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Consiglio Superiore della Magistratura

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Academic year: 2022

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Consiglio Superiore della Magistratura

Settima Commissione

Commissione per l’organizzazione degli uffici giudiziari

Seminario

“Giurisdizione e protezione internazionale”

Roma, 26 settembre 2016 Sala Conferenze del C.S.M.

***

I lavori sono sospesi alle ore 13,10; riprendono alle ore 14,43

SECONDA SESSIONE

Mediterraneo, Italia, Europa:

politiche per i rifugiati tra integrazione e sicurezza

Francesco CANANZI, Presidente della Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – Buon pomeriggio a tutti. Introduciamo questi lavori

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pomeridiani. Ringrazio il Presidente della Camera dei Deputati, onorevole Laura Boldrini, il Ministro della giustizia, onorevole Andrea Orlando e il Ministro dell’interno, che ci raggiungerà più tardi per impegni istituzionali. Ringrazio tutte le autorità presenti che si sono rese disponibili a questo confronto. Un ringraziamento va anche ai colleghi Consiglieri qui presenti e a tutti i dirigenti ed i magistrati che oggi sottraggono del tempo al quotidiano impegno negli uffici giudiziari.

Questa iniziativa nasce dall’aver raccolto l’invito del presidente Mattarella, che in occasione della “Giornata mondiale del rifugiato” invitava a percorrere in tema di migrazione le strade delle buone politiche, serie e lungimiranti, che guardino al futuro. Abbiamo inteso questo interpello come un interpello rivolto anche alla giurisdizione e da qui l’esigenza di questo tempo di riflessione che ci siamo regalati.

Aggiungo un ultimo ringraziamento, in particolare, al Vice Presidente del Consiglio Superiore, l’onorevole Giovanni Legnini, che ha fortemente voluto questa giornata di confronto a seguito dell’incontro che avemmo con Stephane Jaquemet, che è qui presente, cogliendo la necessità di fermarci a riflettere su quella che potrebbe diventare un’emergenza giudiziaria se non riusciremo, facendo ciascuno la propria parte, ad assicurare un dignitoso livello di tutela a chi ha diritto allo status di rifugiato.

Pertanto, do subito la parola al Vice Presidente per un suo indirizzo introduttivo.

Giovanni LEGNINI, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura – Buon pomeriggio a tutti. Ringrazio moltissimo il Presidente della Camera dei Deputati, il Ministro della giustizia, il Ministro degli interni, che arriverà più tardi, i relatori, gli interventori, voi tutti magistrati, capi degli uffici, i colleghi Consiglieri, tutte le autorità presenti.

Oggi è un giorno per noi specialissimo. Questa mattina, alla presenza del Capo dello Stato, abbiamo approvato il nuovo Regolamento, lo Statuto per il funzionamento di questa istituzione. Quindi questa mattina questo importante

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appuntamento e oggi pomeriggio questo seminario; e sempre oggi in Cassazione e domani in questa sala, ospiteremo la rete dei Consigli di Giustizia dei Consigli Superiori europea, l’ENCJ, alla quale partecipiamo attivamente. Quindi, grazie ancora per questa vostra numerosa e calda presenza.

“I grandi movimenti di rifugiati e migranti hanno ramificazioni politiche, economiche, sociali, di sviluppo, umanitarie e dei diritti umani che attraversano tutti i confini. Si tratta di fenomeni globali che richiedono un approccio mondiale e soluzioni globali. I migranti possono dare un contributo positivo e profondo allo sviluppo economico e sociale delle società di accoglienza e alla creazione di ricchezza globale. Possono aiutare a rispondere alle tendenze demografiche, alle carenze di manodopera e ad altre sfide nelle società di accoglienza e aggiungere competenze fresche e dinamismo alle economie”. Sono, queste, parole tratte dalla Dichiarazione ONU di New York in materia di migranti e rifugiati approvata pochi giorni fa, lo scorso 20 settembre, che coronano un lungo processo di confronto internazionale nel corso del quale, lo scorso anno furono assunti gli impegni contenuti nell’Agenda 2030. Non vi sono parole migliori di queste per tratteggiare la profondità e l’ampiezza dell’impegno di ciascuno degli Stati e delle istituzioni, di ciascuno di noi nell’affrontare il fenomeno di gran lunga più incidente sul futuro del pianeta insieme a quello dei cambiamenti climatici e della tutela dell’ambiente naturale.

Con l’ambizioso intento per cui nessuno deve essere lasciato indietro, i Paesi sottoscrittori dell’Agenda 2030 si sono assegnati fondamentali obiettivi da raggiungere nei prossimi quindici anni; tra questi, l’Obiettivo n. 16 impegna gli Stati a garantire accesso alla giustizia per tutti e a costruire istituzioni efficaci, trasparenti ed inclusive a tutti i livelli. Ed è con questa consapevolezza dell’altezza delle sfide che abbiamo di fronte, che il Consiglio Superiore ha inteso promuovere questo confronto sui grandi temi del rapporto tra il governo delle migrazioni e la giurisdizione.

Particolarmente importante è avere con noi oggi, insieme alle massime

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espressioni del Parlamento e del Governo (vedo anche deputati, che saluto), il rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il signor Stephane Jaquemet. Come diceva il presidente Cananzi, con lui abbiamo pensato di tenere questo incontro per avviare un percorso. Ringrazio quindi lui e tutti i relatori per il contributo che sapranno offrire alla riuscita del seminario odierno e che hanno già offerto: in particolar modo la VII Commissione, il presidente Cananzi e tutti i componenti, che hanno curato l’organizzazione di questo evento.

La condizione dei migranti e, tra essi, quella più difficile dei richiedenti rifugio e asilo, mettono in gioco il ruolo di tutte le istituzioni e interrogano ovviamente la giurisdizione sulle modalità concrete di garanzia dell’assistenza, dell’accessibilità e della tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Si tratta di un tema di portata globale, che chiama in causa la capacità degli Stati-nazione, dei Fori internazionali multilaterali, delle Agenzie delle Nazioni Unite di affrontare i grandi movimenti di rifugiati e migranti che solcano terre e mari. Temi che il CSM sta sviluppando anche nel quadro dei rapporti con altre magistrature e con i Consigli di Giustizia dei diversi Paesi, così come nelle reti di cooperazione giudiziaria internazionali, in primo luogo quella europea ENCJ, che – come dicevo – ospitiamo qui questi giorni; la Rete dei Balcani e dell’Euro-Mediterraneo va ormai, inoltre, strutturandosi e l’assemblea plenaria di questa Rete si è tenuta proprio in questa sala lo scorso mese di giugno.

Il Consiglio Superiore della Magistratura considera di preminente interesse interrogarsi sul ruolo della giurisdizione di fronte al tema dei flussi migratori: un fenomeno di sconvolgente portata per l’area mediterranea, che oltre a generare emergenze umanitarie e forti tensioni sociali, ci assegna la responsabilità di tentare di fornire nel miglior modo possibile una risposta organizzata sul piano delle competenze giurisdizionali, anche formulando proposte e suggerimenti in vista di un possibile intervento di riforma di cui il Ministro della Giustizia qualche tempo fa ha parlato. Un profilo, questo, sul quale si sono soffermati con i loro interventi nella mattinata odierna i relatori ed altri vi faranno riferimento nel prosieguo dei nostri

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lavori.

Gli istituti di protezione umanitaria possono assolvere alla propria preziosa funzione solo quando vi è un livello di integrazione, continuità e coerenza tra gli indirizzi di azione nella gestione dei flussi migratori, l’attività legislativa in materia e da ultimo l’esercizio della giurisdizione. E’ sempre utile rammentare che vi è un livello costituzionale della protezione umanitaria, che non per caso la nostra Carta fondamentale disciplina all’articolo 10, cioè tra i principi fondamentali. Tale disposizione stabilisce – come è noto a tutti – che lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Per molti anni la dottrina costituzionalistica ha richiamato l’attenzione sull’assenza di una legge sul diritto di asilo e ciò ha innescato un ricco e complesso dibattito circa la natura direttamente precettiva o soltanto programmatica dell’articolo 10 della Costituzione che ho appena richiamato.

