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IL CONTESTO STORICO-CULTURALE DELLA DISPUTATIO

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Academic year: 2021

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(1)CAPITOLO 1. IL CONTESTO STORICO-CULTURALE DELLA DISPUTATIO. La Disputatio contra Acephalos del diacono romano Rustico si colloca nel contesto storico-culturale delle dispute teologiche del VI secolo ed in particolare della questione dei Tre Capitoli. Per comprenderne i contenuti è necessario in primo luogo ricostruire il dibattito teologico all’interno del quale si inserisce, ripercorrendo quindi, almeno nelle linee generali, la storia delle controversie cristologiche del V e VI secolo. Si tratta di contrasti che, come si vedrà, interessarono soprattutto l’Oriente, pur non restando ignoti al mondo latino. Il tramonto del regno dei Goti e la riconquista dell’Italia da parte di Giustiniano, però, contribuirono non poco a riavvicinare, anche dal punto di vista culturale, gli strati più alti della società italica a Costantinopoli, intensificando dei rapporti che, comunque, non erano mai venuti meno del tutto. Sarà opportuno quindi ricostruire anche il contesto storico-culturale dell’Italia del VI secolo, nella quale Rustico visse gli anni della sua formazione, per poter comprendere meglio il retroterra culturale della Disputatio. LE CONTROVERSIE CRISTOLOGICHE FRA V E VI SECOLO Il dibattito teologico del IV secolo era stato dominato dalla controversia ariana e, quindi, dalla discussione sulla Trinità, fino ad arrivare alla definizione del dogma con la dottrina delle tre persone (o ipostasi) e una sola natura. Proprio con questa controversia si era diffusa la prassi di affidare la risoluzione delle divergenze dottrinali al concilio dei vescovi: i primi due concili ecumenici, infatti, definirono la dottrina trinitaria della Chiesa, proclamando a Nicea, nel 325, la consustanzialità del Figlio con il Padre e poi a Costantinopoli, nel 381, la piena divinità dello Spirito Santo. I problemi cristologici erano rimasti invece ai margini della discussione, anche se proprio l’approfondimento dottrinale resosi necessario per rispondere alle questioni poste dagli ariani finì per allargare il dibattito anche all’interpretazione della figura del Cristo. In particolare, la lotta all’arianesimo aveva portato a mettere in evidenza la distinzione delle due nature di Cristo, perché in questo modo quei passi biblici che gli ariani citavano a sostegno dell’inferiorità del Figlio, cioè della sua condizione di 5.

(2) creatura, potevano essere riferiti alla sola natura umana; si poteva sostenere, ad esempio, che, quando Cristo dice: Il Padre è più grande di me (Gv 14, 28), si riferisce alla sua natura umana, evidentemente inferiore alla divinità, e non a quella divina, per la quale quindi resta possibile sostenere la sua assoluta uguaglianza con il Padre. Questa distinzione fra natura umana e natura divina poteva però essere contestata, dato che in molti passi biblici le sofferenze e, in generale, le caratteristiche umane di Cristo sono legate a titoli che sono invece specifici della sua natura divina. Durante la controversia ariana i niceni spiegavano però che, poiché divinità e umanità costituiscono in Cristo una sola persona, è possibile riferire alla natura umana caratteristiche proprie della natura divina e viceversa, senza che questo pregiudichi la piena divinità del Figlio. Questo principio prende il nome di communicatio idiomatum ed ebbe allora una larghissima applicazione1. Come si può vedere, quindi, la controversia ariana aveva posto le basi per il riconoscimento sia di una distinzione in Cristo che della sua indissolubile unità, portando la discussione sul modo in cui unità e distinzione dovessero essere intese. Proprio da questo punto di partenza si sviluppò il dibattito cristologico del V secolo, segnato dai due concili ecumenici di Efeso e Calcedonia, che definirono l’interpretazione di Cristo e della sua incarnazione; e proprio a partire dal contestato concilio di Calcedonia nacquero aspri contrasti all’interno della Chiesa che si protrassero anche nei secoli successivi. L’eresia di Nestorio Nestorio, un monaco di origine antiochena eletto patriarca di Costantinopoli nel 428, si pronunciò contro l’uso del titolo tradizionale di ‘Madre d i Dio’ ( THRWRYNR) per Maria. La sua predicazione suscitò vive polemiche sia perché era sentita come un rifiuto a tributare il dovuto onore alla Vergine, sia, soprattutto, a causa dell’interpretazione della figura del Cristo che sembrava essere alla base di questo rifiuto2. Il vescovo di Costantinopoli era stato probabilmente indotto a questo passo dal suo zelo nella lotta all’eresia, rivolto in particolare contro apollinaristi e ariani 3: i primi sostenevano che nell’incarnazione divinità e umanità si fosse ro unite in modo che il Logos svolgesse le funzioni che nell’uomo competono all’anima, per cui il Cristo non 1. Cf. Grillmeier 1982, I, 1, pp. 457-92. Cf. Scipioni 1974, pp. 63-93. 3 Per l’impegno di Nestorio nella lotta contro queste eresie cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 828 -31. 2. 6.

(3) avrebbe avuto un’anima umana 4; gli ariani, invece, come si è detto, ritenevano che il Figlio fosse una creatura, anche se la prima delle creature, negandone quindi la piena divinità. Per quanto queste eresie fossero diverse, è stato possibile per gli studiosi moderni riconoscere nell’arianesimo e nell’apollinarismo dei legami profondi e, probabilmente, delle origini comuni5, ma già ai tempi di Nestorio il problema emerse in qualche modo: se il Verbo costituisce l’anima di Cristo, infatti, evidentemente il Verbo è legato così strettamente alle vicende della carne che si può dire a buon diritto, ad esempio, che è nato da Maria (e ad essa spetta legittimamente, quindi, il titolo di ‘Madre di Dio’), ma anche che è stato soggetto a passione e mutamento; un linguaggio del genere, però, poteva portare a svalutare la piena divinità del Verbo, ricadendo nell’arianesimo. Per evitare fraintendimenti, dunque, Nestorio pensò che il termine THRWRYNR dovesse essere evitato, affermando che propriamente si poteva parlare della Vergine solo come ‘Madre di Cristo’; Cristo, infatti, era per lui il nome più preciso per indicare il Logos incarnato6. Questa distinzione procurò al patriarca di Costantinopoli un’accusa di eresia, perché sembrava che la sua dottrina introducesse una divisione in Cristo, fino a parlare di due persone e quindi di due figli e due cristi. La situazione si aggravò quando intervenne nella discussione Cirillo, il patriarca di Alessandria, che coinvolse nella questione anche la sede romana e la corte imperiale: a questo punto, infatti, nella controversia entrarono anche questioni di prestigio e di potere fra le sedi di Costantinopoli e di Alessandria, che impedirono una valutazione serena del problema e fecero sì che si diffondesse una interpretazione tendenziosa e arbitraria della predicazione di Nestorio, che traeva anche delle conclusioni estranee al suo pensiero7. Cirillo mostrò molta abilità nel presentarsi come difensore dell’ortodossia, screditando invece l’avversario: il patriarca di Alessandria infatti fece un uso sapiente di argomenti efficaci, di grande presa sull’uditorio, presentando Nestorio non solo come un avversario della Vergine, per il suo rifiuto del titolo di 4. Sul pensiero di Apollinare cf. Grillmeier 1982 I, 1, pp. 607-25. Per i legami concettuali fra apollinarismo e arianesimo cf. Grillmeier 1982 I, 1, p. 609: «Anche se l’apollinarismo è, nel tempo, posteriore all’arianesimo, la relazione interna fra i due sistemi esige, per c osì dire, che l’ordine cronologico sia invertito. Potrebbe darsi benissimo che la cristologia proceda dall’apollinarismo all’arianesimo, ma non viceversa. L’arianesimo non è che lo sviluppo dei principi fondamentali dell’apollinarismo. La nozione apollinar ista dell’unione vitale fisica del Logos con la sarx contiene già il germe di quell’attentato alla trascendenza del Logos che l’arianesimo avrebbe adottato sistematicamente. Lo schema Logos-sarx rigoroso, che fa del Logos l’anima di Cristo, tende necessariamente alla svalutazione ariana del Logos». 6 Grillmeier 1982, I, 2, pp. 831-35. 7 Per una ricostruzione del pensiero di Nestorio e delle vicende storiche che fecero sì che fosse travisato e falsato cf. Scipioni 1974, pp. 93ss.; cf. anche Grillmeier 1982, I, 2, pp. 823-7. 5. 7.

