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Pasolini secondo Zanzotto

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Academic year: 2021

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PASOLINI SECONDO ZANZOTTO

Riccardo Vanin*

Il seguente studio si prefigge l’obiettivo di analizzare le modalità e i contenuti al centro della riflessione critico-teorica di Andrea Zanzotto su Pier Paolo Pasolini. Al di là dello specifico interesse per il caso di un poeta (tra i maggiori del Novecento) che rilegge, attraverso una prosa critica di ascendenza e densità poetica, un altro grande poeta della sua generazione, lo scopo principale di questo scritto consiste nel ridefinire uno dei più trascurati rapporti ermeneutici (e umani) nell’ambito degli studi pasoliniani. Contro una certa semplificazione che vedrebbe uno Zanzotto impegnato nella scrittura su Pasolini solo in morte, si è in questa sede cercato di dimostrare come il poeta trevigiano si confronti in realtà già precocemente con la riflessione e l’attività pasoliniana. La tempestiva ricettività alle proposte del poeta bolognese è il primo stadio (in cui tuttavia sono già visibili in nuce i successivi esiti) di un processo che porterà Zanzotto, subito dopo la morte di Pasolini, alla istantanea mitizzazione e al «piccolo culto» dell’amico, nonché alla stesura dei grandi saggi a lui dedicati.

– e l’insegnamento mutuo di tutto a tutto –1

Tra i molteplici confronti intellettuali che Pier Paolo Pasolini intrattenne durante la sua vita, quello con Andrea Zanzotto è senza dubbio uno dei più anomali. Lontano tanto dai modi di un agonismo-antagonismo titanico e drammatico (Fortini) quanto da quelli di una fedeltà a un maestro-patrocinatore indiscusso e indiscutibile (Contini), il dialogo tra Pasolini e Zanzotto si dimostra tanto più ricco quanto più è in grado di preservare il proprio mistero nel suo stesso essere parziale, sincopato, sussultante.

Effettivamente non è molto il materiale precedente alla morte di Pasolini su cui basarsi. L’evento che sanziona pubblicamente l’inizio del confronto è la recensione a Vocativo, più tardi raccolta in Passione e ideologia2, scritta nel 1957. In seguito Pasolini recensirà con grande

entusiasmo anche La beltà e Pasque3 e nel 1973 elogerà l’infallibilità che permette

«puntualmente […] da qualche anno» a Zanzotto di pubblicare «testi straordinari»4. Da parte di

1 ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 409. Sono i versi finali di Per lumina, per limina, la poesia che chiude la sezione «Misteri della pedagogia» in Pasque.

2 Cfr. SLA I, pp. 1206-9.

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Zanzotto si ha invece l’invio, tra il 1964 e il 1968, di tre lettere5, ma non risulta alcuno scritto

critico dedicato all’amico. Sembra quindi che, tra i due, sia Pasolini a dedicare all’altro maggiori attenzioni critiche e intellettuali. Ciononostante, l’ovvietà per cui «Zanzotto si cimenterà nella scrittura critica sull’amico solo all’indomani della sua morte»6 è solo parzialmente condivisibile.

Tuttavia, sebbene i tre grandi saggi zanzottiani su Pasolini7 siano tutti successivi al 1975, è

anche vero che la precedente riflessione critico-teorica di Zanzotto si è imbattuta nel nome e nel pensiero di Pasolini con una frequenza non riservata ad altri e importanti intellettuali, e sempre in presenza di nuclei tematici, rovelli, questioni brucianti che costituiscono i leitmotiv

tanto della sua attività critica quanto del suo stesso fare poesia. È pertanto necessario ridefinire la figura di uno Zanzotto rivalutatore solo post mortem di Pasolini, amichevole nel privato (le lettere) ma silente nella pubblica vita culturale, opposto a un Pasolini puntualmente ammiratore incondizionato di Zanzotto. In verità, nei suoi scritti Pasolini frequenta Zanzotto solo in maniera occasionale e mirata (tre recensioni per tre raccolte poetiche) oppure citandolo, seppur sempre con grande lode, insieme ad altri, in articoli dove egli passa in rassegna le sue recenti letture. Per Zanzotto invece Pasolini fu spesso, in vita, il punto d’arrivo o il termine di un necessario confronto in riflessioni già avviate su altri; e in morte, anche il punto di partenza. In entrambi i casi, Pasolini è parte integrante e attiva di un discorso sulla letteratura che arriva a inglobare e fagocitare sempre più sfere della cultura e delle pratiche umane, in una pulsione totalizzante, per quella che è stata assai felicemente definita da Agosti una «critica antropologica della letteratura»8. Il Pasolini in vita di Zanzotto non è altro che una

versione più dimessa e nascosta di quello che sarà poi, in morte, nella produzione in maggiore9:

un suo embrione, di cui è tuttavia già individuabile il successivo sviluppo in chiave di istantanea e necessaria mitizzazione10.

Prima catalizzatore e in seguito propulsore delle tensioni olistiche della riflessione zanzottiana, Pasolini è uno dei centri nevralgici della scrittura critica del poeta trevigiano, che dell’amico offre una figura di poeta, intellettuale e uomo probabilmente tra le più originali, commosse e potenti. E tra le più trascurate. Non riteniamo pertanto di fare un torto agli «studi pasoliniani» cercando di renderne conto, anche a costo di non opporre alcuna resistenza alla

5 Cfr. LE II, pp. 571-2, 648-9, 660.

6 CESARE DE MICHELIS, Pasolini lettore di Zanzotto e Zanzotto lettore di Pasolini, in Pasolini e la poesia dialettale, a cura di Giampaolo Borghello e Angela Felice, Venezia, Marsilio, 2014, p. 152. La constatazione di De Michelis è riportata e accettata anche da PASQUALE VOZA, Pasolini e la dittatura del presente, San Cesario di Lecce, Manni, 2016, p. 84.