Mi richiamo a questo tema, troppo spesso ignorato da chi si colloca in una posizione di contrasto della necessità per il nostro Paese di garantire un’efficace politica dell’emigrazione, perché esso evidenzia da subito una delle caratteristiche principali dell’operato del giudice in tale complessa materia. Si tratta della diretta incidenza sui diritti fondamentali, che mai come nell’ambito della protezione umanitaria pone il magistrato di fronte ad opzioni interpretative difficili, complesse anche per via delle conseguenze delle singole decisioni appunto in materia di rifugio e di asilo. Basta osservare come il giudice (e voi lo sapete bene) si trovi ad incidere direttamente su tutti i profili sensibili e decisivi che costituiscono gli obiettivi della Dichiarazione dell’Agenda 2030: il rispetto dei diritti umani dei migranti, a prescindere dal loro status giuridico; la presa in carico delle vulnerabilità dei rifugiati, migranti e persone in movimento; gli effetti sui singoli della gestione delle migrazioni per uno sviluppo sostenibile; la risposta alla condizione di chi vive l’esperienza delle crisi umanitarie e delle migrazioni forzate; il sostegno al pieno diritto dei cittadini di tornare nel loro paese di origine. Ma la complessità nel compito di conferire

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effettività a tali diritti fondamentali e a queste aspettative meritevoli di tutela, diviene ancora più forte per due ulteriori ragioni: in primo luogo, perché la questione dei numeri ormai soverchianti rischia di confinare sullo sfondo la peculiarità della singola vicenda umana del migrante. In secondo luogo, appare sempre più avvertita anche nella percezione collettiva l’intersezione profonda tra i diritti dei migranti in cerca di protezione umanitaria e la sicurezza nazionale, la tenuta dei confini; il peso della instabilità economica che potenzialmente proviene dalle migrazioni di massa.

Di fronte a tali dirompenti questioni, posto di fronte alla richiesta di protezione, spesso sotto la forma del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale, il giudice italiano si trova a poter contare su strumenti ancora incompleti e imperfetti, comunque su elementi e conoscenze che lo pongono di fronte al multiculturalismo, alla esigenza di conoscere contesti, culture, società con le quali il contatto non è abituale. E ciò accade spesso in un rapporto difficile e distante con il singolo migrante, che risulta dunque non come un soggetto debole, portatore di un diritto fondamentale, ma come un individuo sommerso, inconoscibile nel mare indeterminato degli altri richiedenti asilo o rifugio. Intendiamo fornire un impegno costante in questo ambito perché esso costituisce il segno di una forte sensibilità rivolta verso i soggetti più fragili, come testimonia del resto la collaborazione che si intende avviare con l’OCSE per un’analisi dell’attività giudiziaria connessa agli hate crimes in Italia e ai flussi di procedimenti giurisdizionali connessi con manifestazioni di xenofobia, discriminazione e razzismo.

Proprio dalle crescenti difficoltà vissute dalle giurisdizioni al cospetto dei fenomeni migratori, scaturiscono le esigenze alla base della delibera del CSM del 14 luglio 2016, con le quali si è giustamente data vita all’area tematica in materia di giustizia e protezione internazionale. In questo ambito intendiamo rafforzare la collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, cui il Consiglio cercherà nell’immediato futuro e nei limiti delle nostre possibilità, di fornire i dati integrati e analitici dei procedimenti giudiziari connessi con gli istituti di protezione umanitaria nell’ordinamento italiano. L’intento è duplice: fronteggiare

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l’emergenza quantitativa, la crescita esponenziale del numero dei ricorsi; affrontare la dimensione qualitativa ed individuale del problema della protezione umanitaria offrendo risposte all’intero ordine giudiziario, chiamato a fronteggiare la sfida globale.

Si tratta di questioni che coinvolgono direttamente la formazione dei magistrati italiani. Al riguardo, rivolgo un sentito ringraziamento al Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, qui presente, il professor Gaetano Silvestri, che ha ritenuto di condividere e sostenere l’iniziativa del Consiglio Superiore in materia di giurisdizione e protezione internazionale, nella consapevolezza che il profilo della formazione e dell’apertura a saperi diversi da quelli di cui è tradizionalmente depositario il magistrato in Italia, costituisca il pilastro da porre e al contempo il cuore della sfida da raccogliere. Tuttavia, la giurisdizione è anche investita dalla necessità di coniare buone prassi operative per gli uffici giudiziari; assicurare garanzia sui tempi di definizione dei procedimenti giurisdizionali; individuare le priorità e gestire l’intensità dei flussi dei ricorsi, peraltro concentrati sulla competenza territoriale di un numero ristretto di uffici (sempre meno ristretto, purtroppo).

Sostenere le scelte organizzative dei capi di questi uffici, molti dei quali presenti, costituisce dunque un elemento di vitale importanza e riconduce direttamente ad un elemento di specializzazione e competenza, di cui si deve disporre per fare fronte a quella che non di rado assume i contorni appunto di una emergenza umanitaria.

La dimensione epocale di un fenomeno che il presidente Mattarella ha di recente invitato a fronteggiare con senso di realtà e di responsabilità, governandolo in maniera solidale e intelligente e consentendo di regolarlo con ordine e sicurezza;

appunto questa esigenza impone all’ordine giudiziario inedite e innovative forme di integrazione con le conoscenze e l’azione degli altri poteri dello Stato. Da qui il senso anche del confronto di oggi, nonché con i vari livelli di gestione e governo del tema delle migrazioni. Al riguardo, ad esempio, è allo studio un procedimento di collaborazione con la Guardia Costiera, Capitaneria di porto. E rivolgo il mio saluto al Comandante generale Vincenzo Melone qui presente, auspicando che il celere

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sviluppo di questa iniziativa consenta alla Settima Commissione del Consiglio di proporre alle Procure e agli Uffici giudiziari, la cui competenza insiste sui circondari marittimi, di avvalersi con continuità e secondo logiche di efficienza ed operatività immediata, di squadre specializzate della Capitaneria di porto. Una collaborazione, questa, che potrà essere sviluppata anche su altri fronti sia ai fini della lotta alla tratta degli esseri umani e dei reati di sfruttamento dell’immigrazione, sia per favorire una piena comprensione da parte della magistratura requirente e giudicante dello sfondo su cui si colloca l’esigenza di tutela dei soggetti più fragili.

Il legislatore ha affidato già nel 2015 al CSM la competenza a delineare un piano straordinario di applicazione extra distrettuale di magistrati, volto a fronteggiare l’incremento dei numero dei procedimenti giurisdizionali connessi con le richieste di accesso al regime di protezione umanitaria. Si è trattato di una iniziativa quanto mai opportuna, frutto della sensibilità del Ministro della Giustizia – che voglio ringraziare – che deve tuttavia spronare ciascuno degli attori coinvolti nel processo di governance dei flussi migratori a farsi carico di elaborare soluzioni ancora più efficaci che sfuggano alla logica dell’emergenza e, al contrario, possano contare su un respiro ampio e multilivello, nonché su una portata di sistema, anche al fine di garantire il rispetto delle convenzioni internazionali e degli accordi in materia, sul puntuale rispetto dei quali nei giorni scorsi il Consiglio d’Europa ha richiamato, per la verità con affermazioni un po’ singolari perché provenienti dall’Europa, il nostro Paese.

In definitiva, è questo lo spirito del seminario di oggi, che appare peraltro coerente con una delle conclusioni più rilevanti che emergono dalla citata dichiarazione ONU di New York: la prospettiva di predisporre in sede multilaterale e su scala mondiale un Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare.

Dalla capacità di offrire queste risposte ad una crescente ed inderogabile domanda di giustizia e dalla necessità di favorire l’approfondimento dell’analisi sui delicati intrecci criminali e finanziari che circondano i fenomeni migratori del Mediterraneo, discende la possibilità di rifuggire dalle soluzioni semplicistiche, dalle

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sirene taumaturgiche che vedono nella risposta simbolica dei muri e delle barriere - il voto di ieri in Svizzera è solo l’ultimo preoccupante segnale che ci proviene dall’Europa, e non solo dall’Europa – la soluzione a tendenze planetarie che invece segnano un’epoca in tutta la loro drammatica e articolata complessità. Certo, non ci sfugge che la predisposizione dei pur necessari strumenti giuridici e processuali costituisce una parte soltanto di impegni ben più complessi e gravosi. Ma a noi spetta di contribuire a rafforzare una parte delle numerose risposte che impegnano il nostro Paese e la comunità internazionale.

