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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

1.1 Meccanismi di risposta immunitaria citotossica

La funzione dei linfociti T citotossici (CTL) è essenziale per il corretto funzionamento della componente adattativa del sistema immunitario. I CTL sono importanti per la protezione nei confronti di patogeni intracellulari e svolgono un ruolo di sorveglianza nei confronti di alcuni tipi di tumori. La loro funzione si esplica grazie alla presenza del recettore delle cellule T (T cell receptor, TCR) che riconosce antigeni specifici presentati dalle molecole MHC di classe I presenti sulla superficie delle cellule target. In seguito al legame del TCR, i CTL secernono citochine (IL2, IFN-γ e TFN-α) ad azione citotossica ed antivirale e rilasciano per endocitosi granuli che trasportano molecole citotossiche direttamente all’interno delle cellule target; il risultato è l’induzione dell’apoptosi nelle cellule bersaglio. Questo meccanismo può causare la cessazione della replicazione virale nelle cellule infette o la perdita del potenziale proliferativo in quelle tumorali (Jerome et al., 2003).

Si riteneva che i linfociti citotossici svolgessero la loro azione inducendo direttamente la lisi delle cellule target (Bashford et al., 1988; Hameed et al., 1989) a causa dell’identificazione al loro interno della perforina, una componente dei granuli litici che ha un’alta omologia con le proteine del complemento che inducono la formazione di pori (Henkart et al., 1984; Podack and Dennert, 1983). Tuttavia è stato successivamente dimostrato che la

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perforina da sola non è sufficiente a indurre la lisi di bersagli nucleati (Bashford et al., 1988; Millard et al., 1984).

Oggi sappiamo che i CTL inducono la distruzione delle cellule target inducendone l’apoptosi e che questa può essere attivata tramite due meccanismi diversi, uno mediato da recettori ed uno basato sui granuli litici (Russell and Ley, 2002); entrambi sono innescati dallo stesso fenomeno, ovvero il legame del TCR all’antigene esposto sulle cellule bersaglio.

L’apoptosi mediata da recettori è indotta dall’interazione di uno specifico ligando presente sulla superficie dei linfociti, come ad esempio fasL, con il recettore appropriato presente sul bersaglio, ad esempio fas (Ashkenazi and Dixit, 1998; Ashkenazi and Dixit, 1999). Il legame con i cosiddetti recettori di morte comporta l’attivazione del programma apoptotico perché innesca il meccanismo enzimatico di attivazione delle caspasi (Ashkenazi and Dixit, 1999). Il secondo meccanismo invece prevede, che, in seguito al contatto con la cellula target, i granuli litici presenti all’interno dei linfociti vengano rilasciati tramite endocitosi al livello del sito di contatto ed entrino nella cellula bersaglio (Shi et al., 1997). Tali granuli contengono numerosi enzimi, tra cui la perforina ed i granzimi. La perforina ha la capacità di inserirsi nel doppio strato lipidico della membrana cellulare e di formare pori; essa ha il compito di permettere l’entrata dei granuli nella cellula target e favorisce il rilascio dei granzimi nel citoplasma. I granzimi sono serin-proteasi che, una volta rilasciate, inducono l’apoptosi (Kam et al., 2000); ad esempio, il granzima B è in grado di tagliare Bid, membro della famiglia Bcl-2, il quale induce la perdita del potenziale transmembrana mitocondriale ed il rilascio del citocromo c, attivando la morte programmata della cellula (Heibein et al., 2000; Sutton et al., 2003).

In seguito all’esposizione con un antigene, i cloni CTL specifici vanno incontro ad una rapida proliferazione; a distanza di pochi giorni dal picco massimo di espansione, tuttavia, il numero delle cellule effettrici antigene-specifiche declina rapidamente. I linfociti che sopravvivono vengono detti

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“cellule memoria”: essi si trovano in uno stadio non proliferativo in cui non sono in grado di produrre citochine o di esercitare alcuna funzione citolitica ma sono capaci di innescare una forte e rapida risposta nel caso di un secondo contatto con lo stesso antigene (Kennedy et al., 2000).

1.2 Saggi in vitro per la valutazione della risposta

immunitaria

cellulo-mediata

Le conoscenze sui meccanismi di funzionamento dei CTL sono state utilizzate per l’allestimento di saggi che permettono di misurare la loro attività.

Il metodo classico per la valutazione della lisi antigene-specifica mediata dalle molecole MHC di classe I è il saggio del rilascio del cromo (51Cr release assay) (Brunner et al., 1968). Le cellule sono in grado di internalizzare sodio cromato e il fatto che il cromo esista anche in forma radioattiva permette una loro efficace marcatura con Na2CrO4. Una volta incorporato nelle cellule, il cromo si associa alle proteine citoplasmatiche e ciò limita il suo rilascio spontaneo. I CTL (cellule effettrici, E) vengono quindi mescolati alle cellule target (T) in vari rapporti; se i CTL riconoscono e attaccano i bersagli, una parte del cromo viene rilasciato nel mezzo di coltura, nel quale può essere misurato. Confrontando questo rilascio sperimentale con la radioattività totale delle cellule target (rilascio massimo) e con il rilascio spontaneo delle cellule non attaccate dai CTL, è possibile calcolare la percentuale di cromo rilasciato in seguito a lisi specifica. Questo tipo di saggio mostra una buona sensibilità e una buona dose-risposta a rapporti E:T crescenti ed è stato utilizzato per molti anni. Tuttavia i numerosi svantaggi che presenta hanno spinto molti scienziati alla ricerca di metodi alternativi. Ovviamente il problema maggiore di questo

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protocollo è l’utilizzo di materiale radioattivo. Il 51Cr è un gamma-emittente e questo espone il personale che lo utilizza a rischi che, sebbene controllabili, non sono comunque mai eliminabili; inoltre richiede la necessità dei protocolli speciali per il trattamento dei rifiuti radioattivi. Un altro svantaggio non sottovalutabile del saggio riguarda la misurazione dell’attività CTL a livello di popolazione cellulare. Questo approccio non permette di ottenere informazioni sugli eventi citotossici che avvengono a livello della singola cellula target. Questa analisi infatti, non è in grado di stabilire se all’interno della popolazione esaminata ci sono cellule suscettibili in maniera differente all’attacco dei CTL, ovvero se alcune cellule sono completamente distrutte mentre altre sono perfettamente integre. Questa situazione si manifesterebbe sottoforma di un incompleto rilascio di cromo, ma sarebbe indistinguibile dal caso in cui tutte le cellule della popolazione fossero danneggiate ma non lisate. Un ulteriore limite di questa tecnica è dovuto al fatto che non è possibile correlare l’attacco dei CTL con altre caratteristiche delle cellule target, come ad esempio l’espressione di particolari antigeni o il loro stato di attivazione.

Infine, la morte spontanea di cellule effettrici o target che può verificarsi durante il saggio così come l’attività non specifica dei CTL possono causare un alto segnale di background che è difficilmente distinguibile dalla lisi specifica. Per questo, la valutazione dell’attività citolitica in individui con una bassa risposta CTL può risultare difficile con il saggio del rilascio del cromo.

Dal momento che i CTL uccidono inducendo apoptosi, sono stati allestiti dei saggi che misurano la risposta cellulo-mediata andando a rintracciare nelle cellule bersaglio i caratteri distintivi di questa morte programmata. Uno di questi si basa sulla frammentazione che subisce il DNA; essa, infatti, può essere rintracciata raccogliendo il DNA, precedentemente marcato con timidina triziata, dopo l’incubazione delle cellule bersaglio con i CTL e facendolo passare attraverso un filtro che si lasci attraversare solo da piccoli frammenti (Matzinger, 1991); il confronto della radioattività del DNA frammentato e di

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quello integro è un indice del livello di apoptosi delle cellule target. Il saggio è sensibile ma, nonostante la timidina triziata sia un beta emittente e quindi meno pericolosa del cromo, prevede l’utilizzo comunque di materiale radioattivo e non è applicabile a quei tipi cellulari in cui il DNA non si frammenta in oligomeri durante l’apoptosi; inoltre l’incorporazione stessa di timidina triziata può indurre morte programmata, aumentando il segnale di fondo (Jerome et al., 2003).