(4) ‘Madre di Dio’, ma anche come un nuovo Ario, inteso a negare la piena divinità di Cristo, come se per il fatto che Nestorio non trovava corretto il titolo ‘Madre di Dio’ si potesse trarre la conseguenza che per lui Cristo non fosse Dio8. A mantenere alta la tensione contribuirono, comunque, anche fattori più strettamente dottrinali, legati a incomprensioni terminologiche e a divergenze in ambito strettamente teologico, determinate dall’appartenenza dei contendenti a due diverse scu ole: quella antiochena, a cui faceva riferimento Nestorio e quella alessandrina di cui Cirillo era erede; del resto la terza lettera di Cirillo a Nestorio si concludeva con la condanna di dodici proposizioni di contenuto cristologico (gli anatematismi), costruita per colpire non solo Nestorio, ma l’intera tradizione antiochena 9. Il concilio di Efeso L’imperatore Teodosio II convocò quindi un concilio ad Efeso per il giugno del 431; il clima nel quale si svolse il concilio fu tutt’altro che sereno e furono commesse gravi irregolarità. Cirillo di Alessandria, infatti, appoggiato dal vescovo di Efeso, Memnone, che sperava di ottenere in questa sede il riconoscimento dell’autonomia della sua diocesi da Costantinopoli, fece iniziare i lavori prima dell’arrivo d ella delegazione di Antiochia, che avrebbe appoggiato Nestorio, e fece condannare e deporre il patriarca di Costantinopoli. Al loro arrivo, Giovanni di Antiochia e i suoi vescovi denunciarono l’illegalità dell’operato di Cirillo e Memnone e li deposero. Te odosio II in un primo momento riconobbe tutte le condanne, ma solo Nestorio prese la via dell’esilio, mentre per Cirillo e Memnone la deposizione non ebbe alcun effetto10. Anche dopo la conclusione del concilio la tensione con gli antiocheni rimase alta; la situazione si sbloccò solo nel 433, sostanzialmente con un compromesso, con la stesura di un documento comune, la ‘Formula di unione’: gli antiocheni, infatti, accettarono la deposizione di Nestorio e si pronunciarono a favore dell’uso del termine THRWRYNR, pur 8. L’abilità di Cirillo nel presentarsi come campione dell’ortodossia, come un nuovo Atanasio contro un nuovo Ario (paradossalmente, dato lo zelo antiariano del patriarca di Costantinopoli), anche grazie ad una retorica appassionata e di grande impatto sul pubblico, è stata messa in evidenza da Wessel 2004, pp. 213-235. 9 I dodici anatematismi di Cirillo suscitarono, in effetti, grande preoccupazione ad Antiochia, tanto che il patriarca Giovanni li fece immediatamente confutare da Teodoreto di Ciro, il suo più brillante teologo, e da Andrea di Samosata (Grillmeier 1982, I, 2, pp. 883-96); gli sviluppi successivi della controversia dimostrano che la questione della cristologia di Cirillo era considerata più grave della stessa vicenda di Nestorio, visto che nel 433, quando Cirillo rinunciò di fatto agli anatematismi, gli antiocheni accettarono la legittimità del titolo THRWRYNR e la deposizione del patriarca di Costantinopoli (sul peso degli anatematismi nello scontro fra Alessandria e Antiochia cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 883-5). 10 Scipioni 1974, pp. 205-46.. 8.

(5) con delle precisazioni volte ad impedirne ogni possibile interpretazione eretica; Cirillo11 riconobbe l’ortodossia della teologia antiochena e attenuò le formulazioni più estreme del suo pensiero cristologico, lasciando cadere di fatto gli anatematismi, anche se non li ritirò mai ufficialmente come invece, inizialmente, i suoi avversari avevano chiesto12. L’ eresia di Eutiche Nel 448, a Costantinopoli, il vescovo Eusebio di Dorileo accusò l’anziano e rispettato monaco Eutiche di aver sostenuto che Cristo è di una sola natura e non è della stessa sostanza dell’uomo. Durante il processo 13, presieduto dal patriarca Flaviano, i sospetti sulla sua ortodossia si rivelarono fondati: invitato, infatti, ad ammettere che Cristo fosse ‘da due nature’ (quella uma na e quella divina), egli sostenne di credere che Cristo fosse da due nature prima dell’unione, ma che dopo l’unione, in accordo con l’insegnamento di Cirillo di Alessandria, non si potesse parlare che di una sola natura14; per quanto riguarda la consustanzialità con l’uomo, Eutiche si dimostrò piuttosto reticente nelle sue risposte, ma sembrò sostanzialmente negarla15. Il procedimento si concluse, di conseguenza, con una condanna per eresia16. Dopo il processo, l’anziano monaco continuò a difendere il suo pun to di vista e inviò molte lettere a diverse personalità laiche ed ecclesiastiche, cercando di interessarle al suo caso. Poiché aveva amicizie influenti a corte ed era appoggiato da una parte rilevante del clero, in particolare da Dioscoro, il successore di Cirillo, morto nel 444, ottenne che la sua condanna fosse riesaminata in un concilio, che si tenne ad Efeso nel 44917. I lavori furono dominati dal patriarca di Alessandria che non solo fece riabilitare Eutiche, ma condannò e depose Flaviano di Costantinopoli, che morì sulla via 11. Particolarmente importante è la lettera che in questa circostanza Cirillo scrisse a Giovanni di Antiochia; si tratta dell’epistola 39, comunemente indicata come Laetentur, dal versetto citato nell’apertura della lettera, Sal 96, 11 (la lettera si legge in ACO I, I, 4, pp. 17-19); questo testo infatti ebbe grande fortuna, in seguito, fra i teologi calcedonesi che lo usarono per dimostrare l’accordo di Cirillo con la cristologia difisita (cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 898-901). I monofisiti invece consideravano le posizioni espresse in questa lettera una semplice concessione agli antiocheni che non poteva essere considerata espressione del genuino pensiero cirilliano. Sull’argomento si so fferma anche Rustico, che cita più volte questa lettera (cf. in particolare 1174A-1176C); l’argomento sarà trattato in modo più approfondito nel capitolo “La confutazione dell’eresia monofisita nella Disputatio”. 12 Scipioni 1974, pp. 246-62; Grillmeier 1982, I, 2, pp. 897-901. 13 Gli atti si leggono in ACO II, I, 1, pp. 100-145. 14 0LYDIXYVL, da cui il nome di monofisismo dato dai moderni a questa eresia. 15 La formula cristologica di Eutiche e i suoi rapporti con il pensiero di Cirillo di Alessandria saranno analizzati in modo più dettagliato nel capitolo “La confutazione dell’eresia monofisita nella Disputatio”. 16 Cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 929-32. 17 Questi fatti sono trattati da Evagrio Scolastico, Historia Ecclesiastica I, 9-10 (J. Bidez - L. Parmentier edd., London 1898); cf. anche Grillmeier 1982, I, 2, pp. 933-7.. 9.