E’ in questa prospettiva costruttiva, che si accompagna al senso di una responsabilità consapevole e gravosa, che ancora una volta vi ringrazio tutti per avere voluto prendere parte a questo momento di confronto che per noi costituisce l’avvio di un lungo ed intenso cammino. Grazie a tutti e buon lavoro.

Francesco CANANZI, Presidente della Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – Ringrazio il presidente Legnini, perché dietro questo incontro c’è anche il suo impegno, il fatto di avere creduto in questa iniziativa. Il presidente Legnini ci introduce nello spirito di questo pomeriggio. Dicevo prima alla presidente Boldrini che l’obiettivo di questa giornata è quello di far crescere la sensibilità organizzativa verso le procedure di protezione internazionale, facendo presente ai capi degli uffici che probabilmente si devono anche operare delle scelte tabellari che mettano maggiormente al centro questa tipologia di procedure. E’, questa, una giornata di ascolto e di proposta anche per il Consiglio Superiore.

L’obiettivo è quello di sostenere il più possibile gli uffici giudiziari mettendo a disposizione buone prassi, diffondendo modelli organizzativi sperimentati, cercando di creare un dialogo tra le istituzioni che ci consenta effettivamente di fare dei passi in avanti come sistema, pur nella diversità delle funzioni e nell’autonomia dei poteri, con un unico interesse: quello esclusivo di riconoscere il diritto a chi ha diritto allo status di rifugiato.

Noi non siamo all’anno zero. Il presidente Legnini faceva riferimento

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all’istituto delle applicazioni extra distrettuali, del quale abbiamo discusso stamattina, che ci ha dato non poche complicazioni perché con una scopertura della pianta organica dei magistrati del 12% è evidente che è difficile realizzare delle applicazioni. Ma nonostante tutto – e devo dire grazie alla particolare attenzione del Ministro della Giustizia, che raccolse il sollecito che veniva dal Consiglio Superiore con il parere del 16 luglio 2015 – siamo riusciti a procedere a sedici applicazioni extra distrettuali dedicate in via esclusiva alla trattazione dei procedimenti di protezione umanitaria. Una scelta costosa, ma che in una certa misura è una scelta valoriale che sta a significare che il Consiglio fa sua una priorità, che è quella appunto di una politica giudiziaria che abbia a cuore questa tipologia di procedimenti.

Non sappiamo ancora bene quali sono i frutti di queste applicazioni. Abbiamo però un dato che secondo me è indicativo e probabilmente positivo, perché nel corso dei primi cinque mesi, negli uffici giudiziari di Bari, Brescia, Catania, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria e Roma, ai magistrati assegnati in applicazione sono stati affidati 5.600 procedimenti e nei primi cinque mesi il 30% di questi procedimenti risultano definiti. La prova dei fatti l’avremo evidentemente in prospettiva e probabilmente bisognerà anche investire maggiormente nella formazione per una particolare specializzazione dei colleghi che verranno destinati per le applicazioni. Ci sarà, alla luce della verifica, la possibilità di andare a verificare se implementare il numero delle applicazioni; se consentire una proroga ulteriore del periodo di applicazione. Come anche – e la giornata di questa mattina ce lo ha detto chiaramente – esistono tante buone prassi. Esistono delle convenzioni pensate o realizzate: penso, ad esempio, a quella del Tribunale di Catania, che consente di avere una maggiore celerità nelle comunicazioni con la Commissione territoriale oppure consente alla Commissione territoriale di conoscere qual è la giurisprudenza del Tribunale, anche per poter orientare le proprie decisioni.

Occorre poi – e qui siamo certi di poter contare sulla disponibilità del Ministro della giustizia – censire nel dettaglio quali siano i procedimenti pendenti aventi questo oggetto della protezione internazionale, perché fino ad oggi noi conosciamo

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con certezza i procedimenti pendenti dal 1° gennaio 2016; qualunque forma di progettualità organizzativa passa per una conoscenza anche per quanto riguarda gli anni precedenti: il 2014 e soprattutto il 2015. Come anche il Presidente faceva riferimento alla nuova area del portale del Consiglio Superiore, che sarà un luogo che consentirà di poter contare su una banca dati, su una elaborazione sui casi giurisprudenziali e soprattutto potrebbe consentire, con la disponibilità del Ministero dell’Interno, anche di poter accedere alle informazioni ufficiali sui paesi di origine:

tema, quello delle fonti di conoscenza, che evidentemente è un tema centrale per il giudice che si occupa della protezione internazionale.

Credo che ci sia una priorità per la giurisdizione, che è quella di coniugare la qualità delle decisioni con la quantità crescente dei procedimenti. Questa è una priorità che riguarda ogni ambito di intervento dei giudici, ma deve essere ancor più presente quando in gioco sono i diritti inviolabili della persona, come riconosciuti dall’articolo 2 e declinati dall’articolo 10, comma 3, della Costituzione con il diritto di asilo. Credo anche che si debba essere orgogliosi della nostra civiltà giuridica e dell’impegno che la magistratura italiana ha profuso. Ha fatto crescere nel Paese, fin dagli anni Settanta dello scorso secolo, la consapevolezza della precettività dei diritti costituzionali, indicando la strada in alcune occasioni che è stata anche colta da un legislatore attento: penso, ad esempio, ai diritti dei lavoratori, al diritto alla salute, ai diritti ambientali. Queste relazioni tra le fonti nazionali, eurounitarie, e quelle internazionali richiedono, e richiederanno sempre di più, alla magistratura italiana ulteriori operazioni ermeneutiche che abbiano a cuore il senso delle disposizioni costituzionali e la tutela della dignità umana. Alla magistratura spetta ricordare che la giustizia non si riduce esclusivamente a logiche economicistiche, ma contempla anche i diritti umani e sociali accanto a quelli economici, come l’impianto costituzionale ci suggerisce.

Credo che non vi sia spazio alcuno, né giuridico né politico, che consenta di rinunciare ad un’adeguata, reale ed efficace verifica giurisdizionale sullo status del richiedente, cosicché l’auspicio è che non si vada verso forme di semplificazione

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procedimentale che frustrerebbero la giustizia delle decisioni in merito alle domande di asilo, né tantomeno si vada verso esclusioni della delibazione da parte dell'autorità giudiziaria. Anche un solo diritto di protezione ingiustamente negato credo che sia una lesione non sopportabile per l’Europa. E stamattina nel dibattito che c’è stato con il sottosegretario Mansione e con il sottosegretario Migliore, abbiamo discusso dell’Europa. E’ questione di civiltà giuridica che deve animare l’idea della nuova Europa da costruire dopo Brexit.

Quella dei migranti è una sfida, che è prima di tutto una sfida politica dalla quale l‘Unione Europea potrebbe trarre una nuova identità. Io credo che l’Unione Europea abbia bisogno di una politica forte che riscopra le proprie radici, quelle che ispirarono l’istituzione, dopo la seconda Guerra Mondiale, nella ricerca della pace e della giustizia la volontà di futuro, la solidarietà, i diritti umani o sociali. Ma forse in Europa, accanto ai diritti, proprio per renderli sostanziali e non formali, occorre anche scoprire i doveri, come peraltro chiedeva Aldo Moro, che abbiamo ricordato nel centenario della nascita, allorquando affermava che la stagione dei diritti sarà effimera se non nascerà una nuova stagione dei doveri, un nuovo senso del dovere, a cominciare da quello di solidarietà.

Tornando alle procedure, credo che si debba assegnare un tempo adeguato per la decisione, che consenta al richiedente di comprendere quale sia la propria condizione; tempo adeguato ma non eccessivo, come quello che si sperimenta invece in alcuni casi in Italia, che alimenta nel richiedente asilo situazioni di inerzia, di parassitismo, se non a volte forme di disagio mentale nell’attesa del giudizio.