Un ulteriore test basato sull’induzione dell’apoptosi è il saggio di attivazione delle caspasi. L’attivazione di queste proteasi è un evento chiave nel

pathway apoptotico, poiché esse hanno il compito di idrolizzare le proteine della matrice nucleare e del citoscheletro e di attivare le endonucleasi che frammentano il DNA, causando i cambiamenti strutturali tipici delle cellule in apoptosi (Shi, 2002). Sono stati descritti diversi metodi che utilizzano dei substrati che, tagliati dalle caspasi, divengono fluorescenti e permettono di misurare l’attività di questi enzimi (Chahroudi et al., 2003; Liu et al., 2002). Tuttavia, nei saggi CTL questa misurazione è problematica, perché nel lisato potrebbero essere presenti caspasi derivanti sia dai bersagli che dai CTL stessi. Inoltre, tutte le cellule hanno un livello basale di attività di queste proteasi che, specialmente ad elevati rapporti E:T può comportare un alto background. Infine, in alcuni casi l’interazione CTL-bersaglio può causare la morte dei linfociti stessi, rendendo impossibile una accurata misurazione dei livelli di caspasi attive appartenenti alle cellule target (Godoy-Ramirez et al., 2005; Jerome et al., 2003).

Un’altra tipologia di saggi si basa, invece, sulla produzione di particolari citochine da parte dei linfociti. Analisi come l’ELISpot e l’intracellular cytokine flow cytometry (ICC) utilizzano l’induzione antigene-specifica di citochine per rintracciare linfociti T specifici al livello della singola cellula (Suni et al., 1998). L’ELISpot è basato sullo stesso principio dei saggi ELISA. Si utilizzano piastre a cui è legato l’anticorpo primario che riconosce l'IFN-γ. I PBMC vengono incubati

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nella piastra insieme a peptidi dell’antigene di interesse; in risposta all’antigene, i linfociti rilasciano la citochina, che viene legata dall’anticorpo. Dopo vari lavaggi, viene effettuata la rivelazione tramite un anticorpo secondario coniugato con un enzima che produce una reazione colorimetrica. Il risultato finale consiste quindi in uno spot di colore che rappresenta una cellula che ha secreto la citochina (Letsch and Scheibenbogen, 2003; Schmittel et al., 2000).

L’ICC, invece, è basato sull’uso di coloranti. L’intera popolazione di linfociti è ancora una volta incubata con cellule che presentano l’antigene di interesse; per bloccare la secrezione delle citochine, i linfociti sono trattati con sostanze che inibiscono i pathway secretori della cellula (come la Brefeldina A) e che permettono quindi l’accumulo della citochina al suo interno. Dopo permeabilizzazione e fissazione, le cellule vengono trattate con un anticorpo fluorescente anti-citochina. La lettura viene effettuata tramite citofluorimetria (Asemissen et al., 2001; Letsch and Scheibenbogen, 2003). Tali tecniche, tuttavia, non misurano direttamente l’attività citolitica cellulo-mediata e non sono in grado di definire fenotipicamente le cellule che rispondono; perciò quella osservata rappresenta la risposta totale delle cellule CD4 e CD8 positive.

Importanti chiarimenti sulla funzione dei linfociti T CD8 positivi nel controllo soprattutto delle infezioni virali sono derivati dall’utilizzo dei tetrameri (Altman et al., 1996; Kelleher and Rowland-Jones, 2000; Ogg and McMichael, 1998). Questa tecnica si basa sull’uso di peptidi sintetici disegnati sull’antigene di interesse e coniugati con le molecole MHC di classe I e con molecole di biotina; tramite molecole di avidina i vari monomeri vengono legati tra di loro a formare dei tetrameri. Dal momento che essi sono coniugati anche con un fluorocromo, è possibile rintracciare i cloni CTL specifici per l’antigene nel campione di interesse. Questa tecnica è stata utilizzata anche nell’ambito di ricerche su HIV, ma le differenze rilevate nel confronto con altre tecniche hanno condotto all’ipotesi che alcuni CTL in grado di legare i tetrameri siano funzionalmente difettivi (Kelleher and Rowland-Jones, 2000).

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Una tecnologia recentemente applicata a questo tipo di saggi è quella che prevede l’uso della citometria di flusso. Essa è stata utilizzata per la valutazione dalla lisi provocata dalle NK (Godoy-Ramirez et al., 2000; Piriou et al., 2000) e sono stati descritti anche studi sulla citotossicità mediata dai linfociti CD8 positivi (Betts et al., 2003; Goldberg et al., 1999). Per discriminare le cellule target da quelle effettrici sono stati utilizzati diversi metodi, tra cui caratteristiche nello spettro di assorbimento ed emissione (Vitale et al., 1989), anticorpi monoclonali (Godoy-Ramirez et al., 2000; Goldberg et al., 1999) e coloranti che si legano alla membrana cellulare (Lecoeur et al., 2001; Piriou et al., 2000).

L’uso della citometria a flusso presenta numerosi vantaggi, tra cui la mancata necessità di substrati radioattivi, la capacità di rintracciare eventi citotossici al livello della singola cellula, la quantificazione di tutti gli stadi del processo citolitico e la possibilità di ulteriori analisi del fenotipo delle cellule coinvolte.

1.3 Meccanismi di induzione della risposta cellulo-mediata

per il controllo delle infezioni virali

L’uso della vaccinazione per indurre una risposta protettiva nei confronti di successive esposizioni all’antigene è un principio ormai consolidato della lotta contro vari agenti patogeni. L’uso di ceppi attenuati di virus e batteri, tossine e antigeni ricombinanti è ormai un metodo efficiente per evocare una forte immunità umorale e la ripetizione del vaccino è sufficiente per conferire una protezione duratura (McShane and Hill, 2005). Questo non è altrettanto vero per quanto riguarda l’induzione della risposta cellulo-mediata, che è, invece,

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essenziale nel caso di patogeni intracellulari come il virus dell’immunodeficienza umana (HIV).

Nonostante più di 20 anni di intense ricerche su HIV-1, l’epidemia di AIDS continua ad essere diffusa in tutto il mondo, con più di 50 milioni di persone infette e 16 mila nuovi casi stimati al giorno (Verrier, 2005). Le strategie terapeutiche hanno fatto enormi progressi con l’introduzione della

Highly Active Anti Retroviral Therapy (HAART), che consente la soppressione della replicazione virale per un periodo che può durare da alcuni mesi ad anni, riducendo in maniera drammatica la mortalità. Nonostante questi incoraggianti risultati, tuttavia, gli effetti benefici della HAART sono controbilanciati da alcuni aspetti negativi. Questi includono la tossicità associata agli effetti collaterali, l’emergenza di mutazioni che inducono farmaco-resistenza e la difficoltà dei pazienti di seguire trattamenti così complessi. Inoltre la prescrizione della HAART anche per tempi molto lunghi non elimina comunque i reservoir di infezione e la sua interruzione è sistematicamente seguita da un rapido aumento della viremia. Infine, la limitata disponibilità dei farmaci ed il loro costo proibitivo rendono difficile la sua applicazione, soprattutto nei paesi in via di sviluppo in cui la pandemia è estremamente diffusa. Lo sviluppo di un vaccino efficace nei confronti di HIV rappresenta quindi una necessità pressante. L’obiettivo finale di tali studi dovrebbe essere quello di generare una risposta immunitaria sufficiente ad eliminare completamente il virus, eventualmente anche in associazione con terapie innovative; tuttavia un risultato da non sottovalutare sarebbe anche generare una risposta immune tale da permettere ai soggetti infetti una riduzione nell’uso delle terapie antiretrovirali (Verrier, 2005; Walker and Rosenberg, 2000).

Nonostante numerosi sforzi, i meccanismi deputati al controllo della replicazione virale di HIV e della progressione della malattia non sono ancora completamente compresi; recentemente però sempre maggiori evidenze hanno sottolineato l’importanza della risposta immunitaria cellulo-mediata (Brown et

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al., 2005; Currier et al., 2006; Reche et al., 2006). Sebbene la maggior parte degli individui infetti mostrino una vigorosa risposta CTL, tuttavia, essa non è in grado di eliminare l’infezione. La pressione selettiva esercitata dai CTL, infatti, induce il virus a mutare le sequenze che codificano per gli epitopi riconosciuti dai linfociti, indebolendone l’efficacia (Allen et al., 2004).

Nello sviluppo di un vaccino contro HIV sono state testate diverse strategie. La prima è quella dell’uso del virus intero inattivato, composto da virioni di HIV inattivati e purificati e codificanti per le proteine Env e Gag (Levine et al., 1996). Esso si è dimostrato in grado di aumentare l’induzione di anticorpi anti-p24 e i soggetti trattati hanno mostrato dei miglioramenti per quanto riguarda il numero dei linfociti CD4 positivi circolanti, l’incidenza di infezioni opportunistiche e la durata del periodo di sopravvivenza (Kundu-Raychaudhuri et al., 2001). Tuttavia studi clinici più lunghi hanno dimostrato l’incapacità di questo vaccino di migliorare la progressione della malattia e l’esito finale (Kahn et al., 2000).

