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C era il grano da mietere

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Academic year: 2022

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Q

uella notte d’inferno, in una grotta sotto ai casta- gni di là dal fosso de le Grot- tinacce nacque una bambina.

Che non ebbe la visita dei pastori o l’omaggio di sfarzosi re orientali, ma lo sconquasso delle cannonate americane e, a giorno fatto, lo sferragliare dei loro mezzi cingolati che costeggiarono il paese e poi lo attraversarono nell’ultimo trat- to in direzione di Valentano.

Quella bambina si sarebbe chiamata Anna Bottone, secon- dogenita di un marittimo paler- mitano finito qui da Civitavec- chia insieme con una piccola tribù di parenti, tutti sfollati:

cugini e cognati con figli, che in paese avevano trovato una sistemazione uno o due anni prima in un magazzino pieno di brande. Ce n’erano diversi, di sfollati, pigiati nelle casupo- le del basso paese; soprattutto di Civitavecchia e di Roma, oltre a compaesani trasferitisi a suo tempo in città e “rimpa- triati” coi familiari per sfuggire alle bombe e alla fame. Capita- va in quegli anni di sentir no- minare dei Mascari, dei Garo- foli, dei Generali o dei Benni, dei Pecorelli, dei Biferali...

ossia gente non di qui e che poi sarebbe tornata alle pro-

prie case una volta passata la bufera.

Ma non erano solo loro a trepi- dare, in quella notte di fuoco, nei rifugi improvvisati delle campagne. Tutto il paese si era riversato nelle cantine e nelle grotte delle coste laterali. Dai grottini dei maiali si usciva let- teralmente pieni di pulci, fittis- sime pulci rosse che ti entra- vano dappertutto, ma forse lì si poteva essere più protetti, e solo chi uscì incautamente allo scoperto per vedere i lampi di guerra rimase colpito da alcu- ne schegge: così Galardino, o Adriano Bronzetti; così il Coggiàme, ferito alle costole;

così Venicio Melaragni, che sarebbe morto con un fulmine cinque anni più tardi ma che quella notte si vide asportare da una scheggia un pezzo della spalla sinistra, medicata in casa sua alla meno peggio da Pietro de Tòsto.

Era la notte tra il sabato e la domenica, 10 e 11 giugno 1944, e fin dalla mattina del sabato tutto il paese era corso a na- scondersi. La povera Ersilia Falesiedi, che non aveva potu- to abbandonare una figlietta in fin di vita, era morta nella sua casa del vicoletto de le scòle.

Stava lavando le lenzuola

attorniata dai suoi sei bambini quando una granata esplose sull’abitazione del Deputato, nel sottostante Vicolo Vec- chio; attraverso la finestra una scheggia la colpì alla testa perforandola e schizzando sulla parete di fronte con alcu- ni frammenti; la donna cadde in mezzo ai bambini senza un lamento, tra rivoli di sangue, e spirò dopo dodici ore di coma.

Nel pomeriggio di quello stes- so giorno un bambino venne alla luce in una casa della Rocca, ma anche altri bambini, nati in quei giorni in cantine e presepi di fortuna, furono infa- gottati e portati via, nei ricove- ri delle campagne. Ci si ricor- dò di loro qualche giorno dopo, passata la tempesta, ed è curioso notare come i loro atti di nascita siano stati redat- ti in municipio tutti insieme dal giorno 14 in poi. Sono sot- toscritti dal nuovo sindaco Vittorio Falesiedi, designato dal comando militare alleato il 13 giugno in sostituzione del podestà Lauro De Parri, e per alcuni di essi rimane il dubbio che neppure le date di nascita siano del tutto affidabili, essen- dosi appunto accavallate e rimandate in quei giorni di paura.

Era l’epilogo di quattro anni di guerra. Quattro anni di paure e di pena, di figli partiti soldati e morti in fronti lonta- ni, di mancanza di notizie per quelli prigionieri. Anni di rab- bia, anche, per mariti e padri fatti partire “volontari” con la promessa di un posto di lavo- ro; e per gli stenti e le fatiche a tirare avanti, per chi era rima- sto a casa senza il loro aiuto.

Ai bambini a scuola venivano fatti raccogliere i ciuffi di lana rimasti impigliati nelle fratte al passaggio delle greggi, per farne maglie per i soldati al fronte, ai quali anche scriveva- no letterine per Natale... Alla fine, in paese se ne sarebbero contati venticinque, di soldati morti al fronte o in prigionia, cui si aggiunsero nove civili e altri tre reduci trascinatisi con le infermità per il resto dei loro giorni. Neppure s’era accorta, la gente, del transito in paese di alcune “nemiche” straniere, nel novero delle internate poli- tiche smistate nei centri della provincia. Nell’estate del ‘42 vi erano passate un’inglese e due francesi, quest’ultime madre e figlia; la prima dirottata subito a Canino e le altre a Bagnore- gio: “per deficienza di alloggi”, dice la relazione della questu- ra, “e motivi di salute”, aggiun- ge nel caso delle francesi.

Ma soprattutto quell’anno, il

‘44, era stato cruciale, a di- spetto della gioia convulsa che all’indomani dell’8 settembre del ‘43 aveva portato alcuni ad arrampicarsi sulla torre dell’o- rologio e a martellarne forsen- natamente le campane, fino a romperle. Con i tedeschi ina- spriti dal “tradimento” e pres- sati sempre più da vicino dagli alleati poteva succedere di tutto. In giro c’era un’aria di paura e di sospetto terribile, e la guerra era piombata in casa con tutto il suo carico di trage- die e terrore.

Lazzaro de la Lizzèra fu preso di punta (!?) e mitragliato da un aereo mentre si trovava per la semina con le vacche nelle campagne sotto Tuscania.