Non è facile confrontarsi con il populismo, ma una politica autorevole è in grado di contrapporvisi con la serietà delle misure messe in campo. E in questo senso mi sembra opportuno citare il Decreto del Ministro dell’Interno del 10 agosto 2016 con il quale si vanno ad estendere i percorsi di accoglienza integrata dello SPRAR il più possibile, coinvolgendo ancor più gli enti locali. Credo che quella dello SPRAR sia un’esperienza virtuosa che possa consentire l’effettività di una permanenza dei richiedenti asilo in Italia in maniera dignitosa e decorosa.

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Sappiamo tutti da dove nascono i fenomeni migratori e sappiamo tutti anche quali sono le cause che giustificano le domande di diritto di asilo. Condizioni che peraltro hanno sempre nella storia determinato flussi migratori e che rendono oggi anche più attuali le parole che Emma Lazarus, poetessa americana nel 1883 faceva dire alla Statua della Libertà: “Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite e desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste”. Una descrizione, quella degli Stati Uniti, non molto dissimile, alla fine del XIX secolo, da quella che ora l’Unione Europea sta vivendo, con le carrette del mare che anche nel corso di questa estate abbiamo visto intercettate e salvate dalle nostre Forze Armate e di Polizia, alle quali va il nostro ringraziamento per questa azione di civiltà e di solidarietà.

Se le migrazioni non sono eventi saltuari ma un fenomeno costante, che ha costituito, come la storia dell’umanità ci insegna, anche una risorsa ed una fonte di sviluppo e di progresso, meritano di essere citate le parole di Ban Ki-moon, che appena il 21 settembre scorso, dopo avere ricordato di essere stato egli stesso rifugiato a seguito della guerra in Corea, ha affermato che quel vertice (quello del 21 settembre), dedicato in particolare ai giovani rifugiati, celebrava anche i vantaggi della mobilità umana globale. Affermava: “Stiamo dimostrando che i rifugiati e i migranti sono dei partner cruciali. E’ per questo che non vedo l’ora di sentire i giovani rifugiati qui oggi. Conoscono le sfide e le opportunità meglio di chiunque altro”. Rifugiati e migranti, quindi, occasione di progresso.

La sfida è quindi quella che il presidente Mattarella ci invita a raccogliere:

politiche serie e lungimiranti, iniziative anche giudiziarie serie, scelte organizzative lungimiranti. La magistratura sta facendo, e ancor più dovrà fare, la sua parte. Il fenomeno migratorio va affrontato con senso di realtà e responsabilità, ma non senza garanzia per la sicurezza, come diceva prima il Vice Presidente.

Consentitemi di chiudere questa introduzione ricordando un evento storico avvenuto nel cuore dell’Europa il 26 giugno 1963. John Fitzgerald Kennedy a

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Berlino, nel famoso discorso nel quale si diceva cittadino di Berlino, aggiungeva: “La libertà ha molte difficoltà e la democrazia non è perfetta, ma non abbiamo mai costruito un muro per tenere dentro i nostri. Il muro è un’offesa non solo contro la Storia, ma contro l’umanità. La libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero”. Credo che quando sentiamo riecheggiare le intenzioni di costruire muri, a Calais come in Austria e nell’Est Europa, debbano tornare alla nostra mente queste parole: la libertà è indivisibile; se ad un solo uomo si nega con un muro la libertà di muoversi, nessuno sarà più libero.

Vorrei aprire questo confronto, scusandomi per la lunghezza di questa mia introduzione, cedendo la parola al Presidente della Camera, ringraziandola per la presenza, per il contributo certamente qualificato che saprà fornirci, ancor più perché vissuto in forza dell’esperienza avuta quale portavoce della rappresentanza per il Sud Europa dell’Alto Commissariato per i rifugiati. Le cedo la parola con l’auspicio che si apra il tempo della comunicazione e del dialogo tra i popoli dell’Unione e che il tempo dei muri sia quanto prima sepolto per sempre nella nostra Europa.

Laura BOLDRINI, Presidente della Camera dei Deputati – Ringrazio il presidente Cananzi e ringrazio il presidente Legnini per avermi invitata e per avere voluto organizzare questa iniziativa. Saluto e ringrazio l’amico ministro Andrea Orlando. Saluto e ringrazio i parlamentari presenti, il sottosegretario Migliore ed i tanti amici ex colleghi che vedo in questa sala; i giudici e le giudici con le quali in passato ho avuto modo di collaborare in più occasioni. Grazie perché avete voluto mettere al centro uno dei temi più rilevanti della nostra contemporaneità ed anche uno dei temi più complicati: i flussi migratori, gli spostamenti di popolazione. Uno dei temi che si impone all’agenda politica sempre di più, anche a livello internazionale, è stato detto prima dal presidente Legnini.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha organizzato appunto un grande summit. C’è stato un summit in cui il tema era “Le migrazioni forzate e non forzate”.

Questo è il primo grande distinguo: forzate e non forzate. Un incontro di cui avevo

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parlato con il Segretario Generale poco tempo fa. Avevo incontrato al Palazzo di Vetro anche la responsabile che stava organizzando questo incontro, proprio nell’ottica di capire come intendevano sviluppare questo incontro. L’incontro si è concluso con l’impegno di due Global Compacts: uno sulla migrazione e uno sui rifugiati, in cui si cerca di mettere in evidenza i meccanismi integrati per fare fronte al fenomeno. Il succo di questo incontro è stato che per fare fronte in maniera adeguata alla sfida che abbiamo davanti, dobbiamo trovare dei meccanismi efficaci di collaborazione sia tra le amministrazioni dello Stato, sia tra Stati. Tant’è che il presidente Obama, il giorno dopo, ha anche lui voluto fare un incontro proprio su questo tema, perché questo tema non può essere più tenuto ai margini dell’agenda politica.

Il nostro Paese, come sapete, in questo ambito gioca un ruolo importante anche a livello internazionale. Quando siamo negli incontri internazionali, noi abbiamo diritto più di altri di dire la nostra su questo tema, perché questo tema lo affrontiamo ogni giorno. Il nostro è un flusso misto, quindi più complicato. Sappiamo bene che sulla stessa carretta del mare ci sono i migranti economici e ci sono i richiedenti asilo;

quindi questa presenza composita implica anche la capacità di chi poi dovrà trovarsi a valutare queste domande. Una capacità che necessariamente deve essere basata sulla professionalità, proprio perché in un’Europa in cui oggi le politiche migratorie sono irrealisticamente a tasso zero di quota d’ingresso, non ci sono quote legali di ingresso, tutti cercano chiaramente di usare il canale dell’asilo, con le dovute disfunzioni che questo causa e con la pressione che questo adduce a chi poi è chiamato a dover valutare le richieste di asilo.

Io vedo qui davanti l’ammiraglio Melone; lo saluto e lo ringrazio. Ringrazio la Guardia Costiera, la Marina Militare per tutto quello che fanno, in nome e per conto del nostro Paese. Loro ci rendono orgogliosi di essere italiani, perché fanno a volte l’impossibile, se pensate che nel biennio 2014-2015, loro hanno salvato oltre trecentomila vite umane, cioè hanno coordinato i soccorsi o sono intervenuti direttamente, e comunque hanno impedito che la popolazione di una città come Bari

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venisse completamente fagocitata dalle onde. Lo hanno impedito, perché di questo si tratta. Bari o Catania risucchiate dalle onde; immaginate il disastro che sarebbe, se non ci fosse questo pronto intervento. Sono contenta che “Fuocoammare” è il film che è stato scelto per la candidatura all’Oscar, a dire che anche nel mondo della cultura questo sforzo ci viene riconosciuto.

L’accoglienza. Approfitto perché qui c’è da parlare di più ambiti. Siamo di fronte ad un nuovo piano nazionale che è sottoscritto per la prima volta, oltre che dalle Regioni (così era anche prima) anche dall’ANCI, e questo mirerà a ripartire in modo capillare su tutto il territorio nazionale i richiedenti asilo. E’ anche in via di conclusione la riforma dello SPRAR. Anche questo sarà un contributo importante per incrementare il numero delle persone accolte nei progetti che sono a piccola scala, perché è meglio accogliere in progetti che sono a dimensione di uomo e di donna anziché nei grandi centri, che impattano sulla realtà locale e creano quindi tensione e a volte anche antagonismo con le popolazioni locali.