7 Pedagogia (1977), Pasolini poeta (1980), Su Teorema (film e scritto) (1982, 1988), poi raccolti in ANDREA ZANZOTTO, Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, pp. 141-164. 8 STEFANO AGOSTI, Zanzotto critico, «Poesia», IV, 45, novembre 1991, p. 14.

9 Oltre ai tre saggi raccolti in Aure e disincanti, ci sentiamo in dovere di aggiungere a tale produzione anche il bellissimo intervento ANDREA ZANZOTTO, Pasolini nel nostro tempo, in Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, a cura di Guido Santato, Padova, Cleup, 1983, pp. 235-9.

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frenesia poetica che Zanzotto investe nella trasfigurazione (e forse pure nell’appropriazione) dell’oggetto-Pasolini.

Che la morte di Pasolini costituisca per Zanzotto la reale presa di coscienza di un legame intellettuale «totale» che in precedenza si era manifestato solo sotterraneamente e a bagliori, come sintomo di un rimosso ancora in attesa di una voce più piena, sembra essere stato un pensiero sin da subito chiarissimo allo stesso Zanzotto, folgorato dalla tragica esperienza di quella notte ostiense. Così il poeta trevigiano scrive, a caldo, all’indomani della morte di Pasolini, in apertura di una prima versione di quello che sarà poi il grande saggio Pedagogia:

Si vorrebbe parlare della sua vita, della sua opera, non della sua morte – e non si può. Come uscire dalla fascinazione infernale di questo sangue versato così inutilmente, eppure – lo si constata quasi con sgomento superstizioso, ricondotti a situazioni prerazionali –, eppure così «inevitabilmente»? In un «destino» realizzatosi proprio perché radicato in un fantasma di destino, cui tutto un insieme di forze negative, evocate dal fondo del loro nulla, avesse corrisposto nel più impudente dei modi?11

Zanzotto è lungi dal ritenere che la morte di Pasolini sia stata a tal punto invadente da usurpare qualsiasi possibilità di parlare della sua vita. Affermare questo equivarrebbe a fare il gioco dei

media, ad accettarne ed esercitarne la violenza, giacché «Pasolini è stato un’altra volta ucciso per privazione di silenzio, dal frastuono, turpe, intorno alla sua morte»12. Non è impossibile

parlare della sua vita: semmai non è possibile non parlare della sua morte, perché essa ha davvero realizzato e svelato il significato della sua vita, mai davvero cessata, ancora in movimento. E tale significato equivale al senso della (sua stessa) poesia. Infatti «prima di tutto esisteva per lui la ‘poesia’, o meglio l’arte anch’essa il più possibile polimorfa, didascalia proveniente da tutto, rivolta a tutto, eppure crescente anche da sé e in sé», laddove «didascalia» è da intendersi secondo l’etimologia greca. Subito dopo Zanzotto approfondisce la natura della poesia pasoliniana (e non solo) come «luogo dei mali comuni e delle loro proiezioni in traumi privati: cauterizzazioni su carne viva e sempre ripetute, cicatrici su cicatrici, ma anche concrezione e creazione di impensabile oltre che esplicitazione di ogni peristalsi e di ogni movimento vitale»13. La poesia insomma, affondando nelle sue radici traumatiche, nella

coazione a ripetere della pulsione di morte, riemerge dalle profondità dell’io lirico, dal nulla che lo affligge, come voce che pensa e dice ciò che non era mai stato detto o pensato, e che 11 ANDREA ZANZOTTO, Per una pedagogia?, «Nuovi Argomenti», n.s., 49, gennaio-marzo 1976, p. 47. Rimandiamo in questo caso alla prima stesura – più tardi rielaborata accresciuta e pubblicata in Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Milano, Garzanti, 1977 – per dissipare ogni dubbio circa la possibile influenza della destinazione del saggio sulla scelta di Zanzotto di insistere, così crudamente e quasi sadicamente, sull’omicidio di Pasolini. Dopo pochissime settimane, Zanzotto aveva già, per conto proprio, elaborato compreso ed esplicitato (in primis a sé stesso) il significato profondo di quella morte.

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quindi crea e vivifica. Il «destino» insito nella morte di Pasolini è stato quello di compiersi all’insegna della sua poesia e di quella che fu tutta la sua «disperata vitalità», tanto più poeticamente autentica quanto più implicata nell’ossimoro (solo apparente) di vita-morte.

Tutto il saggio Pedagogia è costruito sull’insistenza del ritorno tematico di vita-morte, eros-thanatos, inizio-fine, in una sorta di considerazione della poesia e dell’insegnamento pasoliniani nel segno di un «eterno ritorno»: se non dell’uguale, del sempre nuovamente nascente nell’uguale14. Sulla base del circuito vita-morte e del legame tra poesia e pedagogia

(che Zanzotto vede come pratiche intersecantisi lungo sentieri poco effabili, per quanto evidentissimi), il poeta trevigiano si propone di analizzare la pedagogia «en poète» di Pasolini lungo un «itinerario» che, partendo dai «prati friulani», giunga a quello «calpestato dalla morte. Sono, ugualmente, prati che stanno intorno a ‘scuole’»15. Il pensiero va ovviamente a

quello che è «il capovolgimento e lo sfregio» finale della felicità friulana, con il caso eclatante, anche questo discusso da Zanzotto, della Nuova gioventù, ma anche con quello di Salò, in cui Pasolini

notifica che l’arco totale del polimorfismo libidico include anche l’erotizzazione della pulsione di morte, la disintegrazione di soma e psiche, l’identificazione sangue/escremento. […] Nel Salò-Sade l’etica e la pedagogia, citate in primo piano e insieme in ogni «direttiva», lasciavano intravedere un male idiota, una violenza senza significato insita nella stessa realtà, ma capace, per sussistere, di attribuirsi e di mobilitare ogni sofisma, un intero sistema di sofismi, compreso quello di voler «rivelare», o «educare»16.