Stava andando a prendere il pane per gli altri operai della lavorazione quando vide l’ae- reo lasciare la formazione e tornare indietro dritto su di lui. Fu colpito alla noce del piede e cadde riverso sul campo. Pensavano che fosse morto; nessuno aveva corag- gio ad accostarsi. Quando for- tuitamente fu soccorso e por- tato a Tuscania per essere operato in extremis era mezzo dissanguato: a tratti vaneggia- va, e chi lo assisteva dispera- va che si potesse salvare.

passaggio del fronte

Piansano

Antonio

Mattei

C’era il grano da mietere

Carri armati francesi transitano tra l’indifferenza dei contadini intenti alla mietitura (da C. Biscarini, op. cit.).

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Il 3 marzo una formazione di bombardieri americani, proba- bilmente decollati da Foggia per colpire i nodi ferroviari di Orbetello e Grosseto, sul cielo della Banditaccia, nella traiet- toria Tuscania-Piansano, fu assalita da caccia tedeschi che ingaggiarono battaglia con i caccia americani di scorta.

Nell’inferno dello scontro due aerei tedeschi furono abbattuti e si schiantarono al suolo, ma probabilmente anche una delle fortezze volanti fu colpita, e per riuscire a mantenersi in rotta fu costretta a sganciare il suo pesante carico. Per tutto il tratto dal fosso del Cantinaccio all’infidèe vecchie la terra fu sconvolta, mietendo vittime tra animali e uomini al lavoro per quelle campagne. Furono colpiti non solo i figli di Vit- torio Bordo, con strage del gregge e delle bestie, ma anche l’arlenese Guglielmo Ro- si, marito della nostra concit- tadina Lucia Calisti e morto a Piansano lo stesso giorno per le ferite dal mitragliamento;

Romolo Sensoni, morto il 29 aprile all’ospedale di Monte- fiascone anche lui per le ferite di quel giorno; la Bròda, ossia la tessennanese Marianna Ren- zini, che era vedova del nostro concittadino Bernardino Go- vernatori e quel giorno era a spalare nell’infidèo del pòro Carluccio per la strada di Arlena: morì a Piansano l’11 maggio, e per poco non ci ri- masero anche i fratelli Pietro e Chécco de Pelèllo, che stavano a fare un po’ di legna alle Coste de Tortura e si ripararono sdraiandosi in un anfratto.

Maddalena de la pasticceria, che si trovò bambina su al Pianetto con l’amichetta Ama- lia e fu salvata da una della famiglia che la trascinò in un carraccio, fino a vent’anni, per dire, continuò a rifugiarsi nel letto di sua madre ad ogni tuono di temporale, e ancora oggi, se chiude gli occhi, le pare di vedere grappoli di quelle bombe che scoppiano nell’impatto a terra. Fu proprio una decina di giorni dopo quel disastro che la popolazione terrorizzata si ritrovò al com- pleto nella chiesa parrocchiale a far voto: preghiere e opere per la chiesa fino a quando la guerra non fosse finita, se i suoi pericoli fossero rimasti lontani. (Il voto fu sciolto nel

‘45, quanto la chiesa fu com- pletamente affrescata e l’im- magine della Madonna del Rosario, tra la commozione indicibile della popolazione, fu portata a spalla in processione dai prigionieri reduci).

La processione del Cristo Mor- to - il 7 aprile successivo, un altro venerdì - fu interrotta dallo sferragliare agghiaccian- te di una colonna di carri armati tedeschi che attraverso la salita delle Caciare si ritira- vano a nord. I momenti di esi- tazione avuti dal capocolonna alla vista della manifestazione religiosa, con i secchi comandi incomprensibili, i fari puntati contro e il cigolio delle torrette di puntamento, non li ha più dimenticati nessuno, meno che meno i bambini.

Felicióne aveva nove anni quando sentì un trambusto fuori casa (abitava in Via Ro- ma, nella casa di Volpòtto).

Uscì e si trovò in mezzo ad una piccola folla agitata. Un solda- to tedesco dietro ad un mitra montato su un treppiedi pun- tava un prigioniero, forse un soldato sbandato pescato per i fossi qui intorno, addossato al muro e perquisito da un altro tedesco. Per vedere meglio, Felice fa capolino tra le gambe della gente. Forse per scherzo, ma sicuramente senza troppa delicatezza, Pèppe Ruzzi solle- va il bambino per il colletto della camicia e lo tiene sospe- so a lungo davanti alla bocca del mitra. Alla fine lo depone a terra ai richiami allarmati della madre, ma l’immagine di quel soldato con l’elmetto, serio dietro al mitra puntato, è di quelle che ti marchiano a fuoco. Felice fuggì subito a casa a nascondersi, ma gli scoppiò una febbre che lo in- chiodò al letto per diversi gior- ni.

Dal bombardamento alleato del 14 aprile all’aeroporto di Viterbo rimasero uccisi anche i piansanesi Venanzio Baffa- relli, Mariano Brizi e Guido Guidolotti. Tre ragazzi, due di diciotto e uno di vent’anni, rastrellati in paese dai tede- schi e costretti a lavorare a quel campo di volo; vittime, ironia della sorte, di uno dei bombardamenti più leggeri, rispetto a quelli che ridussero Viterbo ad un cumulo di mace- rie, ed appena citato nelle cro- nache cittadine. Tre nuove tra- gedie passate quasi inosserva- te e come travolte dallo scon- volgimento immane della guer- ra.

Dal bombardamento del 29 aprile nella zona delle Macchie rimasero vittima la tessenna- nese Teresa Costantini, moglie di Pietro Adagio, ferita alla gamba sinistra, e il suo futuro genero Vincenzo Falesiedi, allora quindicenne, che si tro- vava coi suoi nell’infidèo dal- l’altra parte della strada e

ancora oggi porta i segni di una scheggia al braccio sini- stro.

