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Academic year: 2021

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Capitolo Uno

1.1 Determinazione del pH

Determinare il grado di acidità o alcalinità di una soluzione, non necessariamente acquosa, è una misura spesso effettuata in maniera routinaria e continua, di fondamentale importanza in molti campi di ricerca e settori applicativi industriali: dalla medicina alla biologia, dall’agricoltura alle scienze alimentari, dalle scienze ambientali all'oceanografia, all'ingegneria civile e chimica, fino al trattamento e alla depurazione delle acque, includendo il monitoraggio ambientale, il bioprocessing e la biomedica diagnostica.

A parlare di pH fu per la prima volta, nel 1909, il chimico danese Søren Peder Lauritz Sørensen nel Laboratorio Carlsberg di Copenaghen1, durante uno studio sul problema di misurazione del grado di acidità dei liquidi di fermentazione. Il termine da lui introdotto, trascritto con una notazione che prevedeva "H" come pedice alla minuscola “p”, stava ad indicare la misura dell'attività del idrogenione mono o poli solvatato. L’esatto significato della lettera “p” in “pH” è controverso. Secondo la Fondazione Carlsberg pH sta per “potenza di idrogeno”. Altri studiosi, appellandosi al fatto che il Laboratorio Carlsberg fosse di lingua francese, traducono il termine con il francese “puissance”. Taluni privilegiano invece una lettura del termine in lingua tedesca, suggerendo di tradurlo con “Potenz” (potenza in tedesco). Per altri ancora il termine è invece l’abbreviativo della parola “potenziale”2

.

Col tempo si è affermata un’altra chiave di lettura che suggerisce che il termine “p” stia per i termini latini “pondus Hydrogenii”, “potential hydrogenii”, o

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potenziale di idrogeno. Si suppone inoltre che Sørensen abbia utilizzato le lettere “P” e “Q” per etichettare la soluzione di prova (p) e la soluzione di riferimento (q).

Al di là delle controversie letterali, la lettera “p” oggi viene utilizzata come fattore matematico indicando il cologaritmo in base dieci della concentrazione idrogenionica.

pH= -Log [H+]

Equazione 1

L’International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC), nel “Definition of pH scales, standard reference values, measurement of pH and related terminology” definisce il pH come il logaritmo decimale del reciproco dell’attività degli ioni idrogeno (Equazione 1), calcolata come la loro concentrazione in una soluzione acquosa espressa in Moli/litro. Il pH risulta quindi un numero puro, ovvero privo di unità di misura3.

La lettera “p” come cologaritmo in base dieci è utilizzata anche per un altro parametro riferito alla “pKa” e la “pKb” .

La Ka e Ka sono le costanti di dissociazioni rispettivamente dell’acido o della

base in acqua.

Equazione 2 e 3

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La Ka e la Kb sono, inoltre, in stretta correlazione tra di loro.

Quindi i concetti di pH, pKa e pKb di un analita si riferiscono solo alla sua

attività riferita ad un ambiente acquoso, a concentrazione sufficientemente diluita, < 0.1 M.

Per definire in maniera più rigorosa il pH è necessario considerare “l’attività del protone”, a, che tiene conto della forza ionica della soluzione.

Equazione 5

Ovviamente, il coefficiente di attività deve essere preso in considerazione ogni qual volta si cerca di determinare l’acidità di composti disciolti in solventi organici o in matrici più complesse (liquidi ionici fluidi supercritici, ecc). Nei diversi solventi, inoltre, lo stesso numero di ioni H+ può essere correlato a valori di attività notevolmente diversi essendo diversa la forza con cui tali ioni sono legati alle molecole di solvente. Da ciò ne deriva che i valori di pH determinati in solventi diversi non sono tra di loro direttamente confrontabili.

1.2 Misure Potenziometriche

La concentrazione di un analita in soluzione può essere determinata mediante diversi metodi analitici, basati su misure di potenziale elettrico, generalmente definiti come metodi potenziometrici.

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La tipica strumentazione utilizzata in potenziometria comprende un elettrodo di riferimento, il cui potenziale deve essere noto, costante nel tempo e indipendente dalla composizione della soluzione contenente l'analita in cui è immerso, un elettrodo di lavoro (o indicatore), la cui risposta dipende dalla concentrazione dell'analita, e infine un dispositivo per la misura del potenziale che può essere rappresentato da un potenziometro di Poggendorf o un moderno voltmetro elettronico.

