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Non avevamo, ovviamente, la pretesa di dare una risposta univoca e certa, ma solo la volontà di indagare più approfonditamente l’argomento, anche attraverso un continuo confronto con lo stato della storiografia.

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Academic year: 2021

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Conclusione

Questo lavoro, nato con l’obiettivo di portare qualche contributo all’analisi della presenza militare sui campi di battaglia, aspira ad inserirsi nel filone della rinata storiografia militare italiana. In primo luogo speravamo di poter confermare le sempre più frequenti ipotesi che rifiutano la vecchia teoria secondo la quale l’apporto italiano alle battaglie successive alle guerre d’Italia sarebbe stato pressoché nullo. Inoltre anche la scelta delle fonti era volta a permetterci di valutare quale fosse stato, nel secolo appena concluso, l’atteggiamento della comunità scientifica italiana riguardo a questo argomento.

Non avevamo, ovviamente, la pretesa di dare una risposta univoca e certa, ma solo la volontà di indagare più approfonditamente l’argomento, anche attraverso un continuo confronto con lo stato della storiografia.

Ma cerchiamo innanzitutto di ripercorrere i passi che ci hanno guidato verso le conclusioni.

La prima analisi, relativa all’evoluzione cronologica del fenomeno, ha subito scardinato un vecchio mito, che considerava finita l’epoca dei grandi condottieri con la conclusione delle guerre d’Italia. Abbiamo infatti mostrato come le famiglie con una grande tradizione militare alle spalle non l’abbiano interrotta:

semplicemente mutò il modo di affrontare la guerra. I nobili capitani si

adeguarono ai cambiamenti imposti dalla cosiddetta rivoluzione militare e

contestualmente riuscirono ad inserirsi nel meccanismo di riorganizzazione

delle strutture statali. Misero la loro esperienza a servizio di un sovrano e il loro

contributo fece sì che si potesse cominciare un processo che avrebbe portato a

strutture militari di carattere stabile.

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Un’altra certezza della storiografia classica – e non solo, visto che è affermata anche da Hanlon, pur con l’eccezione del Piemonte sabaudo

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– è la quasi totale scomparsa di impegno bellico degli Stati italiani nel Settecento, seguito, ovviamente, da un’ulteriore diminuzione dei militari. Nonostante che i nostri dati sembrino confermare questo fenomeno, abbiamo comunque preferito sospendere il giudizio. In primo luogo per le fonti: solo il Dbi comprende anche il XVIII secolo e abbiamo già detto che sarebbe una base statistica troppo esigua per farvi affidamento. E in secondo luogo perché dubbi sulla veridicità di queste affermazioni sono posti anche da diversi studiosi

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, che invece hanno sottolineato una forte presenza italiana in campo militare in questo secolo.

Ci siamo anche trovati ad interpretare alcuni decenni di calo non come una reale diminuzione dei combattenti, ma come una lacuna delle fonti. Abbiamo infatti accertato che anche – e forse soprattutto – nel caso della storia militare alcuni eventi hanno goduto, sia sul momento che nei secoli successivi, di una maggior risonanza di altri generando una mole di scritti tale da influenzare pesantemente lavori successivi e quindi compromettere in parte un’analisi come la nostra, se non comprovata da altri studi. Emblematico il caso della battaglia di Lepanto, dove, stando ai dati, combatterono il 14 % del totale dei militari coinvolti nella nostra indagine.

L’impegno dei singoli, che abbiamo visto essere molto alto, si rispecchia in una parallela politica degli Stati i quali, a dispetto di quanto si è a lungo creduto, hanno coltivato intensamente il loro apparato bellico, sia per tenere adeguatamente pronti i sistemi difensivi, sia – e forse soprattutto – per essere in grado di potersi inserire, a tutti i livelli, nella politica internazionale. All’interno di questo lungo processo, non estraneo in nulla a quello, che invece ha goduto di molta considerazione da parte degli storici, di riorganizzazione dello Stato a livello burocratico, gli interessi dei singoli trovano un naturale sbocco in quelli statali e viceversa. La volontà di affrontare le guerre tra le file dei grandi eserciti

1 G. HANLON, The twilight cit., cap. 7.

2 Ci stiamo riferendo, in particolare, a Claudio DONATI, Il militare cit., p. 23 ed a Anna Maria RAO, Esercito e società cit., p. 147.

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“stranieri” trova una sua risposta nell’esigenza degli stati di avere ufficiali preparati potendo investire il meno possibile nella loro formazione. Allo stesso tempo questi facevano in modo di fornire importanti stimoli per far sì che i militari – ormai esperti – tornassero a combattere per il proprio esercito di casa.

Questi tentativi non sempre, però, andarono a buon fine: spesso gli stimoli forniti non furono abbastanza allettanti. In alcuni casi i posti offerti non erano adeguati all’esperienza di chi andava a ricoprirli, come ad esempio per i posti di capitano delle milizie dello Stato della Chiesa

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, oppure perché venivano fatti combattere fianco a fianco troppi grandi condottieri i quali non riuscivano ad adeguarsi alle gerarchie imposte, finendo per rendere impossibile una corretta conduzione dell’esercito, come accadde sempre nello Stato Pontificio

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. Oppure ancora non si riuscì a recuperare una lontananza ormai fattasi troppo forte, come quella che si era instaurata tra i castellani friulani e la Repubblica di Venezia

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. In altri casi, invece, questi tentativi godettero di un maggior successo, come nel Granducato di Toscana, dove l’indirizzo politico posto da Cosimo I con l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano

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fu proseguito anche riguardo all’esercito terrestre nel primi decenni del Seicento

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; oppure come nel caso del Ducato di Savoia, dove Emanuele Filiberto basò la ricostruzione dello Stato sulla riorganizzazione delle milizie e del sistema militare.