Una ulteriore strategia utilizzata è quella dei vaccini composti da peptidi e subunità proteiche. Sono stati testati numerosi candidati, tra cui subunità proteiche dell’envelope (purificate o ricombinanti) (Birx et al., 2000; Essajee et al., 2002), proteine regolatorie, come Tat (Gallo, 1999; Kittiworakarn et al., 2006), o peptidi contenenti combinazioni di epitopi riconosciuti dai Th (Asjo et al., 2002; Kran et al., 2004). Tuttavia, nessuno di questi vaccini è stato in grado di apportare benefici immunologici o clinici ai pazienti. Successivamente, per migliorare l’induzione di una immunità cellulare, i vaccini peptidici sono stati coniugati con molecole lipidiche, in modo da indirizzarli in maniera più specifica verso le membrane cellulari (Gahery-Segard et al., 2000; Seth et al., 2000); questi lipopeptidi hanno dato risultati incoraggianti, sia da soli che come adiuvanti (Borsutzky et al., 2003; Levy et al., 2005).

Dati promettenti sono emersi recentemente dall’utilizzo di una ulteriore approccio, quello dei vaccini a DNA. Tramite tecniche di biologia molecolare, si

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è potuto inserire all’interno di plasmidi i geni che codificano per proteine di HIV usate come immunogeni. Questo metodo facilita il delivery delle proteine e ne permette una produzione ad alti livelli ed un processamento corretto, dal momento che si mima il naturale meccanismo di infezione del virus. I vaccini a DNA rappresentano un’alternativa emersa recentemente e possiedono numerosi vantaggi rispetto agli approcci convenzionali. Il principale è rappresentato dal fatto che non presentano rischi legati ad una possibile infettività residua; in secondo luogo sono semplici da realizzare e da veicolare.

Una volta iniettato, il DNA viene captato dalle cellule, le quali producono la proteina e la espongono sulla membrana legata alle molecole di classe I del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) (Gurunathan et al., 2000); in questo modo si mima la via di infezione naturale del virus e ci si assicura che l’immunogeno sia prodotto nella conformazione nativa (Doria-Rose and Haigwood, 2003). Un ulteriore vantaggio è dovuto al fatto che questi vaccini sono in grado di evocare una risposta sia umorale che cellulo-mediata e che consentono di veicolare anche più antigeni contemporaneamente.

L’efficacia della vaccinazione può essere potenziata con l’uso di adiuvanti genetici: nel plasmide che veicola l’antigene virale può essere inserito anche un gene che codifica per molecole che stimolano le cellule del sistema immunitario (di solito citochine) oppure che aumentano l’immunogenicità del preparato (ad esempio proteine che stimolano l’apoptosi) (Sasaki et al., 2001). La scelta dell’adiuvante da utilizzare si basa soprattutto sul tipo di risposta immune che si vuole evocare. Tra le citochine più usate compaiono l’IFN-γ, l’IL12, l’IL2, l’IL15 ed il granulocyte-macrophage colony stymulator factor (GM-CSF). Soprattutto per quanto riguarda il GM-CSF esistono dati incoraggianti: esperimenti in vivo

ed in vitro hanno suggerito una sua importanza negli approcci di vaccinazione (Warren and Weiner, 2000). Questa citochina viene prodotta dalle cellule endoteliali, monociti, fibroblasti e linfociti T e rappresenta un fattore di crescita ematopoietico che stimola lo sviluppo di neutrofili e macrofagi. E’ stato

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proposto anche che uno dei principali target di questa citochina in vivo siano le cellule che presentano l’antigene (APC-antigen presenting cells), soprattutto le cellule dendritiche (DC) (Haddad et al., 2000). Queste sono fondamentali per la risposta al vaccino, perché sono in grado di captare il DNA inoculato e di esprimere e presentare l’antigene da esso codificato; le DC infatti sono considerate tra le più importanti effettrici coinvolte nell’immunizzazione con DNA (Gurunathan et al., 2000; Zarei et al., 2004). Per questi motivi si ritiene che la co-espressione dell’antigene con una citochina come il GM-CFS possa favorire la captazione dell’antigene e la sua presentazione da parte delle DC e dei macrofagi (Gurunathan et al., 2000).

Negli ultimi anni è emerso un nuovo tipo di strategia vaccinale che mira a combinare due o più modalità vaccinali con l’obiettivo di indurre entrambi i tipi di risposta immunitaria. I vettori virali e batterici ricombinanti rappresentano un sistema efficiente di delivery degli antigeni, tuttavia la principale limitazione è data dal fatto che usati da soli inducono solo una modesta risposta CTL. Inoltre richiami con lo stesso tipo di vaccino non si traducono in un aumento della risposta cellulare evocata, perché l’immunità indotta dal primo inoculo contro il vettore inibisce il corretto processamento degli antigeni agli inoculi successivi (McShane and Hill, 2005). Queste considerazioni hanno condotto allo sviluppo di una strategia detta “prime-boost

eterologo” che ha lo scopo di migliorare l’immunogenicità dei vaccini che devono indurre una risposta principalmente citotossica. Questo metodo prevede la somministrazione di due differenti vaccini esprimenti però lo stesso antigene e inoculati a diverse settimane di distanza l’uno dall’altro. In generale, il priming dovrebbe attivare le cellule che presentano l’antigene presenti nel sito di inoculo; queste dovrebbero quindi stimolare i linfociti T immaturi e guidare l’espansione di cellule T specifiche. Il boosting successivo prevede la ripresentazione dello stesso antigene alle APC, che in questo caso portano

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all’espansione delle cellule T di memoria e alla selezione di quelle che hanno maggiore avidità per l’antigene target (Woodland, 2004).

Tale strategia si è dimostrata in grado di indurre livelli di risposta CTL più elevati rispetto a boost omologhi in diversi modelli animali e contro un’ampia varietà di patogeni, tra cui HIV, SIV, i virus dell’epatite C e B, il virus Ebola ed il bacillo della tubercolosi (Hel et al., 2002; Matsui et al., 2003; McShane et al., 2001; Sullivan et al., 2003; Takeda et al., 2003).

1.4 Impiego di modelli animali per lo sviluppo di

strategie profilattiche contro l’infezione da HIV

Nonostante tutti gli sforzi, un vaccino efficace contro il virus HIV non è stato ancora realizzato. I problemi principali sono rappresentati dalla difficoltà nella scelta dell’immunogeno da utilizzare (perché i correlati di protezione sono ancora sconosciuti) e dai meccanismi di escape che il virus utilizza per sfuggire al sistema immunitario, come le variazioni genomiche e la latenza. Un ulteriore limite è rappresentato dal fatto che HIV è in grado di infettare solo poche specie di non primati e anche in questi casi non sono stati riportati casi di progressione ad AIDS (Puls and Emery, 2006).

L’identificazione di un modello animale di sindrome da immunodeficienza acquisita assume quindi un’importanza fondamentale soprattutto per lo sviluppo e la sperimentazione di nuove terapie e vaccini.

In particolare, il modello costituito dal virus dell’immunodeficienza felina (FIV) presenta numerose omologie con HIV, tra cui l’organizzazione del genoma, il meccanismo di replicazione e l’effetto citopatico in vitro, nonché la

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presenza di diversi sottotipi virali, che consentono di testare l’efficacia di vaccini nei confronti di challenge eterologhi.

Inoltre quella causata da FIV rappresenta l’infezione da lentivirus nel suo ospite naturale e gli animali infetti sviluppano una patologia simile a quella indotta da HIV nell’uomo, caratterizzata da una degenerazione del sistema immunitario dell’animale che favorisce l’instaurarsi di infezioni opportunistiche che ne determinano la morte.

Da non sottovalutare, infine, sono anche la specie-specificità di FIV, che rende questo virus privo di rischi biologici per gli operatori, ed i ridotti costi di acquisto e gestione degli animali.

Dal momento, quindi, che l’infezione con FIV è simile sotto molti aspetti a quella con HIV, il modello FIV rappresenta, dunque, un sistema prezioso per valutare nuovi approcci di vaccinazione e per identificare i tipi di risposte che un vaccino deve essere in grado di evocare per conferire una adeguata protezione.