(6) dell’esilio, Eusebio di Dorileo e i principali esponenti della teologia antiochena. I legati inviati da Roma in aiuto di Flaviano non riuscirono neppure a leggere il documento loro affidato, il cosiddetto Tomus ad Flavianum, nel quale il papa Leone condannava con decisione le proposizioni di Eutiche. Il papa, di conseguenza, non riconobbe l’operato del concilio e definì la tumultuosa riunione un ‘brigantaggio’ 18. Il concilio di Calcedonia e le discussioni successive La vittoria di Dioscoro sembrava assoluta, ma dopo la morte di Teodosio II, avvenuta nel 450, la situazione cambiò radicalmente: il potere passò a Marciano (450-57), marito di Pulcheria, una sorella di Teodosio II, e in questo delicato momento fu giustiziato Crisafio, il più potente protettore di Eutiche a corte. Le circostanze erano favorevoli perché la questione fosse riesaminata e Marciano convocò a questo scopo un concilio a Calcedonia per il 45119. Qui la linea di Roma, anche grazie all’appoggio dell’imperatore, si imp ose: fu ribadita la condanna di Eutiche, i vescovi condannati due anni prima furono riabilitati e Dioscoro fu deposto ed esiliato. Sul piano dottrinale, il concilio riconobbe Cristo in due nature, consustanziale a Dio e all’uomo, in una sola persona20, adottando come punti di riferimento il Tomus ad Flavianum, la Formula di Unione del 433 e la dottrina di Cirillo privata delle sue punte più estreme (gli anatematismi)21. Le conclusioni del concilio non misero, però, fine alla controversia, ma suscitarono al contrario dissensi e persino disordini: Giovenale di Gerusalemme, ad esempio, al suo ritorno in Palestina fu messo sotto accusa da una parte del clero e dei monaci per aver sottoscritto le conclusioni del concilio22. Ancora più grave era la situazione dell’Eg itto, dove il nuovo patriarca, il filocalcedonese Proterio, si manteneva al suo posto solo grazie all’esercito, tanto che alla morte di Marciano fu linciato e al suo posto fu eletto un vescovo monofisita, Timoteo Eluro (457-77). Il nuovo imperatore, Leone (457-74), 18. «in illo Ephesino non iudicio sed latrocinio», Ep. 95 ad Pulcheriam Aug., del 20 Luglio 451; ACO II, 4, 51, citato da Grillmeier 1982, I, 2, p. 936. 19 Cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 937-8. 20 Nella formula di Calcedonia, infatti, si legge: «ØESRYPHQRLWRLYQXQWRL DMJLYRLSDWUDYVLQH`QDNDL WRQDXMWRQR-PRORJHL QXL-RQWRQNXYULRQK-PZ QM,KVRX Q&ULVWRQVXPIZYQZD^SDQWHHMNGLGDYVNRPHQ WHYOHLRQ WRQ DXMWRQ HMQ THRYWKWL NDL WHYOHLRQ WRQ DXMWRQ HMQ DMQTUZSRYWKWL THRQ DMOKTZ  NDL D>QTUZSRQDMOKTZ WRQDXMWRQHMN\XFK ORJLNK NDL VZYPDWRR-PRRXYVLRQWZ LSDWUL NDWD WKQ THRYWKWDNDLR-PRRXYVLRQK-PL QWRQDXMWRQNDWDWKQDMQTUZSRYWKWD H`QDNDLWRQDXMWRQ&ULVWRQ XL-RQ NXYULRQ PRQRJHQK  HMQ GXYR IXYVHVLQ DMVXJFXYWZ DMWUHYSWZ DMGLDLUHYWZ DMFZULYVWZ JQZUL]RYPHQRQ» (ACO II, I, 2, pp. 129-30). 21 Per un’analisi delle conclusioni del concilio cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 955 -81. 22 Evagrio Scolastico, Hist. Eccl. II, 5 pp. 52-3.. 10.

(7) in questa difficile situazione si mosse con prudenza, chiedendo, prima di prendere qualunque decisione, il parere dei vescovi sugli avvenimenti di Alessandria e sul concilio di Calcedonia; solo quando si fu accertato che i pareri erano per la maggior parte di pieno sostegno alla formula del concilio e di condanna per l’assassinio di Proterio decise di esiliare Timoteo Eluro23. Una nuova crisi si verificò nel 475, quando un usurpatore, Basilisco24, cercò di togliere il regno al nuovo imperatore, Zenone (474-91); visto che fino a quel momento la politica imperiale era stata sostanzialmente filocalcedonese, Basilisco pensò di appoggiarsi ai monofisiti, per cui richiamò dall’esilio Timoteo Eluro ed emanò un documento, l’ Enkyklion25, che condannava le conclusioni di Calcedonia. Il suo tentativo, però, fallì, soprattutto a causa dell’opposizione del patriarca di Costantinopoli, legato al concilio per motivi non solo dottrinali, ma anche perché in quella sede si era sancito che la posizione del patriarcato della capitale era inferiore solo a quello di Roma, mettendo dunque Alessandria e gli altri patriarcati in una condizione gerarchicamente inferiore. Basilisco dovette, quindi, capovolgere la sua politica ed annullare l’ Enkyklion, ma non riuscì comunque a mantenere il potere e nel 476 Zenone tornò sul trono26. L’ampio consenso che aveva comunque suscitato la politica anticalcedonese dell’usurpatore spinse però l’imperatore a cercare un compromesso che potesse accontentare entrambe le fazioni; a questo scopo promulgò l’Editto di Unione (Henotikon)27. L’editto, che rimase fino alla sua abrogazione, avvenuta sotto l’imperatore Giustino, il punto di riferimento per la politica religiosa dell’impero, riconosceva come punto di riferimento per la retta fede le formule di Nicea e Costantinopoli, riconosceva come valido il primo concilio di Efeso (e non anche il secondo, come volevano i monofisiti), anatematizzava Nestorio e Eutiche e tutti i loro seguaci (senza però fare nomi) e concludeva anatematizzando «SDYQWDGH WRQH^WHURYQ WL IURQKYVDQWD K@ IURQRX QWD K@ QX Q K@ SZYSRWH <K@> HMQ &DONHGRYQL K@ HMQ RL-DLGKYSRWHVXQRYGZLDMQDTHPDWLY]RPHQ»28; i toni erano volutamente vaghi e sfumati per ottenere il più largo consenso possibile; in effetti ci furono molte adesioni, ma le frange 23. Per queste notizie storiche cf. Frend 1972, pp. 154-163. Questo personaggio, legato da vincoli di parentela con la famiglia imperiale, comandò la spedizione del 468 contro i Vandali (cf. Frend 1972, p. 166). 25 Il testo è edito da Schwartz, Publizistische Sammlungen zum acacianischen Schisma, München 1939, pp. 49-51. 26 Per questi avvenimenti cf. Frend 1972, pp. 169-72. 27 Sulla politica religiosa di Zenone cf. Frend 1972, pp. 174-81. 28 Il testo si legge in Schwartz, Publizistische Sammlungen zum acacianischen Schisma, pp. 52-4. 24. 11.

(8) più estremiste dei monofisiti rifiutarono ogni compromesso e, soprattutto in Egitto, negli ambienti monastici l’opposizione al concilio rimase ferma e accesissima 29. L’ Henotikon fu condannato anche da Roma, ma si deve tenere presente a questo proposito che in questa decisione entrarono problemi di carattere disciplinare più che dottrinale; il patriarca di Costantinopoli Acacio, infatti, si era riconciliato con il patriarca di Alessandria, Pietro Mongo, non appena questi ebbe sottoscritto l’Editto di Unione, senza preventivamente interpellare Roma, che si ritenne così scavalcata in una questione che considerava di sua competenza30. Si arrivò ad una netta rottura e fra il 484 e il 519, quindi, Oriente e Occidente rimasero divisi dal cosiddetto ‘scisma acaciano’, così chiamato dal nome del patriarca di Costantinopoli. Il successore di Zenone, Anastasio (491-518), in ambito religioso condusse inizialmente una politica improntata alla moderazione, tesa a mantenere tranquilla la situazione e ad allentare il più possibile la tensione, tanto che quando a Roma fu eletto vescovo il conciliante Anastasio II (496-98) la fine dello scisma sembrò vicina; la morte del pontefice segnò però ben presto la fine delle trattative31. Gli anni successivi furono caratterizzati da un’intensa attività da parte dei monofisiti, soprattutto grazie alla presenza nelle loro file di grandi personalità come, ad esempio, il teologo Severo di Antiochia (465-538) che si richiamava al pensiero di Cirillo di Alessandria, il cui spirito, a suo avviso, era stato tradito dal concilio di Calcedonia32. La sua predicazione a Costantinopoli, fra il 508 e il 511, generò dei dissensi con il patriarca Macedonio (496511), che portarono alla deposizione e all’esilio di quest’ultimo, ritenuto troppo filocalcedonese, pur avendo sottoscritto l’Editto di Unione; evidentemente questo documento non costituiva più il punto di riferimento privilegiato dell’ortodossia 33. A partire dal 511, in effetti, si può parlare di una vera e propria svolta nella politica imperiale in favore dei monofisiti: oltre a quello di Costantinopoli, infatti, anche il patriarca di Antiochia, fedele all’ Henotikon, fu deposto per gli stessi motivi e sostituito da Severo34; questa linea di condotta, però, non mancò di causare disordini e rivolte.. 29. Gli esponenti più radicali del movimento monofisita, infatti, avrebbero voluto una condanna esplicita del concilio di Calcedonia, ma Zenone non acconsentì, come si legge in Evagrio Scolastico, Hist. Eccl. III, 22. 30 Cf. Frend 1972, pp. 182-3. 31 Cf. Frend 1972, pp. 197-200. 32 Su Severo di Antiochia e il suo ruolo nella storia di questo periodo cf. Frend 1972, pp. 201-20. 33 Cf. Frend 1972, pp. 216-18. 34 Cf. Frend 1972, pp. 219-20.. 12.