Insomma, anche il circuito dell’eros, implicato ed esaurientesi nella pulsione di morte, si inscrive nella poesia e nella pedagogia pasoliniane. Pasolini stesso l’aveva intuito quando dedicò, non senza un qualche senso dell’ironia e dello sberleffo, la sua opera più esplicitamente legata all’idea e alla pratica dell’educazione, il trattato pedagogico Gennariello, non «all’ombra mostruosa di Rousseau» ma «all’ombra sdegnosa di De Sade»17. Come la morte non

interrompe, ma suggella una vita in chiave di destino, aprendola veramente alle possibilità che furono e sono della poesia, allo stesso modo il passato, quello vagheggiato e cantato da Pasolini in quella stessa poesia, con tutto il suo carico di «forza rivoluzionaria», è per Zanzotto da «intendersi quale metafora dell’alba prima. Infinitamente indietro e sempre nel futuro»18.

14 Pochi anni prima, nella sua recensione a Pasque, anche Pasolini, citando il pensiero di Mircea Eliade, aveva individuato questa stessa circolarità in espansione nella poesia di Zanzotto. In maniera del tutto sorprendente, subito dopo Pasolini aveva riconosciuto, tra i temi centrali della raccolta, anche «il problema pedagogico». Cfr. SLA II, p. 2015.

15 ANDREA ZANZOTTO, Pedagogia, cit., p. 145.

16 Ivi, p. 147. Molti anni dopo Zanzotto arriverà a definire Salò un film «inutile», in ID., Pasolini, maestro mirabile [2000], in ID., Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, Venezia, Marsilio, 2011, p. 82.

17 p. 566.

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Che Zanzotto approfondisca con tanta reiterata insistenza i nessi circuitanti di vita-morte, poesia-morte, passato-futuro, non è atteggiamento catalizzato dall’oggetto del suo discorso o da una presunta retorica del cordoglio per la recente scomparsa dell’amico. In quello stesso periodo Zanzotto scrive, a proposito di «colui che forse è il più grande di tutti i poeti affermatisi nel dopoguerra», ovvero Paul Celan, morto suicida nel 1970, che

egli sta certamente nell’ombra di un sacrificio supremo. L’ultimo tentativo di pronunciare una poesia ‘totalizzante’ e ‘verticalizzante’ in ogni direzione, à tous arimonts, per forze proprie endogene, è stato quello di Celan. […] Insomma conviene ammettere che la poesia opera (da sempre?) anche per mezzo della morte e del silenzio19.

L’analogia con la situazione pasoliniana è patente, sia per quanto riguarda la funzione della morte all’interno delle coordinate liriche sia per il riferimento a una «poesia totale»20. Per vie

diverse, alcuni lettori di Zanzotto hanno ben individuato come il dittico Celan-Pasolini costituisca nella sua prosa critica una sorta di caso limite: Gian Mario Villalta nel segno di un

non plus ultra di esperienza poetica e umana, esemplare e «totalizzante»21; Stefano Dal Bianco

all’insegna di una poesia operante oltre i confini canonici della poesia stessa in due direzioni opposte e convergenti, ovvero «per fuoriuscita – o per totale estraneità – da un paradigma lirico, o per oltranzistica sperimentazione delle zone psichicamente più brucianti all’interno di quel paradigma (quindi una sorta di fuoriuscita per immersione totale). I campioni, gli estremi emblematici di questi due atteggiamenti […] sono Pasolini e Celan »22. L’accostamento tra

Pasolini e Celan non fa che sottolineare come, nella topologia critica di Zanzotto, anche il primo occupi una posizione di prim’ordine: Pasolini, in virtù della sua «oltranzistica sperimentazione»23 e della sua tentacolare riflessione critico-teorica, si pone in una zona di

proiezione del passato nel futuro. Il sogno pasoliniano tende a rovesciare il passato in rivoluzione e viceversa».

19 ANDREA ZANZOTTO, Poesia? [1976], in ID., Le poesie e prose scelte, cit., pp. 1202-3.

20 Su tale nozione specificatamente applicata a Pasolini, si vedano le precise occorrenze in ID., Pasolini poeta [1980] e Su Teorema (film e scritto) [1982-8], in ID., Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., pp. 154, 161.

21 Cfr. GIAN MARIO VILLALTA, Postfazione a ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, volume II, a cura di Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 2001, pp. 470-1.

22 STEFANO DAL BIANCO, La critica dei poeti, «Nuovi Argomenti», Quarta Serie, 3, aprile-giugno 1995, p. 131.

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fitto attraversamento di riflessioni e pratiche, anche extra-letterarie, che vanno a nutrire l’«ansia enciclopedica»24 dell’antropologia zanzottiana e i nuclei primi della sua poetica.

Risale al 1965 un’affermazione di Zanzotto che permette di pensare il suo pluridecennale rapportarsi a Pasolini in chiave anch’esso di «destino»:

È vero che mi son trovato su posizioni profondamente diverse da quelle di Pasolini, ma oggi i motivi della diversità tra lui, me (e anche Fortini) sono probabilmente meno rilevanti che dieci anni fa25.

