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Capitolo 2

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Academic year: 2021

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Capitolo 2

Indiani Metropolitani

2.1 La storia

Gli Indiani Metropolitani rappresentarono nel Movimento del ’77 quella che venne definita l’ala creativa – ne costituivano una parte che comprendeva anche le femministe, i trasversalisti, i maodadaisti, i sedicenti “cani sciolti”1 – per l’innovazione che apportarono nelle forme di manifestazione.

Nel marzo del 1973 a Torino, presso la Fiat Mirafiori, dei giovani operai occuparono i reparti della fabbrica in un’iniziativa autonoma dal sindacato. Questi giovani si legarono sulla fronte una fettuccia e inscenarono un happening, suonando clacson e battendo tamburi al grido onomatopeico «Èaèaèaèao»2. Probabilmente questo fu il primo sintomo di quel revival della cultura indiana che prese largo durante il Movimento.

Nel 1997 in un’intervista fittizia con se stesso (ossia con Gandalf il Viola, che era lo pseudonimo adottato quando era un Indiano Metropolitano) Olivier Turquet ha delineato gli antefatti storici precedenti all’ingresso degli Indiani nel Movimento3. Gandalf ha raccontato come all’inizio degli anni ’70 uno dei temi su cui un gruppo di amici dibatteva era la riscoperta degli Indiani d’America, suggerito dall’uscita di alcuni film che raccontavano la storia americana da un punto di vista diverso rispetto ai western4. Questo gruppo di amici iniziava a simpatizzare con la storia degli Indiani d’America, usurpati delle loro terre dai “capitalisti” e ghettizzati nelle riserve. Nel luogo di ritrovo dei compagni di Gandalf il Viola, denominato “la comune” sulla Via Cassia a Roma, inoltre, si discuteva anche di argomenti che alla metà degli anni ’70 stavano a cuore alle nuove generazioni, che spaziavano dal personale e il politico5, alla rivoluzione, dall’autocoscienza, alla libertà. La prima occasione per uscire dalle mura della “comune” si ebbe nella primavera 1976 nel quartiere Tomba di Nerone a nord di Roma, dove

1

Modo di dire che indica appunto una persona anticonformista, poco incline a uniformarsi alla massa.

2

Salaris, Claudia, Il movimento del settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, Bertiolo, AAA, 1997, p. 65.

3 Turquet, Oliver, Intervista con l’indiano, in “Olivier Turquet, deposito bagagli. Scritti da conservare da

qualche parte”, 7 aprile 2013 in https://olivierturquet.wordpress.com/2013/04/07/intervista-con-lindiano/

consultato il 19 febbraio 2015.

4 I film citati da Olivier Turquet erano Soldato blu e Il piccolo grande uomo, ibidem. Il primo uscì nel 1970 e

fu diretto da Ralph Nelson, trattava del massacro di Sand Creek (verificatosi il 29 novembre 1864, quando soldati americani invasero un accampamento di nativi americani uccidendo anche donne e bambini). L’altro film, Il piccolo grande uomo, uscì sempre nel 1970 e fu diretto da Arthur Penn, basato sull’omonimo romanzo di Thomas Berger del 1964. Inoltre durante gli anni ’70 anche dei libri furono importanti per la conoscenza degli Indiani d’America da parte dei giovani, come ad esempio Brown, Dee, Seppellite il mio

cuore a Wounded Knee, Milano, Mondadori, 1973 o Ranucci, Lucio e Diana Hansen, Indiani d’America. Identità e memoria collettiva nei documenti dei “pellirossa” di oggi, Roma, Savelli, 1977.

5 “Il personale è politico” fu uno dei motti chiave che specialmente le femministe sostenevano con grande

forza e che però nel corso degli anni ’70 venne evidenziato anche da altre parti sociali in agitazione, stando ad indicare la mancanza di una differenziazione tra una sfera personale e una sfera politica e la necessità che le due si intersecassero per cancellare distinzioni di ruolo e di classe. Gli Indiani Metropolitani, praticando sempre l’arma dell’ironia, spesso gridavano e scrivevano «Il personale NON è politico».

(2)

2 l’amministrazione comunale prese la decisione di chiudere l’area verde di Villa Paladini per una speculazione edilizia. Il gruppo di amici pensò di manifestare per opporsi, soprattutto perché si capì che per cambiare se stessi bisognava cambiare il mondo. In un periodo in cui molte manifestazioni, cortei e scioperi venivano organizzati per il lavoro, l’istruzione e il benessere della vita, non sembrava strano ce ne fosse un’altra; però una differenza sostanziale si notò quando il quartiere venne invaso dalle scritte firmate “risate rosse”, dagli striscioni, da una festa che fungeva da blocco stradale, riuscendo ad ottenere il fermo dei lavori (che però proseguirono in autunno).

Subito dopo, sull’onda del temporaneo successo della prima prova di contestazione, il gruppo della “comune” decise di partecipare a una manifestazione nel centro di Roma portando uno striscione colorato; a questo punto si comprese la necessità di trovare un nome per essere identificabili tra la massa, e i membri della “comune” optarono per “Gruppo Geronimo”6

. Sullo striscione venne disegnato un capo comanche con un fucile e la scritta del nome del gruppo a caratteri quadrati con schizzi multicolori. Il “Gruppo Geronimo” venne relegato in coda al corteo, dietro coloro che venivano definiti gli autonomi, e i primi iniziarono nella loro “performance” da manifestazione gridando degli slogan come «Orgasmo libero» o «Il potere è allergico all’acido lisergico» che, sempre secondo il racconto di Gandalf il Viola, irritarono gli autonomi al punto di rivolgersi violentemente a quelli di Geronimo spaccando lo striscione («reo di non essere rigorosamente rosso») e picchiandoli7. Il “Gruppo Geronimo” non demorse, introducendo una delle caratteristiche principali che successivamente, quando “divennero” Indiani Metropolitani, sempre li differenziò da buona parte delle fazioni del Movimento, cioè il non lasciarsi coinvolgere da situazioni violente e continuare a manifestare la propria contestazione sia verso il governo e le scelte dei borghesi/capitalisti, sia contro quella parte di attivisti che propendevano per forme di contestazione che ammettevano anche la lotta armata del Movimento. Dunque al tentativo da parte degli autonomi di disperdere quelli di Geronimo, questi ultimi risposero con nuovi slogan come «Lo striscione rattoppato è il simbolo del proletariato» o «Apaches, cheyennes, sioux, moicani, siamo gli indiani metropolitani», ma che comunque non placarono gli animi degli autonomi, cui successivamente venne spiegato che anche le persone in coda al corteo erano compagni nella lotta pur avendo un modo diverso di manifestare.

Dopo l’estate del ’76 il Gruppo Geronimo si dissolse e per una nuova comparsa sulla scena di Gandalf il Viola si passò direttamente al febbraio ’77 quando l’Ateneo romano era occupato dagli studenti e dove il nostro si recò per capire come fosse l’atmosfera (per una sua curiosità personale, così dichiara egli stesso nell’autointervista). All’Università Gandalf, insieme ad alcuni ragazzi conosciuti sul luogo, creò un laboratorio teatrale denominato Collettivo il palco/oscenico. I ragazzi del collettivo teatrale si

6

Dopo Toro Seduto, Geronimo (o meglio Hieronymus) fu uno dei capi indiani più famosi della storia del diciannovesimo secolo.

7

Turquet, Oliver, op cit., in https://olivierturquet.wordpress.com/2013/04/07/intervista-con-lindiano/ consultato il 19 febbraio 2015.

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3 truccarono da clown e si disposero lungo i lati di un corteo dei primi giorni di febbraio andando su e giù, cantando, facendo girotondi, gridando slogan apparentemente senza senso tra cui uno dell’anno precedente («Apaches, cheyennes, sioux, moicani, siamo gli indiani metropolitani»), che secondo Gandalf il Viola non identificava il Gruppo Geronimo ma che i giornalisti (nello specifico Carlo Rivolta) presenti recepirono come messaggio di una nuova ala formatasi tra le varie attive in quel momento e che etichettarono Indiani Metropolitani. La nuova denominazione attirò altri compagni, studenti e lavoratori, con il passare dei mesi, formando così realmente una nuova anima che si riconosceva nella cosiddetta “ala creativa” del Movimento8. Gli Indiani d’America era diventati Metropolitani, erano passati dalla praterie alle città, comunque alienanti, vivendo in una condizione di ghettizzazione e isolamento.