Elettrodo di riferimento | ponte salino | soluzione da analizzare | elettrodo indicatore Erif Ej Eind

Per la determinazione del pH, sulla base di questo schema, potrebbe essere utilizzato come elettrodo di riferimento un elettrodo standard ad idrogeno, anche se questo approccio viene raramente impiegato in quanto l’utilizzo dell’elettrodo ad idrogeno induce serie difficoltà sperimentali. Per convenzione, nelle misure potenziometriche, l'elettrodo di riferimento è sempre considerato come anodo. L’elettrodo indicatore, immerso nella soluzione da analizzare, assume un potenziale che dipende dall’attività dell’analita da determinare, e di norma è caratterizzato da una elevata selettività nei confronti dell’analita stesso. Il terzo componente di una cella potenziometrica è costituito da un ponte salino che previene il mescolamento dei componenti della soluzione da analizzare con quelli dell'elettrodo di riferimento.

L'impiego di un ponte salino determina l'insorgere di un potenziale di giunzione liquida ad entrambe le sue estremità. Questi due potenziali sono di segno opposto, e la loro somma tende ad annullarsi se i cationi e gli anioni nella soluzione del ponte salino hanno circa la stessa la mobilità. Per questo motivo, il contributo netto del potenziale di giunzione Ej è generalmente minore di pochi millivolt. Per la

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maggior parte dei metodi elettro-analitici, questo contributo è abbastanza piccolo da essere trascurato.

Il potenziale elettrochimico di una cella così costituita è il seguente:

Ecell = Eind - Erif+ Ej

Equazione 6

Il primo termine dell’equazione 6, Eind, contiene l'informazione sulla

concentrazione dell'analita. Un’analisi potenziometrica implica, quindi, la misura del potenziale di cella, la sua correzione per i potenziali di riferimento e di giunzione liquida, ed il calcolo della concentrazione di analita dal potenziale dell’elettrodo indicatore.

Per la determinazione di qualsiasi analita è fondamentale disporre di un opportuno elettrodo indicatore. Un elettrodo indicatore ideale deve rispondere in modo rapido e riproducibile alle variazioni di concentrazione dell’analita (o di un gruppo di ioni analiti). Sebbene nessun elettrodo indicatore sia caratterizzato da una risposta assolutamente specifica, attualmente sono disponibili un certo numero di elettrodi che hanno un’elevata selettività. Gli elettrodi indicatori sono di tre tipi:  metallici

 a membrana

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1.3 L'elettrodo a vetro per le misure di pH

Figura 1. Rappresentazione di un pHmetro

La Figura 1 illustra una tipica cella per la misura del pH. La cella è formata da un elettrodo indicatore di vetro e da un elettrodo di riferimento a calomelano saturo immersi nella soluzione di cui si vuole misurare il pH. L’elettrodo indicatore consiste in una membrana sensibile al pH, saldata all’estremità di un tubo di vetro resistente o di plastica. Nel tubo è contenuto un piccolo volume di una soluzione di acido cloridrico diluito, saturata con cloruro di argento (in alcuni elettrodi la soluzione interna è costituita da un tampone contenente ioni cloruro). Un filo d’argento immerso in questa soluzione forma un elettrodo di riferimento ad argento/cloruro di argento, ed è collegato ad uno dei morsetti di uno strumento di misura del potenziale. L'elettrodo a calomelano è connesso all'altro morsetto.

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Figura 2. Rappresentazione schematica di una cella per la misurazione del pH

La Figura 1 e la Figura 2, dove questa cella è rappresentata schematicamente, mostrano che un sistema di elettrodo a vetro contiene due elettrodi di riferimento: (1) l'elettrodo a calomelano esterno e (2) l'elettrodo ad argento/cloruro di argento interno. Sebbene l'elettrodo di riferimento interno sia parte dell'elettrodo a vetro, esso non è l'elemento sensibile al pH. Invece, è la sottile membrana di vetro all'estremità dell'elettrodo che risponde ad esso.

1.4 La composizione e la struttura della membrana di

vetro

Un’intensa e sistematica ricerca è stata dedicata negli anni alla comprensione dell’effetto della composizione del vetro sulla sensibilità delle membrane ai protoni e ad altri cationi, e attualmente diverse formulazioni sono impiegate per la loro preparazione. Il vetro Corning 015, che è stato largamente usato per membrane, è costituito approssimativamente dal 22% di Na20, dal 6% di CaO e per il rimanente

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Questa membrana mostra una eccellente specificità nei confronti degli ioni idrogeno fino ad un pH di circa 9. Per valori più alti di pH, comunque, il vetro diventa piuttosto sensibile al sodio e ad altri cationi a carica singola. Attualmente vengono impiegate altre formulazioni di vetro in cui gli ioni sodio e calcio sono sostituiti in varia misura dagli ioni bario e litio. Le membrane realizzate con questi vetri presentano una selettività superiore e una vita più lunga.

Il vetro silicato usato per le membrane è costituito da un insieme infinito tridimensionale di gruppi SiO44-, in cui ogni silicio è legato a quattro atomi di

ossigeno e ogni ossigeno è condiviso da due atomi di silicio. All'interno degli interstizi di questa struttura si trova un numero di cationi sufficiente a bilanciare la carica negativa dei gruppi silicato.