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Il processo di consolidamento degli eserciti statali favorì e allo stesso tempo fu favorito dalle evoluzioni sociali in atto nei secoli dell’età moderna. La nobiltà di antico lignaggio ebbe un’importanza fondamentale, in primo luogo perché rimase a lungo legata al suo ruolo classico di origine medievale (rinvigorito poi dall’esempio francese durante le guerre d’Italia), che le imponeva il servizio militare per il proprio sovrano; ma anche perché, in alcune zone in particolare, si trovò a fronteggiare l’arrivo di nuove famiglie, le quali cercavano di

3 G. BRUNELLI, Patriziati cittadini cit., pp. 43.

4 G. BRUNELLI, “Soldati della vecchia” cit., p. 440.

5 A. CONZATO, Dai castelli cit., p. 10 e sgg.

6 F. ANGIOLINI, «Politica, società» cit., pp. 20 e 21.

7 C. SODINI, L’Ercole cit., introduzione.

8 W. BARBERIS, Le armi cit.

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affermarsi mettendo le proprie risorse, umane e soprattutto materiali, a servizio del proprio sovrano. Rimanere ancorati ai propri incarichi diveniva così necessario per tutti gli aristocratici che non volessero perdere i propri privilegi.

Stando alle affermazioni di Hanlon

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, questa nobiltà combattente sembra declinare già dalla metà del Seicento. Anche in questo caso – in cui ancora una volta i nostri dati si rivelano scarni – abbiamo evitato di esprimere un giudizio netto o di avallare la tesi dello storico canadese; preferiamo piuttosto aderire alla teoria di molti storici italiani, che ritengono più prudente inserire questa diminuzione – sempre che esista – nel processo ben più complesso e ampio che vede la nobiltà di tutta Europa cominciare in questo periodo a declinare come ceto. Il fatto, però, che alcune famiglie perdessero determinati privilegi a causa anche dell’impegno di parvenus di vario genere, non implica che diminuisse di attrattiva lo status nobiliare in sé, il quale costituiva l’obiettivo dei nuovi arrivati, che, per conquistarlo, si prodigavano a seguirne le regole, ivi compresa l’attività militare.

Inoltre abbiamo anche visto che il mestiere delle armi rimarrà ancora per tutto il Settecento una caratteristica peculiare della nobiltà, tanto che i suoi vecchi esponenti cercarono di tutelare la loro posizione continuando a ricoprire ruoli che, più di ogni altro incarico, avevano il potere di sancirla, primo tra tutti quello di cavaliere dell’Ordine di Malta

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Concludendo, possiamo quindi affermare che gli Italiani non si allontanarono dal mestiere delle armi durante l’età moderna, ma che questo continuò invece ad essere un tipico servizio dell’aristocrazia peninsulare. Inoltre cominciò ad acquisire sempre di più le caratteristiche di un mestiere e divenne perseguibile – anche con un discreto successo - pure da chi non aveva antenati blasonati. Gli Stati italiani, quindi, non si distaccavano molto dalla media europea, come confermano anche le indagini di Bercé, che calcola per il 1643, l’ 1% del totale

9 G. HANLON, The Twilight cit., p. 7.

10 A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie cit., introduzione.

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della popolazione della penisola impegnato in attività militari: circa la stessa cifra degli altri Stati europei nello stesso periodo

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.

Questa tesi è da considerarsi – prendendo in prestito un’espressione di Hanlon, anche visti i tratti in comune dei nostri lavori – una “pre-inchiesta”, che deve essere confermata, tramite approfondite e localizzate indagini, che permettano di vagliare le situazioni peculiari di ogni singola area.

Non trascurabile è, per altro, la riflessione svolta sulle fonti utilizzate, che ci permette di cogliere quale sia stato l’approccio storiografico nei confronti del militare nel secolo appena concluso. Pur essendo il frutto di due mentalità profondamente differenti, entrambe le tipologie di fonti ci dipingono un quadro degli studi decisamente limitato: con uno scarso interesse da parte del Dbi, e con un’enfasi eccessiva, e addirittura cieca in alcuni momenti, da parte dei repertori di epoca fascista, talmente impegnati a dare risonanza al “grande passato degli Italiani”, da venir spesso meno al doveroso processo di analisi critica e puntuale dei dati necessaria per ogni lavoro di carattere storico.

Ribadendo ancora una volta l’importanza dell’aspetto militare quale tassello essenziale per la comprensione degli sviluppi politico-sociali di età moderna, ci auguriamo quindi che questa nostra indagine possa costituire un piccolo contributo concreto per la ricerca sulla storia militare, e che possa anche fornire stimoli e confronti per ulteriori studi.

11 Y.-M. BERCÉ, Les guerres cit., p. 322.

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