Seguendo la cronologia, dal libro Una sparatoria tranquilla9 si può ripercorrere il cammino degli Indiani Metropolitani all’interno del Movimento del ’77. Il 6 febbraio l’Università La Sapienza occupata divenne il punto di incontro di tutto il proletariato giovanile per una festa con gruppi musicali e la compagnia del Teatro Emarginato10, durante la quale si riconobbe anche la presenza degli Indiani. Questi ultimi, dopo la loro “nascita giornalistica”, si erano ritrovati in un’aula rispondendo alla chiamata a raccolta di una riunione, gesto che di fatto segnò l’ufficializzazione del gruppo. Gli Indiani Metropolitani iniziarono a partecipare attivamente alla vita degli studenti in occupazione, attraverso l’organizzazione di feste e performance e la realizzazione di murales e di scritte ironiche ma che racchiudevano il loro modo di pensare, fondato ad esempio sulla frase «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà»11, riprendendo una celebre aforisma del poeta russo Vladimir Majakovskij (fig. 4). Lo slogan apparve sulla facciata della facoltà di Lettere; visibile è la A cerchiata, elemento caratteristico delle scritte murali che riprendeva il simbolo anarchico. Inoltre è leggibile la firma dell’ala creativa, che furono due altri slogan ironici: “Godere operaio” (in opposizione a Potere operaio) e “Godimento studentesco” (in opposizione a Movimento studentesco). Contro la situazione politica della sinistra revisionista gli Indiani si schierarono il 17 febbraio (giorno del comizio di Lama all’Università), quando già dal giorno precedente avevano affermato che avrebbero combattuto con le armi dell’ironia il “Lama proveniente dal Tibet”. (figg. 5 e 6)

L’affermazione di questo gruppo nel Movimento, che contestava con l’arma della creatività e dell’ironia, si espresse attraverso documenti nei quali confermarono la loro presenza sul terreno della “rivoluzione” e in cui si notò anche (per alcuni) una non completa riluttanza a forme di protesta violente (con cui successivamente, con l’aggravarsi degli scontri con le forze dell’ordine, non tutti si trovarono in accordo). Un manifesto

8

Ibid., consultato il 19 febbraio 2015

9

Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, Roma, Odradek, 1997.

10 Nacque a Milano nel gennaio 1975 dopo l’occupazione di uno stabile, il Fabbricone, organizzata da

Autonomia Operaia. Il loro pensiero si racchiudeva nella frase «Non siamo spettacolo della contestazione, ma siamo in lotta per la rivoluzione» in Loria, Maria Concetta, Teatro della contestazione nell’Italia delle lotte

studentesche negli anni ’60 e ’70 http://www.parol.it/articles/loria.htm consultato il 20 febbraio 2015.

(4)

4 comparso nella città universitaria romana e una lettera indirizzata al Ministro degli Interni Francesco Cossiga il 22 febbraio 1977, pubblicata sul quotidiano “Lotta Continua”12, possono fornirne una prova. Il primo, Non sotterreremo mai più l’ascia di guerra!!, inneggiava all’arrivo della primavera che avrebbe segnato un momento di rinascita del Movimento e che avrebbe comportato la conquista «di tutto ciò che le giacche blu ci hanno negato… Fuori dalle riserve!! Intoniamo il nostro grido di guerra. I nostri tam tam suonino sempre più forti per raccogliere tutta l’area creativa di movimento…»13

, considerando giusta una coesistenza tra atto di forza e creatività. L’ascia, e nello specifico il grido «Abbiamo dissotterrato l’ascia di guerra», rappresentò il simbolo della liberazione raggiunta dagli Indiani con chiaro riferimento ai nativi americani. Lo slogan venne pronunciato già nell’inverno del ’76, prima della manifestazione davanti La Scala di Milano dei Circoli del Proletariato Giovanile. Poi durante il Movimento del ’77 fu spesso utilizzato dagli Indiani Metropolitani a mo’ di firma nei loro volantini o comunicati contro i “visi pallidi”, cioè i capitalisti della politica e della borghesia (fig. 7).

La Lettera a Kossiga, firmata dagli Indiani Metropolitani di Roma-nord, accentuava un tono più forte e non soltanto ironico che in definitiva marcò la disomogeneità all’interno del Movimento tra una parte più pacifica e non-violenta e un’altra potenzialmente incline alla guerriglia. Così era scritto nella Lettera: «Torneremo nell’università perché vogliamo prenderci tutta la città, perché vogliamo trasformare le nostre riserve, i quartieri ghetto, nei covi eversivi che nessuno potrà mai chiudere perché un popolo non potrà mai essere messo fuorilegge. L’emarginazione a cui ci avete costretti è diventata la nostra forza rivoluzionaria, è la chiave della nostra rivolta!!! Ministro Kossiga accettiamo la tua dichiarazione di guerra…14

Sappi che impegneremo tutte le nostre forze, tutta la nostra fantasia affinché la battaglia contro te e il governo che ti ha incaricato di reprimerci, si trasformi nella guerra per la disfatta della tua sporka razza»15.

Durante un’assemblea presso la Facoltà di Lettere della Sapienza, proposta dalla cosiddetta Commissione Emarginati di Lettere, per discutere di temi quali la sessualità, i rapporti umani, la propria vita e la ribellione, gli Indiani Metropolitani presentarono una piattaforma riguardo i problemi del Movimento e della città, che secondo loro potevano essere risolti attraverso nove punti:

12 Gli Indiani metropolitani di Roma-nord, Gli indiani metropolitani scrivono al ministro Kossiga, in “Lotta

Continua”, 22 febbraio 1977.

13

Le radici di una rivolta, op cit., pp. 102-103.

14 Gli Indiani Metropolitani fanno riferimento alle parole di Cossiga pronunciate la sera degli scontri

all’Università romana del 17 febbraio ai microfoni del Tg1, riportate anche nella lettera, che per loro rappresentavano un’aperta dichiarazione di guerra: «Sappiano, questi signori, che non permetteremo che l’Università diventi un covo di indiani metropolitani, freaks, hippies. Siamo decisi ad usare quelle che loro chiamano le forme della repressione e che io chiamo le forme dell’ordine e della legalità democratica» in Gli Indiani metropolitani di Roma-nord, Gli indiani metropolitani scrivono al ministro Kossiga, in “Lotta Continua”, 22 febbraio 1977.

15

Gli Indiani metropolitani di Roma-nord, Gli indiani metropolitani scrivono al ministro Kossiga, in “Lotta Continua”, 22 febbraio 1977. Sull’uso della lettera K in luogo della C si tratterà nel Capitolo 4.

(5)

5 «Abolizione dei carceri minorili e del foglio di via. Requisizione di tutti gli edifici sfitti per la loro utilizzazione come centri di aggregazione e di socializzazione, per una vita alternativa fuori casa. Riduzione generale dei prezzi di cinema, teatri e di tutte le iniziative culturali, calmieramento a una cifra fissata dal basso, cioè da noi. Liberalizzazione totale della marijuana, di hashish, Lsd, peyote, con monopolio esercitato dal movimento. Retribuzione dell’ozio giovanile. Lavoro zero reddito intero. Demolizione degli zoo e diritto di tutti gli animali prigionieri di tornare nel loro paese d’origine a ruggire, barrire, gioire. Abbattimento dell’Altare della Patria e sostituzione di esso con orto botanico e con annesso laghetto atto a ospitare anatre, cigni, rane e altra fauna ittica, varia ed eventuale. Istituzioni di Ronde Antifamiglia Militanti per strappare i figli alla tirannia patriarcale. Per affrancarli dalla psicopatia familista, dalla Grande Astuta Mater Matuta»16.

Inoltre gli Indiani Metropolitani richiedevano la concessione di un chilometro quadrato di verde per ogni abitante e l’uso alternativo degli Hercules C 110 acquistati dall’aeronautica militare dalla Lockheed per servizi gratuiti di trasporto dei giovani a Machu Picchu, in occasione della festa del sole17.