Non è un caso che proprio quell’anno sia stato creato da musicisti e poeti del luogo un nuovo inno al santo patrono, Bernardino da Siena: “Tu che puoi dona al mondo la pace - si cantò in processione per la prima volta quel 20 di maggio - Tu proteggi le nostre dimore...”;

e ancora: “Tu che in vita porta- sti la pace / guarda al mondo diviso da guerra / e l’amore ridona alla terra...”.

Giovani delle classi ‘24-’25 chiamati alle armi con quella situazione, ovviamente face- vano di tutto per non partire.

E lo stesso dicasi per i militari trovatisi in licenza o allo sban- do per il collasso delle nostre forze armate. E poi c’erano i civili, uomini e ragazzi in età da lavoro, che, nel precipitare degli eventi, per paura delle

“retate” di tedeschi e fascisti ingrossavano la “renitenza”. Al reclutamento volontario, a pagamento, di lavoratori civili per la Germania, i tedeschi avevano fatto ricorso da tem- po, ma dopo l’8 settembre la pratica era degenerata ed era iniziato il periodo buio dei ra- strellamenti. In città venivano fatte retate nei cinema o addi- rittura durante la passeggiata al corso. Da noi era sufficiente un’incursione lungo la via prin- cipale. Fascisti dei paesi vicini, su un camionaccio che saliva per le Caciare e faceva il giro

del paese, ac- c i u f f a v a n o qualsiasi ma- schio giudicato

in grado di lavorare e lo obbli- gavano a salire sul camion;

quindi ripartivano indisturbati.

Queste scorrerie capitavano di frequente, all’improvviso, e c’è chi ricorda quel gruppo di gio- vani rinchiusi provvisoriamen- te dai tedeschi nel palazzo comunale, che riuscirono a scappare saltando nello sco- perto di Quintinèllo e dileguan- dosi attraverso il portonaccio.

Volendo, dicono oggi, il ca- mion lo si sarebbe potuto appostare prima dell’arrivo in paese e fatto saltare con qual- che colpo ben assestato. Ma si temevano rappresaglie tra la popolazione. Ad Arlena, dove furono uccisi due soldati tede- schi nel sonno, se non fosse stato per l’arrivo tempestivo degli americani nessuno avreb- be potuto salvare la popolazio- ne dalla vendetta, e una venti- na di anni dopo un nostro emi- grante in Germania si trovò a lavorare con un caposquadra tedesco che ancora ricordava la scampata rappresaglia per quel tragico episodio. A Piansano non ci furono inci- denti perché la gente non molestò i tedeschi in alcun modo, ma si sentiva dire di ritorsioni inesorabili in qual- che centro dei dintorni.

D’altra parte, proprio per la vicinanza e l’abitudine a fre- quentare le campagne, da noi

Targhe toponomastiche di Via Giuseppe Stendardi (1971) e di Via Luigi Santella (1981).

Stendardi era appuntato di finanza a Pola quando “scoppiò” l’armistizio dell’8 settem- bre 1943. In assenza di qualsiasi disposizione, quei militari erano comunque rimasti al loro reparto quando, il 15 luglio 1944, arrivarono in caserma le SS tedesche e li rin- chiusero tutti nelle carceri di Pola “per misure precauzionali, in attesa di giudizio”. Il 2 ottobre Stendardi fu prelevato insieme ad altre ventuno persone dalle stesse SS e impic- cato a un albero a Stignano per rappresaglia.

(Per Santella, vedi oltre nel testo).

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era facile darsi alla macchia, e i giovani rima- sero nascosti per mesi nelle grotte e nelle capanne sparse nel territorio. I ricoveri degli infidèi, al Giraldo, al Po’ de Metino, a la Fonte...

erano piene di uomini e ragaz- zi. Ne uscivano di notte per darsi un’occhiata intorno, incontrarsi con altre “squadre”

e razziare qualche frutto nelle vicinanze (Libbaràto del por’Ottavio se la prendeva col

“baco” che gli faceva man bassa della cipolletta nuova appena messa!), o per azzarda- re qualche furtivo rientro a casa; ma con molta paura e cir- cospezione, e sempre con una fune pronta ai piedi del letto per calarsi dalla finestra nel caso che fascisti o tedeschi fossero venuti a bussare. Dai rifugi assistettero a quella guerra spaventosa sempre più sopra le loro teste, e una notte che bombar- darono Viterbo e sem- brava che il cielo, scos- so dai bagliori, dovesse sprofondare per i boa- ti, si dispersero corren- do tutta la notte tra fossi e campagne im- pazziti di terrore. Con- finato per mesi in una capanna al Pozzarèllo insieme ad altri, Ivrio ricorda uno scontro aereo tra caccia tede- schi e inglesi proprio sulle loro teste. I ragaz- zi uscirono sconsidera- tamente a curiosare e si trovarono con gli stuka tedeschi a bassis- sima quota sopra gli ulivi, mitragliati in coda dai più veloci spit- fire. Il rumore e il crepi- tio furono impressio- nanti, e quei giovani a momenti si ammazza- vano per scaraventarsi nelle forme od incollarsi spiaccicati ai tronchi degli alberi.

Zigliante di Nanne stette na- scosto per mesi nel “centoca- mere” al Po’ de Metino. Gli por- tava da mangiare di nascosto il fratello dodicenne Nèno, ma chi si azzardava a farlo sapere anche gli amici?, e quando c’era qualche viavai sospetto di mezzi militari tedeschi, il padre accompagnava il ragaz- zo almeno fino alla Contadina nascondendosi poi ad aspet- tarlo. Una volta arrivato, Nèno s’affacciava alla buca chiaman- do il fratello. Questi risponde- va e usciva a prendere il fagot- to, baciava il fratello racco- mandandogli di stare attento e ridiscendeva nel labirinto. Di

giorno il ragazzo faceva un sacco di giri, prima di salire sulla collina, proprio per non destare sospetti. Con Zigliante si era rintanato tra gli altri al Po’ de Metino anche il povero Augusto Rocchi, che era già militare e che poi si sarebbe suicidato nel pozzo nòvo...