Da un senso di estraneità rispetto al pensiero pasoliniano al riconoscimento della scarsa importanza delle divergenze a quello che infine, in un convegno del 1981, Zanzotto definirà «un suo piccolo culto di Pasolini»26. L’esemplarità sacrificale della sua morte (come quella di Celan)

rappresenta il punto di arrivo (tale in quanto estremo, radicale, non reversibile) di una parabola teleologica-teologica di progressivo svelamento del profondo legame che ha stretto Zanzotto a Pasolini. Nella succitata affermazione Zanzotto sembra peraltro intuire il corretto atteggiamento che ogni lettore di Pasolini è tenuto a osservare per beneficiare appieno del suo discorso. Proprio nel momento in cui gli specialisti fustigavano le sue non troppo nutrite basi teorico-filosofiche e molti (anche notevolissimi) intellettuali e letterati si scagliavano contro certe sue posizioni paradossali, controverse e spesso contraddittorie, Zanzotto ha colto con straordinario tempismo l’inutilità di contestare Pasolini attraverso la semplice segnalazione di singole imprecisioni o di singole posizioni non condivisibili. Un confronto proficuo e disinteressato con Pasolini presuppone, perché davvero si possa da lui imparare, la consapevolezza che attraversare la sua opera (e quindi l’esserne attraversati) significhi comprendere e accettare che le sue più brucianti verità risiedono proprio in un disperato e ostinato confronto con traumi e contraddizioni: un confronto condotto con gli strumenti, anch’essi, il più possibile traumatici e contraddittori. Ed è in questo confronto col «magma», nel magma che egli stesso era, che Pasolini ha potuto esercitare, senza le maglie costrittive di una troppo rigida episteme, tutta la sua forza critica e la sua luminosa creatività: Zanzotto, che insiste molto su questo punto, non può che presentarsi in tal senso come lettore ideale di Pasolini, anche per la struttura stessa del suo pensiero e della sua scrittura27. Analogamente

Pier Vincenzo Mengaldo, critico non indulgente con Pasolini, ha scritto, a proposito dell’«eccellenza di tanti risultati critici pasoliniani, nonostante la grande friabilità concettuale di quasi tutte le sue categorie portanti (e, in partenza, la povertà del suo impianto filosofico)»,

24 Ivi, p. 129.

25 ANDREA ZANZOTTO, Il mestiere di poeta [1965], in ID., Le poesie e prose scelte, cit., p. 1133. 26 ID., Pasolini nel nostro tempo, cit., p. 235.

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che la sua grandezza sta proprio nella sua capacità di rovesciare «quel ‘nonostante’ in un ‘in quanto’»28.

È questa una logica che vede in Pasolini un intellettuale fraterno e solidale, anche e magari soprattutto nelle divergenze, piuttosto che il corsaro con cui doversi a ogni costo scontrare. Tale prospettiva, che andava già chiarendosi a Zanzotto negli anni Sessanta, sarà, dopo la morte di Pasolini, la sola praticabile. L’atteggiamento di rinnovato e rinforzato affetto che Zanzotto manifesta nel suo intimo rapporto con l’opera e il discorso dell’amico scomparso, ha poi un effettivo riscontro nella pratica critica nel momento in cui Zanzotto riveste consapevolmente il ruolo di mediatore di pace in antiche discordie pasoliniane. Nel primo caso29, riguardante, quasi

banalmente, Franco Fortini, risulta evidente la volontà di Zanzotto di cauterizzare la ferita ancora aperta della rottura con Pasolini, ben prima che Fortini senta l’urgenza di attraversarlo:

Allargando la sfera della corporeità fisica artaudiana a quel vero corpo primo che è la società, il fatto sociale, e in questo senso impossibilitato a «trarne» un discorso pieno, Fortini non risulta affatto distante da Pasolini quale viene qui sfregiato, e insieme alzato ad assoluto exemplum30.

Il secondo caso riguarda il celebre scontro, tra i più velenosi del secondo Novecento, con Montale. Per ricondurre i due a un fondo poetico comune, invalidando così tutti i motivi del precedente contrasto, Zanzotto ricorre in tre casi alla semplice allusione:

la sempre rinnovata constatazione della sua [scil., della figura del poeta] irrilevanza, inesistenza, focomelia…

l’unico momento di rottura, di sospensione del tipo di esistenza in cui siamo specialmente ora immersi, governata dall’odio, dalla sclerosi, e pur da una furia che vorrebbe imporci un tutto sempre più condito, salato, «trifolato» (diremo parafrasano Montale), e che invece finisce per renderlo vomitorio31.

28 PIER VINCENZO MENGALDO, Profili di critici del Novecento, Milano, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 79-80.

29 Segnalato già da altri lettori, cfr. STEFANO DAL BIANCO, La critica dei poeti, cit., p. 132 e MARIA ANTONIETTA GRIGNANI, ‘Lapilli’ per Zanzotto critico, in Andrea Zanzotto. Un poeta nel tempo, a cura di Francesco Carbognin, Bologna, Aspasia, 2008, p. 33.

30 ANDREA ZANZOTTO, Franco Fortini: Un’obbedienza [1980], in Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 228. Subito dopo Zanzotto, per sottolineare ulteriormente la ritrovata unione tra i due, fa riferimento alla «pulsione a pedagogizzare» di Fortini. «Non sorprende, a questo punto, come veri punti di riferimento di Zanzotto, tra i poeti italiani della sua generazione, siano due assidui, insistenti (al limite insopportabili) autori-pedagoghi – Pasolini e Fortini. Si badi, “pedagoghi” non tanto negli interventi in prosa, etico-politici o genericamente “civili”: bensì nel vivo dei testi poetici», in ANDREA CORTELLESSA, Geiger nell’erba. Prospezioni su Zanzotto critico, «Poetiche», 1, 2002, pp. 173-4.