Cationi a carica singola, quali sodio e litio, sono mobili nel reticolo e sono responsabili della conduzione elettrica all'interno della membrana.

Entrambe le superfici della membrana devono essere idratate prima che un elettrodo a vetro possa funzionare come elettrodo per il pH. Vetri non igroscopici non sono sensibili al pH. Anche i vetri igroscopici perdono la loro sensibilità al pH dopo disidratazione, se conservati in presenza di un essiccante.

Tale effetto è comunque reversibile, e la risposta dell'elettrodo viene ristabilita immergendolo nell'acqua.

L’idratazione di una membrana di vetro sensibile al pH coinvolge una reazione di scambio ionico fra cationi a carica singola presenti negli interstizi del reticolo vetroso e i protoni della soluzione. Generalmente, quindi, la reazione di scambio ionico può essere scritta come segue:

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H+ Na+ GI-↔ Na+ + H+Gl+ soluz. vetrosoluz. vetro

Il processo di scambio tra ioni nel vetro e ioni in soluzione

I siti Gl- carichi negativamente, mostrati in questa equazione, corrispondono agli atomi di ossigeno legati ad un solo atomo di silicio. La costante di equilibrio di questo processo è così elevata che le superfici idratate di una membrana di vetro sono formate completamente da gruppi di acido silicico. Un’eccezione a questa situazione si ha in mezzi fortemente alcalini, dove la concentrazione dello ione idrogeno è estremamente bassa e la concentrazione dello ione sodio, al contrario, è elevata; in questo caso, una frazione significativa di siti è occupata da ioni sodio.

1.5 Conduzione elettrica attraverso le membrane

La conduzione elettrica è una caratteristica indispensabile affinché una membrana di vetro possa essere utilizzata come indicatore per cationi. La conduzione all'interno della membrana di vetro idratata coinvolge il movimento di ioni sodio e idrogeno. Gli ioni sodio sono i trasportatori di carica nella parte interna non idratata della membrana, mentre i protoni sono mobili nello strato di gel. La conduzione attraverso l’interfase soluzione/gel è resa possibile dalle seguenti reazioni:

H+ + Gl- ↔ H+Gl- Soluz Vetro Vetro

H+Gl- ↔ H+ + Gl- Vetro soluz Vetro

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Il primo equilibrio si riferisce all’interfase fra vetro e soluzione di analita, e il secondo si riferisce all'interfase fra soluzione interna e vetro. Le concentrazioni all’equilibrio di queste due reazioni sono determinate dalla concentrazione degli ioni idrogeno nelle due soluzioni (interna ed esterna) a contatto con la membrana. Quando tali concentrazioni differiscono, la superficie della membrana dove la dissociazione è maggiore assume una carica negativa rispetto all'altra. Attraverso la membrana si sviluppa quindi un potenziale di interfase.

1.6 Sensori di pH

Secondo la normativa Norma UNI-UNIPREA 4546 un sensore è “un elemento che si trova in diretta interazione con il sistema misurato” e, funzionando da convertitore, misura una quantità fisica e la converte in un segnale che può essere letto da un osservatore o da uno strumento (oggi prevalentemente elettronico)5.

Nel caso specifico dei sensori di pH, questi si basano sull’utilizzo di specie chimiche che, al variare della concentrazione idrogenionica, producono una variazione significativa e rilevabile in un parametro fisico che viene rilevato in continuo.

 La specie chimica che si trova generalmente in contatto con la soluzione da analizzare deve rispondere a determinati parametri: l’eco-sostenibilità, costo e ovviamente la sensibilità alla variazione del pH.

 Le grandezza fisiche che possono essere prese in considerazione per la misurazione alla variazione di pH sono molteplici e dipendono dal tipo di sensore e dal settore di applicazione: si spazia quindi dall’analisi 1

HNMR, alle misure spettroscopiche che tengono conto della variazione dell’assorbimento delle forme protonate e non6

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misurare il pH di una soluzione si basa sull’utilizzo di indicatori: in genere composti organici che quando posti in contatto con soluzioni acide o basiche, subiscono modificazioni strutturali che si riflettono sulla cambiamento del loro spettro d’assorbimento. Le regioni interessate spaziano dal vicino ultravioletto al vicino-infrarosso. Qualora le variazione rientrino nello spettro visibile la variazione di pH è apprezzabile anche tramite la variazione di colore. Nel caso la variazione di pH non sia apprezzabile ad occhio nudo, o nei casi in cui si necessiti di misurazioni particolarmente precise, è necessario ricorrere a spettrofotometri.