Con l’avvicinarsi del fronte - i tedeschi si ritiravano precipi- tosamente e restarono poche pattuglie, condannate a morte sicura, a far di tutto pur di ral- lentare l’avanzata alleata - furono le famiglie intere a lasciare le case per ripararsi nelle grotte. Nel giorno del transito delle fanterie, che avanzavano a ventaglio batten- do a tappeto la campagna e sparando a raffica su qualun- que cosa si muovesse, tutto il paese era sparpagliato per gli infidèi in preda al terrore, spe- cie alla vista dei soldati di colore. A spaventare erano

soprattutto i famigerati maroc- chini inquadrati nel corpo d’in- seguimento francese: le marro- chine, diceva la gente, che li identificava in qualsiasi solda- to di colore.

Corse voce di qualche vago rischio di violenza fortunata- mente senza effetto, ma la paura era tale che alcune donne non riuscirono ad acco- starsi nemmeno ai negri ameri- cani che offrivano cibarie. In realtà da noi fecero un passag- gio fugace dei reparti someg- giati di fanteria algerina, che costeggiarono il paese risalen- do le Caciare e non ebbero il tempo di provocare danni.

Furono visti avanzare guardin- ghi e insieme minacciosi con le armi ammiccanti verso le fine-

stre dell’abitato, coi loro copri- capi a turbante e gli orecchini, incolonnati coi muli e guardati a vista da ufficiali francesi a cavallo, severi coi loro scudi- sci di comando. Prima transita- rono loro, e più tardi gli ameri- cani sui carri.

Nei rifugi di campagna i soldati ne facevano uscire gli occu- panti con le mani alzate, rovi- stavano dappertutto alla ricer- ca di armi o soldati nascosti, e poi proseguivano lasciandovi magari provvisoriamente qual- cuno di loro a guardia. Fortu- natamente non ci furono morti o violenze, a parte la paura e qualche disavventura. Ireneo Moscatelli ha raccontato di quella occorsa alla sua fami- glia, stipata insieme con altre in una grotta della Fonte che normalmente serviva da rico- vero per le bestie vaccine. Tre soldati vi prelevarono suo padre per averne informazioni

sulla zona da cui provenivano degli spari della retroguardia tedesca. Còlti in quel mentre da una scarica di mitra, quei soldati si buttarono a terra strisciando fino ad una grotta vicina, mentre Gigi Moscatelli tornò indietro dai suoi, tanto da far nascere il sospetto nei soldati che avesse voluto tra- dirli. Fu un brutto momento per tutti i presenti, che fortu- natamente si chiarì e si risol- vette l’indomani con cioccola- te e scatolette di carne portate in dono da un loro ufficiale.

A parte le soldataglie nordafri- cane, con gli altri militari un minimo ci si poteva intendere.

Un ufficiale americano, addirit- tura, seppe dei trascorsi del vecchio Campagnòlo - antico

emigrante d’America, ferito a Verdun nelle file dell’esercito statunitense! - e si fece indica- re dove abitava per andare a trovarlo. Coprì di cioccolate i suoi bambini chiedendo solo che gli venisse indicato un ter- reno sul quale far accampare i suoi soldati. Pagando, s’inten- de! Il vecchio gli mise a dispo- sizione il suo infidèo de la coperativa su a Marinello e la cosa finì lì. Del resto la loro presenza fu una meteora.

Più degna di nota, da questo punto di vista, era stata la prolungata convivenza con i tedeschi, che in ogni caso mantennero con la popolazio- ne rapporti abbastanza cor- retti. Il loro comando era ospi- tato in casa del podestà, il sòr Lauro De Parri, ma c’era un reparto della Luftwaffe al piano superiore del palazzo comuna- le (che pare ne sia uscito un po’ malridotto) ed un altro in quel portone sopra alla doppia scalinatella del n° 5 di Vicolo del Ritello. Il campo di volo era a San Giu- liano, verso Tuscania, ma una parte dei piloti alloggiavano a Pian- sano. “Erano tutti uffi- ciali, almeno sottote- nenti, e di modi piutto- sto civili”, dicono i testimoni, che li ricor- dano giocare a carte la sera nel bar de ‘Ntogno

‘l sarto, in Via Umberto I. “Quando cadde su verso il Pianetto un paracadutista america- no - dicono ancora - e quei soldati partirono dal paese con una mac- china per andare a cat- turarlo, noi tutti pensa- vamo che chissà quale finaccia gli avrebbero fatto fare. E invece lo scortarono in paese con tutti i riguardi militari, e sic- come era un tenente colonnello, fecero venire a prelevarlo un suo pari grado tedesco...”. La cucina-dispensa l’avevano in un locale a pianterreno del palazzo dei Foderini, poi del Calònico, tra la fine di Via Roma e l’inizio del viale Santa Lucia e utilizzata poi anche dagli americani. (E’ rimasto proverbiale l’episodio del grosso cuoco tedesco che, sentendo grugnire un maiale in un grottino delle vicinanze, andò con un’accetta e fece la festa al suino per cucinarlo.

Immaginatevi le proteste del proprietario, che guarda caso era proprio ‘l sòr Mechétto.

“Che problema c’è? - gli disse in sostanza il tedescone - Vai

passaggio del fronte

Giugno 1944: carri Sherman americani in appoggio ai francesi (da C.Biscarini, op. cit.)

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in comune con questo biglietto che ti rilasciamo e loro di pagheranno”. Mechétto andò e chiese di essere risarcito. “Ma il maiale chi l’ha mangiato?”, gli fecero in comune. “I tede- schi”. “Allora va a farti pagare dai tedeschi”, lo liquidarono un po’ per divertirsi e un po’

per levarselo di torno, tra gli strepiti del sòr Mechétto che una volta tanto rimase “frega- to”).