(9) La politica religiosa di Giustiniano Alla morte di Anastasio vi fu una svolta netta nella politica religiosa: il nuovo imperatore, Giustino (518-27), infatti, non appena pese il potere, si orientò su una linea di assoluta fedeltà a Calcedonia e di accordo con la sede romana, ponendo fine allo scisma acaciano: a questo scopo l’Editto di Unione fu abrogato, furono condannati gli imperatori Zenone e Anastasio, il patriarca Acacio e i suoi successori; furono prese, inoltre, severe misure contro i monofisiti, come, ad esempio, l’esilio inflitto a Severo di Antiochia35. Le ragioni di questa scelta così radicale sono probabilmente molteplici: si deve considerare in primo luogo che Giustino proveniva dall’Illiria, una regione, cioè, dove il monofisismo era praticamente sconosciuto, per cui le sue opinioni in campo religioso andavano naturalmente verso un atteggiamento filo-calcedonese; a queste motivazioni personali si aggiungevano inoltre altre considerazioni di natura politica: il difisismo calcedonese era innanzitutto maggioritario a Costantinopoli e il consenso della popolazione della capitale era necessario agli imperatori per scongiurare il rischio di pericolose rivolte; del resto il canone 28 di Calcedonia aveva sancito il primato di Costantinopoli sugli altri patriarcati orientali, per cui il prestigio della città era strettamente legato all’autorità del concilio; non si deve dimenticare, infine, che il disegno di ricostituire l’unità dell’Impero riprendendo il controllo delle regioni occidentali rendeva auspicabile l’instaurarsi di buoni rapporti con la sede romana, al fine di ottenere il suo appoggio e, dunque, per suo tramite, l’appoggio dell’opinione pubblica36. Una politica così strettamente filo-calcedonese, però, era difficile da portare avanti, se si considera che la dottrina monofisita aveva una larghissima diffusione in Oriente, per cui si rese necessario ben presto trovare una base comune d’intesa sulla quale potessero trovarsi d’accordo gli elementi moderati di entrambi gli schieramenti. A questo f ine già in quegli anni si disponeva ad operare Giustiniano (imperatore dal 527 al 565), nipote e successore designato di Giustino, che collaborava strettamente con l’imperatore nell’elaborazione della sua politica religiosa. Egli accordò dunque il suo appo ggio ad un gruppo di monaci sciti che, pur accettando le conclusioni del concilio di Calcedonia, per evitare ogni possibilità di interpretarle in senso nestoriano, le integravano con la. 35 36. Frend 1972, pp. 234-54. Così Simonetti 1985 bis, pp. 99-100.. 13.

(10) formula di ascendenza cirilliana unus de Trinitate passus carne37, per cui la loro dottrina fu detta ‘teopaschita’. Questa espressione presentava il vantaggio di sottrarre il pensiero del patriarca di Alessandria, anche nelle sue formulazioni più estreme38, ai monofisiti e di accentuare i concetti della centralità del Verbo e dell’unità di Cristo, in modo da evitare le accuse di nestorianismo che erano spesso mosse ai calcedonesi. I monaci sciti cercarono di ottenere il riconoscimento della loro formula prima a Costantinopoli e poi in Occidente e a questo scopo alcuni di loro nel 519 si recarono a Roma. Il loro viaggio, però, non portò ad alcun risultato, perché il papa Ormisda, dopo qualche esitazione, rifiutò di accettare la loro formula, non perché eretica, ma perché introduceva delle novità inutili, visto che i decreti del concilio di Calcedonia erano pienamente sufficienti per l’ortodossia e non necessitavano di alcuna ulteriore precisazione39. Giustiniano comunque rimase legato a questa formula, che rispecchiava il suo pensiero e rispondeva ai suoi intenti, e la riprese ufficialmente alcuni anni più tardi, una volta divenuto imperatore. Pur nelle sue oscillazioni è possibile trovare una coerenza di fondo nella politica religiosa di Giustiniano. Il suo principale obiettivo era la costruzione di un impero unito e coeso e, come avveniva già dai tempi di Costantino, egli riteneva che questa unità dovesse basarsi sulla dottrina cristiana ortodossa e sull’appartenenza ad un’unica Chiesa. Potere religioso e potere politico, infatti, nella sua ottica sono sì distinti, ma emanano comunque entrambi dalla medesima volontà divina e sono per questo inscindibili. I doveri dell’imperatore vanno quindi al di là dell’amministrazione dello stato; infatti, poiché il benessere dell’impero deriva dal favore della divinità, è suo dovere assicurarsi che a Dio sia riservato il giusto culto, per cui egli può e deve intervenire sia tutelando l’autorevolezza del clero intervenendo nella disciplina della Chiesa sia sostenendo l’ortodossia. A differenza però dei suoi predecessori, Giustiniano non operò solo tramite interventi legislativi, ma entrò anche personalmente nel dibattito in corso, con una sua sintesi dottrinale che si sforzò di imporre in tutto l’Impero. Il suo intento, come già aveva dimostrato appoggiando la formula teopaschita, era quello di favorire l’affermazione di una cristologia che conciliasse la dottrina calcedonese con il pensiero cirilliano più 37. Una sintesi del pensiero dei monaci sciti si trova nel documento che essi a Roma presentarono al papa, che si legge in ACO IV, 2, pp. 3-10. 38 Questa formula sembra essere legata, infatti, al dodicesimo anatematismo: «(L> WL RXMF R-PRORJHL  WRQ WRX  THRX  ORYJRQ SDTRYQWD VDUNL  DMQDTHYPD H>VWZ» (ACO I, I, 1 p. 42); il dodicesimo anatematismo, in effetti, è citato nel Libellus fidei dei monaci sciti, cf. ACO IV, 2, p. 8. 39 Cf. Frend 1972, pp. 244-47.. 14.

(11) estremo, al quale si richiamavano i monofisiti, un orientamento che i moderni chiamano ‘neocalcedonismo’. La memoria di Cirillo era infatti molto venerata in Oriente ed il suo pensiero teologico era considerato da molti specialmente (ma non solo) di parte monofisita come il punto di riferimento fondamentale per l’ortodossia in campo cristologico. Rispetto alla formula di Calcedonia, la cui correttezza non veniva comunque messa in discussione, questa corrente prendeva come base per l’ortodossia l’opera di Cirillo nel suo complesso, compresa dunque la seconda lettera a Nestorio con i dodici anatematismi, mentre il concilio aveva approvato ufficialmente solo la prima delle lettere a Nestorio e, in generale, aveva fatto proprie solo le formulazioni difisite del vescovo di Alessandria40. A questo punto le differenze fra i neocalcedonesi e i monofisiti moderati come Severo di Antiochia diventavano molto sottili e si riducevano ad una questione soprattutto terminologica, riguardante la correttezza dell’uso del termine ‘natura’ per l’umanità di Cristo, sostenuta dai calcedonesi e rifiutata dai monofisiti41. In questo senso la politica di Giustiniano era volta, dunque, alla ricerca di un compromesso che potesse permettere di ricomporre le lacerazioni all’interno della Chiesa come già era accaduto con l’ Henotikon di Zenone; il metodo scelto era però molto diverso. Mentre l’Editto di Unione aveva ricercato il compr omesso tramite il silenzio su Calcedonia e una voluta ambiguità nella formulazione che ne facesse un testo accettabile per tutte le parti in causa, Giustiniano scelse di affrontare il problema dell’accettazione del concilio e di promuovere un approfondimen to religioso che sviluppando e interpretando il dogma calcedonese ne rendesse possibile la condivisione da parte di entrambi gli schieramenti, recuperando all’unità della Chiesa almeno la parte più moderata dei monofisiti42. In realtà, però, il tentativo di Giustiniano non ebbe più successo di quello di Zenone: il conflitto infatti non era più solo di natura teologica, ma traeva alimento anche da circostanze esterne al dibattito dottrinale vero e proprio. Intanto, si deve considerare che negli anni successivi al concilio di Calcedonia si era verificata una progressiva polarizzazione delle rispettive posizioni che si erano irrigidite nell’accettare in toto o nel rigettare completamente le decisioni del concilio; l’intransigenza era alimentata in campo calcedonese soprattutto dalla Chiesa latina e in particolare dalla sede romana che rimasero sempre rigorosamente contrarie a qualunque tentativo di revisione del concilio, 40. Cf. Simonetti 1985 bis, pp. 103-104. Cf. Simonetti 1985 bis, p. 102. 42 Così Gray 1979, pp. 78-79. 41. 15.

