comandato da una fotocellula posta sul tetto monitora continuamente la quanti-tà di illuminazione e provvede ai cambia-menti di livello di luce naturale: appros-simativamente la metà delle lampade poste nelle gallerie rimangono spente durante le ore diurne, permettendo un notevole risparmio energetico.

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Fig.57 Planimetria ala ovest, Raleigh. Fonte: https://www.archdaily.com

Fig.58-59 Vista esterna e interna del sistema di diffusori di luce. Fonte: http://aasarchitecture.com

Fig.60 Un cortile esterno dell’ala ovest. Fonte: https://www.archdaily.com Fig.61 Una sala interna con statue. Fonte: https://www.archdaily.com 57

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3. High Museum of Art, espansione di Renzo Piano

Atlanta, 2005

L’High Museum of Art è il principale mu-seo d’arte del sud-est degli Stati Uniti. e fu fondato nel 1905 dall’Atlanta Art As-sociation e allargato per la prima volta nel 1983 dall’architetto Richard Meier. In seguito il museo, per rispondere alla rapida crescita della sua collezione (che conta più di 11.000 opere permanen-ti) e aumentare il numero di visitatori, celebrando il suo ventesimo anniversa-rio decise di provvedere ad una nuova espansione. Così tra il 2003 e il 2005 l’architetto Renzo Piano costruì tre nuo-vi edifici, raddoppiando l’area museale (circa 29000 m2 in totale): un padiglione

principale, un’ala per le collezioni spe-ciali ed una amministrativa, collegate da passerelle vetrate che si affacciano sulla grande piazza pubblica creano un viva-ce “villaggio delle arti” presso il Woodruff Arts Center di Midtown Atlanta.

Dovendo dialogare con la preesistenza, si decise di dotare tutte e tre le nuove

costruzioni di facciate in pannelli di allu-minio che riprendessero quelli smaltati bianchi di Meier; ma l’attenzione di Piano era rivolta soprattutto verso la luce. Con un sistema costituito da più di 1000 “deflettori”, riuscì a filtrare la luce prove-niente da nord ed a convogliarla verso i percorsi espositivi sottostanti, creando insieme al team Arup Lighting un siste-ma completamente passivo senza par-ti mobili. Esso comprende tre elemenpar-ti: il soffitto, le unità tubolari costruite in gesso rinforzato con fibra di vetro e rac-chiuse in un modulo di 0,4 m2 e le vele

in alluminio bianco orientate verso nord. Con l’aggiunta di vetri a basso contenu-to ferroso e di vetri basso emissivi viene controllato l’ingresso dei raggi UV nella galleria e si aiutano a rispettare i criteri termici.

Anche il sistema di luce artificiale risulta però importante, specialmente al piano terra dove la luce naturale non è suffi-ciente: divisa in due circuiti, uno controlla la quantità di luce disponibile e l’altro in-dipendentemente assolve alle necessità delle opere d’arte.

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Fig.62 Planimetria complesso, Atlanta. Fonte: http://rpf.ice.spill.net

Fig.63-64 Vista dei deflettori.

Fonte: https://www.pinterest.com Fig.65 Vista di una sala interna.Fonte: https://www.pinterest.com 62

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