La dialettica sagace che contraddistinse gli Indiani Metropolitani fu una loro prerogativa ma, comunque, serpeggiava tra le associazioni che caratterizzarono il Movimento del ’77 un modo alternativo di comunicare. Un caso è rappresentato dal manifesto distribuito nell’Università romana il 28 febbraio che faceva parte del foglio settimanale “La Rivoluzione” (supplemento a Radio Alice18

) intitolato Il lavoro rende liberi e belli. Tracciando la differenza delle scelte di vita che si prospettavano per i disoccupati, che sarebbero finiti sempre più in uno stato di angoscia, e per gli occupati, che invece – nonostante le tante ore di lavoro – sarebbero stati le nuove menti creative della società, il manifesto, rivolgendosi alla «gioventù infingarda, marginale e teppista», suggeriva alle forze sindacali e democratiche «unite all’associazione genitori-figli-scappati» decisioni atte a garantire un lavoro ai giovani. Queste erano: «a) cancellazione delle scritte (scuole, fabbriche, università, vespasiani); b) incremento delle vocazioni sacerdotali e monacali, oltreché poliziesche; c) rimboschimento delle montagne calve dell’Appennino e delle isole; d) ripulitura dei volumi giacenti nelle biblioteche pubbliche, pagina per pagina, secondo l’indicazione di Giorgio Amendola; e) muratura dei covi della sovversione e del caos; f) costituzione di gruppi di animazione edificante per i giovani

16 Brano tratto da Echaurren Pablo, La casa del desiderio. ’77: indiani metropolitani e altri strani, Lecce,

Manni, 2005, p. 43

17

Le radici di una rivolta, op cit., pp. 145-146.

18

Dalla seconda metà del decennio ’70 i collettivi sociali e politici si procurarono dei trasmettitori e iniziarono le loro trasmissioni libere; così fece anche il collettivo A/traverso da cui nacque il 9 febbraio 1976 Radio Alice, esperienza che terminò il 12 marzo 1977. Le trasmissioni di Radio Alice divennero un punto di riferimento per i giovani operai e gli studenti di Bologna perché comunicavano quella libertà di espressione che, secondo il Movimento, il compromesso storico voleva censurare, canalizzare e sopprimere. Accusata di essere un focolaio di istigazione alla violenza per i contestatori, i redattori (tra cui Franco Berardi, detto Bifo) vennero arrestati. L’accusa venne perpetuata durante gli scontri dell’11 e del 12 marzo 1977 a Bologna tra forze dell’ordine e Movimento, quando le prime irruppero nella redazione di Radio Alice e arrestarono tutti, evento che venne trasmesso in diretta. Da Bifo [Franco Berardi] e Gomma [Ermanno Guarnieri] (a cura di),

(6)

6 emarginati; g) distribuzione agli studenti fuori corso di mezzo ettaro di terre vergini in Irpinia, Aspromonte, e nelle Madonie; h) ritrovamento definitivo dei residuati bellici dalla Prima guerra mondiale; i) costituzione di centri di rieducazione morale per operai assenteisti. Sacrificarsi non basta occorre immolarsi»19.

A questo stesso grido gli Indiani Metropolitani si rifecero quando convocarono per il 6 marzo a Campo de’ Fiori un happening per «l’olocausto al sacrificio» (intendendo con ciò sovvertire l’etica del sacrificio). Il comunicato divulgato per l’occasione suggeriva ironicamente una similitudine di pensieri e obiettivi: «Il grande Spirito del Tibet [riferendosi a Luciano Lama, ndr] ha illuminato le nostre semplici menti». Il testo affermava altresì la presenza in Italia di una parte di popolazione oziosa e teppista (i giovani che contestavano le istituzioni) e una parte costituita dai lavoratori che si erano garantiti un posto felice per la loro vita, cullati dal progresso scientifico, dalle attività ricreative e dall’arte che solo il «dolce e armonioso fruscìo della catena di montaggio» permetteva di potersi godere. Per questo, rivolgendosi «ai giovani, ai disoccupati, precari emarginati, omosessuali, drogati, streghe e stregoni, affinché… offrano i loro corpi e le loro menti in olocausto all’ideologia e alla pratica del Sacrificio», proponevano che questi occupassero il loro tempo nella costituzione di centri per operai assenteisti; nel ripristino della giornata lavorativa a sedici ore e nel diritto al lavoro in fabbrica di tutti i bambini svezzati; nella chiusura di covi dove si spacciavano solo idee di vita false; nell’abolizione delle ferie estive con sostituzione di corsi per vocazioni sacerdotali, monacali e poliziesche e, infine, nell’insegnamento obbligatorio del testo Una scelta di vita di Giorgio Amendola20. Inoltre, il 6 marzo uscì un comunicato degli Indiani Metropolitani in risposta alla versione data dal quotidiano “L’Unità”21

sugli scontri a Roma del giorno precedente tra forze dell’ordine e manifestanti, in questo caso rispettando maggiormente la vena di ironia dissacrante. Il comunicato recitava: «Noi in effetti eravamo scesi in piazza credendo erroneamente di svolgere una manifestazione unitaria contro la sentenza Panzieri22, ma in difesa delle istituzioni giuridiche. Non essendo abituati al libero arbitrio e mancando di una sana e salda guida, non abbiamo compreso che il lancio dei candelotti e le raffiche di mitra della polizia ci comunicavano che la manifestazione era illegale e così abbiamo seguito 50 autonomi con la seguente tecnica: 200 di noi dietro ognuno di loro. Riconoscibili dai rigonfiamenti a forma di pistola che avevano nella giacca, costoro ci hanno guidato a

19 Le radici di una rivolta, op cit., pp. 156-157 20

Testo del comunicato degli Indiani Metropolitani del 6 marzo 1977, riportato in Echaurren, Pablo, La casa

del desiderio. ’77: indiani metropolitani e altri strani, Lecce, Manni, 2005, pp. 79-80

21 Più di tre ore di scontri nel centro di Roma, in “L’Unità”, 6 marzo 1977. Vedi anche Criscuoli, Sergio, Per

lunghe ore il centro è rimasto sconvolto dagli scontri scatenati da bande squadriste, 6 marzo 1977, p. 10 da

http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1977_03/19770306_0010.pdf&query consultato il 20 febbraio 2015.

22

Fabrizio Panzieri fu il responsabile, insieme ad Alvaro Lojacono, il 28 febbraio 1975 dell’omicidio di Miki Mantakas, aderente al Fronte universitario d’azione nazionale (Fuan), movimento di destra riconosciuto come “fascista”. Il 5 marzo 1977, giorno della manifestazione a Roma, Panzieri era stato condannato a 9 anni e 6 mesi per concorso morale.

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7 Campo de’ Fiori dove siamo stati raggiunti da cittadini che avevano risposto a un appello dell’emittente sovversiva Radio Città Futura scendendo in piazza contro la loro volontà […]. Questi 50 squadristi ci hanno poi convinti a tirare delle bottiglie contro le autoblindo che con nostro stupore si incendiavano. Mentre la più parte di noi ancora in stato confusionale e vittima delle sottili arti della persuasione occulta di questi criminali si trascinava al loro seguito, costoro iniziavano a distribuire fucili automatici spacciandoli per innocenti fiaccole. Esprimiamo soddisfazione per il fatto che alcuni giornali hanno spiegato (L’Unità e Paese Sera) in che cosa eravamo stati coinvolti e per colpa di chi, “ristabilendo la verità” e le giuste divisioni in buoni e cattivi… Firmato: I Raggirati del Movimento». Uno stralcio del comunicato comparve anche su “Lotta Continua” il giorno 8 marzo, per fare il verso a Gustavo Selva (il direttore del giornale radio della Rai) che aveva riportato il comunicato come veritiero. (fig. 8)

Il 20 marzo gli Indiani Metropolitani si ritrovarono a Montalto di Castro (VT) per la Festa della Primavera organizzata per contrastare la decisione della costruzione a Pian de’ Cangani di una centrale nucleare su progetto dell’ENEL. Gli Indiani che parteciparono chiamarono a raccolta: «A tutte le tribù delle città lager, noi indiani delle colline mandiamo questo messaggio: Venite a Montalto di Castro il 20 marzo a celebrare con noi la primavera, e la vita, sul luogo dove le lingue biforcute vorrebbero costruire una centrale atomica di morte. […] Sono con noi i pescatori ed i contadini della zona, che vogliono difendere la terra, ed il mare dalla peste mortale dell’uomo bianco. L’uomo bianco dice che vuole le centrali nucleari per fare energia. Ma non vuole l’energia del sole, che è pulita e non costa niente. Noi indiani delle colline chiamiamo i nostri fratelli delle città, che si sono battuti bravamente nelle università, al nostro soccorso per fare a Montalto una festa della nostra vita, e una festa della nuova primavera, contro l’eterno inverno del potere atomico bianco. GERONIMO E I SUOI»23. (figg. da 9 a 14)

Continuando con la cronologia dei fatti, si passa al 28 marzo quando all’Università di Roma gli Indiani Metropolitani contestarono i professori Alberto Asor Rosa e Lucio Colletti: interruppero la lezione del primo gridando «Più studio, Più normalizzazione», poi del secondo interruppero gli esami in Storia Economica recitando altri slogan ironici come ad esempio «Colletti è mio e lo gestisco io». Il professore Colletti non sopportò la contestazione irriverente e abbandonò l’aula con i suoi assistenti; gli Indiani li inseguirono per i viali dell’Università gridando «Colletti superstar, noi vogliamo solo studiar». Dopo alcuni giorni presso la Facoltà di Lettere, una delegazione di docenti prese parte a una assemblea del Movimento; il professore Rosario Romeo di Storia moderna accusò il collega Antonio Capizzi di Filosofia teoretica di sostenere gli “squadristi rossi”, cioè il Movimento. Lo scontro verbale tra i due si fece talmente acceso che il Romeo schiaffeggiò il Capizzi, a questo punto il primo se ne andò ma venne inseguito dagli Indiani che gli gridavano «Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo»24.