1.7 I sensori di pH di nuova generazione

Negli ultimi dieci anni si è assistito ad un significativo incremento nell’attività sia accademica che industriale tesa allo sviluppo di nuovi sensori in grado di monitorare e rispondere alle crescenti esigenze di una società in continua evoluzione e con nuove necessità e priorità; sensori di temperatura, umidità, pH, micro inquinati, gas ecc. che trovano applicazioni crescenti nel monitoraggio ambientale, nella tutela dei beni culturali o in medicina. Per quanto riguarda i sensori di pH, e in particolare di quelli destinati ad applicazioni mediche, ad oggi sono stati riportati solo pochi esempi. Tuttavia, recentemente sono comparsi in letteratura alcuni studi che potrebbero fornire le basi per lo sviluppo di nuovi sistemi di misura da applicare nello specifico settore dei presidi medico-chirurgici.

In particolare, il gruppo di ricerca dell’Università Statale di Detroit ha pubblicato alcuni risultati preliminari relativi alla messa a punto di biosensori a base di grafene per la misura del pH e la concentrazione di proteine7. La scelta del grafene è dovuta alle particolari caratteristiche chimico-fisiche di questo materiale quando

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costituito da un singolo strato di atomi di carbonio assemblati in un reticolo a nido d’ape a due dimensioni, che risulta essere un ottimo semiconduttore. Più in particolare, la sua conducibilità può essere modulata dalla polarizzazione del materiale stesso, attraverso la cessione di specie cariche dall’ambiente circostante al grafene, e dalla tensione applicata. Dopo aver quindi provveduto un’esfoliazione meccanica per produrre grafene di alta qualità (monostrato), questo è stato posto all’interfaccia di due soluzioni di diverso pH ed è stato monitorato il cambiamento di conduttanza. Lo stesso approccio è stato seguito nel caso di soluzioni a diversa concentrazione di albumina di siero bovino, BSA. Il cambiamento di conduttanza, registrato in entrambi i casi, è stato attribuito alle caratteristiche ambipolari del grafene. La conduttanza del grafene può essere modulata sia dagli ioni idrossido (OH-) che gli idrogenioni (H+) che influenzano la lacuna elettronica del materiale così modulando il passaggio di corrente elettrica nel semiconduttore. In pratica, questi ioni si possono legare aspecificamente sulla superficie interna, all'interfaccia tra grafene ed elettrolita, e modificare il processo di carica.8 Le caratteristiche fisiche del grafene rendono tale modificazione rivelabile mediante un semplice monitoraggio della variazione di conducibilità.9

Quindi è possibile affermare che una differente concentrazione di cariche negative o positive presenti nella soluzione riesce di per sé a modulare la conduttanza del grafene, che quindi risulta essere sensibile al pH senza alcuna funzionalizzazione. Nell’articolo viene spiegato che il loro progetto a lungo termine mira a portare a costruzione dei sensori biomedici miniaturizzati, integrati, impiantabili per la diagnosi precoce e il trattamento delle malattie.

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Figura 3. Struttura di un sensore con chip ISFET

Nella Figura 3 viene rappresentata in modo schematico la struttura di questo tipo di sensore: questi biosensori potrebbero essere montati all’interno di un catetere e misurare il pH.

È da notare che sensori simili, a base di silicio, detti “ion-sensitive-field-effect-transistor (ISFET)” e utilizzati in vivo per il monitoraggio del pH del sangue arterioso e della concentrazione proteica, comportano oggi diversi problemi:

 la necessità di utilizzare imballaggi sofisticati, che aumentano il costo di fabbricazione.

il legame aspecifico con diverse proteine, provocato dal biofouling (formazione di una sottile pellicola biologica costituita da microrganismi che danno vita ad un complesso micro ecosistema) sulla superficie di silicio.  moderata stabilità in fase di calibrazione e uso a lungo termine.

Non si può quindi escludere che problemi simili potrebbero caratterizzare anche i sensori a base di grafene.

Il team della Monash University di Clayton in Australia ha sviluppato invece un elettrodo che utilizza come sonda un sistema ossido-riduttivo, la riboflavina (RFN), “intrappolata” in una matrice polimerica.10

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riboflavina è un processo pH-dipendente che non richiede acqua. Il polimero contenente la riboflavina è stato realizzato attraverso la Vapor phase polymerized PEDOT riuscendo a realizzare un polimero, il poli (3,4-etilendiosstiofene) “ripieno” di RFN. Sfruttando l’alta conducibilità di questo polimero è possibile misurare le variazioni di conduttività in base al pH delle soluzioni con cui si trova a contatto.

L’elettrodo è in grado di misurare l'attività protonica sia di sistemi acquosi e di sistemi non acquosi che di liquidi ionici (ILS). Ciò dimostra che l'intrappolamento del centro red-ox facilita la comunicazione elettronica diretta con il polimero.