1.5 Classificazione

FIV appartiene al genere Lentivirus della famiglia Retroviridae. Questo genere è diviso in due gruppi sulla base del tropismo cellulare e delle manifestazioni patogenetiche.

Del primo gruppo fanno parte i virus che infettano prevalentemente i linfociti T e cellule della linea monocito-macrofagica causando immunodeficienza; ad esso appartengono HIV 1 e 2, SIV, il virus dell’immunodeficienza bovina (BIV) e FIV.

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Al secondo gruppo invece appartengono i lentivirus che infettano le cellule della linea monocito-macrofagica, determinando patologie prevalentemente immuno-mediate, come il virus Visna Maedi (VMV) della pecora, il virus dell’artrite encefalite caprina (CAEV) e il virus dell’anemia infettiva equina (EIAV).

1.6 Morfologia

Il virione maturo di FIV consiste in una particella sferica di circa 100-125 nm di diametro. Si possono distinguere un rivestimento esterno, detto

envelope, ed un core centrale elettrondenso che racchiude il genoma virale e le proteine ad esso associate (Figura 1.1).

L’envelope viene acquisito tramite gemmazione dalla membrana plasmatica delle cellule infettate ed è importante nel determinare il tropismo cellulare del virus e la sua infettività. Da esso emergono le glicoproteine virali di superficie (SU) e transmembrana (TM), entrambe codificate dal genoma virale. La SU è una proteina altamente glicosilata del peso molecolare di 95 kDa (da cui il nome gp95) e rappresenta l’antirecettore virale, che media il legame con il recettore cellulare.

Essa rappresenta inoltre l’antigene che induce la formazione di anticorpi virus-neutralizzanti (VN) ed è quindi un a componente importante per l’induzione di una risposta immunitaria efficace. La TM (gp41) attraversa il doppio strato lipidico dell’ envelope, contiene il dominio di fusione e quindi favorisce la penetrazione della particella virale nella cellula ospite (Manrique et al., 2004).

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Figura 1.1: Virione maturo di FIV

(tratto da eccentrix.com/members/chempics/Slike/Miscellaneous/hiv.jpg , modificata)

All’interno dell’envelope si trova una proteina di matrice (MA), la quale garantisce la corretta incorporazione delle proteine virali di superficie nel virione maturo.

Il capside ha una simmetria icosaedrica ed è formato da numerose unità proteiche, la cui componente principale è la proteina capsidica (CA o p25) che racchiude il genoma, i due filamenti di RNA e le proteine enzimatiche ad esso associate. Tra queste, la reverse transcriptase virale (RT), tipica dei retrovirus, è una DNA polimerasi RNA-dipendente; a differenza delle DNA polimerasi cellulari non possiede l’attività di correzione di bozze ed è quindi la diretta responsabile dell’elevata variabilità genetica di questo gruppo di geni. Tale variabilità favorisce l’evasione dalla risposta immunitaria dell’ospite (Operario et al., 2005).

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Altre proteine enzimatiche sono l’integrasi (IN), che permette l’integrazione del DNA provirale in quello cellulare, la proteasi (PR), responsabile del processamento di alcuni trascritti virali, e la dUTPasi (DU), non presente nei lentivirus dei primati (Lin et al., 2003; Payne and Elder, 2001; Saenz et al., 2004).

1.7 Organizzazione

del

genoma

Il genoma dei retrovirus è costituito da due filamenti di RNA a polarità positiva uniti mediante le estremità al 3’; le due molecole di RNA sono geneticamente identiche, per cui il genoma risulta diploide. Nonostante la polarità positiva, l’RNA non funziona direttamente da messaggero, bensì viene retrotrascritto dalla RT in DNA a doppio filamento, il quale poi si integra nel genoma della cellula ospite.

Il genoma di FIV ha una lunghezza di circa 10 kb e possiede un CAP all’estremità 5’ ed una coda di poli(A) all’estremità 3’.

Come tutti i retrovirus, FIV possiede tre grandi open reading frame

(ORF) che codificano per le tre proteine strutturali, gag, pol ed env (dal 5’ al 3’), fondamentali per il corretto svolgimento del ciclo replicativo. Oltre alle tre ORF principali sono presenti anche altre ORF più piccole, che codificano per proteine con funzioni regolatorie: in HIV ne sono state identificate sei ( vif, vpu, vpr, tat, rev, nef), mentre in FIV ne sono presenti tre, vif, ORF-A e rev

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LTR GAG

POL

VIF ORF-A ENV LTR

REV

RRE

LTR GAG

POL

VIF ORF-A ENV LTRLTR

REV

RRE Figura 1.2: Organizzazione del genoma provirale di FIV

1.7.1 Long Terminal Repeat

Come tutti i retrovirus, il genoma di FIV sottoforma di provirus possiede alle due estremità le long terminal repeats (LTR), che contengono siti regolatori multipli. Esse sono lunghe circa 350 pb e contengono un dominio U3, un dominio R ed uno U5. La regione U3 contiene numerosi siti di legame ad

enhancer e promotori, tra cui i domini AP-1, AP-4 ATF e LBP1; sono inoltre presenti una TATA box ed una CCAAT box (Bigornia et al., 2001).

Le LTR di FIV differiscono da quelle di HIV per il livello di attività basale dei promotori e per la loro capacità di rispondere alla transattivazione virale. I promotori contenuti nelle LTR di HIV, infatti, hanno un basso livello di attività basale ma rispondono in maniera energica alla transattivazione indotta dalla proteina virale Tat (Coiras et al., 2006; Cullen and Greene, 1989; Robinson et al., 2006). Le LTR di FIV, invece, sono più simili a quelle di VMV: i promotori hanno un alto livello di attività basale ma rispondono debolmente a transattivatori virali; infatti, sebbene una sequenza simile a tat sia stata identificata anche nel genoma di FIV, ci sono scarse evidenze riguardo

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all’esistenza di un vero e proprio transattivatore trascrizionale (Mustafa et al., 2005).

1.7.2 Geni strutturali

Gag: il gene gag è localizzato all’estremità 5’ del genoma; esso viene tradotto inizialmente sottoforma di poliproteina delle dimensioni di circa 50 kDa.

La poliproteina è di per sé sufficiente per la formazione di particelle virali immature, infatti è stato dimostrato che l’espressione di Gag in assenza di ogni altra proteina virale determina l’efficiente formazione ed il rilascio di virus-like particles (Kuate et al., 2006).

In concomitanza con la gemmazione del virus dalla membrana della cellula ospite o subito dopo, la poliproteina viene tagliata enzimaticamente dalla proteasi virale per ottenere, dall’estremità amminica a quella carbossilica, la proteina MA, la CA e quella nucleocapsidica (NC).

La proteina MA ha una massa di circa 14 kDa ed è miristilata al livello della glicina in posizione 2; questa caratteristica è comune tra i lentivirus dei primati ma è l’unico caso per quanto riguarda i lentivirus dei non primati e costituisce un segnale per il trasporto della poliproteina verso la membrana plasmatica (Paillart and Gottlinger, 1999). MA forma il rivestimento esterno del core, che è direttamente associato con l’envelope lipidico.

La proteina CA è la componente principale del core del virione maturo e determina la forma icosaedrica del capside.

La proteina NC è situata nel core del virione e riveste le due molecole di RNA. L’incapsidamento selettivo dell’ RNA virale, che deve essere riconosciuto

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all’interno del pool di RNA virali e cellulari, è un processo fondamentale del ciclo vitale di tutti i retrovirus. Il dominio NC del precursore di Gag è cruciale per questo processo (Jewell and Mansky, 2000). E’ stato proposto anche che la proteina NC promuova l’annealing del t-RNA primer al sito di binding sul genoma virale e che faciliti la dimerizzazione dell’RNA genomico (Darlix et al., 1990; Garg et al., 2004).

Pol: la sequenza codificante la proteina Pol si sovrappone per circa 109 nucleotidi a quella per Gag, per questo viene tradotta sottoforma di proteina di fusione insieme a Gag e viene convertita nella forma enzimaticamente attiva durante l’assemblaggio del virus. In seguito Pol viene nuovamente processata da parte della proteasi virale per formare quattro proteine enzimatiche necessarie per la replicazione e l’integrazione del genoma virale: la PR, l’RT, l’IN e la DU (Elder, 1994).

La proteasi (PR) è indispensabile per i taglio dei precursori di Gag e Pol nelle loro rispettive forme enzimatiche attive, inclusa la proteasi stessa.