(12) mentre in campo monofisita l’avversione nei confronti di qualunque tentativo di compromesso era in molti casi anche una spinta dal basso, che partiva dai monaci e dalla loro capacità di mobilitare grandi masse popolari. Del resto, in molte regioni dell’impero, in particolare in Egitto, il monofisismo si confondeva con il particolarismo culturale e con una certa insofferenza nei confronti del potere imperiale43. Non intervenendo su questi fattori, Giustiniano non ebbe successo nel suo tentativo di ricostituire l’unità della Chiesa; si è anzi osservato che durante il suo regno, per contrasto, finirono per costituirsi delle forti identità regionali all’interno della Chiesa 44, con l’effetto dunque di approfondire, invece che ridurre, i contrasti e le divisioni. La questione dei Tre Capitoli Su questa stessa linea di compromesso si poneva la condanna, con un editto del 544, della persona e l’opera di Teodoro di Mopsuestia, di alcuni scritti di Teodoreto di Cirro e dell’ Epistola a Mari di Ibas di Edessa. Non è possibile in questa sede tracciare che un profilo assai schematico dei personaggi colpiti dalla condanna di Giustiniano, tanto più che nell’opera di Rustico alla vicenda non sono dedicati che pochi cenni; questa del resto non è una caratteristica isolata all’interno del panorama delle opere polemiche destinate alla difesa dei Tre Capitoli: tutti comprendevano infatti come la posta in gioco fosse ben più alta della condanna postuma di tre personaggi che in fondo, almeno in Occidente, non erano che imperfettamente conosciuti45, mentre il vero problema erano le conseguenze alle quali essa poteva portare. Si temeva infatti che questa iniziativa preludesse ad un’apertura dottrinale nei confronti dei monofisiti o, comunque, ad un tentativo di rimettere in discussione il concilio di Calcedonia. Molti vescovi, inoltre, non apprezzavano la politica di pesante intervento di Giustiniano nelle questioni religiose, che appariva loro come un’indebita usurpazione di prerogative che dovevano restare esclusivo appannaggio del clero. Il personaggio di maggior peso fra i Tre Capitoli fu Teodoro di Mopsuestia, importante 43. Cf. Gray 1979, pp. 73-77. Cf. Markus 1985, pp. 113-124. 45 Lo stesso Facondo di Ermiane, la cui monumentale Defensio è probabilmente lo scritto più documentato e meglio informato sulla questione e che per questo costituì un punto di riferimento imprescindibile per le opere successive, probabilmente, ad esempio, non aveva una conoscenza diretta delle opere di Teodoro, ma leggeva i passi che cita nella sua opera nell’ Apologia pro Diodoro et Teodoro di Teodoreto; cf. Abramowski L., Reste von Theodorets Apologie für Diodor und Theodor bei Facundus, in Studia Patristica 1 (1957), pp. 61-69. 44. 16.

(13) esegeta e teologo di scuola antiochena, vissuto fra il 350 circa e il 428, autore di commenti alla Scrittura e di trattati teologici dedicati alla confutazione delle eresie più diffuse ai suoi tempi; tutte queste opere sono conservate solo in parte. Nell’ese gesi dell’Antico Testamento privilegiò la spiegazione puntuale della lettera del testo, chiarendo soprattutto i riferimenti storici, aspetto nel quale dette prova di rigore e di acuto senso critico, e limitando invece il ricorso all’allegoria: in particola re piuttosto raramente egli rintraccia nel testo profezie cristologiche, anche commentando i Salmi che, invece, tradizionalmente erano spesso interpretati in questo senso46. Teodoro tende, di conseguenza, a trascurare l’aspetto di anticipazione profetica de ll’Antico Testamento, vedendo quindi una forte cesura fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Un’analoga attenzione agli aspetti storici si ritrova anche nelle opere dedicate al Nuovo Testamento: di particolare interesse è la sua esegesi delle epistole paoline, delle quali indagò con grande rigore la cronologia47. Dal punto di vista del pensiero teologico, poi, si deve dire che la riflessione di Teodoro fu profondamente influenzata dalle lotte che per tutta la vita dovette sostenere contro gli eretici, per cui i suoi trattati sono di natura prevalentemente polemica. Scrisse soprattutto contro gli ariani e contro gli apollinaristi; la polemica contro questi gruppi ereticali indusse Teodoro a difendere con calore l’integrità dell’umanità di Cristo e questo fece sì che egli sembrasse mettere in secondo piano la sua divinità e soprattutto la stretta unità in lui di divinità e umanità. Sembra, comunque, che Teodoro si sia sforzato di precisare anche il concetto di unità in Cristo, sottolineando l’indissolubilità e il carattere non accidentale di questa unione48. Teodoreto di Cirro ricoprì un ruolo significativo durante le controversie cristologiche fra Efeso e Calcedonia: vissuto fra il 393 e il 460 circa, infatti, egli fu uno dei teologi più validi di Antiochia; scrisse numerose opere esegetiche e dogmatiche e partecipò autorevolmente alle lotte che contrapposero Antiochia e Alessandria nel periodo del 46. Facondo fa riferimento a queste accuse in Defensio III, VI, 12, dove scrive: «Sane quia uerum est impugnatoribus sanctae synodi ob hoc de illo ista iactare, quod in interpretazione psalmorum quaedam moraliter exposuisse dicatur, quae in Christum magis dicta debent intellegi…». L’autore della Defensio, come si può vedere dal modo in cui presenta l’accusa, mostra di non dare grande importanza a questo punto; e, in effetti, nelle righe che seguono, Facondo riporta in difesa di Teodoro un passo da un suo scritto, il trattato perduto De allegoria et historia ad Cerdonem, nel quale il vescovo di Mopsuestia ammette di aver commesso degli errori in alcune delle sue opere, in particolare quelle giovanili. Egli non entra, quindi, nel merito della questione e non ha difficoltà ad ammettere che Teodoro possa aver commesso degli errori nell’esege si; ritiene però che questo non sia assolutamente un motivo sufficiente per accusarlo di eresia. 47 Sull’esegesi di Teodoro cf. Simonetti 1985 ter, pp. 169 -180. 48 Cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 790-814.. 17.

(14) primo concilio di Efeso, polemizzando contro Cirillo di Alessandria. Condannato e deposto nel 449 dagli eutichiani nel secondo concilio di Efeso, fu riabilitato a Calcedonia e partecipò ai lavori del concilio. Essendo stato reintegrato nell’episcopato, quindi, poté tornare a Cirro, dove trascorse abbastanza serenamente i suoi ultimi anni49. Per quanto riguarda l’esegesi, Te odoreto privilegiò, seguendo la tradizione antiochena e in particolare l’esempio di Teodoro, l’aspetto letterale, temperandolo però con un maggiore ricorso all’allegoria; rispetto a Teodoro, inoltre, fu più incline a rintracciare nell’Antico Testamento pro fezie cristologiche. Teodoro fu una delle fonti privilegiate per l’esegesi di Teodoreto, che però si distaccò da lui in molte occasioni, smussando le punte più estreme del letteralismo del vescovo di Mopsuestia50. Per quanto riguarda il suo pensiero cristologico, poi, Teodoreto lottò in difesa della distinzione di divinità e umanità in Cristo, per cui nelle sue opere, per la maggior parte di carattere polemico, l’aspetto dell’unità di Cristo appare effettivamente meno sviluppato rispetto a quello della distinzione. Egli, comunque, pur avendo spesso interpretato più come giustapposte che come unite umanità e divinità in Cristo, compì un notevole sforzo per costruire una cristologia che evitasse sia di dividere Cristo che di confondere le due nature51. Ibas di Edessa, invece, è una figura di minor rilievo, rispetto a Teodoro e a Teodoreto, nel panorama teologico antiocheno del V secolo. Egli comunque partecipò attivamente alle controversie cristologiche in atto ai suoi tempi. Nel 436 era succeduto nell’episcopat o a Rabbula, che era stato un attivo sostenitore della linea di Cirillo di Alessandria e si era espresso con durezza nei confronti di Teodoro nel periodo della discussione sollevata su di lui dall’episcopato armeno 52; Ibas era invece un sostenitore della linea avversaria, per cui la sua elezione creò ovviamente malcontento in una parte del clero della sua città, che lo accusò presso il patriarca di Costantinopoli di eresia e irregolarità amministrative. Proclo rinviò la questione al patriarca di Antiochia, che assolse Ibas dalle accuse mossegli. I suoi accusatori, però, si appellarono all’imperatore per ottenere un altro procedimento e Teodosio II designò dei nuovi giudici. Il processo si tenne a Berito nel 448 e si concluse con una nuova assoluzione; pochi mesi dopo, 49. Cf. Guinot 1985, pp. 35-40. Cf. Simonetti 1985 ter, pp. 190-201 e Guinot 1985, pp. 631-799. 51 Cf. Grillmeier 1982, I, 2, pp. 884-893. 52 Secondo Liberato (Breviarium 10; cf. ACO II, V, pp. 110-111) sarebbe stato proprio Rabbula, insieme ad Acacio di Melitene, a sollevare la questione, scrivendo una lettera all’episcopato armeno per metterlo in guardia contro Teodoro di Mopsuestia, del quale si chiedeva di rifiutare le opere, che proprio in quel periodo cominciavano ad essere tradotte in armeno. Per questo il sinodo degli armeni chiese il parere di Proclo, dando quindi il via alla controversia; cf. Scipioni 1974, pp. 287-291 e Constas 2003, pp. 96-101. 50. 18.