L’approccio di intrappolare opportune sonde in sistemi polimerici è stata seguita anche da un gruppo di ricerca del Centre for Sensor Web Technologies di Dublino. In questo caso viene utilizzato come “supporto” uno ionogel, un materiale trasparente, solido e flessibile preparato mediante fotoisomerizzazione, a partire dalla tetrabutilfosfonio dicianammide e un idrogel polimerico (N-isopropilacrilamide e N,N’-methilene-bis(acrilamide). In questo materiale sono state quindi incorporate, dopo polimerizzazione, quattro diverse sonde solvatocromiche di pH.

Figura 4(a). Polimeri e indicatori colorimetrici utilizzati nel sensore Figura 4(b). Detector del sensore

A causa delle interazioni di tipo ion-pair tra i vari indicatori di pH e il liquido ionico che forma la struttura ionogel, si può evitare il leaching della sonda ottenendo

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L’intrappolamento del liquido ionico in materiali polimerici (ionogel o xerogel) può non solo aumentare la stabilità del sistema, evitando fenomeni di leaching, ma può anche modificare le caratteristiche del sistema dopante11, variando le costanti di acidità ed il range di pH in cui può essere applicato. Inoltre, gli xerogel modificato con liquidi ionici presentano un’aumentata idrofilicità, bagnabilità, e più rapida risposta.

Infine, recentemente sono stati riportati anche alcuni dati relativi allo sviluppo di membrane basate su compositi liquidi ionici-polimeri12.

In particolare, è stata preparata una nuova membrana sensibile al pH costituita da un liquidi ionico (N-cetilpiridinio esafluorofosfate), polivinil cloruro e idrochinone. La membrana, flessibile e stabile, può essere facilmente deposita su un elettrodo. Rispetto ai tradizionali elettrodi, questo presenta delle eccellenti caratteristiche potenziometriche per il monitoraggio del pH, quali la risposta a tempi brevi (< 10s), elevata sensibilità, stabilità e riproducibilità. La risposta è quasi Nernstiana, con una pendenza di −57.5 ± 0.2 mV nell’intervallo di pH tra 2 e 9.5. Il nuovo elettrodo è stato usato per monitorare il pH di campioni alimentari.

Nell’ambito di questa tesi abbiamo quindi deciso di sfruttare le proprietà uniche dei liquidi ionici per sviluppare nuovi sensori di pH in cui il liquido ionico può funzionare da semplice additivo per implementare le proprietà del sistema di rivelazione o può essere esso stesso parte integrante del sistema rivelazione, contenendo una o più funzioni sensibili al variare del pH.

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1.8 I liquidi ionici

I Liquidi Ionici (ILs) possono essere definiti utilizzando una semplice espressione riconducibile alla loro primaria applicazione: “solventi ionici”. Con il termine “solvente” si sottolinea infatti la loro ampia capacità di solubilizzare composti strutturalmente diversi; sali, composti organici, materiale polimerico. Una caratteristica, questa, che ha permesso loro di essere considerati delle valide alternative agli attuali solventi usati in chimica organica, generalmente composti volatili (VOCs) di non trascurabile impatto ambientale e tossicità.

Il termine “ionico”, invece, ne descrive la natura chimica: si tratta cioè di sali, normalmente costituiti da un catione organico opportunamente sostituito (catene alchiliche) e da un anione organico o inorganico generalmente poliatomico. Tra i cationi organici più comunemente utilizzati sono da menzionare: l’ammonio, il fosfonio, il piridinio, l’imidazolio, il guanidinio, il pirrolidinio (Figura 5).

Figura 5. Cationi comunemente utilizzati

Tra gli anioni più comunemente usati invece sono da menzionare: gli alogenuri, i tetrafluoroborati, le bistriflimidi, le dicianammidi, gli esafluorofosfati e i nitrati (Figura 6).

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Figura 6. Anioni comunemente utilizzati

Nell’ultimo decennio i Liquidi Ionici hanno attirato l’interesse sia dei ricercatori accademici che del mondo industriale grazie alle loro particolari proprietà che li rendono dei mezzi promettenti (solventi, solventi-catalizzatori, elettroliti) per diverse applicazioni di interesse industriale. 13

In particolare, i Liquidi Ionici presentano:

a) Bassa tensione di vapore. Essendo sali, hanno una tensione di vapore

trascurabile, quindi non sono volatili e, a differenza dei solventi tradizionali (VOCs), non si diffondono nell’ambiente aereo.14

Conseguentemente, vengono enormemente ridotti - se non eliminati - i problemi di tossicità legati alla loro diffusione nell’aria (evitando inoltre il così detto effetto serra o l’assottigliamento dello strato di ozono nell’ozonosfera).