Anche sul piano delle identificazioni, sapete che per anni i nostri partner europei ci hanno sgridato perché noi non identificavamo in modo sistematico e quindi dicevano: “Sì, va bene, voi salvate in mare, è vero, però poi non fate le dovute pratiche di identificazione, sicché tutti vengono da noi e fanno la domanda d’asilo da noi, come se fossero entrati nei nostri paesi anziché entrare prima in Italia”. Questo era il rimprovero che ci veniva fatto. Io penso che anche questo sia superato. Oggi anche noi facciamo una identificazione che possiamo dire su base sistematica. Lo vedete voi con il numero dei ricorsi, un numero sempre crescente. Questo vuol dire che sono aumentate le domande di asilo fatte in Italia, perché se prima cercavano di non farle perché volevano andare in altri paesi a fare la domanda di asilo, adesso invece ci sono più domande d’asilo e dunque anche più ricorsi.

Oltre venticinque anni fa, noi ci munivamo della prima legge che codificava il diritto d’asilo nella nostra normativa: la legge Martelli. Da allora, dobbiamo necessariamente fare un bilancio. Da allora, penso che si possa dire che noi abbiamo fatto tanti passi in avanti. Io ricordo alla fine degli anni Novanta, quando iniziai a

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lavorare - saluto e ringrazio il delegato del UNHCR per l’Europa Meridionale – all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, esisteva una sola Commissione, che all’epoca si chiamava “Commissione Centrale”, a Roma e stava nel quartiere Parioli. Quindi, tutti i dichiaranti asilo dovevano arrivare a Roma per poter andare di fronte alla Commissione e questo creava moltissimi problemi ai richiedenti stessi. Oggi noi abbiamo venti Commissioni territoriali e sono dislocate su tutto il territorio. All’epoca noi non avevamo una legislazione europea, non c’erano le direttive europee. Oggi ci sono le direttive europee e l’Italia le ha recepite tutte.

Quindi, da questo punto di vista, direi che di strada ne è stata fatta. Ma c’è un però. Come dicevo prima, siccome noi siamo di fronte a flussi misti, a noi è richiesto un livello di professionalità e di capacità interpretativa forse maggiore. Per questo è importante che ci sia una maggiore omogeneità nelle decisioni, così come una qualità che sia alta. Per questo, se vogliamo anche velocizzare l’iter della domanda di asilo, noi dobbiamo fare in modo che i funzionari e il personale di supporto alle Commissioni non subiscano continuamente turnazione. Abbiamo bisogno che questi funzionari siano su base continuativa destinati alle Commissioni territoriali, perché è solo così che possiamo aumentare la professionalità di chi fa parte delle Commissioni stesse.

Dopo il lavoro delle Commissioni c’è l’integrazione, perché le Commissioni decidono status del rifugiato, protezione internazionale, diniego. Poi c’è un “dopo” da gestire, ed è qui che l’Italia deve fare di più: sul dopo. Qui non abbiamo le direttive europee. Qui è lo Stato che si deve organizzare e che deve dare strumenti per l’integrazione. Qui c’è bisogno di più impegno e di maggiori investimenti. Qui dobbiamo fare in modo che le persone destinatarie di protezione internazionale apprendano la lingua ed apprendano anche i lavori richiesti dal nostro mercato, perché se non facciamo questo, non riusciremo a trasformare questa presenza in qualcosa di socialmente utile per il nostro Paese. E allora, qui c’è da dire che bisogna impegnarsi nell’integrazione. L’integrazione non viene da sé; l’integrazione non è un fattore automatico. Sull’integrazione bisogna lavorare, investire risorse e progetti. E

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lo dobbiamo fare per il nostro Paese, perché se noi tralasciamo questo tassello, creiamo i presupposti per la tensione sociale. Non si possono dare le protezioni se non c’è dopo la capacità di far sì che queste persone siano valore aggiunto per la società. Bisogna riuscire a mettere in campo un percorso di integrazione. Credo quindi che non sia più rinviabile questo passaggio: ce lo dicono i sindaci; ce lo dicono tutti coloro che, animati dalle migliori intenzioni, oggi hanno serie difficoltà.

Penso che la migrazione sia – com’è stato detto dal presidente Legnini – un fenomeno antico come l’uomo. Noi ne abbiamo traccia già 2.500 anni fa; se ne parla nel 430 a.C.. Eschilo, Euripide già parlano dell’asilo a quei tempi. Quindi non ci può prendere alla sprovvista la gestione di un fenomeno antico come l’uomo. E dunque noi dobbiamo cercare di gestirlo nel modo più intelligente. Non si può pensare che ogni Stato può fare la sua parte e basta, che così riusciamo a dare le risposte adeguate.

Ed è qui che entra in ballo l’Europa, che deve fare di più. Noi possiamo fare di più, certo, ma oltre a noi c’è l’Europa che deve fare di più. E allora, se nel 2015, quando noi abbiamo avuto questo flusso di circa un milione di persone di rifugiati silenziosi che si avvicinavano al cuore dell’Europa, e abbiamo avuto l’incapacità di gestirlo, dobbiamo capire adesso come riprendere in mano le fila di questo discorso.

Parliamoci chiaro: un milione di persone, in un continente di 500 milioni, è lo 0,2%

della popolazione. Di che cosa stiamo parlando? E’ evidente che è mancata la volontà politica di gestire questo flusso, perché se ogni Paese avesse fatto la sua parte, noi non staremmo qui a parlare di crisi di rifugiati, ma parleremmo di un flusso normale.

Noi parliamo di crisi perché sono stati pochi i Paesi a farsi carico delle proprie responsabilità: forse 5 in Europa su 28. Per questo si è creata la crisi.

Abbiamo visto anche come alcuni Stati in modo unilaterale si siano rifiutati di dare seguito agli impegni presi in sede di Consiglio Europeo e di Consiglio dei ministri. Addirittura oggi c’è chi ha indetto un referendum per sovvertire la decisione presa a maggioranza qualificata! Allora, se noi accettiamo questo sistema, il sistema del veto, noi accettiamo che l’Europa venga meno. E’ il disgregarsi dell’insieme europeo. Se un Paese decide – e questo avviene senza che nulla accada – di rimettere

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in discussione le decisioni già prese, come in questo caso, sulla relocation dei migranti, vuol dire che non c’è più nessuna tenuta sul sistema decisionale dell’Unione Europea.

Al tempo stesso, trovo altrettanto poco edificante il fatto che alcuni Stati abbiano messo i muri fisici, i fili spinati; altri hanno messo delle barriere immateriali, cioè i tetti massimi al numero delle domande di asilo che si possono accettare. Anche questo è arbitrario ed è contrario al diritto internazionale. Anche questa è un’altra forma di rifiuto dei propri oneri. Penso quindi che chi va erigendo muri sostenendo di farlo per la sicurezza dei propri cittadini, faccia il contrario, perché è proprio in questo rifiuto che nasce l’insicurezza: nel rifiuto dell’altro. Creare il muro perché si soddisfa un bisogno di sicurezza e quindi una necessità di contrastare la paura e umiliare chi ha il diritto di usufruire di protezione secondo i trattati dell’Unione Europea, è un modo per creare ulteriore insicurezza.

Ma tutto questo deve essere veicolato attraverso l’opinione pubblica. Credo che la nostra opinione pubblica, proprio perché soggetta alla paura, senta i messaggi di chi dice appunto “vengono qui e ci tolgono il lavoro”, “vengono a creare instabilità” , perché chi propina questi messaggi è molto rumoroso, è molto vocal. Non altrettanto lo è chi propina un modello di società diversa. C’è una forma di timidezza da parte di chi crede, invece, che i nostri valori non sono quelli dei muri, non sono quelli dei fili spinati, ma qui non si cerca di contrastare appunto quel tipo di propaganda rilanciando i nostri valori fondativi. Qui si parla con molta prudenza, con molta timidezza.