(15) però, ebbe luogo a Tiro un nuovo dibattimento, dove Ibas fu di nuovo accusato di professare idee nestoriane: anche in questo caso fu assolto, ma gli fu richiesto di presentare una dichiarazione scritta nella quale anatematizzava Nestorio e dichiarava che la sua fede era conforme alla Formula di Unione del 433. Ibas, però, nel 449 fu deposto a Efeso dagli eutichiani, insieme allo stesso patriarca di Antiochia e a molti altri; il suo caso fu riesaminato a Calcedonia, dove fu dichiarato ortodosso e reintegrato nella sua sede53. Questi personaggi, sebbene vissuti in periodi diversi, avevano dunque in comune il fatto di essere importanti esponenti della scuola antiochena (Teodoro ne era considerato il rappresentante più autorevole); in più Teodoreto e Ibas erano stati avversari di Cirillo di Alessandria ai tempi del concilio di Efeso del 431; la loro condanna quindi si inseriva nell’orientamento religioso di Giustiniano che, come si è visto, cercava di liberare il concilio di Calcedonia da ogni sospetto di compromesso con la dottrina nestoriana, escludendo quindi dall’ortodossia i personaggi che appartenevano alla scuola antiochena che stava alla radice del pensiero di Nestorio e condannando duramente ogni critica all’operato e alla dottrina di Cirillo di Alessandria, della cui memoria i monofisiti si consideravano i legittimi eredi. L’occasione specifica per l’editto di condanna si creò però forse in seguito ad un intrigo nel quale si gli elementi dottrinali si intrecciarono indissolubilmente ad una lotta per la supremazia. Il problema, infatti, era già stato sollevato nel 532 in occasione di una conferenza di vescovi monofisiti e calcedonesi convocata a Costantinopoli dall’imperatore per cercare di giungere ad una ricomposizione del conflitto: i delegati monofisiti infatti avevano accusato il concilio di cripto-nestorianismo, proprio in considerazione del fatto che i padri di Calcedonia erano stati in comunione con Teodoro di Mopsuestia, Ibas di Edessa e Teodoreto di Cirro, sospetti di nestorianesimo e irriducibili avversari di Cirillo di Alessandria. La conferenza però si era conclusa con un nulla di fatto54. La causa scatenante per la condanna dei Tre Capitoli, probabilmente, fu invece la condanna di Origene e della sua dottrina, contenuta in un editto del 542-4355. La condanna dell’origenismo, infatti, è stata interpretata anche come una manovra ordita dal diacono romano Pelagio, apocrisario a Costantinopoli, per far cadere in disgrazia un personaggio allora assai influente a corte, Teodoro Askidas, vescovo di 53. Su Ibas si vedano le notizie riportate da A. Fraïsse-Bétoulières in Facundus d’Hermiane, Défense de Trois Chapitres II, 1, pp. 18-22. 54 Cf. Maraval 1998, pp. 403-404. 55 Sul contesto nel quale maturò la presa di posizione dell’imperatore si veda Perrone 1980, pp. 175 -201. L’editto di Giustiniano contro Origene si legge in ACO III, pp. 189 -214.. 19.

(16) Cesarea di Cappadocia, in modo da prendere il suo posto come ispiratore della politica religiosa dell’imperatore . Teodoro di Cesarea comunque sottoscrisse l’editto di condanna di Origene e riuscì a mantenere il suo prestigio; sarebbe stato dunque proprio lui in seguito ad organizzare una manovra analoga contro Pelagio, cioè la condanna dei Tre Capitoli che, rimettendo in discussione almeno implicitamente alcune decisioni del concilio di Calcedonia, avrebbe messo in grave difficoltà l’apocrisario romano, dal momento che la posizione della sede romana era sempre stata strettamente filocalcedonese57. La condanna di Origene del resto aprì la strada per quella dei Tre Capitoli anche perché introduceva un pericoloso precedente, quello di una condanna postuma. Durante la controversia su Teodoro, Teodoreto ed Ibas si fece notare l’ingiustizia di un tal modo di procedere, perché si condannavano persone che non potevano in nessun modo difendersi e giustificarsi, da tempo morte in pace con la Chiesa58. Al momento della condanna di Origene, però, il pericolo non fu avvertito e papa Vigilio sottoscrisse senza alcuna obiezione l’editto di Giustiniano 59. La condanna dei Tre Capitoli ebbe invece ben altro impatto in Occidente perché la sede romana, fedele alla memoria di papa Leone, artefice del concilio, si era sempre opposta fermamente a qualunque tentativo di revisione del concilio. Gli occidentali presenti a Costantinopoli, dunque, in primo luogo i diaconi romani Pelagio, Anatolio e Stefano, e il vescovo di Milano Dazio, che si trovava anch’egli nella capitale imperiale, manifestarono la loro opposizione alla condanna e si staccarono dalla comunione del patriarca Menas, che aveva sottoscritto l’editto. Nel 545 papa Vigilio fu portato via da Roma per ordine di Giustiniano e dopo un lungo viaggio, durante il quale da varie province occidentali gli giunsero esortazioni a non accettare la condanna, giunse a Costantinopoli nel 547. Qui, almeno in un primo. 56. A questo proposito si veda Perrone 1980, pp. 207-209. Questa versione dei fatti era piuttosto diffusa all’epoca dei fatti; Facondo in Defensio I, II, 2-8 attribuisce infatti la condanna dei Tre Capitoli al risentimento degli origenisti, ai quali del resto Teodoro di Mopsuestia sarebbe stato inviso per aver mosso severe critiche ad Origene. A questo proposito si vedano le osservazioni di Placanica 1991, pp. 41-46. A conferma di questa versione dei fatti, Liberato, Breviarium 23 riferisce che lo stesso Teodoro Askidas avrebbe ammesso apertamente che l’origine della controversia fosse da ricercare nella lotta fra lui e Pelagio: «illud liquere omnibus credo per Pelagium diaconum et Theodorum Caesareae Cappadociae episcopum hoc scandalum in ecclesiam fuisse ingressum, quod etiam publice ipse Theodorus clamitauit se et Pelagium uiuos incendendos, per quos hoc scandalum introiuit in mundum». 58 Questa è, infatti, la linea difensiva adottata da Facondo di Ermiane. 59 L’analogia fra i due procedimenti comunque non fu presa in considerazione neppure in seguito; la stessa cosa accade infatti anche nella Defensio di Facondo di Ermiane, nella quale l’autore mostra di considerare del tutto legittima la condanna postuma di Origene; cf. Simonetti 1980, p. 105. 57. 20.

(17) momento, confermò le misure prese dai suoi diaconi, tanto che anch’egli no n entrò in comunione con Menas60. Le pressioni della corte cominciarono però a farsi sentire con forza; sul finire dell’anno 547 si riunì un’assemblea di vescovi occidentali per deliberare sulla questione, ma, prima che i lavori si concludessero, Vigilio impose che la riunione fosse sciolta e che, invece di raggiungere una posizione comune, i singoli vescovi dessero il loro parere singolarmente per iscritto; in questo modo essi erano ovviamente più vulnerabili e quindi molti (circa 70) finirono per accettare la condanna dei Tre Capitoli61. Nel 548 Vigilio indirizzò all’imperatore la sua presa di posizione ufficiale in un documento noto come Iudicatum, che non è giunto fino a noi ma di cui è possibile ricostruire il contenuto dalle citazioni riportate negli atti del concilio di Costantinopoli del 55362: Vigilio in esso accettava la condanna di Teodoro, Teodoreto e Ibas, ma ribadiva l’inviolabilità delle decisioni del concilio di Calcedonia. L’impegno di Vigilio in questa situazione sembra essere stato volto sopra ttutto ad evitare una rottura netta fra l’episcopato occidentale e l’impero: probabilmente egli riteneva di poter scendere a patti su Teodoro, Teodoreto e Ibas, sforzandosi però di evitare che fosse minata l’autorità del concilio di Calcedonia e che fosser o fatte concessioni dottrinali ai monofisiti63. Del resto questo sembra essere stato un atteggiamento diffuso fra gli occidentali; lo stesso Facondo di Ermiane, che pure condusse un’opposizione molto più dura, sostiene che la condanna di tre singole persone, anche se ingiusta, non sarebbe stato un motivo sufficiente per creare delle divisioni all’interno della Chiesa , mentre il vero problema era rappresentato dall’indebolimento dell’autorità del concilio di Calcedonia sia dal punto di vista dottrinale che del rispetto dei canoni e della tradizione della Chiesa; ed egli si espresse pubblicamente in questo senso anche nell’assemblea dei vescovi occidentali del 547 .. 60. Sulle vicende degli anni 545-553 e in particolare sul ruolo di papa Vigilio cf. Sotinel 1992, pp. 457-62. Si veda il resoconto dell’episodio fatto da Facondo di Ermiane, che partecipò a questa assemblea, in Defensio, praef. 2-3 e Contra Mocianum 25-33. 62 Cf. ACO IV, 2, pp. 11-12. 63 E’ questa l’interpretazione di Sotinel 1992, p. 45 8, che vede nel desiderio del papa di salvare il prestigio della sede romana e la dottrina calcedonese il punto fermo della sua politica, al quale egli si sarebbe sempre mantenuto fedele nonostante le oscillazioni sulla condanna dei Tre Capitoli. 64 Facondo, ad esempio, proprio per questo in Defensio IV, I, 8-9 loda Giovanni Crisostomo, che preferì non protestare contro la sua ingiusta condanna, perché non voleva creare lacerazioni nella Chiesa a causa della sua persona. 65 Facondo in Contra Mocianum 26 riporta le parole da lui pronunciate in questa circostanza: «Ego enim fateor simpliciter beatitudini uestrae, non pro Theodori Mopsuesteni damnatione me a communione contradicentium subtraxisse. Hoc enim uel si approbandum non sit, ferendum tamen existimo, nec tantam esse causam iudico, pro qua deberemus a communione moltitudinis segregari. Sed quia ex persona 61. 21.