b) Ampio range in cui possono esistere allo stato liquido. A differenza dei

classici sali inorganici (es. NaCl), che fondono a temperature elevate, la maggior parte dei liquidi ionici è presente allo stato liquido già a temperatura ambiente. I motivi che consentono a questi composti di avere così basse temperature di fusione sono legati alle dimensioni e alla simmetria degli ioni:

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 Dimensioni: a parità di carica, più grandi sono le dimensioni dell’anione e del catione e minore è la temperatura di fusione;

 Simmetria: meno simmetrica è la struttura degli ioni e minore è la possibilità di questi hanno di organizzarsi in un reticolo cristallino. I Liquidi Ionici presentano un’energia reticolare piuttosto bassa, da cui deriva, per conseguenza, una bassa temperatura di fusione.

In altre parole, vale la regola generale che, a parità di anione, maggiori sono le dimensioni e l’asimmetria del catione e minore è la temperatura di fusione del composto.

c) Buona conducibilità. Hanno una buona conducibilità elettrica, con valori

che vanno da 0,1 mS cm-1 a 18 mS cm-1 a temperatura ambiente. Questi valori sono tuttavia inferiori rispetto alle convenzionali soluzioni elettrolitiche acquose utilizzate in elettrochimica, dove si raggiungono le centinaia di mS cm-1. Questo è dovuto alla struttura ingombrata e asimmetrica dei cationi organici, che permette da un lato di avere temperature di fusione più basse, ma al contempo ne influenza negativamente la mobilità. In ogni caso, a temperature maggiori della temperatura ambiente, la conducibilità elettrica dei liquidi ionici aumenta esponenzialmente, arrivando ad essere confrontabile con quella degli elettroliti convenzionali, e raggiungendo in alcuni casi valori di ~10 S cm-1 a 200°C. Questo perché la conducibilità non dipende unicamente dal numero dei portatori di carica, ma anche dalla loro mobilità, una proprietà che è a sua volta influenzata dalla temperatura. Aumentando la temperatura aumenta la mobilità degli ioni e quindi la conducibilità elettrica della soluzione.15

d) Larga finestra elettrochimica. La finestra elettrochimica è definita come

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ossidata, e può essere quindi considerato un parametro che misura la stabilità elettrochimica. I Liquidi Ionici presentano una finestra elettrochimica più ampia rispetto a quella dell’acqua. L’acqua ha, infatti, una finestra elettrochimica di 1,2 V, mentre i liquidi ionici hanno valori compresi tra 4,0 V e 5,5 V, in funzione del tipo di ioni ed elettrodi.16

e) Ampia capacità solvente. Riescono cioè a solvatare numerose specie

chimiche, sia organiche che inorganiche o polimeriche (ad esempio: sali inorganici, acidi aromatici, amminoacidi, ossidi metallici, metalli, polisaccaridi).13-17

Oltre a quanto detto, a rendere appetibile l’utilizzo dei liquidi ionici è la loro estrema modulabilità, ovvero, scegliendo una combinazione appropriata di anione-catione, possono essere modificate tutte le proprietà chimico-fisiche del liquido e quindi ottenerne uno con tutte le caratteristiche ottimizzate in funzione dell’applicazione che si vuole realizzare.

Inoltre, è possibile introdurre nei Liquidi Ionici specifici gruppi funzionali che permettono di ottenere sistemi liquidi con proprietà chimiche specifiche. Negli anni sono stati preparati ILs acidi, basici, neutri, coordinanti, polimerizzabili, selezionando opportunamente anioni e cationi o tramite la funzionalizzazione della catena alchilica normalmente presente sul catione.

Mentre i sali semplici come KCl possono essere pensati come il prodotto di un trasferimento di elettroni tra elementi, i sali organici possono essere considerati come un trasferimento di protoni tra un acido e una base. Cationi come l’1-etil-3-metilimidazolio ([Emim]+) e il butilpiridinio ([bpy]+) sono in realtà il risultato di alchilazioni di basi, quali il metilimidazolo e la piridina. Anioni “neutri” come [AlCl4]-, [BF4]- e [SbF6]- derivano da reazioni tra acidi e basi di Lewis ed è possibile

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ottenere, per aggiunta di un eccesso di acido di Lewis, anioni poliatomici acidi, quali Al2Cl7- e Sb2F11-. I risultanti liquidi ionici, a seconda della speciazione dell’anione,

basici, neutri o acidi (di Lewis).

Oltre all’acidità di Lewis è possibile modificare, variando la struttura del catione od anione, la polarità del mezzo o la capacità di funzionare da donatori o accettori di legame ad idrogeno, in particolare è possibile sintetizzare liquidi ionici protici neutri o con caratteristiche di acidi o basi di Bronsted.