Credo allora che dopo Brexit un ragionamento vada fatto. L’Europa a due velocità già esiste, non è un tabù. Ci sono Paesi membri che vogliono andare avanti nel processo di integrazione politica e Paesi membri che non lo vogliono fare. Chi lo vuole fare, chi vuole andare avanti, deve avere la possibilità di farlo, nella consapevolezza che non ci sono risposte nazionali a sfide sovranazionali. E allora io penso che l’asilo possa diventare una cartina di tornasole, uno dei temi su cui rilanciare il tema dell’integrazione politica europea, perché se ci fossero gli stessi

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standard di accoglienza e di protezione; se ci fossero centri gestiti dalla stessa Unione su tutto il territorio, non ci sarebbero tanti steccati e non ci sarebbe bisogno di costruire muri.

Concludo dicendo che il diritto d’asilo è nato qui; il diritto di asilo è nato nel nostro continente 2500 anni fa. Nel nostro continente si è sviluppato, ed è qui, nel nostro continente, che questo diritto deve essere preservato, deve essere custodito e deve essere tutelato. Vi ringrazio.

Francesco CANANZI, Presidente della Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – La ringrazio, presidente Boldrini, in particolare per il richiamo alla professionalità, che io riconosco in relazione alle Commissioni territoriali, ma faccio mia anche per quanto riguarda l’organizzazione giudiziaria:

cioè la necessità di una professionalità particolare per i magistrati che si occupano della protezione internazionale legata alla specializzazione e alla necessità di una formazione specifica, oltre che alla necessità di avere fonti di conoscenza attendibili ed autorevoli.

Do la parola al ministro Orlando per chiedergli di aiutarci a capire cosa c’è in cantiere in prospettiva per quanto riguarda il tema della protezione internazionale, fermo restando che nell’ambito dei rapporti tra il Consiglio e il Ministero abbiamo avuto già molte occasioni di confronto. Abbiamo un tavolo paritetico sempre aperto, per cui anche da un punto di vista organizzativo, pur nella penuria di magistrati e di personale amministrativo, fenomeno del quale siamo tutti a conoscenza e che sperimentiamo giorno dopo giorno, vi è la massima disponibilità a lavorare insieme e a fare sistema a fronte di questa pluralità di ricorsi, che diventeranno sempre crescenti e che credo richiedano una risposta di giustizia sostanziale.

Andrea ORLANDO, Ministro della Giustizia – Grazie, consigliere Cananzi.

Rivolgo un saluto a tutte le autorità presenti, in primo luogo alla Presidente della Camera, ed un ringraziamento non formale al Consiglio Superiore della Magistratura

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per aver promosso questo momento di riflessione.

Io da tempo sostengo che ci siano temi che non sono sufficientemente al centro del dibattito per quanto riguarda la prospettiva e il futuro della giurisdizione, perché credo si avverta con sempre maggior forza il fatto che la dimensione nazionale nel fronteggiare alcuni fenomeni è sempre più limitata in tutti i campi, ma lo è in modo evidente nella necessità di affermare diritti nella dimensione sovranazionale. Tutte le principali questioni che attengono da un lato alla nostra convivenza, dall’altro alla nostra sicurezza, hanno una matrice ormai di natura sovranazionale: dalla criminalità organizzata al nuovo terrorismo, alle grandi crisi di carattere economico e finanziario che si riflettono nella dimensione nazionale, al fenomeno dell’immigrazione. Questo mette in evidenza i limiti della giurisdizione così com’è e l’esigenza anche di sperimentare e percorrere forme nuove di cooperazione internazionale come risposta quantomeno parziale a questo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

Sono contento che un tema come questo sia posto in una sede così autorevole, perché in qualche modo obbliga tutti ad un’assunzione di responsabilità, a cristallizzare posizioni, ad assumere paternità rispetto agli orientamenti. E lo dico perché avverto il rischio che temi come questi siano sottoposti ad una discussione.

Torno sempre al campo nostro, quello della discussione in ordine alle riforme e all’innovazione nell’ambito della giurisdizione, che talvolta è gravato da un tasso di strumentalità che forse ci possiamo permettere quando si parla di questioni domestiche, ma non ci possiamo permettere quando si parla di questioni di tale livello. Così può accadere di andare ad un convegno e sentire bollate le riforme in itinere come inutili e dannose, e poi scoprire nelle relazioni a quel convegno che metà delle proposte sono contenute all’interno del provvedimento che è in itinere al Senato. Questo è un rischio che non ci possiamo permettere su un tema come questo, perché è un tema da un lato, che chiama in causa questioni di carattere fondamentale che sono state già richiamate negli interventi precedenti, ma lo fa in termini assolutamente nuovi, e credo che questo lo si renda adeguatamente con un numero.

Nel 1970 la popolazione della Terra era 3,5 miliardi, attualmente è vicina ai 7,5

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miliardi. Risulta quindi discutibile parlare dell’emigrazione come fenomeno emergenziale, ma credo altresì che risulti anche difficile porre il tema dell’affermazione dei diritti nei termini in cui si ponevano nel 1970.

C’è un tema dell’effettività dei diritti: cioè, mentre noi poniamo in astratto l’esigenza di difendere diritti fondamentali, dobbiamo porci il tema di qual è la strumentazione in grado effettivamente di garantire questo obiettivo. E lo dico perché da un lato, credo che non si debba cedere a derive di carattere populista e xenofobo;

dall’altro, credo che si debba dare un segnale chiaro che questi fenomeni sono governati e non abbandonati ad un imprevedibile quanto drammatico sviluppo spontaneo. Insomma – voglio dirla fuori dai denti – non possiamo fare l’errore che molta cultura progressista (forse anche chi vi parla) ha fatto riguardo alla globalizzazione. C’è un ingenuo ottimismo. Certo, questi fenomeni sono portatori di evoluzioni positive, anche nella nostra società. Rendere la positività di queste elaborazioni è compito della cultura; garantire che questo avvenga in modo ordinato e governato è compito della politica.

Per questo, credo che sia utile e giusto dare un quadro quantitativo del fenomeno a partire dall’impatto che ha sulla giurisdizione. Partiamo dai dati relativi alle richieste di protezione internazionale che sono rivolte alle Commissioni amministrative territoriali, che naturalmente sono di competenza del Ministero dell’interno, ma che ci riguardano come elemento in cui si forma l’oggetto del ricorso di fronte alla giurisdizione. Ebbene, l’incremento delle domande di asilo si è tradotto inevitabilmente in un altrettanto esponenziale aumento del numero delle impugnazioni in sede giurisdizionale. Durante i primi cinque mesi del 2016, nei tribunali sono stati iscritti ben 15.008 ricorsi in materia di protezione internazionale, con un flusso di crescita significativo di 3.500 ricorsi al mese. Le sedi giudiziarie con il maggior numero di iscrizioni sono Napoli e Milano, seguite da Roma e Venezia.

Non è altrettanto elevato il numero delle definizioni, che nello stesso periodo sono state 985. D’altra parte, il lasso di tempo necessario ad esaminare e trattare i ricorsi determina uno slittamento in avanti del fenomeno definitorio rispetto a quello della

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mera iscrizione. La competenza giurisdizionale in materia è per lo più di derivazione europea. Il giudice italiano è anzitutto un giudice dell’Unione Europea in questo campo.

Si tratta di un’attività estremamente onerosa, che richiede formazione, vigendo nel giudizio di protezione il principio dell’onere della prova attenuata. La conseguenza è che i riscontri esterni alle dichiarazioni di ciascun migrante richiedente asilo devono essere ricercate dallo stesso giudice del procedimento, con un lavoro complesso di analisi delle dichiarazioni e di ricerca dei riscontri esterni, che rallenta i tempi della decisione. E’ quasi un’operazione di carattere culturale, più che di carattere giurisdizionale. E da questo punto di vista, anche in questo campo si pone l’esigenza di una giurisdizione che alzi la testa, che esca dalle vicende intestine; che non guardi soltanto alle questioni di carattere corporativo, ma sappia guardare ai grandi cambiamenti che in qualche modo attraversano il mondo.

In proiezione futura, appare evidente che se le iscrizioni di nuovi ricorsi manterranno lo stesso passo del 2016, le definizioni non seguiranno un ritmo corrispondente e ci troveremo di fronte ad una materia ad alto accumulo di pendenze.

Dai dati forniti emerge poi come le circa mille decisioni del 2016 presentino una bassissima percentuale di accoglimenti totali, soltanto il 6%. Quanto alla durata dei procedimenti, la media nel 2016 si attesta su 167 giorni; siamo dunque di fronte ad un procedimento relativamente snello rispetto all’andamento complessivo del civile, ma assai più lento se comparato ai riti di volontaria giurisdizione.