23

Volantino in Froio, Felice, Il dossier della nuova contestazione, Milano, Mursia, 1977, p. 78.

(8)

8 Il 5 aprile 1977 apparve sul quotidiano “Lotta Continua” un volantino intitolato E se gli indiani tornassero a Mirafiori?25, nel quale era scritto: «È giunta notizia nella riserva che il consiglio dei visi pallidi guidati dal gobbo bianco si è incontrato con i capi delle lingue biforcute al forte Montecitorio di Roma. Quando la luna era alta nel cielo per decidere alcune cose che riguardano la nostra ‘ripida scorciatoia’ ‘scala mobile’26

. 1) L’aumento dei giornali non verrà più calcolato nel paniere e questo è giusto perché intanto noi abbiamo le bisacce, poi si potrà finalmente comunicare come ai tempi dei nostri avi e dei mortacci loro. 2) Aumento dei trasporti: idem; ma qui avremo delle contropartite: un paio di mocassini a strisce bianche e rosse ogni tre mesi. Poi un quintale di biada per i nostri mustangs, che così potranno tornare a cavalcare le cementifere praterie (città) senza inquinare aria. Augh! Tribù indiani Baracchini!»27.

Gli Indiani Metropolitani rimasero all’interno del Movimento senza azioni autonome significative, quindi notizie “ufficiali” si rintracciano direttamente nei tre giorni del convegno nazionale che si tenne a Bologna il 23-24-25 settembre che, come già visto, segnò la fine delle variegate sfaccettature del Movimento28. Durante questo tempo comunque gli Indiani contribuirono alla contestazione con la loro presenza nelle università29 dove al fianco degli studenti e dei proletari in lotta partecipavano con il proprio modo alternativo alle manifestazioni, attraverso la realizzazione di murales, scritte, giornali, volantini, tatzebao30. A Bologna gli Indiani Metropolitani abbandonarono l’assemblea al Palazzetto dello Sport per tornare in strada e ballare, cantare, suonare, giocare, dipingere, in una parola creare per stare insieme a rivendicare una vita migliore, una vita nuova. (fig. 14) Dopo questo evento le singole vite degli Indiani proseguirono separate, legate tra alcuni di loro solo per le collaborazioni a giornali di controcultura, fumetti, libri.

Nelle immagini che ritraggono gli Indiani Metropolitani durante le partecipazioni a eventi nel corso del 1977 (figg. 11-14) si nota una delle loro componenti caratterizzanti, e cioè il dipingersi il volto proprio per un richiamo diretto agli Indiani d’America. Ma la pittura del viso come comunicazione artistica fu inventata nel 1913 da Michail Larionov, il

25

Volantino che confermò una presenza degli Indiani Metropolitani allo stabilimento Mirafiori di Torino, che in base alle notizie raccolte è databile marzo 1973, quindi prima della loro costituzione come I.M. e che avvalla l’idea di un sentimento di riscossa che tra i giovani lavoratori e studenti era forte già all’inizio degli anni ’70, sulla scia delle contestazione del ’68-’69. Sentimento che si configurò con la scoperta della storia dei nativi americani, usurpati dei propri diritti che si tradusse in una lotta al capitalismo.

26 Strumento economico per equilibrare i salari con l’aumento dei prezzi per contrastare la diminuzione del

potere di acquisto dovuto all’aumento del costo della vita.

27

E se gli indiani tornassero a Mirafiori? Un volantino dato alle meccaniche, in “Lotta Continua”, 5 aprile 1977.

28

La cronologia degli eventi è stata ricavata da Una sparatoria tranquilla, op cit., pp. 303-360.

29

Olivier Turquet nell’intervista a Gandalf il Viola (l’indiano che è in lui) ricordò che dopo Roma, anche in altre città si formarono collettivi di Indiani Metropolitani, su cui però le notizie sono scarse.

30 Di Nallo, Egeria, Indiani in città, Bologna, Cappelli, 1977. Il termine corretto, tradotto dal cinese, è

dazibao: grande manifesto murale, scritto a mano con disegni. Venne introdotto nella Repubblica Popolare di Cina durante gli anni della rivoluzione culturale (1965-1969) come mezzo di informazione e propaganda. In Occidente trovò ampia diffusione a partire dalle contestazioni del 1968. http://www.treccani.it/enciclopedia/dazibao/ consultato il 21 febbraio 2015.

(9)

9 quale conferì a questa pratica il significato dell’inevitabilità di una vita vacillante, e che l’arte aveva il dovere di occupare le strade. Per Larionov questa nuova tipologia di arte si collocava nel concetto di indefinibile identificazione soggettiva; anche per gli Indiani Metropolitani l’ambiguità dell’io fu uno dei concetti della loro filosofia, specialmente quando si trattò di far convivere la contrapposizione tra individualità e collettività. Nel 1913 Larionov, insieme al poeta Il’ja Zdanevic, scrisse il manifesto Perché ci dipingiamo pubblicato sulla rivista “Argus”, in cui dichiarava l’atto del dipingersi il volto come un’arte collettiva, un colloquio con chi viveva la vita giornaliera senza esibire un quadro per esprimersi, quindi si diventava un quadro vivente inaugurando un nuovo rapporto tra l’artista russo e il pubblico31

. Nel manifesto si legge: «Il nostro viso dipinto è il primo linguaggio che è riuscito a trovare verità sconosciute. […] Abbiamo legato l’arte alla vita. Noi abbiamo chiamato a gran voce la vita e la vita ha invaso l’arte. È tempo ora che l’arte invada la vita. La pittura del volto è l’inizio di questa irruzione. L’arte non è soltanto un monarca, scrive anche sul giornale e decora. Noi apprezziamo sia la notizia che il carattere tipografico. Noi abbelliamo la vita e diffondiamo messaggi, però ci dipingiamo»32. La pittura del viso di Larionov venne esibita per la prima volta nel settembre del 1913, come testimoniò il “Rannoe Utro” il 17 del mese; nel novembre dello stesso anno anche Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto Teatro di varietà pubblicato sul “Daily Mail” esortava le persone a fare esperimenti di “fisicofollia”, cioè dipingersi il corpo per sedurre33

. Quindi il collegamento che gli storici dell’arte, negli anni successivi al Movimento del ’77, hanno attribuito tra le pratiche degli Indiani Metropolitani e le avanguardie storiche trova anche in queste esperienze delle fonti (forse inconsapevoli ai protagonisti dell’arte contestativa del Movimento).

31

Natalija Goncarova Michail Larionov, catalogo della mostra, Milano, Mazzotta, 1996, p. 50.

32

Ivi, pp. 56-57.

(10)

10

Fig. 4

La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà. Godere operaio e Godimento studentesco, Facoltà di Lettere, La Sapienza, Roma, 1977.

http://www.millepiani.net/

Fig. 5

Lama Babbeo, Via dei Fori

Imperiali, Roma, 1977. http://it.wikipedia.org/

(11)

11 Fig. 6

Dite a lama che l’amo (Andreotti), Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, Egeria, Indiani in città, Bologna, Cappelli, 1977, p. 30.

Fig. 7

Viso pallido lascia l’ascia. Indiani Metropolitani, Università di Bologna, 1977, in di Nallo, op cit., p. 45.