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un ambito che va dal sornione, al «teppistico» (per riprendere la fantasiosa espressione di Pasolini), al volutamente banale32.

Nel primo caso, per Zanzotto, si tratta di ricostruire una ideale comunità solidale di poeti italiani della sua generazione, al di là delle presunte incompatibilità e degli antichi dissapori. Mettendo al servizio di un continuo e inesausto confronto con Fortini e Pasolini tutto il suo imponentissimo ed enciclopedico arsenale teorico, Zanzotto ha investito il suo originalissimo e penetrante sguardo di poeta-critico nella formazione di nuove prospettive e di nuove basi per l’individuazione di un terreno di comune accordo, il più possibile amplio, tollerante e inclusivo. Il ripristino della linea Fortini-Pasolini sancisce quindi la chiusura di una triangolare punta di lancia che, penetrando nella carne viva del «fatto sociale», tenti poeticamente almeno due dei compiti necessari-impossibili: educare e analizzare. Salvo poi, sfruttando doti di longevità agli altri non concesse, ridestare, a un anno dalla morte di Fortini e quindi come ultimo rimasto, un ricordo di quarant’anni prima su cui poter rifondare retrospettivamente, con l’inclusione di Sereni, l’esclusivissimo circolo poetico su quattro membri, con allargamento esponenziale quindi delle combinazioni all’interno del gruppo e delle implicazioni al di fuori del circolo stesso:

Qualche anno dopo, nel 1954, ecco la copertina gialla dei quadernetti della Meridiana, in una collana fraternamente curata da Vittorio Sereni, e là con emozione mi trovai in compagnia di Fortini e di Pasolini. Già esisteva tra questi nomi una circolazione di comunicazioni a distanza quasi di «segnali di fumo» in cui Sereni era spesso trait d’union e che sarebbe poi sempre durata, includendo beninteso molti altri nomi, anche se il colloquio ravvicinato Fortini-Sereni sarebbe stato al centro del reticolo, non meno che il tempestoso «scontro di magisteri» avvenuto tra Fortini e Pasolini33.

Con Montale, invece, la pacificazione è su un piano intergenerazionale. Perché, se è vero che il primo Novecento (e Montale nella fattispecie) ha dovuto «attraversare d’Annunzio» (o Pascoli, secondo l’interpretazione pasoliniana), è anche vero che la generazione successiva ha dovuto, volente o nolente, confrontarsi proprio con l’alto magistero di Montale, che non a caso è il individuato il ruolo di paciere di Zanzotto critico e di averne compreso la natura prima affettiva e poi teorica (prima passionale e poi ideologica?).

32 ANDREA ZANZOTTO, Da Botta e risposta I a Satura (appunti) [1977], in ID., Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Milano, Mondadori, 1991, p. 34. Se nei precedenti esempi Zanzotto si è servito di precisi prelievi da Lettera a Malvolio per applicarli alle coordinate pasoliniane, in questo caso il poeta trevigiano rifunzionalizza in chiave positiva la denigratoria espressione pasoliniana, due volte utilizzata nella stroncatura a Satura, cfr. SLA II, pp. 2561-2. La pacificazione è dunque a doppio senso e complementare.

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poeta italiano più frequentato dallo Zanzotto critico. Rinsaldando il non facile rapporto tra Pasolini e Montale34, Zanzotto compie forse un’operazione anti-pasoliniana: ristabilendo un

legame tra padri e figli poetici, ricostruisce una continuità interna alla recente tradizione lirica italiana, laddove invece Pasolini, con la sua proposta di «neosperimentalismo», aveva inteso costruire un ponte tra la propria generazione e quella dei nonni poetici, anche a costo di passare direttamente sopra le esperienze e le prove dei padri.

Il pensiero agglutinante ed enciclopedico di Zanzotto permette certamente di tracciare un numero infinito di sentieri sotterranei e impliciti che congiungano le più diverse esperienze poetiche e intellettuali. Non è questa chiaramente la sede per addentrarci in un simile dedalo. Tuttavia risulta più agevole, in questo caso, introdurre uno dei punti centrali della riflessione di Zanzotto, e che coinvolge direttamente Pasolini, attraverso la ricostruzione di uno di questi sentieri, che passa proprio per la poesia dell’ultimo Montale e che quindi conferma una volta di più quella che per Zanzotto è la vicinanza di questa alla prassi e alla teoria pasoliniane.

La reciproca reversibilità tra lingua alta e lingua bassa, rovello tipicamente zanzottiano, è dinamica che coinvolge anche la produzione dell’ultimo Montale, che sembra fare sfoggio di «una nuova eloquenza, tutta un trompe-l’oeil, una dissimulazione di stile ‘basso’, scivola dentro un’immensa serie di prospezioni, catene di pseudo-sillogismi, ‘dicerie’ e nonsensi che sono forse il solo linguaggio che tocchi e riguardi gli dèi»35. La stessa questione si era già presentata

in un saggio del 1965 in cui Zanzotto tenta di descrivere i modi in cui il dialetto poetico di Noventa si relaziona alla lingua. Al «parlante» Noventa, per il quale il dialetto («lingua materna») è lo strumento principe di un regressivo «‘rifugiarsi nell’utero’ portando con sé tutto l’insieme dei valori minacciati o negati dal secolo», si oppone il modello del «non parlante» Pasolini, il cui friulano (lingua «della madre»), sebbene gli si presenti come il luogo del «regresso lungo i gradi dell’essere», esprime la «necessità di un continuo raffronto, all’interno del suo atto poetico, tra la lingua ‘alta’ e il dialetto ‘profondo’», raffronto che tuttavia tende sempre «a ristrutturare e a rafforzare la stessa lingua alta»36.