Ci furono anche casi di umana solidarietà, verso la sparuta retroguardia tedesca abbandonata alla fine al suo destino. Un soldato ferito fu curato per esempio in casa della Liggia e della pòra Ce- cilia, che pure avevano mariti e figli in guerra o prigionieri in Germania. Rimesso un po’ in sesto e ripartito con uno degli ultimi camion in transito, quel soldato fece scaricare davanti al portone della loro casa una stufa e un sacco di zucchero per sdebitarsi in qualche modo. Due militari tedeschi si presentarono con un compa- gno gravemente ferito a Meca- rèllo, allora mezzadro dei De Simoni nel podere su a San- t’Anna, alle falde del monte di Cellere. Quell’uomo fu medica- to in casa alla meno peggio e i tre ripresero la loro fuga dispe- rata verso nord (il che non impedì a Pèppe Tagliaferri, il giorno dopo, di scendere festo- samente nel cortile del casale con una borraccia di vino per brindare alla vittoria con i sol- dati alleati sopraggiunti).

Un motociclista fu invitato in casa da Liberato Lucattini, allora diciannovenne, che pure si era dovuto nascondere in una grotta per circa un anno per non andare in guerra dopo l’8 settembre. Il giovane aveva lasciato i suoi nella grotta per venire in paese a controllare che la casa fosse ancora più o meno al suo posto, e aveva trovato questi soldati su un camion fermo sotto alla volta della chiesa. Due chiacchiere - con qualche parola e molti cenni - e l’invito, accolto dal tedesco di buon grado, a darsi una ripulita in casa. Il soldato chiese anzi gentilmente di essere aiutato nel suo compi- to, e Liberato lo seguì tutto il giorno sulla motocicletta per andare a sistemare dei segnali stradali per le colonne in ritira- ta. Alla sera quell’uomo lo si vide godere al solo togliersi gli stivali, lavarsi i piedi e mangia- re un boccone seduto a un tavolo. Poi tirò fuori le foto dei suoi familiari e prese a piange- re pensando che non li avreb- be più rivisti. Liberato gli offrì

degli abiti civili, suoi e di suo padre: “Butta questa divisa... - gli fece capire - ... mescolati tra di noi... passerai inosservato”.

Per un attimo l’uomo sembrò rifletterci, ma gli scesero di nuovo le lacrime e disse di no.

Uscendo entrambi di casa, Liberato lo invitò ancora a pas- sare la notte da lui. “Quando rientri, bussa, - gli disse - ché io ti sento e apro”. Invece quella sera Liberato, rientrato presto per la stanchezza, si addor- mentò subito come un sasso e non sentì il tedesco. La matti- na lo trovò addormentato sullo scalino fuori della porta, ché non s’era sentito di insiste- re a bussare.

Naturalmente quell’uomo morì, come quegli altri pochi compagni d’arme rimasti, fatti saltare in aria appena presero a sparare con i mitragliatori sulle colonne corazzate allea- te in arrivo da sud: qualcuno in una grotticella della Valle del Guercione; qualche altro sul Poggio della Fonte. L’ultimo disperato tentativo di guada- gnare tempo per ricostituire una linea difensiva più a nord, infatti, qui da noi fu compiuto da un carrarmato piazzato su un’altura del Ponte Nòvo, e da un manipolo di venti/trenta uomini armati di mitragliatori sul poggio del Bottagóne, en- trambi in posizione di con- trollo sulla strada da Tuscania.

Nella notte tragica del 10-11 giugno, le due postazioni fece- ro fuoco in direzione delle truppe avanzanti da sud, ma furono ben presto messe a tacere dalla reazione alleata.

L’indomani mattina il carrar- mato tedesco era un rottame, e degli uomini sull’altura - salvo quei pochi superstiti che si erano potuti

dileguare prima dell’alba - erano rimasti sul ter- reno corpi or- r e n d a m e n t e mutilati dalle c a n n o n a t e . Pochi erano i cadaveri interi.

Braccia, gambe, e ovunque parti di corpi insan- guinati, giace- vano scompo- stamente in q u e l l ’ u l t i m a trincea, mentre un corpo fu tra- scinato in quel- la grotticella a valle. Si diceva che fosse un soldato giusti- ziato da un uffi- ciale americano

con un colpo di pistola alla testa, dopo che il tedesco aveva falciato diversi uomini sparando disperatamente sulle avanguardie che spuntavano dalla curva del Ponte Nòvo.

Finite le munizioni ed accer- chiato, quel soldato avrebbe pagato con quell’uccisione a freddo l’aver mantenuto la consegna fino all’ultimo. Per un po’ il cadavere rimase lì, a piedi nudi, perché qualche paesano gli prese le scarpe di cui il morto non aveva più bisogno, ma anche agli altri corpi furono tolti scarpe, oro- logi, anelli... Ancora di recente in quei poggetti sopra al Bottagone sono saltati fuori frammenti di alcuni loro docu- menti personali e bossoli in abbondanza.

I cingolati alleati fecero presto a riempire di terra e macerie i fossi cui erano stati fatti salta- re i ponti - all’ingresso sud del paese, per la salita delle Ca- ciare e al Vitozzo, con inevita- bili lesioni alle case lungo tutto il fronte della strada romana - e in mattinata transitarono in paese gli americani del 755°

battaglione carri medi e del gruppo d’artiglieria Godfrey, ossia l’artiglieria pesante di supporto al cosiddetto “corpo d’inseguimento” francese, rap- presentato in questo caso dalla 3a divisione di fanteria algerina, che giusto il giorno prima aveva rilevato a Tusca- nia l’85a divisione di fanteria americana. All’altezza del cam- posanto le colonne in marcia trovarono la strada ingombra- ta da un’autoblinda tedesca abbandonata. Il mezzo, colpito qualche giorno prima da due caccia inglesi (le cape rosse, come dicevano in paese, ossia

gli spitfire dalla caratteristica fusoliera rossa, che erano sbu-

cati da verso il monte di Valen- tano mitragliando il mezzo e mettendo in fuga gli occupan- ti), non era andato completa- mente incendiato, tant’è vero che i calzolai andavano a ta- gliare con il trincetto i pattini di gomma per fare le sopras- suola alle scarpe, e con lo chassis i fratelli Brachetti co- struirono più tardi la prima trebbia montata su camion, la famosa “volante”. Ma bastò una potente gru per sollevarlo e buttarlo nella vigna di Gnoc- chetto lì a fianco.