(12)

12 Fig. 8

(13)

13

Fig. 9

Volantini per la manifestazione contro la centrale nucleare. Dal dvd sezione “Manifesti” in Caminiti Lanfranco e Sergio Bianchi (a cura di), Gli Autonomi – volume III, Roma, DeriveApprodi, 2008, www.autistici.org

Figg. 11, 12 e 13

Gli Indiani Metropolitani a Montalto di Castro (VT)

Tano D’amico, I libri, le parole, le fotografie, www.arengario.it

(14)

14 Fig. 14

Indiani Metropolitani in corteo domenica 25 settembre 1977, giorno di chiusura del convegno nazionale di Bologna

(15)

15

2.2 La contestazione creativa

La parola (cantata, parlata e scritta), i murales, il teatro, la danza assolsero durante il Movimento del ’77 alle agitazioni comunicative collettive, funzionando come creazione di gruppo, che esplicitò l’impellenza espressiva dei propri bisogni, ma anche la volontà demistificante e ludica nei confronti della società e del potere borghesi34. Questa descrizione della pratica comunicativa dell’ala creativa del Movimento e dunque degli Indiani Metropolitani è in uno dei primi libri dedicati al gruppo, Indiani in città di Egeria Di Nallo (1977), che raccolse le loro testimonianze: scritte, murales, volantini e stampati, in un mix tra rabbia e creatività. Gli Indiani Metropolitani usarono un nuovo linguaggio caratterizzato specialmente da ironia e disperazione, «lucido e macabro, come la smorfia che si può ritrovare sulla bocca di un “caro estinto” riplasmata dall’industria della morte»35, sosteneva Di Nallo.

«Voglio parlare, ma non ci riesco Voglio amare, ma non ci riesco Voglio comunicare, ma non ci riesco ci hanno tolto la vita

Riprendiamocela»36.

Questo stralcio di “poesia”, trascritta da una vetrata di un’aula della Facoltà di Economia e Commercio di Bologna, racchiudeva il leitmotiv degli Indiani (la necessità di riprendersi la vita e viverla a modo loro nonostante la costante preoccupazione per il presente e per il futuro –figg. 15 e 16) ma rappresentava anche il loro modo di esprimersi quotidiano senza prevaricazioni e senza regole prefissate, anche attraverso le scritte murali che si sovrapponevano originando un meccanismo di botta e risposta al passo con i continui aggiornamenti connessi agli eventi che accaddero durante il 1977. La creazione di uno spazio comunicativo comune al gruppo che orientasse i messaggi verso l’esterno senza regole burocratiche fu la novità degli Indiani Metropolitani. La creazione individuale si esprimeva nella collettivizzazione: scritte, disegni, murales inglobavano l’opera di tutti ma non portavano la firma di nessuno.

Richiamandosi alle modalità dei nativi americani, gli Indiani Metropolitani superavano l’individualismo e desideravano agire in spazi politicizzati e collettivizzati, dove confini spaziali e linguistici non sarebbero più esistiti, facendo in modo di inventare nuove caratteristiche politiche, comportamentali e culturali. Il superamento dell’isolamento individuale, sempre più avvertito con l’espansione tecnologica, poteva essere sovvertito con la creatività, specialmente se l’arte fosse stata intesa come espressione quotidiana da

34

Di Nallo, Egeria, Indiani in città, Bologna, Cappelli, 1977, p. 28.

35

Ivi, p. 11.

(16)

16 rendere necessaria nella vita di ognuno, proprio perché intrinseca in ogni essere umano. L’arte degli Indiani Metropolitani era gioco, allusione, gioia, ironia, ma soprattutto auspicava la libertà; tutto questo si esplicava nel tentativo di destrutturazione critica di un discorso solo apparentemente irrazionale ma che si presupponeva come simbolo dell’autentica irrazionalità della vita37

.

Il gioco venne accomunato a tutto, dall’arte alla società, dalla politica alla rivoluzione, e non solo nel senso di satira ma anche di ironia verbale, atto comico, irrisione, nonsense e risata. Mario Maffi includeva nella concezione del gioco dell’underground un intero magma formato dall’incrocio di arte-vita-politica-cultura che, anche se considerato come momento liberatorio, alla fine si spandeva in una visione negativa del percorso personale e collettivo, perché il gioco prospettava un esilio rispetto al sistema. Dunque, nella prospettiva di una nuova vita, il gioco doveva avere la funzione non di aggregazione ma di dissacrazione del tutto: le strutture sociali e culturali, la famiglia, la scienza, le filosofie, i mass media e la politica38. La scritta «Sarà una risata che vi seppellirà» (dopo l’apparizione sulla facciata della Facoltà di Lettere della Sapienza) divenne proprio il motto degli Indiani, e in generale di buona parte del Movimento; logica del mondo come beffa che si poneva come sovversione rispetto ai codici comportamentali e mentali borghesi. Nel saggio Principio del piacere e gioco comunicativo di Domenico Secondulfo39 veniva messo in evidenza come i nuovi slogan sui muri delle Università abbandonassero la razionalità di quelli della sinistra extraparlamentare per “accogliere” la caratteristica giocosa. Quindi le parole divenivano autonome e collegate tra loro solo per assonanze e giochi di senso che ne alteravano e dilatavano il significato creando nuovi messaggi:

«BidyBodyPdup»40 (fig. 17);

«Covi/amo la primavera. Covi/amo la rivoluzione»41 (fig. 18); «Trozki e Trozka non valgono una mozka»42 (fig. 19);

«Distruggiamo l’angoscia con i piccoli gruppi facciamo di tutta l’università il dipartimento del desiderio e del bisogno»43;

«Viva Mao da da dams notre dams»44;

«Erode al bilancio, De Sade al governo, Dracula agli interni»45;

37 Cfr. il discorso di Gandalf il Viola alla Stampa Estera, par. 3.3. 38

Maffi, Mario, La cultura underground, Bari, Laterza, 1977, pp. 201-205.

39

In Di Nallo, Egeria, op cit., pp. 32-44.

40

Ivi, p. 119.

41 Ivi, p. 92.

Il termine covo veniva usato nell’accezione dispregiativa in riferimento a tutti i luoghi in cui i contestatori si riunivano per organizzare i loro attacchi teppistici e terroristici. Questa la definizione che davano le istituzioni e che il Movimento riprendeva in modo ironico, parodiando quella che il governo definiva la proliferazione di sette terroristiche.

42

Ivi, p. 102.

43

Ivi, p. 95.

(17)

17 «Il mondo è bello con falce e spinello»46;

«Usciamo dalle riserve e combattiamo le giacche grigie»47; «W la rivoluzione lucida permanente»48;

«Meglio una fine disperata che una disperazione senza fine»49.

Gli autori di questi slogan e scritte, che in definitiva furono degli enunciati a sfondo sociale, lavorativo e politico, costituirono il piacere di produrre una comunicazione fantastica: assoluta libertà di creazione e di immaginazione. I significati dei messaggi scaturivano dall’accostamento di razionale e irrazionale, che comunque coesistevano nella creazione artistica degli Indiani Metropolitani perché nata dallo scontro tra meccanismi pre-logici e controllo dell’io. Questo conduceva verso lo scherzo e lo humour frutto di fusione tra contestazione e sarcasmo sui protagonisti del momento («Contro lo Stato Mozka»50; «No alle Z/angherie della Giunta Rosa»51 – fig. 20). La condivisione di luoghi dove poter esprimere la creatività di ogni individuo, scritte e disegni, accoglieva in sé l’aspirazione a un’utopia di gaiezza e di vita istintuale; allo stesso tempo significava anche la marginalità culturale e l’isolamento che vivevano i giovani nelle Università e nella società, e quindi (in contraddizione con lo spirito di libertà) si andava definendo anche una forma di ghettizzazione intima.

«I muri della città saranno i nostri urli, sommersi, le angoscie [sic] dei nostri desideri repressi»52;

«Fuori dai ghetti e dalle facoltà riprendiamoci la città»53.

Il tentativo di cambiare la società e le regole imposte da questa verso un mondo “aperto” trovava l’ostacolo, forse posto in maniera incosciente, nel linguaggio utilizzato dagli Indiani, che poteva venire compreso solo da chi rientrava nella loro cerchia e dunque diveniva elitario. Essi riflettevano la situazione che buona parte della popolazione giovane italiana stava vivendo con apprensione, rabbia e impotenza. «La società è disgregante la disgregazione è angosciante l’angoscia è disperante la disperazione è delirante (il delirio è inconcludente)» affermava una scritta sui muri del Dams di Bologna54.