Il discorso sull’uso del dialetto di Noventa e di Pasolini non è in realtà prescindibile dal referto zanzottiano sul contesto linguistico di riferimento. Nei primi anni Sessanta, quasi in concomitanza con la riflessione sociolinguistica di Pasolini, Zanzotto insiste non di rado sui temi del «babelismo» e delle lingue universali. Nello stesso saggio, egli chiarisce come la poesia di Noventa sia «tutta à rebours» proprio perché calata in una contemporaneità che «tende quasi ossessivamente […] a sistemi universali di comunicazione linguistica» e che a tale scopo ha stimolato il rafforzamento delle grandi lingue naturali. Mentre, sinergicamente, l’«idea di una 34 Ci si ricorderà anche della non del tutto entusiasta accoglienza della Bufera in SLA I, pp. 1027-31. 35 ID., La freccia dei Diari [1982], in Fantasie di avvicinamento, cit., p. 41.

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poesia pura-assoluta» avrebbe favorito quelle stesse lingue «ad apparire come prefigurazioni di una lingua-norma universalmente valida, almeno come mezzo d’invenzione poetica»37. In un

articolo del 1963 riguardante la possibilità di una futuribile, e da Zanzotto auspicata, lingua universale, il nome di Pasolini fa la sua comparsa in un elenco di analoghe ricerche in ambito artistico:

Altri invece puntano, per la comprensione panterrestre, su una regressione all’ideogramma, al disegnino o comic strip senza parole (fornito dagl’internazionali «bang», «gulp» ecc.); Pasolini indica nell’immagine cinematografica l’esperanto di domani. Mimica, figure, interiezioni; qualcuno intravvede o propone una nuova preistoria38.

Zanzotto si dimostra ancora una volta estremamente ricettivo rispetto alle suggestioni del discorso pasoliniano (anche solo per screditarle, come in questo caso39), specie considerando

che i primi importanti segnali dell’avvicinamento di Pasolini alla teoria cinematografica risalgono a non prima del 1965, in occasione del suo intervento alla tavola rotonda tenuta alla I Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro40. Alla lingua universale assoluta e

normativa Zanzotto fa corrispondere, all’estremo opposto, tanto il particolarismo della lingua bassa (il dialetto) quanto lo sminuzzamento e lo sfregio linguistico nelle esperienze di babelismo. Tuttavia, come l’esperienza pasoliniana del dialetto insegna che la lingua bassa (presunta più libera) deve produrre scambi continui con la lingua alta (normativa), così l’infrazione sfrenata al codice deve sempre e necessariamente porsi in una dialettica con la norma per poter trovare la sua piena realizzazione41. Questo è il punto di partenza per la

radicale critica della neoavanguardia da parte di Zanzotto, culminante con la stroncatura della raccolta I novissimi (le principali accusesono rivolte a Sanguineti, che pure è considerato il più capace e consapevole del gruppo). L’analogia con il caso pasoliniano è evidente. Anzi, si può ben dire che il rifiuto della neoavanguardia sia uno dei più saldi fattori di convergenza tra i due poeti, e per di più reciprocamente riconosciuto come tale. Pasolini, nella sua recensione alla

Beltà, individuava «l’‘accusativazione’ dell’elegia» come elemento peculiare tanto della neoavanguardia quanto di Zanzotto, con la differenza sostanziale che in quest’ultimo

37 ID., Noventa tra i moderni, cit., pp. 146-7.

38 ID., Oltre Babele [1963], in ID. Le poesie e prose scelte, cit., p. 1116.

39 Anche se Pasolini avrebbe trovato lusinghiero quel richiamo alla «preistoria», dati i suoi continui richiami, specie nei saggi di Empirismo eretico, alla natura prerazionale e biologicamente data a propri della «lingua della realtà» (di cui quella del cinema sarebbe esatta riproduzione meccanica).

40 Cfr. Note e notizie sui testi, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, in SLA II, p. 2962.

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La trasformazione dell’elegia in oggetto produce […] una ironia assolutamente originale: ironia che, benché affannosamente ricercata, e proprio come ricerca primaria, è sempre mancata all’avanguardia: le cui spiritosaggini non hanno mai fatto ridere né sorridere nessuno42.

Zanzotto invece non riconobbe con altrettanta sicurezza l’istanza anti-avanguardistica del discorso di Pasolini, pur chiamandolo in causa proprio nella stroncatura ai «Novissimi» del 1962. Sembra già in qualche modo attiva la successiva tensione a far convergere l’esperienza pasoliniana con quella dei suoi oppositori, fossero anche i suoi più acerrimi nemici. Infatti, riscontrando in Sanguineti un «caso notevole» di indecisione tra adesione e ripudio della «ripresa dell’avanguardia», Zanzotto segnala la presenza inequivocabile di Pasolini nel secondo polo dell’oscillazione, dal momento che Sanguineti si nega

abbastanza opportunamente a questa ripresa, ma solo per ammiccare alla volontà ideologica, all’autorità (incerta) di Pasolini, «latina Siren / qui solus legit et facit poëtas» (egli pure, tuttavia, in piena evoluzione)43.