A mezzogiorno, americani e franco-algerini, comparsi in paese verso le otto, erano già addosso a Valentano e in pro- cinto di attaccare la statale 312 in direzione di Latera, che doveva portarli sul primo obiettivo dell’avanzata, la stra- da 74, sulla linea Orvieto- Orbetello. Fu fortuna per noi esserci trovati in una direttrice di marcia strategicamente secondaria e in una sacca di resistenza tedesca superata d’impeto, secondo tempi e piani tattici che non prevede- vano soste per le truppe. A Montefiascone e lungo la costa nord-orientale del lago, percor- sa dalla Cassia e più munita di difese tedesche, la prima divi- sione di fanteria marocchina incontrò maggiore resistenza e stazionò più a lungo, con tutte le conseguenze terrificanti del caso. E mentre da noi i “libera- tori” buttavano cioccolate ai bambini e scatolette di carne e di fagioli, i brandelli dei soldati tedeschi, al Bottagone, veniva- no interrati alla meglio dentro

Giugno 1944: unità someggiate marocchine in marcia nella valle dell’Ombrone, poco più a nord della nostra zona di operazioni (da C. Biscarini, op. cit.).

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la loro stessa trincea. Furono riesumati a guerra finita:

per umana pietà, ma anche per

“bonificare” quei terreni.

Umana solidarietà, in ogni caso, la gente dimostrò verso tutti i militari in difficoltà, qualsiasi fosse la loro divisa.

Tutti in paese avevano qual- che familiare in guerra, e qual- siasi soldato impaurito e soffe- rente era l’immagine penosa di un figlio, di un fratello, di cui magari non si avevano notizie e sperso in chissà quale parte del mondo. E poi la guerra era estranea alla gente. C’era il grano alto, da mietere, e quella ferocia ottusa, quelle macchi- ne di morte erano incompren- sibili; così come non si capiva perché fossero state portate via altre braccia da lavoro.

Una società per molti aspetti ancora primitiva, dai bisogni primari, semplicemente non poteva concepire la distruzio- ne, la logica di una sopraffazio- ne estrema a causa di ideolo- gie o sete di dominio. Nella gente c’era terrore e insieme estraneità, tra fatalismo e ras- segnazione cristiana, come per i cataclismi e le siccità e le inondazioni; come in tutte le genti contadine che nei secoli avevano visto passare le guer- re e rovinare i raccolti. Qui l’“antifascismo” era umanesi- mo antico, millenaria civiltà della terra impregnata di cri- stianesimo. Non opposizione in armi - e come avrebbero potuto? - ma resistenza interio- re, profonda, di natura; che se nel tempo poteva essere sem- brata acquiescenza ed ora appariva soccombente, prima o poi sarebbe di nuovo preval- sa - non avrebbe non potuto, pena la sopravvivenza del genere umano - sulla perdita dissennata della ragione. E questo c’è di notevole nella più profonda anima contadina, con tutte le sue miserie e debolezze: non l’“eroismo” per imbracciare le armi, ma il disincanto per le “invenzioni”

dell’uomo, una coscienza più alta, una filosofia più antica, una superiore certezza etica disarmata e invincibile, come una forza della natura, immota in quel turbinare di morte.

Alla Picarilla un paracadutista americano fu rivestito con pelli e cosciali e tenuto per me- si dietro alle pecore senza poterci neppure barattare due parole. Di qualch’altro si dice- va a mezza voce che era passa- to a rifocillarsi fugacemente in una grotta o capanna di pasto- ri, accolto con semplicità e

naturalezza, senza bisogno di domande, e una storia bellissi- ma fu quella vissuta dai fratelli Moscatelli, che senza volere strinsero un’amicizia con quat- tro militari inglesi destinata a durare per la vita. Erano due avieri e due piloti abbattuti dagli aerei della Luftwaffe, ridotti uno straccio e raminghi per la macchia di Marta. I Moscatelli, che vi si trovavano con le pecore, li ospitarono per mesi nella loro capanna provvedendoli di tutto, fino a quando i quattro poterono ricongiunsersi ai loro reparti al passaggio delle truppe alleate.

La loro gratitudine fu grandis- sima. Dapprima segnalarono il gesto al comando alleato, che ringraziò ufficialmente i tre fra- telli con un attestato di ricono- scimento; poi, terminata la guerra, soprattutto due di essi, Arthur e George, tornarono più volte a Piansano per poter riabbracciare i loro benefatto- ri.

Casi del genere furono innume- revoli nelle nostre campagne, e nessuno si sognò di vantare per questo crediti resistenziali.

Di alcuni, anzi, si è venuti a

conoscenza per caso, a distan- za di anni, e quasi forzando una certa ritrosia negli stessi protagonisti.

Ma la guerra non finì con il terremoto degli eserciti in transito. Altri lutti avrebbe portato nelle famiglie con le notizie di morte di soldati e prigionieri. Altre vittime avreb- be mietuto con gli ordigni seminati al suo passaggio, che ancora oggi, a distanza di ses-

sant’anni, capita di rinvenire in tutta la loro pericolosità. La prima vittima era stata Chec- chino Mattei, che quel sabato mattina del 2 ottobre 1943 era uno “scugnizzo” all’arrembag- gio per il paese. Con i compa- gni trovò “una cosa” che cominciarono a passarsi per gioco e che poi, fruga fruga, presero a percuotere con le pinze per smontarla. L’esplo- sione maciullò la mano destra di Checchino e lo ferì in molte altre parti del corpo. Tra gli strilli di dolore e di spavento, i bambini insanguinati furono portati subito al vecchio ospe- dale davanti alla chiesa par- rocchiale; da lì fino a casa del dottor Palazzeschi e quindi all’ospedale Grande, dove a Checchino quella mano fu amputata.