La transcrittasi inversa (RT) di FIV ha una massa di circa 66 kDa (e per questo è detta anche p66) ed è codificata da una delle regioni più conservate dell’intero genoma virale (Auwerx et al., 2004; Olmsted et al., 1989). Essa consiste di due polipeptidi, p66 e p51, i quali condividono l’estremità ammino-terminale; infatti p51 viene generata in seguito al taglio, effettuato dalla proteasi virale, del dominio con attività di RNAsi H (p15) situato all’estremità carbossilica di p66 (North et al., 1990). L’ RT è un enzima multifunzionale ed è responsabile della conversione dell’RNA genomico a singolo filamento in una molecola di DNA a doppio filamento. Affinché la trascrizione inversa sia possibile sono necessarie sia una attività di DNA polimerasi RNA-dipendente che una di DNA polimerasi DNA-dipendente; infine è necessaria l’attività di RNAsi H per degradare gli ibridi RNA-DNA che si formano durante questi processi. Una delle caratteristiche principali dell’ RT di FIV, ma anche di HIV, è la mancanza dell’attività proof-reading (attività esonucleasica in direzione 3’-5’);

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questo implica la mancata correzione di eventuali nucleotidi errati incorporati durante la trascrizione inversa ed è alla base dell’alta variabilità genetica che consente al virus di eludere le difese immunitarie dell’ospite.

La deossiuridina trifosfatasi (DU) si trova immediatamente a valle dell’ estremità carbossilica della RT. Questa proteina è stata identificata in numerosi lentivirus che infettano non primati, tra cui EIAV, VSV e CAEV ma è assente in quelli che infettano i primati. La sua funzione all’interno del ciclo vitale del virus non è chiara, ma è stato dimostrato che essa catalizza l’idrolisi del dUTP in dUMP, in modo tale che l’uracile non venga incorporato erroneamente nel DNA.

L’integrasi (IN) si trova nella porzione carbossilica della poliproteina Pol ed ha una massa di circa 32 kDa. Con la sua attività endonucleasica consente l’integrazione del DNA provirale nel genoma dell’ospite.

Env: il gene env viene tradotto in una proteina di circa 130 kDa (gp130), che viene successivamente tagliata dalle proteasi del Golgi nelle due glicoproteine di superficie, la SU (gp95) e la TM (gp40). Esse sono fondamentali durante il processo di infezione in quanto mediano la fusione tra la membrana cellulare e quella virale, determinando quindi il tropismo d’ospite del virus, e causano la formazione di sincizi tra cellule sane e infette (Ferri et al., 2000). Queste caratteristiche rendono le glicoproteine i principali bersagli per lo sviluppo di terapie antivirali e vaccini (Garg et al., 2004).

Il gene env codifica anche per il primo esone del gene rev e per un peptide segnale con caratteristiche idrofobiche coinvolto nel corretto processamento e trasporto della glicoproteina SU, dalla quale viene rimosso durante la sua maturazione (Bendinelli et al., 1995).

Questo gene è il meno conservato tra i vari isolati di FIV, tuttavia le mutazioni non sono distribuite in maniera casuale lungo la sequenza, ma sono concentrate in specifici domini, detti domini variabili (V) (Pancino et al., 1993).

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1.7.3 Geni accessori

Oltre alle tre ORF che codificano per le proteine strutturali, nel genoma dei lentivirus sono presenti anche altre piccole ORF che codificano per proteine regolatorie; in FIV ne sono state identificate tre: vif, ORF-A e rev.

Vif: il fattore di infettività virale (vif) è presente nel genoma di tutti i lentivirus escluso EIAV ed è localizzato nella regione centrale, tra i geni pol ed

env; esso viene tradotto in una proteina di 29 kDa che si localizza nel nucleo (Chatterji et al., 2002). Particelle virali generate dall’infezione di cellule con mutanti per vif non si sono dimostrate in grado di infettare linee cellulari CD4 positive, per cui si ritiene che questo gene sia coinvolto nel processo di infezione su determinati tipi cellulari (Tomonaga and Mikami, 1996).

Rev: il gene rev è presente e relativamente conservato in tutte le famiglie di lentivirus. Esso è formato da due esoni: il primo è localizzato nelle regione al 5’ del precursore di env, mentre il secondo si trova immediatamente a valle di questo stesso gene e si sovrappone parzialmente alla LTR al 3’. Il gene dà origine, in seguito a vari eventi di splicing, ad una proteina di circa 23kDa che si localizza nel nucleo delle cellule infette (Chatterji et al., 2000; Phillips et al., 1992).

La funzione di questa proteina è quella di promuovere il trasporto degli mRNA virali non processati dal nucleo al citoplasma e di aumentarne la stabilità (Tomonaga and Mikami, 1996). Gli mRNA su cui Rev esplica la sua azione vengono riconosciuti grazie alla presenza del rev responsive element (RRE), la sequenza di riconoscimento con la quale Rev è in grado di interagire e che si trova all’estremità 3’ del gene env, parzialmente sovrapposta alla LTR (Phillips et al., 1992).

Inoltre l’attività di Rev è fondamentale per stabilire se l’infezione è latente o produttiva (Tomonaga and Mikami, 1996).

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ORF-A: questo gene è posizionato tra vif ed il primo esone di rev e codifica per una piccola proteina di 77 amminoacidi, del peso molecolare di circa 9kDa. La localizzazione all’interno del genoma e le dimensioni della proteina sono simili a quelle del gene tat di altri lentivirus, come HIV e SIV, per cui è stata ipotizzata anche per ORF-A la funzione di transattivatore trascrizionale. In HIV questa si esplica tramite il riconoscimento di particolari strutture stem-loop chimate TAR presenti sugli mRNA virali (Cao et al., 2006). Tuttavia non è stata identificata in FIV nessuna regione simile a TAR (Chatterji et al., 2002; Gemeniano et al., 2003). Numerosi autori (Gemeniano et al., 2003) riportano un debole effetto di ORF-A sull’espressione genica diretta dalle LTR di FIV, per cui si ritiene che questa proteina sia un transattivatore trascrizionale molto più debole di Tat di HIV.

ORF-A si localizza nel nucleo delle cellule infette (Gemeniano et al., 2004) ed è necessaria per una efficiente replicazione del virus in cellule linfoidi IL2-dipendenti e in peripheral blood mononuclear cells (PBMC) (Dean et al., 1999; Waters et al., 1996) così come è critica per una efficiente replicazione virale in vivo (Dean et al., 1999; Pistello et al., 2002). E’ stato dimostrato anche un ruolo negli stadi tardivi del ciclo virale, nella formazione dei virioni e nel determinare la loro infettività (Gemeniano et al., 2003). Studi recenti hanno mostrato anche come l’espressione di ORF-A induca l’arresto delle cellule infette allo stadio G2/M del ciclo cellulare. Tutti questi dati, quindi, suggeriscono che ORF-A sia più strettamente correlata a Vpr di HIV piuttosto che a Tat (Gemeniano et al., 2004).

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1.8 Ciclo vitale e replicazione

Il ciclo replicativo di FIV non è noto in dettaglio tuttavia si ritiene simile a quello di altri lentivirus, in particolare HIV (Figura 1.3).

Figura 1.3 :ciclo replicativo di HIV

(tratta da:

http://www.pharmacy.ummarylamd.edu/courses/PHAR531/lectures_old/hiv_1.htm)

Il primo evento del processo di infezione da HIV è rappresentato dall’ingresso del virus nelle cellule target. Esistono due meccanismi principali che i virus provvisti di envelope lipidico utilizzano per entrare nelle cellule, l’endocitosi pH – dipendente e la fusione diretta con la membrana cellulare. HIV-1 utilizza principalmente la fusione mediata da recettori presenti sulla

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membrana plasmatica, ma esistono evidenze anche al riguardo di un pathway

endocitotico alternativo, che tuttavia si conclude solitamente in una inattivazione o degradazione dei virioni all’interno dei lisosomi (Marechal et al., 2001).

L’ingresso del virus nelle cellule target avviene tramite il legame di proteine virali ad un recettore cellulare; la specificità di questa interazione determina sia il tropismo cellulare che la patogenicità del virus. Per i virus provvisti di envelope il processo si conclude con la fusione delle due membrane, quella virale e quella cellulare, e con l’ingresso del core del virione all’ interno della cellula.