Zanzotto, solito a meccanismi linguistici di brevità, allusione e condensazione, rasenta in questo caso l’incomprensibilità. Se il passo risulta per la nostra ricostruzione interessante e legittimo nel suo riferimento a un’«autorità incerta» di Pasolini (a riprova dell’iniziale esitazione di Zanzotto di fronte a certe sue proposte), meno adeguata appare l’interpretazione per la quale Sanguineti ammiccherebbe all’auctoritas pasoliniana: sia per evidente forzatura in direzione di una possibile linea di intesa fra i due di quello che fu uno scontro perenne totale e senza possibilità alcuna di riconciliazione44, sia perché a Zanzotto sarebbe bastato chiudere il suo

sillogismo critico45 per comprendere sin da subito l’incompatibilità delle posizioni pasoliniane

con quelle dei «Novissimi». Solo dopo la morte dell’amico, Zanzotto riconoscerà Pasolini come ideale compagno nella sua personale lotta contro l’avanguardia, arrivando a completare quel ragionamento che dagli anni Sessanta era rimasto mutilo:

42 SLA II, p. 2573.

43 ANDREA ZANZOTTO, I «Novissimi» [1962], in ID., Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 25. 44 Si ricorderà il caso celebre, per non dire famigerato, di Una polemica in prosa, che Sanguineti scrisse in risposta ai tentativi di colonizzazione-assorbimento del poeta genovese da parte di Pasolini, che nel saggio La libertà stilistica lo annetteva alla sua idea di «neosperimentalismo», cfr. SLA I, p. 1230. Inoltre, solo un anno prima della recensione di Zanzotto a I novissimi, Sanguineti aveva pubblicato in volume uno scritto in cui segnalava nello sperimentalismo pasoliniano una forma di poesia reazionaria e «borghese», cfr. EDOARDO SANGUINETI, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pp. 178-9. Illegittima, dunque, l’allusione a un ammiccamento all’autorità pasoliniana. Forse Zanzotto pensa alla dedica di Laborintus («A P.P.P., questo libretto molto neo-sperimentale…») cui fa riferimento lo stesso Pasolini in SLA I, p. 663.

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la questione di «livelli» e giustapposizioni, o al contrario di compenetrazioni, osmosi di linguaggi, ha senso per Pasolini unicamente se si considera che per lui erano sempre meno esistiti un alto o un basso, un passato o un futuro, un «privato» o un «sociale» che non fossero in stato di continua ridiscussione, anzi lacerazione e combustione reciproca: fermo restando che la sua stella-guida era sempre un’idea di poesia in quanto diversità allarmante, eccesso, emergenza: ma (a differenza di quella delle neoavanguardie e di altri), sempre coatta anche a essere, a qualunque costo, centralità sociale, anzi momento massimo della reinstaurazione del sociale. […] Per Pasolini la differenza «doveva» anche essere norma46

Quando ancora il rapporto con Sanguineti non era compromesso, Pasolini definì Laborintus «un tipico prodotto del neosperimentalismo post-ermetico»47. La forse fin troppo vaga e

impressionistica etichetta critica, tracciando una linea di continuità tra ermetismo e neoavanguardia, trova un importante riscontro indiretto anche nella riflessione zanzottiana su Pasolini. Se questi ha infatti incarnato il massimo polo di opposizione alla deriva anti-sociale della neoavanguardia, prima ancora la sua poesia friulana avrebbe rappresentato uno dei primi riusciti tentativi della poesia italiana di rottura con l’ermetismo. In entrambi i casi è coinvolta la necessità di un confronto diretto, sensuale e corporale con il fatto sociale. Come Zanzotto ebbe a dire in un’intervista pubblicata nel 1984, Pasolini «aderisce al tessuto umano e terragno del Friuli, gesto inconcepibile, consapevolmente, nell’ambito dell’ermetismo»48, perché la scelta del

dialetto è la più distante possibile dalla pratica di una lingua assoluta e normativa propria della poesia pura, con cui proprio in quegli anni era in aspra polemica Noventa, anche in questa occasione citato insieme a Pasolini. Ma allo stesso tempo, nel suo tentativo di codificazione di un «volgare illustre» friulano, quest’ultimo non può non coinvolgere anche «una realtà linguisticamente incorrotta»49, ovvero certe esperienze di poesia assoluta che entrano nel

processo di creazione di questa nuova lingua scelta dal poeta prima ancora che egli ne avesse stabilito l’esatta grammatica ma che già sapeva essere purissima, seppure (o proprio perché) proveniente dal basso.

La purezza, a sua volta, non è scindibile da quell’universo dell’infanzia-adolescenza in cui il Pasolini friulano si proietta. In un celebre saggio del 1973 sul nesso poesia-infanzia-scuola50,

dopo una lunga e approfondita trattazione corredata da un nutritissimo numero di esempi, Zanzotto espone il caso dei «dialetti come parlata reale di tanti fanciulli o degli stessi poeti al tempo della loro infanzia (valga per il caso del ‘frut’ Pasolini)»51. L’esemplarità di Pasolini,

radicata nell’attività poetico-pedagogica e suggellata in seguito dalla morte, ritorna ancora una 46 ANDREA ZANZOTTO, Pasolini poeta, cit., p. 154.

47 SLA I, p. 664. Ma si veda anche il già citato saggio maggiore La libertà stilistica.

48 ANDREA ZANZOTTO, Pasolini, l’«Academiuta di lenga furlana», Nico Naldini [1984], in ID., Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 285.

49 Ivi, p. 286.

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volta sugli «alba pratalia» della giovinezza friulana, luogo in cui il poeta sempre rivolge lo sguardo, anche per portare a testimonianza un «mai-più»52. E chi se non Rimbaud incarna in

massimo grado la figura del poeta adolescente, del «’poeta di sette anni’, che pur finisce col pronunciare la bestemmia contro la poesia e che prefigura (ed esaurisce), nel fanciullo e nell’adolescente travolti dal silenzio, la poesia come rivoluzione-autocombustione d’infanzia, di cui l’adulto e l’adultismo non possono essere il movimento successivo, bensì la negazione»53?