La grande originalità della comunicazione ironica e nonsense degli Indiani Metropolitani risiedeva proprio nella consapevolezza di rinnovare continuamente il proprio 45 Ibidem. 46 Ivi, p. 100. 47 Ivi, p. 102. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 95. 50 Ivi, p. 102. 51 Ivi, p. 106. 52 Ivi, p. 95. 53 Ivi, p. 102. 54 Ivi, p. 46.

(18)

18 linguaggio, sistema che divenne anche uno strumento politico per la gestione di una nuova società che non ufficializzasse alcuna regola comunicativa. «L’arte [comunicativa] nella sua molteplice possibilità espressiva è il mezzo più idoneo per la trasmissione dei messaggi che deragliano dai codici consueti, che mirano a dissacrare quella realtà che viene presentata come frutto razionale e consapevole di una civiltà adulta»55. L’arte degli Indiani è una destrutturazione critica della politica, della società e della cultura attraverso discorsi che apparivano irrazionali ma che miravano a smascherare l’irrazionalità della vita come era vissuta dagli altri. Il rifiuto di tutto ciò che governava le vite degli italiani per gli Indiani Metropolitani si verificava anche nei mezzi utilizzati nella loro contestazione creativa: i muri rappresentavano un luogo di facile accesso e proprio la grande disponibilità di questi, molte volte nelle aule universitarie, doveva essere un invito a enunciare i proprio messaggi. Pablo Echaurren, in La casa del desiderio, ha scritto che i muri per natura sono fatti per essere imbrattati, «gli intonaci funzionano come imprevedibili carte assorbenti alla mercé del capriccio dei passanti, cere molli che attirano i folli, stratificazioni verticali su cui si depositano esternazioni copro genitali, rancori a lungo covati, amori urlati, sono l’humus ideale per il sedimentare alluvionale di fossili fugaci che vanno preservati dall’usura del tempo»56

. I tatzebao divennero un altro strumento caratteristico per la comunicazione, che poi venne estesa anche ai volantini e ai fogli di giornale; questo elemento rappresentava proprio la rottura che gli Indiani avevano necessità di dimostrare nei confronti del meccanismo produttivo capitalistico che aveva pienamente “invaso” il paese: anche la stampa quotidiana doveva essere superata con nuove forme di creazione.

Il 5 maggio 2005 su “L’Unità” Echaurren ha pubblicato il ricordo C’erano una volta gli indiani (metropolitani): «Nient’altro che un branco di mocciosi che a certi paiono addirittura sovversivi minacciosi con le loro armi giocattolo in plastica. Dei pericolosi untori – dicono lorsignori – sabotatori della società costituita e prostituita, e invece sono degli inguaribili curiosi, privi di futuro, degli ingenui smaniosi di fare presto giacché avvertono che in breve saranno bruscamente stoppati, disillusi, che il loro progetto di scardinamento del sentimento sta per fare miseramente naufragio contro lo scoglio dell’esistenza… Si era consapevoli di essere colpevoli di fronte al gran giurì del Piccì, di Ellecì, consci di non meritare neanche un sufficiente in condotta, niente, zero spakkato, di essere degli ignoranti, predestinati a bocciatura sicura, fratellini di Franti, non di Garrone, irrimediabilmente infranti, rotti dentro, spezzati, disaggregati, ultimi della classe e orgogliosi di esserlo. Come Marinetti che indicava in Aldo Palazzeschi la vetta della letteratura immatura e aizzava il pubblico becero affinché aizzasse, ortaggiasse e omaggiasse l’intrepida somaraggine dei suoi adepti. Senza più capi… privi di futuri prefissati, semplici flussi che scorrono liberati ma incapaci di essere spensierati, anzi

55

Bonazzi, Franco, Eresia ed estetica, in Di Nallo Egeria, op cit., p. 65

56

Echaurren, Pablo, La casa del desiderio. ’77: indiani metropolitani e altri strani, Lecce, Manni, 2005, p. 31.

(19)

19 costantemente insidiati da una vena di delusione, di nera previsione, quasi una pulsione majokovskijana al suicidio collettivo appena mitigata da una gioia affettata»57.

57

Si tratta di stralci di un capitolo del libro Echaurren, Pablo, op cit., pp. 37-44. Franti e Garrone erano due protagonisti del libro di Edmondo De Amicis, Cuore, del 1886. Sono due personaggi all’opposto: Franti incline alla violenza e alla contestazione; Garrone, invece, anima nobile con un forte senso di giustizia sociale.

(20)

20

Fig. 15

Autore sconosciuto, Fottuta vita di merda devi cambiare o sarai desolazione, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 87

Fig. 16

Autore sconosciuto, Cambiamo la vita prima che la vita ci cambi, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 163.

(21)

21 Fig. 17 Autore sconosciuto, Bidybodypdup, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 119. Fig. 18

Autore sconosciuto, Covi/amo la primavera. Covi/amo la rivoluzione, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 92.

(22)

22 Fig. 19

Autore sconosciuto, Trozky e Trozka non fanno una mozka, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 102.

Fig. 20

Autore sconosciuto, Z/angherie della giunta rosa, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 106.

(23)

23

2.2.1 Gli slogan e le scritte murali

L’innovazione dei codici del linguaggio fu ravvisabile negli slogan, nelle scritte, nei manifesti e nei murales con l’apporto di una carica sovversiva che alternava anche toni duri in cui traspariva la violenza nei confronti del Pci, dei sindacati e del governo. Ma questa violenza verbale e figurativa si intrecciò all’ironia e all’autoironia, toccando punte oniriche quando vennero declamati desideri e bisogni58. Il codice (l’insieme di segni utilizzati per comunicare qualcosa) venne messo in discussione dalla pratica degli Indiani Metropolitani, e dall’ala creativa del Movimento del ’77; per comprendersi divenne necessario creare un altro codice attraverso la collaborazione collettiva al progetto rivoluzionario della società. Il nuovo linguaggio divenne una pratica, un terreno su cui venne modificata la realtà, dove fondamentali furono i rapporti di forza tra le classi, ma anche interpersonali, nella lotta per il potere. I messaggi riflettevano una cultura che rifiutava i processi di conciliazione e di preferenza; erano pensieri in libertà agevolati dalla agilità degli spazi attraverso cui si comunicava (dai murales agli tatzebao) la controinformazione59. Un linguaggio in cui divenne fondamentale far parlare il desiderio, la rabbia, la follia, l’impazienza e il rifiuto. Eliminare il significato del codice fu come eliminare il potere politico60.

Secondo Maurizio Calvesi l’attività artistico-letteraria divenne con gli Indiani Metropolitani una pratica trasgressiva affidata al segno e alla scrittura (le scritte murali). In questa si denotarono aspetti «figurativi»61 già a partire dalle contestazioni studentesche del ’6862

, che però l’ala creativa del Movimento esasperò espressivamente. Anche per Egeria Di Nallo la comunicazione degli Indiani Metropolitani assunse una carica estetica che consistette proprio nella continua trasgressione dei codici tradizionali, e dunque nella riappropriazione delle parole (che in fondo fu la riappropriazione di se stessi) liberate dalla mercificazione della comunicazione capitalistica63. Tutto questo introdusse caratteri nuovi rappresentati dalle parole frazionate con l’utilizzo della sbarra e della lineetta, che simboleggiarono i segni della disgregazione sociale e della compresenza di sentimenti opposti (gioia di vivere contro ansia per il presente), forme che furono utilizzate nei

58 Grispigni, Marco, Il settantasette. Un manuale per capire, un saggio per riflettere, Milano, Il Saggiatore,

1997, p. 102.

59

Cfr. par. 3.4.

60 Un linguaggio sporco per il Movimento, in Bifo e Gomma (a cura di), Alice è il diavolo. Storia di una

radio sovversiva: collettivo a/traverso, Milano, Shake, 2002, pp. 112-116. Cfr. Eco, Umberto, Il segno,

Milano, ISEDI, 1973; anche Reboul, Olivier, Lo slogan, Roma, Armando, 1977 [ed. orig.: Le slogan, Bruxelles, Ed. Complexe; Paris, Distribution PUF, 1975]; anche Foucault, Michel, L’ordine del discorso.

Altri interventi, Torino, Einaudi, 2004 [ed. orig.: L’ordre du discours. Leçon inaugurale au Collège de France prononcée le 2 décembre 1970, Paris, Gallimard, 1971].

61

Calvesi, Maurizio, Avanguardia di massa, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 65.

62 Da quando «gli studenti si costituirono corpo sociale per separazione, alzando barriere linguistiche e

comportamentali, usando l’arte di strada come strumento di identificazione» da Revelli, Marco, Movimenti

sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana. Volume secondo: La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri. 2. Istituzioni, movimenti, culture, Torino, Einaudi, 1995, p. 407.