Per poter fronteggiare una situazione come questa, scongiurando l’accumulo di arretrato, si rende indifferibile un’ulteriore snellimento della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, che consenta ai tribunali di tenere il passo verso le iscrizioni. Ho sentito dire: ma perché si inizia proprio da qui? Si inizia da qui perché c’è una duplice specificità: la condizione di sospensione nella quale si viene a trovare il soggetto che ha fatto ricorso; la non sostenibilità della situazione nella quale chi attende, in qualche modo costituisce uno spot a favore del populismo e della demagogia ed il fatto che dobbiamo rivendicare che il processo (uso

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volutamente questa parola) di fronte alle Commissioni, per quanto con l’evoluzione e gli auspici che vanno raccolti della presidente Boldrini, è un procedimento in qualche modo giurisdizionalizzato, con un contraddittorio. Quindi non ci troviamo di fronte ad un mero atto amministrativo che è frutto semplicemente di una volontà del potere pubblico, che non si rapporta, già in quella fase, con l’interessato.

Il Decreto legislativo 142 del 2015 aveva introdotto un primo gruppo di importanti modifiche processuali per semplificare le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale, estendendo a questi procedimenti l’applicazione del rito sommario previsto dalla cognizione civile. In questa stessa direzione è necessario proseguire con una semplificazione ulteriore, pur salvaguardando naturalmente le garanzie fondamentali. E così il Ministero della giustizia ha assunto l’iniziativa di presentare ulteriori interventi normativi attraverso un disegno di legge attualmente al vaglio del Governo, sulla base di un’analisi comparativa degli ordinamenti europei e delle disposizioni degli organismi sovranazionali. Il disegno di legge prevede la specializzazione dell’organo giurisdizionale come un elemento decisivo per l’accelerazione dei procedimenti, per le ragioni che ricordavo precedentemente. Chi si occupa di questo, deve capire non soltanto che cosa gli sta succedendo davanti, ma cosa sta succedendo nei paesi di provenienza per poter dare un giudizio che in qualche modo sia fondato. E sempre sulla base della comparazione, abbiamo infatti verificato con altri paesi dell’Unione Europea come tutti gli organi di impugnazione di primo grado siano specializzati già oggi in Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Grecia.

L’altro punto focale su cui è improntato il disegno di legge riguarda il sistema delle impugnazioni di secondo grado, ossia l’appello contro le decisioni dei tribunali.

Nella realtà europea, i sistemi di impugnazione si articolano su un numero variabile dei gradi di giudizio. La maggior parte degli Stati membri, tra cui la Francia, la Spagna e il Belgio, prevede solo due gradi di giudizio, con un primo grado di merito ed un secondo grado di legittimità. Lo schema del disegno di legge fa tesoro delle esperienze europee più efficaci, proprio al fine di semplificare il ricorso

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giurisdizionale contro le decisioni delle Commissioni territoriali. Secondo l’architettura proposta, alle sezioni specializzate sono attribuite le controversie in materia di protezione internazionale, compresa la convalida del trattenimento del richiedente asilo, ma anche di immigrazione e libera circolazione dei cittadini comunitari e di accertamento dello stato di apolidia, attualmente di competenza del tribunale in composizione monocratica. Viene inoltre prevista la soppressione dell’appello contro la decisione del tribunale e la sostituzione dell’attuale rito sommario di cognizione con un procedimento camerale, di regola senza udienza, che consente l’acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria della videoregistrazione del colloquio del richiedente davanti alla Commissione. Voglio precisare che le procedure così definite sono sì rapide, ma non mettono a repentaglio i diritti. Le garanzie restano salvaguardate dal momento che la partecipazione dell’interessato all’udienza di convalida del trattenimento è assicurata attraverso il collegamento audiovisivo tra i centri di trattenimento e gli uffici giudiziari competenti.

L’attenzione verso la tutela dei diritti costituzionali non può rimanere indietro rispetto alla legittima urgenza delle risposte di controllo. Diritti e sicurezza non sono i capoversi di due soluzioni politiche tra loro alternative: sono vocaboli nati e cresciuti in maniera congiunta, entro il patrimonio della civiltà democratica europea, e soprattutto nelle fasi più convulse occorre che siano tenuti insieme. Tengo poi a precisare che il rito processuale descritto, a contraddittorio scritto ed udienza eventuale, si presenta conforme al modello internazionale di giusto processo ed è pienamente in linea con i principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo;

essi misurano le garanzie sulla natura degli interessi tutelati. L’udienza orale è ineludibile per i processi penali, mentre sono permesse restrizioni nei processi civili o di carattere amministrativo. In ogni caso, l’udienza orale rimane assicurata quando sia necessario sentire l’interessato o richiedere oralmente chiarimenti alle parti, o ancora quando occorrerà ai fini dell’attività di raccolta e di apprezzamento delle prove.

Ho prima sottolineato l’esigenza di specializzazione sulla materia. Voglio ora aggiungere che proprio questa logica si inserisce in un intervento sulla formazione

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prevista nel disegno di legge, che attribuisce alla Scuola Superiore della Magistratura la formazione specializzata dei giudici, anche onorari, sia in fase iniziale, sia per il periodico aggiornamento obbligatorio. D’altra parte, è evidente che solo un’adeguata formazione dei magistrati chiamati a valutare può garantire l’effettiva tutela del richiedente imposta dalle disposizioni europee, che non escludiamo siano destinate anche a cambiare ulteriormente e a subire un’ulteriore evoluzione.

Merita poi una sottolineatura il profilo organizzativo. In accordo con il Consiglio Superiore della Magistratura, abbiamo avviato un piano straordinario di applicazioni extra distrettuali di magistrati presso le sedi più gravate. Esso finora ha consentito di impiegare dodici giudici dedicati in via esclusiva alla trattazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale. E’ appena il caso di rammentare la centralità che le politiche del Ministero della giustizia attribuiscono al tema degli organici del personale della magistratura, nella convinzione che attraverso il dialogo con il Consiglio Superiore della Magistratura si riusciranno a trovare soluzioni in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze prodotte dall’intensificarsi dei flussi migratori.

Voglio anche ricordare tra le iniziative sin qui intraprese il progetto di collaborazione tra il Ministero della giustizia ed il Presidente della Commissione nazionale per il diritto di asilo, finalizzato al censimento delle commissioni nel Registro delle Pubbliche Amministrazioni. Questo permetterà, già nel brevissimo periodo, lo scambio di atti, comunicazioni, notificazioni tra commissioni ed uffici giudiziari, tramite l’utilizzo della piattaforma del processo civile telematico. Inoltre, ultimate le necessarie attività sperimentali, verranno impartite specifiche istruzioni agli uffici giudiziari con l’obiettivo di rendere omogeneo il procedimento su tutto il territorio nazionale.

Quelle che ho illustrato sono alcune delle iniziative intraprese per mettere a punto gli strumenti necessari a gestire l’imponente fenomeno migratorio che investe il nostro Paese, ma molti altri sono gli aspetti legati al fenomeno su cui sono necessari interventi specifici: il contrasto alla radicalizzazione, l’accoglienza dei minori, le

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nuove modalità di azione della criminalità organizzata, e così via. Di fronte a fenomeni di portata epocale, quando gli strumenti ordinari non soccorrono, è utile anche guardarsi indietro ed imparare dalla storia. I nostri antenati romani, di imperi, di immigrazione, di contatto con altri popoli credo sapessero qualcosa. Parlavano di limes. Il limes era un confine, spesso fortificato, che proteggeva il territorio, ma la parola aveva anche un altro significato: di strada, di via di comunicazione, di itinerario; era la direzione da seguire per stringere il contatto con le altre genti, era la via per penetrare in altri mondi e in altre culture.