Zanzotto si ricorderà di quel libro di Rimbaud, le Illuminations, che Pasolini mette nelle mani del Visitatore di Teorema quale «testimonianza di quel salto di qualità nell’esistenza che è l’irruzione dello sguardo poetico […] abbagliante allusione alla poesia […] angelo simbolico della poesia stessa»54. Quello di Zanzotto è lo stesso Rimbaud che incarna il primato della

poesia su tutto e che ben può far scrivere a Pasolini la memorabile affermazione secondo cui sarebbe «diventato antifascista per aver letto a sedici anni» una sua poesia55. Pasolini è per

Zanzotto innanzitutto «poeta» (prima ancora che romanziere, regista ecc.)56, e lo è in senso

rimbaudiano. È colui che compie un’operazione ormai impossibile ma allo stesso tempo necessaria57, che immette tutta la violenza e la lordura della vita in versi che ambiscano tuttavia

a essere puri58 e che crea una poesia che sia in massimo grado esperienza di trasformazione

(laddove l’incanto da essa compiuto non imponga alcun esito preliminarmente dato, giacché «votato prima al travolgere e poi, d’un sùbito, allo sparire»59).

La definizione della pedagogia pasoliniana come (non-)sistema «aperto al massimo, apedadogico»60 coinvolge non solo i suoi beneficiari, ma lo stesso pedagogo Pasolini, sempre

mosso da un’«incoercibile spinta a trovarsi in prima linea senza schermi, in carne viva, là dove finisce la continuità e inizia la discontinuità assoluta, dove forse si accampa finalmente la parola fondata su una verità “altra”, il nuovo logos», inassimilabile all’idea di uno strutturale «logos monocentrico, terrificante, capace di annichilire ogni zona di marginalità»61. Pasolini è

stato in tal senso per Zanzotto, sin da subito, una guida capace di indicare una via (forse l’unica praticabile per la propria generazione e quelle successive) attraverso cui rendere possibile

52 Cfr. ID., Pasolini poeta, cit., p. 159.

53 ID., Infanzia, poesie, scuolette, cit., pp. 185-6. 54 ID., Su Teorema (film e scritto), cit., p. 162. 55 SPS, p. 393.

56 Cfr. ANDREA ZANZOTTO, Pasolini poeta, cit., p. 153.

57 È noto come Pasolini ponga in chiusura della sua ricostruzione sulla Poesia dialettale del Novecento il Friuli e, più nello specifico, la sua esperienza casarsese. Già allora egli vedeva la sua poesia all’insegna del rimbaudiano «Je ne sais plus parler». Cfr. SLA I, pp. 855-6.

58 «Ma poi, fra le altre cose, si può davvero parlare di ‘poesia pura’ in Rimbaud? A noi sembra che mai poesia, come in Rimbaud, sia stata così contaminata dalla vita nella sua violenta e immediata accezione», in SLA I, pp. 358-9.

59 ID., Su Teorema (film e scritto), cit., p.163. Come la bacchetta e il libro di Prospero in The Tempest, gettati negli abissi perché la magia divenga davvero tale solo dopo essersi auto-occultata e dissolta. 60 ID., Pedagogia, cit., p. 142.

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l’esercizio necessario-impossibile della poesia. La «situazione» della poesia, scrive Zanzotto già negli anni Cinquanta, è tale per cui

non può sopravvivere che il conato di tenere unita in qualche modo l’anima, di superare momento per momento un’assoluta discontinuità: nevrosi degli “ultimi”, ha constatato recentemente Pasolini, riferendosi ad un’antologia di poeti62.

Questo sforzo continuo di formulare e riformulare un senso organico, mai dogmatico, mai paralizzato nella propria autonomia e autoreferenzialità, è il principale insegnamento della poesia-pedagogia di Pasolini ai contemporanei e ai posteri. Molti anni dopo, Zanzotto, in una sua poesia dal titolo Fora par al Furlàn, trasfigurerà Pasolini in un «benandante», spirito sempre in cammino dell’immaginario folclorico friulano:

Non c’è nulla che valga

ad esaurire questa inimmaginabile vibratilità né mano che entri decidendo un senso ultimativo

– come a un fossile film – alla tua vita

O Benandante63.

Nella nota alla poesia Zanzotto spiega il significato di questi versi facendo riferimento alla teoria cinematografica di Pasolini secondo cui il montaggio opera in una maniera analoga alla morte: quello dà significato all’opera filmica, questa fissa la vita in un suo senso stabile64. Ancora una

volta Zanzotto restituisce Pasolini, contro Pasolini stesso, alla sua natura di inafferrabile, di «inimmaginabile», di non riconducibile a una sola immagine, di uomo «inesauribile»: un «eretico», in primis con sé stesso perché in continuo divenire, anche e forse soprattutto nella morte; un uomo che, nei suoi ultimi giorni, parve non poter essere di nessuno e che, traumaticamente, non sentiva di appartenere nemmeno a sé stesso. Proprio per questo forse fu, e continua a essere, il poeta di tutti.

62 ID., Situazione della letteratura [inedito], in ID., Le poesie e prose scelte, cit., p. 1093. Nella relativa nota al testo Gian Mario Villalta data lo scritto intorno al 1955. Zanzotto sembra però qui alludere al saggio La libertà stilistica, pubblicato solo nel 1957.

63 ID., Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 65. Zanzotto aveva già dedicato in precedenza un’altra poesia a Pasolini, «Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan», acclusa nella raccolta Idioma, cfr. ID., Le poesie e prose scelte, cit., pp. 768-9.

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