(24)

24 ciclostilati e nella stampa64. Tali scelte linguistiche funzionarono soprattutto come azione e movimento rispetto a un qualcosa che era troppo statico e standardizzato, e anche come aggiunta di figuratività che rompesse la logicità65. L’uso della barra tipografica di separazione riprendeva, inoltre, la teoria di Ferdinand de Saussure sul legame tra significante/significato, secondo cui la barra non equivaleva ad uno dei due termini, ma era una delimitazione tra i due che non necessariamente dovessero avere un senso compiuto. L’utilizzo di questo stratagemma grafico poneva in rilievo due parti distinte di uno stesso termine, e ciò comunicava un’azione contestativa66

. Le parole divennero degli elementi autonomi, collegate fra loro sulla base di assonanze e giochi di senso che ne alteravano il significato, per giungere alla costruzione di un messaggio di suggestioni, anche senza una razionalità di fondo67.

La pratica della scrittura sui muri, secondo Roberto Gervaso68, ha trasformato dal 1968 la penisola italiana in un’immensa lavagna su cui ognuno poteva sbizzarrirsi proclamando utopie, processando la società, sfogando i propri livori e rancori, rendendo di pubblico dominio le proprie frustrazioni. La ricerca di Pino Marchi confluita nel libro Italia spray ha preso in considerazioni i capoluoghi italiani (Firenze, Napoli, Milano, Roma) che rappresentarono punti nevralgici per le nuove sperimentazioni giovanili, e ha dato rilevanza alle bombolette di vernice spray, che, insieme ai gessetti e ai pennelli, furono le nuove armi della rivoluzione culturale nella comunicazione alle masse. I messaggi dei muri, carichi di rabbia, fantasia e immaginazione, istituirono un nuovo stile letterario senza precedenti basato, come abbiamo visto, su una nuova koinè69.

Nel libro Una sparatoria tranquilla vengono suddivisi gli slogan in base ai gruppi di appartenenza, partendo dal presupposto che in linea di massima nel Movimento ci fu un continuo miscelamento tra chi deteneva i diritti di uno slogan o di una scritta. Inoltre esisteva un’intercambiabilità di forme espressive che consisteva nel passaggio da strofette cantate a slogan, da slogan a scritte sui muri o strofette cantate, da scritte sui muri a slogan, in un continuo processo creativo, perché ogni passaggio era caratterizzato da aggiunte o detrazioni che ne arricchivano, o ne mutavano, il senso ma che comunque detenevano un “potere” contestativo.

«Ea ea ea ea ea ea ea Eh! Ea ea ea ea ea ea ea Eh!» era una sorta di grido di richiamo degli Indiani Metropolitani, a cui essi accompagnavano anche il gesto di alzare le braccia sull’«Eh!» finale, utilizzato specialmente quando gli Indiani erano numerosi nei primi mesi del Movimento durante i cortei70. Pablo Echaurren in un dialogo con il

64

Calvesi, Maurizio, op cit., pp. 64-65.

65 Salaris, Claudia, Il movimento del settantasette, op cit., p. 73. 66

Ciaponi, Francesco, Underground. Ascesa e declino di un’altra editoria, Milano, Costa&Nolan, 2007, p. 163.

67

Di Nallo, Egeria, op cit., p. 28.

68 Nella presentazione al libro di Marchi, Pino, Italia spray. Storia dell’ultima Italia scritta sui muri, Firenze,

Vallecchi, 1977.

69

Marchi, Pino, op cit., p. 4.

(25)

25 giornalista Claudio Sabelli Fioretti nel 2013 dichiarava che oltre alla paternità di tanti slogan, anche il coro «Sceemo, sceeemo, sceeeemo…» era degli Indiani71. Da allora utilizzato in qualsiasi occasione per deridere qualcuno, durante le assemblee del ’77 fu un utile strumento per contrastare oratori sgraditi e veniva gridato nei cortei contro spettatori scettici, forze dell’ordine, commercianti o fazioni del Movimento che praticavano azioni non condivise sul momento. Poi questo coro venne utilizzato dai più e veniva di volta in volta modificato in base alle situazioni, come ad esempio: «Sceeemo, sceeemo anvedi quanti semo… a ditte che sei sceeemo, sceeemo, anvedi quanti semo…»72. Inoltre apparve anche come titolo di un articolo su “Lotta Continua” dedicato a Luciano Lama, che per il quotidiano rappresentava la figura del padre ottuso. Riportando una dichiarazione falsa del segretario della Cgil, la redazione del giornale scriveva: «Io sono la classe operaia, io ci ho sempre ragione anche quando ci ho torto, io decreto: abolire sette festività a partire dalla mia festa!». L’articolo continuava sostenendo che per Lama coloro che si opponevano alla politica dei sacrifici erano «lazzaroni che con le buone o con le cattive gli daranno ragione»; ma ormai, concludeva l’articolo, «Lama, Lama nessuno più ti ama e il tempo è maturo per fare la festa ai papà [ripristino delle festività per i lavoratori]»73.

Gli slogan attribuiti agli Indiani Metropolitani erano quelli che rovesciavano il senso degli slogan tradizionali della politica di sinistra rendendoli surreali; definiti i giullari di corte74 del Movimento del ’77, con i loro slogan esprimevano dubbi, presentimenti, insinuando verità altre diverse dalla “normalità”.

«Gui e Tanassi75 sono innocenti, siamo noi i veri delinquenti!»;

«Giro giro tondo, casca il mondo, casca il governo, Andreotti va all’inferno»;

«Godere operaio & Potere dromedario»76 (Questi erano in sostituzione dello slogan «Potere operaio»);

«Gastronomia operaia, cannibalizzazione, forchetta, coltello, mangiamoci il padrone!»; «Siamo felici di fare i sacrifici. Sa-cri-fi-ci, Sa-cri-fi-ci. Fio-ret-ti, Fio-ret-ti»;

«È aumentato il pane? Nooo! È aumentata la benzina? Nooo! Sono aumentati i salari? Sííí!»;

71 Quelli del ’77. Dialogo fra Pablo Echaurren e Claudio Sabelli Fioretti, da Fondazione Echaurren Salaris,

8 gennaio 2013, https://www.youtube.com/watch?v=eY59u9G_etg visualizzato il 10 febbraio 2015.

72

Una sparatoria tranquilla, op cit., p. 267.

73 “Sceemo, sceemo…”, in “Lotta Continua”, 18 marzo 1977; vedi anche “Sceemo, sceemo, sceemo,

sceemo…”, in “Lotta Continua”, 1 aprile 1977 sulla “corruzione” del sindacato nell’attribuzione delle tessere.

74

Di Nallo, Egeria, op cit., p. 74.

75 Luigi Gui e Mario Tanassi, entrambi ex Ministri della Difesa, furono coinvolti nello scandalo Lockheed

scoppiato nel 1976 per l’acquisto di aerei C-130 Hercules a partire dal 1972, accusati di corruzione. Alla fine del processo nel 1979 Gui venne assolto per non aver commesso il fatto, mentre Tanassi venne dichiarato colpevole, condannato a due anni e quattro mesi di reclusione, a pagare una multa di lire 400.000 e a due anni di interdizione dagli uffici pubblici. Mascellaro, Marcello, 1976 -. Lo scandalo Lockheed. La nostra storia, in “La Gazzetta del Mezzogiorno.it”, [s.d.], http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/1971-1980/1976loscandalo/ consultato il 25 febbraio 2015.

76

Per deridere il difetto fisico del Primo Ministro Andreotti paragonandolo a un dromedario. Come succedeva anche per il paragone di Giorgio Amendola a un elefante.