L’ampiezza delle migrazioni cui assistiamo sta creando nei paesi di destinazione paura e insicurezza. Pensavamo che dopo l’89 i muri sarebbero caduti – lo si ricordava – ma li stiamo invece innalzando. Devo dire che mi sorprende sempre più che dai cosiddetti Paesi dell’allargamento emergano posizioni che sembrano pari pari scongelate dagli anni Trenta. In questi giorni la Gran Bretagna, il cui voto sull’uscita dall’Unione è stato profondamento condizionato proprio dalla campagna anti-immigrazione, vuole costruire un muro a Calais. Altri paesi, in particolare dell’Europa centro-orientale, quelli cui facevo riferimento, hanno in mente le stesse barriere. In questo si trova singolarmente un’unità di tutte le forze politiche in quel Paese. Gli accordi di Schengen, uno dei tratti distintivi della civiltà europea, che meglio dovrebbero esprimere lo spirito dell’Unione, vengono sempre più esplicitamente messi in discussione.

Io penso che la soluzione non si troverà naturalmente innalzando barriere. E’

stato calcolato che se i paesi ricchi chiudessero ermeticamente le loro frontiere e se dall’altra parte facessero lo stesso i paesi poveri, se cioè si interrompessero del tutto i flussi migratori, gli abitanti dei paesi ricchi passerebbero da 753 milioni a 654 milioni, con una diminuzione di 4,5 milioni di abitanti all’anno per vent’anni. Nei paesi poveri, invece, la popolazione compresa nella fascia di età tra i 20 ed i 64 anni aumenterebbe di 850 milioni di unità. Credo che qualcuno si dovrebbe interrogare sulle conseguenze economiche, prima ancora che sociali, di un eventuale scenario di questo genere, ammesso che si potesse realizzare anche solo tecnicamente. Quanto

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all’Italia, per mantenere invariato il dato della popolazione in età lavorativa ha bisogno di più di 300 mila lavoratori all’anno per vent’anni; parliamo non di stime sui futuri tassi di natalità, ma del calo delle nascite che c’è già stato ed i cui effetti sulla popolazione attiva si sentiranno appunto nel prossimo ventennio. Questo significa una cosa sola: che la società italiana sarà sempre più arricchita dalla presenza di stranieri. In questo caso, non vi do alcun tipo di accezione culturale.

Quando dico “arricchita”, parlo dei soldi, non delle idee, dei cibi, delle musiche, cui si fa spesso riferimento: parlo del sistema previdenziale. Lo ricordo perché il fenomeno dei richiedenti asilo è stato inquadrato fin qui nelle giuste dimensioni.

Scusate se lo riporto anche ad una dimensione più brutale, che forse è meno poetica ma credo faccia parte della questione.

E’ evidente che l’ampiezza dei flussi migratori pone dei problemi alle strutture economiche e sociali del Paese e ancor più li crea sul terreno dell’integrazione culturale, linguistica e religiosa. E’ anche comprensibile che crei apprensione soprattutto nell’attuale fase di scarsa crescita e di elevata disoccupazione, ma proprio per questo non dobbiamo cedere a delle letture semplificate. Né lascia spazio a slogan demagogici e populisti sugli stranieri che delinquono e che ci sottraggono il lavoro. I dati che bisogna avere la pazienza di acquisire dicono che non è così, che la segmentazione del mercato del lavoro è tale per cui non è affatto vero che il lavoro che gli stranieri svolgono è sottratto agli italiani che lo cercano. Le cose non stanno così. Come, d’altra parte, non è vero neppure che gli stranieri delinquono proprio in quanto stranieri e non invece perché privi di mezzi o perché socialmente marginalizzati. Le statistiche dimostrano che sia con il crescere del reddito che con i ricongiungimenti familiari, le percentuali di commissione di reati diminuiscono. Non abbiamo dunque soltanto il dovere di far rispettare le leggi, ma dobbiamo anche avere la consapevolezza che i percorsi di integrazione e l’acquisizione dei diritti civili e di cittadinanza comportano più sicurezza, più legalità, meno reati. E dobbiamo anche evitare di generare illegalità attraverso meccanismi respingenti ma inefficaci – come ricordava la presidente Boldrini – che finiscono anzi con l’ingrassare le

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organizzazioni di carattere criminale. E’ la storia di tutte le barriere, anche quelle messe a protezione dei mercati, quella di produrre delle economie illegali assolutamente fiorenti.

Mi fermo qui. E’ evidente che quella dei richiedenti asilo è una sfida e che dobbiamo vincerla tracciando il limes inteso come strada e utilizzando a questo fine, nella più ampia latitudine, tutti gli strumenti che la nostra civiltà umana e giuridica ci ha messo a disposizione. E ci riusciremo, forse, se ricorderemo da quale secolo proveniamo, e cioè dal secolo terribile in cui la nostra coscienza è stata scossa profondamente da una domanda non più aggirabile: quel famoso “se questo è un uomo”. E questi che chiedono aiuto in mare, come si ricordava, o i più fortunati che raggiungono le nostre coste non possiamo fingere di non sapere che cosa sono, cioè innanzitutto degli uomini. Ma per affermare questo principio così alto e nobile, io credo che noi dobbiamo ragionare su come siamo in grado non soltanto di governare il fenomeno, ma di trasmettere immediatamente la sensazione che stiamo governando il fenomeno, perché se c’è una legge che abbiamo imparato, è che il populismo e la demagogia crescono con un tasso esponenziale molto più alto della capacità con la quale siamo in grado di rispondere a questo tipo di fenomeni. C’è un moltiplicatore che andrebbe studiato.

Allora, da questo punto di vista comprendo le riserve in punto di diritto riguardo ad alcune scelte che possono apparire in qualche modo sacrificare dei diritti.

Io credo che noi dobbiamo semplificare il procedimento per dare il segnale che vogliamo difendere i principi di carattere costituzionale che attraverso quel procedimento siamo in grado di affermare. Se noi non siamo in grado di fare questo, non soltanto c’è il caso che possano avere il sopravvento forze che credo semplificheranno molto di più il procedimento, ma il tema fondamentale – credo sia questo il punto – è che le istituzioni, i corpi intermedi, così infragiliti in questa fase storica, rischiano di legiferare sulla base di ondate di carattere emozionale con il primo episodio drammatico che segni la vita pubblica; con il primo elemento di insicurezza percepita. Sul tema della percezione dell’insicurezza, credo che andrebbe

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fatta una serie discussione e invito anzi il CSM a fare questa riflessione, perché credo la potremmo fare insieme. Questo è un Paese in cui tutti gli anni diminuisce il numero degli omicidi, diminuisce il numero dei reati contro la persona, diminuisce il numero di reati contro il patrimonio, ma tutti gli anni cresce il senso di insicurezza nelle statistiche. In questa benzina che circola, basta una scintilla per far divampare un incendio. A quel punto noi tutti che professiamo i più alti valori e le più nobili intenzioni, non saremo in grado di difendere i capisaldi delle indicazioni che sono contenute all’interno della nostra Costituzione. Per fortuna, la Costituzione ha una sua forza autonoma, ma abbiamo visto come in questi anni, questioni che apparivano poste assolutamente al riparo dal dibattito pubblico e dal dibattito politico, sono pesantemente ritornate all’interno del dibattito politico.

Vorrei ricordare che un Paese che ha elaborato la prima Carta dei diritti fondamentali del mondo, ha sospeso per sei mesi la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ed ha deciso di modificare la propria Costituzione ritoccando un tema non banale come quello della cittadinanza, che aveva radici nella Rivoluzione del 1789.

Le democrazie, anche quelle più evolute, sono esposte in questo momento a venti pericolosissimi; se non sono in grado di dare all’opinione pubblica un segnale di padronanza delle trasformazioni e del fenomeno, il rischio è che lo scenario cambi e cambi non in meglio. Questo è l’invito che rivolgo a tutti, per riflettere sul perché oggi dobbiamo intervenire in questa direzione per salvare invece il cuore di quello che possiamo dire al mondo: noi vogliamo difendere il giusto processo in tutti gli ambiti, anche in quelli in cui realizzarlo è così difficile e complicato, così impervio.

Grazie.

Francesco CANANZI, Presidente della Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – Grazie davvero al ministro Orlando. Credo che ci siano molti spunti di riflessione che vengono dall’intervento del Ministro. Una politica responsabile è una politica che ha a cuore i diritti fondamentali, mi sembra che su questo ci sia assolutamente intesa. Mi chiedo – lo dico veramente in punta di

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