La polarità dei liquidi ionici e la capacità di funzionare da accettori o donatori di legame ad idrogeno è in genere determinata, in analogia con i solventi molecolari, mediante misure di assorbimento UV-vis, utilizzando opportune sonde. Gli spettri di assorbimento UV-vis di molti componenti chimici, sono infatti significativamente influenzati dal mezzo circostante che determina il cambiamento della posizione, intensità e forma delle principali bande di assorbimento. Il fenomeno è determinato dalla differente solvatazione dello stato fondamentale e del primo stato eccitato della molecola. A causa della relativa complessità dei composti organici che funzionano da sonde solvatocromiche, che determina il fatto che più tipi di interazioni soluto/solvente (interazioni dipolo-dipolo, legame ad idrogeno, interazioni π-π, ecc) possano avere luogo contemporaneamente, per valutare la polarità di un solvente in funzione di alcune interazioni specifiche è spesso necessario utilizzare più probes.18 Questo approccio multi-probes è stato utilizzato da Kamlet e Taft per definire la polarità di molti solventi molecolari in funzione di tre proprietà importanti: la polarizzabilità/dipolarità, la capacità di funzionare da donatore di legame ad idrogeno, e la capacità di funzionare da accettore di legame ad idrogeno (rispettivamente π*, α, β). In particolare, il parametro di polarità π*, misurando la parte non specifica delle interazioni di Van der Waals tra solvente e soluto, definisce la capacità di un solvente di stabilizzare una carica netta o dei dipoli indotti da

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interazioni dielettriche aspecifiche. Rientrano in questo parametro, ad esempio, le interazioni dispersive ed elettrostatiche. Nel caso dei liquidi ionici, tale parametro dipende generalmente da entrambi gli ioni (catione e anione) e decresce all’aumentare delle dimensioni dell’anione, poiché le interazioni con la sonda diminuiscono. Il parametro π*, che inizialmente è stato calibrato prendendo come riferimento il dimetilsolfossido (π*= 1.00) e il cicloesano (π* = 0.00) può essere determinato usando lo spostamento spettroscopico della banda di assorbimento dell’N,N-dietil-4-nitroanilina, applicando la seguente espressione:

π* = (8.649 - 0.314 v(2)max)

dove:

v(2)max = 104/ λN.N.dietil-4.nitroanilina

Il parametro α, dipende essenzialmente dalla natura del catione e misura la capacità del solvente di fungere da donatore di legami a idrogeno. Esso si determina in base agli spostamenti indotti dal solvente sulle bande di assorbimento di due probes, la N,N-dietil-4-nitroanilina, che non può funzionare né da accettore né da donatore di legami a idrogeno e il dye di "Reichardt's 30" (conosciuto anche come betaina 30) che funge da accettore di legami a idrogeno. Il parametro  si ricava utilizzando la seguente espressione:

α = 0.0649 (ET(30)) - 0.72 π* - 2.03

dove ET(30), è 1'energia associata alla transizione elettronica della molecola

zwitterionica 2,6-difenil(2,4,6-trifenil-N-piridinio)fenato (Reichardt 's dye 30), e fornisce una misura delle interazioni non specifiche (dipolarità e polarizzibilità) e

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specifiche (abilità di donare legami idrogeno). L’ET(30) si ricava mediante la

seguente espressione:

ET(30) (Kcal mol') = 28591.5/λmax (nm)

dove:

λmax = lunghezza d'onda sul massimo di assorbanza della banda a più bassa energia.19

Il parametro β misura empiricamente la capacità del solvente di funzionare da accettore di legami a idrogeno e dipende generalmente dalla natura dell' anione. Esso è determinato sulla base degli spostamenti indotti sulla banda di assorbimento di due probes, uno che funziona da donatore di legami a idrogeno (4-nitroanilina) e l’altro che invece, a causa dell'alchilazione sull’azoto (N,N-dietil-4-nitroanilina), funziona esclusivamente da accettore, secondo l'espressione seguente:

β = [1.035 v(2)max - v(1)max+ 2.64] / 2.80

dove:

v(1)max = 10 4 / λ 4-nitroanilina

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Confrontando i parametri di Kamlet - Taft calcolati per i solventi molecolari più comuni e i liquidi ionici più studiati, si nota che i liquidi ionici sono generalmente caratterizzati da valori di π* più elevati. I liquidi ionici quindi hanno una maggiore capacità di indurre un dipolo elettrico nei composti in essi disciolti. I valori di π* variano poco con la struttura del catione ed o anione, le bistriflimmidi hanno in genere i valori più bassi, probabilmente a causa della delocalizzazione della carica che determina una più ridotta capacità di interagire con la betaina. I valori di a sono normalmente elevati nel caso di liquidi ionici aventi cationi funzionalizzati con gruppi capaci di donare legami a idrogeno (-OH, -NH2), mentre la presenza di anioni

basici (le forti interazioni anione-catione, riducono la capacità del catione di fungere da donatore di legami a idrogeno) tende a ridurre il valore di α. I valori di β, crescono al crescere della basicità dell'anione19,20.