(26)

26 «Stiamo troppo bene, stiamo troppo bene»;

«Macché lotta di classe, macché rivoluzione, l’unica via è l’astensione!»; «Portare l’attacco al centro del papato, tutto il potere al chiericato armato!»; «Presto occuperemo il paradiso» (fig. 21);

«Presto, presto, tutto il potere a Paolo VI!»; «Rosse, rosse, rosse, risate rosse!»;

«La polizia che spara non si tocca, vi fregheremo tutti, ci spareremo in bocca!»; «I carabinieri sono solo birichini, siamo noi i veri assassini!»;

«I blindati non ci bastan più, vogliamo i carri armati o non giochiamo più!»; «Viva viva la Dc, carri armati anche qui!»;

«Facce da criminali, facce da delinquenti, è questo il movimento degli studenti!»; «Che è ‘sta puttanata della Liberazione, Pci dacci ancora tanta repressione!»; «Abbiamo preso poche botte da bambini, per questo ora siamo tutti assassini!»; «Pagheremo caro, pagheremo tutto, il movimento deve essere distrutto!»; «Siamo belli, siamo tanti, siamo covi saltellanti!»;

«Covare oooh! Covare oh! oh! oh! oh!»;

«Se vuoi bere un prodotto genuino, bevi sangue di celerino»;

«Celerino t’hanno fregato, licenza di sparare ma niente carro armato»; «Siamo provocatori, siamo teppisti, Lama e Cossiga i veri comunisti!»; «È ora, è ora, miseria a chi lavora!»;

«Lavoro zero, reddito intero, tutta la produzione all’automazione» (fig. 22);

«Il Pci non è qui, lecca il culo alla Dc, anzi no, fa di più, lecca il culo ai caschi blu»; «FGCI Lotta morbido morbido!»;

«Viva il compagno Giorgio Amendola, con le orecchie a svendola!» (fig. 23);

«Non c’è disfatta, non c’è sconfitta senza il grande Partito comunista!» (sconvolgendo lo slogan ufficiale del Pci: «Non c’è vittoria, non c’è conquista, senza il grande Partito comunista»);

«Ti prego Lama, non andare via, vogliamo ancora tanta polizia!» (del 17 febbraio); «Al contadino non far sapere quant’è buono l’uranio con le pere!»;

«Le radio libere sono provocazione, tutto il potere alla televisione!».

«Come va la vita oggi. Forse a rombi, a quadratini, a triangoli. La verità è che la rivoluzione la si vive in prima persona»;

«Fuori gli intellettuali mediatori del movimento»77.

Riproporre integralmente gli slogan serve a rendere le varie sfaccettature dell’inventiva degli Indiani Metropolitani, volta a contestare le scelte politiche del governo in quel momento, specialmente quelle prese dalle forze di sinistra, ma anche a contestare dall’interno le scelte del Movimento. Essi dimostrano anche che a volte gli Indiani Metropolitani tendevano a difendere i propri compagni passando ad attacchi più violenti.

(27)

27 Tutti gli ambiti, dalla controinformazione alla battaglia al nucleare, dagli studenti agli operai, venivano affrontati nell’attività degli Indiani per suffragare la regola che bisognasse essere pienamente attivi nelle situazioni che coinvolgevano le vite degli italiani per poter essere ritenuti partecipi al cambiamento della società.

Molti degli slogan divennero scritte murali, oppure accompagnavano manifesti, dazebao e disegni. Non sempre a queste “opere” venivano apposte date o firme, ma specifici riferimenti potevano far dedurre che la maggior parte dei prodotti dell’area creativa denotavano l’arte degli Indiani Metropolitani, come ad esempio:

«Apache, sioux, pellerossa, tutti insieme alla riscossa!»;

«Essere vivi significa anche dipingersi il muso. Forza Kocis[s]78»; «Fuori dal territorio i visi pallidi»;

«Feronimo [sic! Dovrebbe essere Geronimo], Kocis[s], Nuvola Rossa, Indiani alla riscossa»;

«Giacca azzurra non lo scordare, abbiamo Cavallo Pazzo [un Indiano Metropolitano, al secolo Mario Appignani, ndr] da vendicare»;

«Il Pci parla con lingua biforcuta. Kochise [Cochise]» (fig. 24); «Indiani in piazza, cow-boys a letto»;

«Per voi padroni non c’è domani, siamo gli Indiani Metropolitani»; «Se ti tirano le trecce, tu rispondi con le frecce»;

«Siamo indiani e in più incazzati»79.

Esistevano tantissime altre scritte murali che spesso si ripetevano anche proprio a dimostrare la piena libertà di espressione e che insieme poi ai murales rappresentavano quel continuo processo creativo, anche confusionario, che rendeva la vita quotidiana arte senza più distinzioni e inoltre, inaugurando una nuova avanguardia culturale, la proiettava alla massa80.

78

Kociss, l’eroe indiano è un film del 1952 diretto da George Sherman. La trama era basata sugli eventi di una guerra Apache del 1861 e la battaglia dell’Apache Pass (da cui il titolo originale The Battle of Apache

Pass) quando per la prima volta gli indiani si scontrarono con l’artiglieria moderna statunitense, battaglie che

si disputarono in Arizona. Kociss fu il nome italianizzato del capo indiani Cochise, da cui la contea omonima in Arizona, appunto.

79

Una sparatoria…, op cit., pp. 291-301

(28)

28 Fig. 21

Presto occuperemo il paradiso, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 114.

Fig. 22

Lavoro zero reddito intero tutta la produzione all’automazione, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 105.

(29)

29 Fig. 23

Amendola con orecchie a svendola, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 149.

Fig. 24

Il Pci parla con lingua biforcuta. Kochise, Università di Bologna, 1977, in Di Nallo, op cit., p. 145.

(30)

30

2.2.2 Il momento della festa

Nel 1967 a Ivrea si tenne il Convegno per un nuovo teatro, dove si discusse delle strutture teatrali classiche da sostituire con un teatro capace di porre interrogativi e fatto di gesti contemporanei81. Nel periodo che portò al Movimento del ’77 in Italia il teatro divenne uno strumento per la propagazione di saperi sociali, culturali e politici, attraverso spettacoli fondati sulla negazione della divisione netta tra spettatore e attore, la negazione delle specializzazioni e la proposta di un teatro comunitario che fosse un progetto di gruppo82. L’estensione del concetto del teatro alla società andava di pari passo con l’estensione del concetto di teatro rivoluzionario equivalente di una società in rivolta. Secondo Marco De Marinis83 la rivoluzione del teatro era la festa, anche perché la rivoluzione stessa era festa avendo in comune le caratteristiche di «effervescenza sociale (accentuazione delle dinamiche interpersonali, della creatività collettiva e del rafforzamento della coesione di gruppo); anomia (rottura con la tradizione e rifiuto dei codici culturali consacrati); transocialità (messa in crisi del modello normativo della società attraverso forme pluralistiche e dinamiche)»84.

Il connubio teatro-festa era alla base anche della nuova nozione di scambio vicendevole tra le parti dell’evoluzione teatrale. Lo scambio costituiva il momento culminante delle rappresentazioni teatrali/festive; ciò avvenne in Italia e in Europa nella seconda metà degli anni ‘70 quando dopo una rappresentazione teatrale le comunità ospiti davano in cambio manifestazioni delle proprie tradizioni85. Questo scambio allegorico si realizzava per mettere in relazione diretta le parti che assistevano e partecipavano attivamente ai momenti del teatro-festa, per abolire i meccanismi della comunicazione autoritaria e unidirezionale, imposta dalla tecnologia dei nuovi mass-media86. Si praticava una lacerazione tra i campi delimitati del teatro classico per avere una compenetrazione tra tutti i soggetti che portassero a un’unificazione totale diventando un do ut des.

Le feste, le rappresentazioni teatrali, gli happening si collocarono nelle pratiche artistiche degli Indiani Metropolitani, al pari di murales e scritte, come modo di superare la società fondata sul lavoro e sul consumismo che rendeva le nuove generazioni sempre più alienate in essi. L’omologazione ai rituali capitalistici – dove tutto quello che si faceva era finalizzato all’incremento economico – che spaziavano dall’ambito scolastico a quello lavorativo e a quello del tempo libero, nel 1977 si era trasformata per molti in ansietà e

81

Ivrea 67. Convegno per un nuovo teatro, in “Atateatro. Webmagazine di cultura teatrale”, [s.d.],

http://www.ateatro.org/mostranotizie2bis.asp?num=44&ord=4 consultato il 27 febbraio 2015.

82

Loria, Maria Concetta, Teatro della contestazione nell’Italia delle lotte studentesche negli anni ’60 e ’70, in “Parol. Quaderni d’arte e di epistemologia”, 1999, http://www.parol.it/articles/loria.htm consultato il 27 febbraio 2015.

83

De Marinis, Marco, Al limite del teatro. Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni sessanta

e settanta, Firenze, La casa Usher. 1983.

84 Ivi, p. 94. 85

Esempi furono il Teatro Vagante o il Gorilla Quadrumàno di Giuliano Scabia e l’Odin Teatret di Eugenio Barba, ivi, p. 96. Sull’esperienza di Giuliano Scabia cfr. anche Ivi, pp. 31-66.

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