(18) Il documento redatto dal papa comunque sollevò molte preoccupazioni in Occidente, dove evidentemente la condanna dei Tre Capitoli era considerata una grave minaccia per la dottrina calcedonese: nel 549 i vescovi dell’Illirico deposero il loro metropolita che aveva accettato la condanna e l’anno successivo un concilio di vescovi africani arrivò a scomunicare il pontefice66; del resto anche la vicenda di Rustico e Sebastiano dimostra che l’opposizione si diffondeva anche all’interno dello stesso clero romano. Vigilio cercò di tranquillizzare i vescovi occidentali e ci sono rimaste diverse lettere risalenti a questo periodo nelle quali il papa protesta la sua fedeltà a Calcedonia ed esorta a non prestar fede alle calunnie diffuse contro di lui67. Alla fine, però, dovette revocare lo Iudicatum; l’imperatore d’altra parte sostenne in seguito, al concilio del 553, che Vigilio avrebbe contemporaneamente prestato un giuramento segreto di non opporsi alla condanna dei Tre Capitoli68. L’imperatore nel 551 pubblicò un nuovo editto contro Teodoro, Teodoreto e Ibas. Vigilio si oppose energicamente a tutti i tentativi di indurlo a sottoscriverlo, nonostante che le pressioni esercitate fossero forti e non escludessero l’uso della violenza, tanto che il papa ritenne più sicuro allontanarsi dal palazzo dove era alloggiato e trovare rifugio prima in una chiesa costantinopolitana e poi nella chiesa di Santa Eufemia a Calcedonia (la stessa nel quale si era riunito il concilio)69. Intanto continuavano le trattative ed Eutichio, il nuovo patriarca di Costantinopoli (Menas era morto nell’estate del 552), propose la convocazione di un concilio ecumenico; il papa inizialmente non si dimostrò sfavorevole, ma la sua proposta che il concilio si tenesse in Sicilia e che gli occidentali vi fossero rappresentati in numero adeguato non fu accolta; il concilio si tenne infatti a Costantinopoli e fra i vescovi occidentali solo quelli già presenti nella capitale, con l’aggiunta di pochissimi altri, a scelta dell’imperatore, furono chiamati a partecipare ai lavori. Di fronte a questa situazione Vigilio si rifiutò di partecipare al concilio, nonostante le reiterate richieste; l’imperatore, nel documento inviato all’assemblea dei vescovi Theodori epistulam Ibae Nestorianam probare conati sunt, et ex epistula Ibae synodum a qua suscepta est improbare». Facondo ritiene quindi che la condanna di Teodoro sia finalizzata alla condanna della lettera di Ibas e la condanna di questa lettera, letta e approvata a Calcedonia, porterebbe necessariamente a condannare il concilio. 66 Cf. Vittore di Tunnuna, Chronicon ad a. 549 e ad a. 550. 67 In questo contesto si colloca la lettera a Valentiniano di Tomi volta a contrastare le manovre di Rustico e Sebastiano; si veda anche la lettera inviata in questo stesso periodo ad Aureliano di Arles (Arles aveva all’epoca il primato sulla Chiesa di Gallia) che si legg e in ACO IV, 2, pp. 197-198. 68 Cf. ACO IV, 1, pp. 198-199. Vigilio non era però intervenuto ai lavori del concilio e non poteva quindi replicare a questa affermazione di cui è difficile valutare l’attendibilità. 69 L’editto di Giustiniano si legge in Schwar tz E., Drei dogmatische Schriften Iustinians, AAM, NF 18, 1939, pp. 47-69. Cf. Sotinel 1992, pp. 459-60.. 22.

(19) all’apertura dei lavori 70, comunque, presentò una serie di documenti che dimostravano che lo stesso pontefice romano avesse condannato in precedenza i Tre Capitoli, stigmatizzandone quindi l’incostanza 71; il medesimo documento poi dettava con grande precisione le linee guida per il concilio, indicando i punti nodali della questione ed esponendo dettagliatamente il proprio punto di vista. Ai vescovi non è lasciato molto spazio, neppure il compito di trovare una giustificazione sul piano teologico e dottrinale all’orientamento dell’imperatore o di confutare la posizione degli avversari; egli stesso infatti ribadisce, ad esempio, la liceità di una condanna postuma, presentando anche dei passi biblici a sostegno della sua opinione72. Le conclusioni del concilio quindi sembravano già decise fin dal discorso inaugurale. Comunque, mentre la discussione era ancora in corso, Vigilio redasse un documento, il Constitutum de tribus capitulis, nel quale condannava le idee discutibili presenti in alcuni passi degli autori incriminati, ma si rifiutava di estendere la condanna alle persone73. Né l’imperatore né il concilio però vollero accettarlo 74: l’imperatore anzi rimandò indietro l’apo crisario di Vigilio che era venuto a consegnargli lo scritto, sostenendo che se accettava la condanna dei Tre Capitoli era inutile, in quanto il papa si era già espresso in questo senso, se invece la respingeva era in contraddizione con la posizione precedentemente assunta nel Iudicatum; alcuni giorni dopo Vigilio fu deposto dall’assemblea dei vescovi 75. Il concilio deliberò la condanna della persona e l’opera di Teodoro di Mopsuestia, di alcuni scritti di Teodoreto e dell’epistola a Mari di Ibas: «Praedicta igitur tria capitula anathematizamus, id est et Theodorum impium Mopsuestenum cum nefandis eius conscriptis, et quae impie Theodoritus conscripsit et impiam epistulam quae dicitur Ibae» (ACO IV, I, p. 120). Dal punto di vista dottrinale, si allineò su una linea. 70. Questo documento si legge in ACO IV, 1, 8-14. Cf. ACO IV, 1, 11-12. L’imperatore a questo proposito fa anche menzione della vicenda di Rustico e Sebastiano: «putamus autem quod nec hoc uestram latuit religiositatem, quod Rusticum et Sebastianum suos diaconos et alios clericos qui primo quidem susceperunt quod fecit Iudicatum, in quo, sicut dictum est, anathematizauit eadem impia capitula, postea uero uindicarunt et defenderunt eadem impia capitula, deposuit» (ACO IV, 1, 12, 8-11). 72 Giustiniano cita infatti Gv 3, 18, sostenendo che il versetto si applica sia ai vivi che ai morti: «qui credit in eum, non iudicatur; qui autem non credit in eum, iam iudicatus est, quod non credit in nomine unigeniti filii dei. Manifestum autem est quod hoc non tantum de uiuis, sed etiam de his dictum est, qui in sua impietate mortui sunt» (ACO IV, 1, p. 13). 73 Il documento si legge in Collectio Avellana 83, CSEL 35, pp. 230-320. 74 Il Constitutum non è infatti inserito negli atti del concilio e nelle sessioni successive al 14 maggio (data in cui fu conclusa la sua redazione) non c’è traccia di alcuna discussione su di esso (cf. ACO IV, 1, pp. 137-182). 75 ACO IV, 1, pp. 183-202. 71. 23.