Per HIV questi eventi sono mediati dalle proteine codificate dal gene

env: la subunità di superficie SU e la subunità transmembrana TM. Il primo passo corrisponde al legame di SU con il recettore CD4; tuttavia è stato dimostrato che l’espressione del CD4 da solo non è sufficiente a conferire la suscettibilità all’infezione nell’uomo, bensì è necessaria anche l’interazione con un corecettore. Infatti il legame di SU al CD4 causa un cambiamento conformazionale nella proteina, determinando così l’esposizione dei domini di fusione con la membrana cellulare. Successivamente si ha il legame di TM al suo corecettore; a seconda del tropismo virale, determinato dalle regioni variabili di SU, il corecettore può essere il CCR5 oppure il CXCR4, entrambi recettori per chemochine, (Markovic, 2006; Ray and Doms, 2006). A questo punto inizia la formazione del poro di fusione e il virione penetra all’interno della cellula (Markosyan et al., 2003).

Per quanto riguardo FIV, l’omologo felino del CD4 non sembra essere il recettore primario di infezione, dal momento che la sua sovraespressione non conferisce suscettibilità nei confronti dell’infezione (Norimine et al., 1993). Inoltre nel gatto il recettore CD4 è espresso unicamente dai linfociti T helper e dai loro precursori, mentre non è espresso dalle cellule della linea

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monocito-macrofagica, che sono comunque suscettibili di infezione (Ackley et al., 1990; Willett et al., 2006).

Studi recenti (Shimojima et al., 2004) hanno identificato il CD134 (un membro della famiglia dei recettori del tumor necrosis factor implicato in numerose processi di tipo immunitario) come recettore primario per l’ingresso di FIV. Infatti la sua espressione in cellule feline, ma anche umane stabilmente trasdotte, le rende permissive all’infezione.

Questa proteina, costituita da 270 amminoacidi, sembra che sia espressa principalmente sui linfociti T CD4 positivi (Paterson et al., 1987). Nell’uomo e nel topo, invece, questo recettore è espresso, oltre che su linfociti T CD4 positivi, anche sui CD8 positivi attivati, macrofagi e linfociti B attivati, anche se a livelli più bassi (al Shamkhani, 1996; Willett et al., 2006).

Il pattern di espressione del CD134 felino si accorda con il tropismo di FIV in vivo, dal momento che le cellule T CD4 positive sono i target primari del virus nelle fasi iniziali dell’infezione, mentre in fase cronica l’infezione si riscontra anche nelle cellule T CD8 positive e nei linfociti B.

L’interazione della proteina SU di FIV con questo recettore influenza direttamente anche il pathway di segnalazione fisiologico del CD134, alterando quindi il grado e la specificità della risposta immunitaria dell’ospite (De Parseval, 2004). Per questo motivo, la up-regulation del CD134 in seguito alla sua attivazione può contribuire alla perdita di cellule CD4 positive in soggetti FIV-infetti, causando la diminuzione della risposta immunitaria e la suscettibilità a infezioni opportunistiche (De Parseval, 2004).

Come per HIV, anche per FIV è indispensabile la presenza di un corecettore affinché il virus possa penetrare all’interno delle cellule bersaglio. E’ stato dimostrato che isolati primari e ceppi di laboratorio del virus usano per questo scopo il CXCR4 (Dmitriev et al., 2000; Jackson et al., 2000). Esso è espresso su monociti, linfociti T e B attivati (Willett et al., 2003) ed è fondamentale durante la fase acuta dell’infezione.

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Si ritiene che esista anche un meccanismo di infezione CD134-indipendente, poiché alcuni isolati primari e ceppi di laboratorio possono infettare tramite la sola via mediata dal CXCR4 (Shimojima et al., 2004); questo spiega l’estensione del tropismo del virus negli stadi cronici dell’infezione.

In seguito alla fusione del virus sulla membrana cellulare, l’RNA genomico, associato a proteine virali, viene liberato nel citoplasma. Qui l’RT contenuta nel virione lo copia in una molecola di DNA a doppio filamento con una LTR a ciascuna estremità (provirus).

Si forma il pre-integration-complex, formato da DNA a doppio filamento e da alcune proteine virali, che viene traslocato nel nucleo. L’integrazione del provirus all’interno del genoma dell’ospite è un evento fondamentale per la replicazione di tutti i retrovirus. Questo processo è mediato dall’IN virale e sembra avvenire in maniera casuale lungo l’intero genoma.

Una volta all’interno del genoma dell’ospite, l’LTR funziona da promotore per l’RNA polimerasi II dell’ospite e l’ intero DNA virale viene trascritto in un unico messaggero; questo funzionerà sia da stampo per la traduzione delle proteine virali che da genoma da incorporare nella progenie virale. Le prime proteine ad essere tradotte sono quelle strutturali, del core e dell’envelope

poiché dovranno assemblare la particella virale. L’evento iniziale è rappresentato dalla formazione del complesso proteina NC-RNA genomico tramite il legame della proteina al sito di incapsidamento (Ψ) presente sull’RNA, che in questo modo risulta essere l’unico ad essere inserito nella particella virale.

Successivamente vengono prodotte le proteine SU e TM, che vanno a localizzarsi sulla membrana plasmatica. L’RNA virale viene trasportato anch’esso verso la membrana, presso i siti in cui sono ancorate le proteine Env e qui si ha la formazione del virione maturo.

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1.9 Epidemiologia

Da quando il virus dell’immunodeficienza felina è stato identificato per la prima volta in California nel 1987 (Pedersen et al., 1987), studi sierologici hanno dimostrato la sua presenza in tutto il mondo, con zone a più alta endemia, come il Giappone e l’Australia (Furuya et al., 1990; Levy et al., 2006), e zone con una sieroprevalenza più bassa, come Stati Uniti ed Europa (Braley, 1994; Ueland and Lutz, 1992).

Si ritiene che il gatto rappresenti l’unico serbatoio di infezione di FIV, visto che virus simili, identificati in altre specie di felini, come puma e pantere, hanno una elevata diversità genomica (Lutz et al., 1992; Miller et al., 2006 ).

FIV può essere isolato dal sangue, dal siero, dal plasma, dal liquido cerebrospinale e dalla saliva di gatti infetti sia naturalmente che sperimentalmente (Dow et al., 1990; Yamamoto et al., 1988), ma si ritiene che la modalità predominante di trasmissione dell’infezione sia il morso. E’ possibile anche una trasmissione di tipo venerea tra maschio infetto e femmina non infetta poiché sono state identificate forme replicazione-competenti di FIV nel liquido seminale di gatti infetti (Jordan et al., 1995). Per quanto riguarda la trasmissione verticale, il virus è stato identificato in embrioni abortiti ma non nel latte o nel colostro (Harbour, 1992).

Questi studi hanno dimostrato anche che età e sesso influiscono sulla diffusione dell’infezione. E’ stato visto, infatti, che gli animali più suscettibili hanno un’età compresa tra uno e dieci anni, dopodiché la probabilità di contrarre l’infezione declina notevolmente (Bendinelli et al., 1995). I maschi sono inoltre più a rischio delle femmine, in quanto il loro comportamento più aggressivo li espone maggiormente a morsi e contatti con altri individui (Natoli et al., 2001).

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1.10 Patogenesi

HIV e FIV causano negli ospiti che infettano sindromi simili, caratterizzate da una fase acuta, con sintomi simil-influenzali, seguita da una asintomatica di durata variabile, al termine della quale compaiono infezioni secondarie ed opportunistiche, associate con la severa immunodeficienza provocata dal virus, che conducono il soggetto infetto alla morte.

Il virus può essere rintracciato nell’animale infetto circa tre settimane prima della comparsa delle sindrome simil-influenzale; in questo stadio, gli organi interessati sono quelli linfoidi (timo, midollo osseo, linfonodi, milza e tonsille), mentre solo livelli molto bassi di carica virale possono essere individuati negli organi non linfoidi, come polmoni, fegato, cervello e reni. Questo indica una ampia e rapida disseminazione del virus già negli stadi precoci della malattia.

Il bersaglio principale, nelle prime fasi di infezione, è rappresentato dai linfociti T CD4 positivi, con una percentuale di cellule infette che varia dal 25 al 75%; anche i macrofagi risultano infetti, anche se con percentuali nettamente minori( dal 2 al 10%) (Beebe et al., 1994). Tuttavia il numero di macrofagi infetti aumenta rapidamente durante gli stadi acuti della fase simil-influenzale, fino a rimpiazzare i linfociti T come sito primario di infezione. Questo si ritiene dovuto alla rapida uccisione dei linfociti T infetti, mentre i macrofagi, meno suscettibili all’effetto citopatico del virus, potrebbero essere fondamentali per il persistere dell’infezione nei tessuti (Beebe et al., 1994).