Sull’autoblinda abbandonata davanti al camposanto, i bam- bini andavano a giocare con le pistole trovate agganciate al fusto del cannone, mentre die- tro al cimitero Marino Lesen e Marafèo trovarono una casset- ta piena di bombe. Per un po’

ci giocarono tirandosele!, poi le buttarono e Marino portò a

casa la pesante cassetta con la quale si costruì la carrozza.

All’imbocco della discesa della Fonte del Moretto erano stati abbandonati bombe e proietti- li di ogni dimensione. Con le mine anticarro i ragazzi ci gio- cavano abitualmente. Le svuo- tavano per dar fuoco alla pol- vere da sparo. A volte ne riem- pivano i barattoli vuoti di ali- mentari lasciati dagli america- ni: appoggiavano per terra

questi barattoli lasciandone uscire da sotto un po’ di polve- re, e poi vi davano fuoco come a una miccia per vedere i barattoli saltare in aria con gran fragore. Oppure gli toglie- vano una specie di treppiedi a quattro gambe e le facevano ruzzolare verso il fosso, per- ché erano di forma circolare con un buco in mezzo. Non sempre le mine esplodevano.

A volte le lanciavano da uno strapiombo ma non scoppiava- no. Per questo non ne avevano paura più di tanto.

Un giorno di quell’estate ne rimase vittima un gruppetto di quattro o cinque bambini.

All’ennesimo lancio a terra, la

“pizza” scoppiò ai loro piedi investendoli di schegge. Insan- guinati e terrorizzati, furono tutti portati giù al vecchio ospedale, e c’è chi ancora ha negli occhi l’immagine di que- sti bambini scalzi, stracciati e piangenti, guidati giù per il paese dai loro padri con la mano sulla loro testa.

Il 7 luglio il paese fu sconvolto dall’assassinio di Luigi San- tella, un ex carabiniere che il pretore di Valentano aveva

“richiamato in servizio” insie- me ad altri per vigilare notte- tempo le campagne, teatro di ruberie selvagge e furti di bestiame con sospetti compli- ci del luogo. Ignoti malviventi gli spararono due colpi a bru- ciapelo al ponte di Sant’Anto- nio, appena fuori dell’abitato, e l’uomo fu portato in fin di vita fino a casa del dottor Palaz- zeschi, dove morì. Lasciava la moglie e tre figli piccoli.

Il 31 dello stesso mese morì all’ospedale di Tarquinia Zi- gliante De Santis, scampato alle retate tedesche di quella primavera e devastato invece a Montebello, mentre si trova- va a trebbiare con i Foderini, dall’esplosione accidentale di un pallone frenato tedesco di difesa antiarea; la stessa esplo- sione che ferì più lievemente Pèppe Ruzzi, mentre a Pippo Foderini lo scaraventò in aria procurandogli ustioni gravissi- me e a momenti facendolo re- stare cieco per sempre.

Il 5 agosto il primo ragazzo morto: Sestilio Fagotto, che aveva 16 anni e stava in affitto con le pecore per la strada di Valentano, al casale del ponte, a sinistra andando su. Non era la prima volta che Sestilio tro- vava dei bossoli di cannone: lì avevano fatto tappa gli ameri- cani per cannoneggiare Bolse- na e tutt’intorno era pieno di

“tubi” appuntiti, lunghi un’ot- tantina di centimetri e di una dozzina di diametro. Di solito il

passaggio del fronte

Cèncio Moscatelli e George C.

Mumford a Piansano nel 1982.

Sul retro del documento c’è an- che la traduzione in italiano (sia pure non perfetto sintatticamen- te):

“Questo certificato è rilasciato a MOSCATELLILUIGIquale attestato di gratitudine e riconoscimento per

l’aiuto dato ai membri delle Forze Armate degli Alleati che li ha messi in grado di eva- dere od evitare di essere catturati dal nemico. Il Maresciallo Britannico Comandante Su- premo delle Forze Alleate del Mediterraneo H.R. Alexander, 1939-1945”.

(6)

Dopodiché si registrò solo un altro feri-

mento, quello di Virgilio Meni- cucci, che domenica 13 aprile 1947 si trovava con le pecore proprio davanti al cimitero di Montalto. Stroncava col marrac- cio alcune frasche secche tra l’erba alta vicino alla strada, quando percosse una piccola bomba a mano che esplose disintegrandosi in mille picco- lissime schegge. Col sangue che gli colava per strada l’uo- mo arrivò a piedi fino all’ambu- latorio di Montalto, dove una suora gli iniettò dell’anestetico e gli segò le falangette sbriciola- te di pollice e indice. L’indo- mani il ferito fu portato all’o- spedale di Tarquinia, dove il vecchio medico Emanuelli gli disse che avrebbe ammazzato la suora di Montalto per l’inuti- le amputazione: si sarebbe potuto ricucire e ricostruire tutto.

Virgilio mostra i moncherini e le cicatrici in faccia. Oggi lui ha più di ottant’anni e sembra sor- riderne pacatamente. Ma a noi quei moncherini richiamano altre immagini crude di bambi- ni dilaniati dalle guerre d’oggi.

Ricordano che la storia non è sinonimo di “passato”, e finché sarà mossa dalle passioni del- l’uomo, inesorabilmente si ripe- terà in più moderne barbarie.

ragazzo li portava a casa, lì al Fabbricone, e li svuotava della polvere. Al casale ne aveva ammucchiata chissà quanta, proprio vicino al focolare! Quel giorno invece prese a percuo- tere il bossolo lì sul posto. Lo scoppio gli portò via il cervel- lo.