1.9 Acidità di Brønsted dei liquidi ionici: una scala di

pH mediante metodi spettroscopici

Essendo un sistema diverso dall’acqua, come per i solventi molecolari è difficile stabilire con precisione sia l’acidità di acidi disciolti in liquidi ionici neutri che l’acidità di liquidi ionici funzionalizzati con gruppi acidi (COOH, SO3H).

Sebbene la dissoluzione di questi sistemi in acqua e le successive analisi potenziometriche siano stati proposti come guida per il comportamento chimico di acidi di Brønsted in liquidi ionici e lo sviluppo di scale di acidità in questi solventi, paragonabile alla scala del pH, l’argomento è ancora oggetto di studio e discussione.21

(24)

Per quanto riguarda l’acidità di acidi disciolti in liquidi ionici, i pochi studi riportati ad oggi in letteratura, sono generalmente basati sull’utilizzo di probe specifici, e misure spettroscopiche (UV-vis).

L’acidità di Brønsted è inoltre valutata attraverso la determinazione della funzione acidità di Hammett, H0, usando come indicatori nitroaniline.

H0 = pK(I)aq+ Log ([I]/[IH+]S)

Equazione 7

L’equazione 7, che correla il pKI dell’indicatore in acqua e la funzione di Hammet, può essere esplicitata anche come:

H0 = Logα (H+)aq–Logγ (I) S /Logγ(IH+]S) – LogΓ(I) S /LogΓ (IH+]S) (8)

dove pK(I) aq è ancora una volta il valore del pK dell'indicatore in acqua, e [IH+]s e

[I]s sono rispettivamente le concentrazioni molari della forme protonata e deprotonata

dell'indicatore nel solvente non acquoso (liquido ionico utilizzato), γ il coefficiente di attività in quel solvente, e Γ i coefficienti di attività di trasferimento dall'acqua al solvente.

È da notare che l’equazione 7 dimostra come H0 e pH non siano due grandezze strettamente equivalenti in senso termodinamico. In primo luogo, l’equivalenza implica che le soluzioni di indicatore siano diluite altrimenti non è possibile considerare i coefficienti di attività come unitari. Anche in acqua, la funzione H0 è identica al pH solo a diluizione infinita. In secondo luogo, è necessario presupporre che il rapporto dei coefficienti di attività di trasferimento di entrambe le specie, I e HI+, sia uguale ad uno ed indipendente dal solvente. Ciò significa che la

(25)

differenza di energia di solvatazione delle due forme dell’indicatore, I e IH+

, non dipende dal solvente. In pratica, il secondo requisito è più difficile da soddisfare. Tuttavia se si scelgono come indicatore coppie di strutture chimiche molto simili, i rapporti dei coefficienti di attività di trasferimento possono ancora essere considerati costanti, con un conseguente spostamento lieve ma costante nella funzione di acidità.

In [BMIM][NTf2], la funzione di Hammett dell’HTf2N è compresa tra -3,35 e

-5,05 e l’aggiunta di acqua induce un aumento di assorbanza della forma dell’indicatore non protonata. L'aggiunta di acqua diminuisce l'acidità del protone nel liquido ionico. L’acqua si comporta quindi come una base a causa del suo carattere solvatante più pronunciato nei confronti del protone rispetto a quello del liquido ionico.

E’ anche da notare che in [BMIM][NTf2], come in acqua, l’acido triflico

(HOTf) presenta praticamente lo stesso livello di acidità dell’HNTf2; a parità di

concentrazione di H+, le funzioni di Hammett sono rispettivamente - 4,80 e - 4,60. Diversa è la situazione in [BMIM][BF4] e [BMMIM][BF4], dove l'acidità di

Brønsted dell’HNTf2 è maggiore di quella in [BMIM][NTf2]. Le funzioni di Hammett

dell’HTf2N in [BMIM][BF4] e [BMMIM][BF4] sono, rispettivamente, - 7,00 e - 7,05

per una concentrazione [H+] di 105 mmol L-1. Questo suggerisce che l’anione [BF4]-,

essendo meno solvatante verso gli [H]+ rispetto all’anione [NTf2]-, porta ad un

aumento di acidità del protone.

Sfortunatamente, questo metodo non è applicabile ai liquidi ionici acidi in quanto non è possibile misurare l’assorbanza della forma non protonata dell’indicatore.

Figura

Figura 1.  Rappresentazione di un pHmetro
Figura 2. Rappresentazione schematica di una cella per la misurazione del pH
Figura 3. Struttura di un sensore con chip ISFET
Figura 5. Cationi comunemente utilizzati
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