Questi eventi si traducono in un progressivo declino nel numero di linfociti T CD4 positivi circolanti e in un brusco aumento di quelli CD8 positivi, che persiste per tutta l’infezione, portando all’inversione del rapporto CD4/CD8, che è tipico anche dell’infezione da HIV (Willett et al., 1997). Nelle fasi tardive l’infezione si estende anche a linfociti B, astrociti, microglia e cellule dendritiche (Patrick et al., 2002).

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Come per HIV, anche per FIV l’andamento della malattia nell’ospite può essere distinto in quattro stadi.

Stadio uno - fase acuta: questa prima fase d’infezione è caratterizzata da febbre, diarrea, gengiviti, congiuntiviti, neutropenia e linfoadenopatia generalizzata. La gravità di questi primi sintomi varia con l’età: soggetti giovani sviluppano sintomi più marcati rispetto a soggetti più anziani, nei quali però la malattia progredisce più rapidamente (George et al., 1993).

Stadio due - fase di latenza: in questo stadio, il soggetto appare sano, anche se in realtà il virus può essere facilmente isolato dal suo organismo. E’ una fase di durata variabile (anche più di cinque anni) durante la quale tuttavia si ha la diminuzione dei linfociti T CD4 positivi, l’inversione del rapporto CD4/CD8 e una condizione di ipergammaglobulinemia (Barlough et al., 1991). Come nell’uomo, l’età del contagio può influire sulla durata di questo stadio:più bassa è l’età, più è lunga la durata (George et al., 1993).

Stadio tre - linfoadenopatia generalizzata: è caratterizzata da lievi segni di malattia, senza manifestazioni di infezioni opportunistiche. Di solito si riscontrano febbre ricorrente, anemia, perdita di peso, infezioni orali progressive e soprattutto linfoadenopatia generalizzata; può durare da pochi mesi a diversi anni (Hartmann, 1998).

Stadio quattro - sindrome da immunodeficienza: gli animali infetti in questa fase soffrono di numerose infezioni opportunistiche in varie parti del corpo che spesso si dimostrano resistenti al trattamento (Hartmann, 1998); inoltre sviluppano con più facilità tumori (soprattutto linfosarcomi e fibrosarcomi) e disordini neurologici (convulsioni, atassia, disturbi del comportamento).

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1.11 Diagnosi

I sintomi clinici di per sé non sono sufficienti per una diagnosi attendibile. Sebbene il virus sia rintracciabile durante l’intero corso dell’infezione tramite isolamento da plasma o peripheral blood mononuclear cells (PBMC), questo metodo non è tuttavia applicabile a diagnosi di routine (Jarrett et al., 1991). Di solito la diagnosi viene effettuata tramite la rivelazione di eventuali anticorpi presenti nel sangue; nella pratica veterinaria viene usato il test ELISA (enzyme-linked immunadsorbent assay), diretto contro la proteine p25 del core virale.

1.12 Risposta immunitaria

L’infezione di FIV causa nell’ospite l’induzione di una risposta immunitaria sia cellulo-mediata che di tipo umorale; questo contribuisce a tenere sotto controllo l’infezione, come indicato dalla lunga fase di latenza, ma non risulta in grado di eliminare completamente il virus dall’organismo. Inoltre il persistere del virus all’interno di cellule proprie del sistema immunitario causa una progressiva degenerazione delle sue funzioni, lasciando l’ospite privo di difese e quindi esposto ad infezioni opportunistiche, che spesso ne causano la morte (Bendinelli et al., 1995).

Risposta umorale La comparsa di anticorpi specifici contro FIV nel siero di animali infettati sperimentalmente si ha tra le 2 e le 6 settimane dopo l’infezione; la sieroconversione raggiunge un plateau dopo 3-4 mesi e rimane elevata per il resto della vita dell’animale (Bendinelli et al., 1995).

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I primi anticorpi che compaiono sono quelli diretti contro le proteine dell’envelope e del core ed il loro titolo rimane elevato per tutta la vita del gatto (Lombardi et al., 1993; Rimmelzwaan et al., 1994); gli anticorpi diretti contro Gag, invece, compaiono più tardi e continuano ad aumentare fino a 3 anni dall’infezione (Bendinelli et al., 1995).

Sono stati identificati diversi domini responsabili dell’induzione di anticorpi virus-neutralizzanti (VN). I principali sono contenuti nella proteina Env, dal momento che le sue componenti sono coinvolte nell’adesione e fusione alle cellule target. Di particolare importanza sono i domini V di SU e soprattutto la regione compresa tra V3 e V5, che è coinvolta nel tropismo virale e codifica per l’epitopo neutralizzante (Motokawa et al., 2005). Una seconda regione immunodominante è presente nella TM, in una posizione che contiene un motivo strutturale molto conservato in tutti i lentivirus, compreso HIV (Bendinelli et al., 1995).

Risposta cellulo-mediata Sia nell’infezione da HIV che in quella da FIV, questa risposta è dovuta soprattutto all’attivazione dei linfociti T citotossici (CTL).

In seguito all’esposizione con FIV, l’ospite reagisce con una vigorosa risposta CTL virus-specifica che precede la comparsa di anticorpi VN (Beatty et al., 1996; Song et al., 1992) e che è responsabile dell’iniziale diminuzione della carica virale nel plasma (Mooij and Heeney, 2001; Musey et al., 1997). In più, durante gli stadi acuti e asintomatici della malattia, è stata descritta anche l’attivazione di cellule CD8 positive non citolitiche che sopprimono la replicazione virale tramite il rilascio di fattori solubili, con una modalità indipendente dall’uso delle molecole MHC, (Choi et al., 2000; Flynn et al., 1999; Hohdatsu et al., 1998; Jeng et al., 1996). Studi condotti su HIV sono giunti alle stesse osservazioni (Borrow et al., 1994; Koup et al., 1994; Levy et al., 2006) e hanno dimostrato come la perdita di queste attività sia correlata con la progressione della malattia (Mackewicz et al., 1991).

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La distribuzione della risposta CTL varia con il procedere dell’infezione: in gatti infettati sperimentalmente, essa viene riscontrata nel sangue periferico durante i primi stadi (fino circa alle 20 settimane dopo l’infezione), mentre in tempi successivi viene rintracciata soprattutto nei linfonodi e nella milza (Willett et al., 1997). Dal momento che questi siti sono riconosciuti come sedi di sequestro del virus e replicazione virale anche per HIV, si ritiene che la presenza in gatti infetti di attività CTL in questi organi rifletta il tentativo del sistema immunitario dell’ospite di controllare la replicazione del virus (Willett et al., 1997).

Nonostante questa risposta sia robusta e persistente durante l’intero corso della malattia, essa non è comunque in grado di arrestarne la progressione né di impedire l’esito finale. Per quanto riguarda HIV, questo è stato attribuito a diversi fattori, tra i quali si ritiene essere il principale la diminuzione dei linfociti T CD4 positivi. Il tratto distintivo delle infezioni di HIV e FIV è una progressiva diminuzione del numero di linfociti CD4 positivi che causa lo sviluppo di una immunodeficienza acquisita. Studi condotti su HIV hanno dimostrato che l’apoptosi è uno dei meccanismi che contribuisce maggiormente alla perdita di queste cellule (Gougeon et al., 1996). L’apoptosi non risulta correlata con il numero di cellule infette, i livelli di viremia o lo stadio della malattia, ma piuttosto con lo stato di attivazione delle cellule T (Guiot et al., 1997; Tompkins et al., 2002). Un simile meccanismo contribuisce anche alla distruzione dei linfociti CD8 positivi, ma questi, a differenza dei CD4 positivi, vengono regolarmente rimpiazzati, per cui non se ne altera l’omeostasi (Watanabe et al., 1997). Un ulteriore meccanismo che contribuisce alla perdita dei linfociti Th è quello che si riscontra in isolati di HIV con tropismo per il CXCR4. Negli stadi tardivi di infezione questi ceppi inducono la fusione tra le membrane di cellule adiacenti per formare sincizi; queste cellule giganti multinucleate possono essere formate sia da cellule infette che non infette ed

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hanno una vita molto breve, per cui la loro formazione accelera la distruzione cellulare nelle fase avanzate della malattia, (Alimonti et al., 2003).