Il 2 ottobre era il lunedì della Festa. Calisto, ‘l fjo de Bigon- zòtto, portò a casa dall’infidèo una bomba che era nel campo inesplosa già da qualche tem- po. Dicono che fosse una di quelle a pestasale, ma doveva trattarsi piuttosto di una bom- ba d’aereo. Méco, suo padre, non l’aveva voluta toccare ed aveva avvertito anche il figlio di non farlo, ma quel giorno Calisto non resistette. La mise nel capagno e la portò a casa nascondendola sotto al comò.

Dopopranzo, rimasto in casa con la madre che stirava, il ragazzo tirò fuori la bomba furtivamente e vi si mise a fru- gare con le tenaglie girato di spalle. Lo scoppio lo disinte- grò. L’Angelina rimase del tutto illesa, ma brandelli di carne e sangue erano per tutte le pareti e sul soffitto. La pove- ra donna da allora non fece che piangere quell’unico figlio.

Méco continuò a lungo a stra- maledire gli americani, e per sopravvivere dovettero riven- dere un infidèo de la Coperati-

va su a Marinello.

Il 3 marzo del ‘45 era un altro tragico anniversario, quello

delle bombe americane sulla Banditaccia. Era verso l’una, e quattro o cinque bambini di 9-10 anni trovarono al Cicarda il coperchio di una bomba a mano, o meglio, una scatoletta con cui giocare. Uno di loro fa:

“Sa’ quante ce n’ho de que’, su all’orto!”. Suo padre ne aveva raccolte diverse e riposte un po’

in disparte dentro a una stagnata. Sono come dei cilindretti chiusi, e i ragazzi ne prendono tre o quattro a testa riempien- dosene le tasche di giac- chettine e cappotti. Li attira soprattutto la gabbietta metal- lica che sta sotto, che si può staccare tirando la linguetta infilata in una fessura al centro del cilindro: la sicura! Manco a dirlo: uno scoppio, e una vam- pata rossa li acceca e li atterra.

Sono storditi dal fragore e nep- pure riescono a strillare. Uno, colpito al ginocchio, corre fino al fosso e lì cade. Altri sembra- no spiritati ma illesi. Un quinto è una maschera di sangue.

Portati a braccia fino a casa di Palazzeschi, all’ultimo piano della sua casa di Viale Santa Lucia, vengono ripuliti alla meglio e spediti all’ospedale, dove se la caveranno con cica- trici per la vita.

Foligno e i “marocchini”

“... Un giorno, durante l’ultima guerra, in groppa al suo asinello, sacchette a tracolla e pompa dell’ac- qua ramata in spalla, Foligno saliva la strada del Piano per raggiungere un piccolo appezzamento di terreno in località le Sòde. Durante il percorso si imbatté in un drappello di soldati alleati di colore:

marocchini, diceva la gente, ma vai a capire di che razza erano. Foligno raccontava con la sua vocet- ta fessa: “Ao’, quanno ho ‘ncontro quele soldatacce, me se so’ mésse ‘ntorno, m’hanno fermo ‘l soma- ro, hanno ‘ncominciato a bacaja’ fra de lòro, ma chi le capiva?! Uno me voliva pja’ la pompa, ma ‘n je l’ho data. Me so’ ‘mpaurito e je dicìvo: “So’ n pòro vecchio, vo a dda’ ll’acqua, hae capito?, a- dda’-ll’a-cqua!”. Ma quelle nun me capìveno, e con quele fucile me staveno sempre ‘ntorno, èreno sempre più arrabbiate...”.

Foligno accompagnava gesticolando e mimando le fasi del racconto come se ancora le stesse vivendo, ed era questo che divertiva gli ascoltatori spronandolo ad andare avanti. I

soldati non conoscevano la pompa dell’acqua ramata, e la scambiarono per un’arma, probabilmente un lanciafiamme, e quando Foligno capì che era la pompa ad insospettirli, tentò di azionarla spiegando il suo funzio- namento. Mise mano allo stantuffo che carica la pompa e voltò il rubinetto verso di loro. Foligno proseguiva così: “Appena ch’ho mòsso le mane, uno de quele facce brutte m’ha chiappo pel collo e m’ha butto giù dal somaro.

Quel’altre m’hanno puntato le fucile ‘ndel petto, parlaveno ecchèbbese eccòbbese, ‘n se capiva gnente... Io morivo de paura e je dicìvo: “... ‘N pòro vecchio... vo a da’ l’acqua ramata...”. Qualche ascoltatore gli dice- va; “Allora hae avuto paura, Foli’?!”. E lui: “Io ‘na paura così nn’ho avuta mae da quanno so’ nato, a véda quele facciacce brutte nere che ‘n s’èreno viste mae, che me volìveno spara’... Uno m’ha dato ‘na spénteca, m’ha fatto pure casca’... ero bianco come un morto, e da la paura me so’ caca- to adòsso...”. Poi quei soldati capirono che la pompa era innocua e Foligno fu lasciato mezzo morto di paura. Quando i soldati si allontanaro- no in direzione di Valentano, Foligno gli scagliò contro la sua maledizione dicendo: “Vóe nun potéssera riva’ a Terra Rossa che v’ammazzassero le soldate nemiche!”. Poi ci ripensò e rincarò: “... Ma che dico a Terra Rossa?!... Ma manco al Guado de Cachìno, avarebbero da riva’, ‘ste morammazzate!”.

Manifesto di avvertimento (ma anche di propaganda antiamericana) per un triste episodio di guerra:

bombe d’aereo sotto forma di penne per scrivere (gentilmente fornita dalla sezione di Viterbo dell’Associazione nazionale Vittime civili di guerra)

Umberto Mezzetti

Il popolare Foligno (Domenico Mecorio, 1879-1962) in una foto “seriosa” dei primi del secolo (forse l’unica sua foto- grafia), al tempo della sua emigrazione in America.

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