La perdita di linfociti Th influisce pesantemente sulle funzioni immunitarie, poiché essi sono richiesti per l’attivazione dei meccanismi che portano alla produzione di anticorpi neutralizzanti ma soprattutto perché sono in grado di attivare la risposta CTL. E’ stato dimostrato che, nelle infezioni da HIV e da SIV, la quantità e il pattern di produzione di citochine da parte dei Th è strettamente correlato con lo stato clinico dei pazienti (Gloster et al., 2004; McKay et al., 2003). Infatti soggetti che riescono a mantenere sotto controllo la carica virale mostrano una forte risposta proliferativa di queste cellule ed una robusta produzione di citochine; queste caratteristiche sono correlate con una progressione della malattia più lenta (Gloster et al., 2004; McKay et al., 2003).

Il secondo fattore che influisce sull’efficacia della riposta CTL è una diminuzione nei livelli di espressione della perforina e dell’interferon-γ (IFN-γ) da parte dei linfociti citotossici HIV-specifici, che si accentua col progredire della malattia (Goepfert et al., 2000).

Infine, anche i meccanismi di escape, dovuti alla elevata variabilità genetica del virus, contribuiscono a limitare il controllo della replicazione virale mediato dai CTL (Leslie et al., 2004).

Negli ultimi anni l’importanza della risposta immunitaria cellulo-mediata nel controllo dell’infezione da FIV e da HIV è stata sottolineata da numerosi studi.

Innanzitutto essa può essere rintracciata negli individui affetti prima della comparsa di anticorpi VN ed è associata alla diminuzione iniziale della carica virale (Mooij and Heeney, 2001; Musey et al., 1997).

Inoltre Schmitz e colleghi hanno dimostrato che l’eliminazione dei linfociti CD8 positivi nelle scimmie, tramite anticorpi monoclonali, conduce, in seguito al challenge con SIV, ad un minor controllo della viremia e ad una rapida progressione della malattia; in scimmie cronicamente infette, l’uso di tali

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anticorpi provoca un aumento temporaneo della carica virale per tutta la durata del trattamento (Schmitz et al., 1999).

Una vigorosa risposta CTL virus-specifica è stata dimostrata per gli individui long-term nonprogressor (LTNP) (Greenough et al., 1994; Harrer et al., 1996; Omori et al., 2004). Esiste, infatti, una piccola frazione (5-10%) di individui infetti con HIV capaci di controllare la carica virale, mantenere un adeguato numero di linfociti CD4 positivi circolanti e tutte le funzioni immunitarie e soprattutto di rimanere clinicamente sani per almeno dieci anni in assenza di qualsiasi terapia antivirale (Guadalupe et al., 2003; Paroli et al., 2001; Valdez et al., 2002). E’ stato dimostrato che questi soggetti possiedono livelli di risposta CTL nettamente maggiori rispetto agli altri pazienti cronicamente infetti (Brenchley et al., 2004; Petrovas et al., 2004; Valdez et al., 2002).

La risposta CTL gioca un ruolo cruciale anche nel proteggere dalle nuove infezioni; questo è stato dimostrato negli individui che, pur esposti al virus, mostrano una robusta risposta cellulo-mediata HIV-specifica ma non sviluppano la malattia (Herr et al., 1998; Rowland-Jones et al., 1993).

1.13 Approcci vaccinali contro FIV

Gli approcci utilizzati contro l’infezione di FIV sono molteplici e includono l’utilizzo del virus completo inattivato (whole inactivated virus, WIV), di cellule infette inattivate, di vaccini ricombinanti e a DNA; i risultati ottenuti fino ad ora sono variabili e spaziano da una parziale o completa protezione fino ad un rafforzamento dell’infezione stessa (Elyar et al., 1997).

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Per quanto riguarda l’utilizzo del virus completo inattivato o di cellule infette ma inattivate, la preoccupazione maggiore deriva dalla possibilità di una accidentale infezione dovuta ad una loro incompleta inattivazione. Questo approccio, comunque, è stato il primo ad essere utilizzato contro FIV ed ha portato, nel 1991, al primo successo. Yamamoto e colleghi hanno utilizzato le cellule FL-4, una linea di linfociti T felini IL2-dipendenti cronicamente infette con il ceppo Petaluma, per creare un vaccino che utilizza il virus completo inattivato e uno che invece si basa su cellule infette inattivate come antigeni virali (Yamamoto et al., 1991). Entrambi i vaccini hanno fornito un elevato livello di protezione nei confronti di virus omologhi o leggermente eterologhi cresciuti in vitro (Yamamoto et al., 1993), ma si sono dimostrati incapaci di indurre una significativa immunità nei confronti di ceppi eterologhi o di virus

ex-vivo (Matteucci et al., 1996 ; Pu et al., 2001).

Per superare queste limitazione è stato sperimentato un vaccino che prevede la combinazione di ceppi di FIV appartenenti a due diversi sottotipi, A e D. Esso si è dimostrato in grado di indurre una forte immunità umorale specifica contro FIV e di conferire protezione anche contro ceppi eterologhi fino ad un anno dalla vaccinazione (Omori et al., 2004).

I vaccini ricombinanti, invece, prevedono l’utilizzo di subunità virali (come proteine purificate) o di peptidi sintetici come antigeni immunizzanti; fino ad oggi sono state utilizzate proteine del core, peptidi sintetici contenenti la regione V3 di Env oppure la proteina Env stessa in forma ricombinante (Flynn et al., 1995; Gonin et al., 1995; Lombardi et al., 1994; Verschoor et al., 1996). Questi vaccini sono stati testati contro virus adattati alla crescita in-vitro

e in generale hanno indotto significativi livelli di anticorpi, anche virus-neutralizzanti nel caso di animali vaccinati con subunità di Env. In generale, però, con questo tipo di immunizzazione non si sono ottenuti risultati incoraggianti per quanto riguarda il livello di protezione offerta; essi tuttavia si sono comunque rivelati utili perché hanno comunque permesso di trarre alcune

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importanti osservazioni. Ad esempio, questi studi hanno indicato che la proteina Env da sola non è sufficiente a conferire protezione e che i sistemi ricombinanti usati non sono in grado di produrre le proteine di FIV nella conformazione nativa (Giannecchini et al., 2001).

Un vettore virale utilizzato in trial vaccinali contro HIV è il vettore ALVAC, derivato dal canarypoxvirus (Perkus et al., 1995); i vaccini basati su questo vettore sono considerati sicuri a causa del ristretto spettro d’ospite di questo virus e per la sua incapacità di replicare in cellule di origine non aviaria (Baxby and Paoletti, 1992). ALVAC è stato utilizzato anche in un protocollo di immunizzazione di tipo prime-boost contro FIV (Tellier et al., 1998); i gatti sono stati vaccinati con questo vettore modificato per esprimere Gag ed Env di FIV ed il boost è stato effettuato tramite inoculo di cellule inattivate infette con il ceppo Petaluma. La protezione indotta è stata valutata contro challenge

omologhi e successivamente, nei gatti protetti, contro challenge eterologhi; questo approccio si è dimostrato in grado di indurre una risposta CTL ed umorale protettiva nei confronti di ceppi omologhi e parzialmente protettiva nei confronti di quelli eterologhi anche a distanza di mesi dal boost (Tellier et al., 1998).

1.14 Progetto di vaccinazione in corso presso il Centro

Retrovirus

E’ in fase di sperimentazione un progetto di vaccinazione per FIV diretto contro le glicoproteine virali di superficie e basato su una strategia di tipo

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Il prime consiste nella somministrazione di un plasmide a DNA esprimente env di FIV in combinazione con la citochina granulocyte macrophage colony stimulating factor felina (fGM-CSF), potente adiuvante naturale. La proteina espressa dal plasmide è stata clonata da un isolato primario linfotropico simile a quelli circolanti nell’infezione naturale, con lo scopo di indurre un’immunizzazione proprio verso ceppi primari. Il fGM-CSF è stato scelto soprattutto per le sue capacità di attivazione e proliferazione delle DC, importanti per la presentazione dell’antigene e l’innesco della risposta immunitaria.

Il boost, effettuato con lo scopo di potenziare la risposta cellulo-mediata, consiste nella somministrazione di cellule dendritiche autologhe trasdotte in vitro con un vettore FIV-derivato veicolante env e l’IL 15 felina, la quale viene utilizzata per stimolare il differenziamento e la proliferazione delle cellule effettrici della risposta immunitaria. Le DC trasdotte saranno in grado di essere riconosciute dal sistema immunitario dell’ospite già istruito al riconoscimento di Env.

Figura

Figura 1.1: Virione maturo di FIV
Figura 1.3 :ciclo replicativo di HIV

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