(20) neocalcedonese del tutto analoga a quella dell’imperatore 76. Naturalmente si levarono molte proteste da parte degli oppositori della condanna e l’imperatore rispose con severi provvedimenti: proprio in questo contesto si colloca infatti l’esilio di R ustico e di Felice di Gilli, ma anche il diacono Pelagio, una persona ancora molto vicina al pontefice, fu imprigionato. Vigilio comunque non accettò le deliberazioni del concilio e rimase fermo nel suo proposito per circa sei mesi, ma poi finì per accettare di sottoscrivere la condanna. Egli redasse infatti nel 554 un ultimo documento,. il. cosiddetto. Iudicatum. della. seconda. indizione,. che. riprende. sostanzialmente la posizione assunta dall’imperatore nell’editto del 551, contro il quale il papa aveva tanto lottato negli anni precedenti77. Fu ricostituita così la comunione con l’episcopato orientale. All’inizio dell’anno successivo Vigilio poté finalmente riprendere la via di Roma, ma morì durante il viaggio, a Siracusa; il suo corpo fu riportato a Roma, ma, contrariamente all’uso del tempo, non fu seppellito nella basilica di San Pietro, forse a causa degli scarsi consensi che la sua oscillante politica religiosa aveva ottenuto78. In effetti buona parte dell’episcopato occidentale non accettò le decisioni del co ncilio e il prestigio della sede romana fu per questo gravemente scosso. Pelagio, il successore di Vigilio, dovette quindi fronteggiare una situazione molto delicata che, in qualche caso, sfociò in un’aperta opposizione; particolarmente grave era la situaz ione nell’Italia settentrionale, perché i vescovi di Milano e Aquileia chiesero la convocazione di un nuovo concilio per riesaminare la questione e furono scomunicati da Pelagio, dando vita ad uno scisma che a Milano si trascinò per alcuni decenni, mentre per quanto riguarda Aquileia, anche a causa della conquista longobarda, non fu risolto definitivamente che alla fine del secolo VII; nell’Illirico contro l’opposizione dei vescovi intervenne il potere imperiale; anche in Africa si arrivò allo scisma, che fu contrastato con violenza dall’Imperatore, ma che proseguì comunque per tutto il suo regno79. Rapporti fra Chiesa e Impero durante la controversia dei Tre Capitoli Soprattutto in Occidente, la controversia dei Tre Capitoli e, più in generale, la politica religiosa di Giustiniano, stimolarono, oltre alla discussione dottrinale, anche un serrato. 76. Per un’analisi delle conclusioni del concilio cf. Grillmeier 1995, pp. 453 -462. Il testo si legge in ACO IV, 2, pp. 138-168. 78 Così Sotinel 1992, pp. 462-463. 79 Cf. Sotinel 1998 bis, pp. 433-455 e Fedalto 2004, pp. 646-650. 77. 24.

(21) dibattito sui rapporti fra la Chiesa e l’Impero. Naturalmente nessuno contestava in realtà il diritto dell’imperatore ad intervenire nelle questioni religiose: del resto tutti i concili ecumenici erano stati voluti e convocati dagli imperatori ed era ormai abituale che la legislazione imperiale facesse proprie le istanze di lotta all’eresia e al paganesimo portate avanti dalla Chiesa80. A differenza di quanto era accaduto in Oriente, però, nelle province latine l’influenza degli imperatori era stata piuttosto debole e la Chiesa aveva mantenuto una maggiore autonomia, soprattutto a partire dalla caduta dell’impero d’Occidente 81. La sede romana, in particolare, durante il regno dei Goti era stata più libera da ingerenze esterne rispetto ai patriarcati orientali: basti pensare ai numerosi patriarchi di Costantinopoli deposti per iniziativa imperiale in questo stesso periodo. La situazione però cambiò radicalmente quando cominciò a farsi sentire la minaccia del progetto di riconquista imperiale dell’Italia. Infatti, a partire dagli ultimi anni di Teodorico e, in misura maggiore, con i suoi successori, quando ormai incombeva la guerra, la monarchia gotica, sentendosi minacciata da una possibile simpatia per l’Impero da parte delle popolazioni latine, e in particolare della Chiesa e dell’aristocrazia, cominciò ad esercitare il suo potere in modo talvolta duro nei confronti dei papi: basti pensare a papa Giovanni arrestato e morto in carcere; naturalmente questa tendenza si acuì durante la guerra, quando la situazione per i Goti era ormai drammatica ed era di vitale importanza assicurarsi il sostegno della Chiesa: la nomina di Silverio, infatti, fu probabilmente imposta da Teodato. In seguito, la conquista dell’Italia da parte di Giustiniano pose la Chiesa sempre più a stretto contatto con l’impero e la sua pressione: Silverio era stato eletto per volontà dei Goti e fu deposto per volontà di Giustiniano, che probabilmente influì anche sulla nomina di Vigilio; alla morte di questi fu ancora Giustiniano che impose come suo successore Pelagio; e in entrambi i casi probabilmente la nomina fu condizionata alla previa accettazione da parte dei candidati di un orientamento teologico gradito all’imperatore 82. La Chiesa Occidentale si trovava dunque a dover affrontare una situazione nuova e difficile e non è certo un caso che l’opera latina forse più importante e più letta durante la controversia, la Difesa dei Tre Capitoli di Facondo di Ermiane, dedichi ampio spazio alla riflessione sui rapporti fra Chiesa e Impero. In primo luogo, il destinatario 80. Anche Giustiniano, come i suoi predecessori, prese molte misure repressive nei confronti dei pagani (la chiusura della scuola di Atene nel 529 fu solo la più eclatante), ma soprattutto degli eretici; cf. Maraval 1998, pp. 393-398. 81 Su questo punto cf. Sotinel 1998, pp. 279-302. 82 Cf. Sotinel 1998 ter, pp. 719-733.. 25.

(22) dell’opera è l’imperatore Giustiniano 83, che viene esortato a tornare sulla sua decisione e a non intromettersi in questioni religiose, mentre i vescovi, in particolare papa Vigilio, sono esortati a resistere all’eresia e alle pressioni del potere politico. Il tono è formalmente rispettoso e cauto: per quanto riguarda l’imperatore, Facondo ne loda la retta fede e lo zelo per la Chiesa e sostiene di credere che l’editto di condanna dei Tre Capitoli non sia stato realmente voluto da lui, ma gli sia stato carpito con l’inganno dagli eretici, che cercano di servirsi del suo nome per sopraffare gli ortodossi84. Nonostante questo, però, la critica all’operato dell’imperatore è severa e radicale e talvolta, in particolare nel dodicesimo libro, la polemica trova anche degli accenti piuttosto aspri85. Viene messa in dubbio soprattutto la legittimità dell’intervento dell’imperatore in questioni di fede, per le quali gli unici a poter deliberare sono i vescovi riuniti in concilio; del resto, una volta che un concilio ecumenico si sia pronunciato su una questione, non è più lecito a nessuno rimetterla in discussione: dunque non si possono fare aggiunte, correzioni o precisazioni di alcun genere a quanto stabilito dal concilio di Calcedonia86. I rapporti fra l’Impero e la Chiesa sono indicati con grande precisione: all’imperatore sono dovuti rispetto e obbedienza da tutti i sudditi dell’impero, compresi i membri del clero , ma l’imperatore a sua volta in quanto cristiano è tenuto a conformarsi alle decisioni della Chiesa, riconoscendo la sua autorità in materia di fede e rispettando le sue istituzioni, in primo luogo il concilio87. Nel caso in cui l’imperatore non si attenga a questa regola non tarderà ad abbattersi su di lui la punizione divina, come dimostrano le Scritture88. Naturalmente la posizione di Facondo non era necessariamente condivisa da tutto il clero occidentale, ma indubbiamente l’opera ebbe un grande successo, fu considerata molto autorevole dagli altri autori latini impegnati nella controversia e le idee del vescovo di Ermiane ebbero una vasta eco, per cui si può pensare che rispondessero in larga misura alla mentalità e alle aspettative della Chiesa occidentale. 83. Del resto, il titolo originale dell’opera era probabilmente Ad Iustinianum (l’espressione ‘Tre Capitoli’ non compare mai nell’opera di Facondo); così Fraïsse -Bétoulières 2002, p. 12. 84 Facondo attribuisce infatti la responsabilità della condanna dei Tre Capitoli a Teodoro Askidas e agli origenisti; cf. Defensio I, II, 2-8. 85 Cf. ad esempio Defensio XII, III, 1-37 o XII, V, 12-14. 86 Sulla posizione di Facondo in merito alla politica religiosa di Giustiniano si veda Bruns 1995, pp. 151178. 87 Facondo ritiene il concilio l’unica autorità legittima in materia di fede; dopo che su una questione si è pronunciato un concilio non è lecito a nessuno rimetterla in discussione e l’autorità del concilio è superiore ad ogni altra, anche a quella dei più illustri padri della Chiesa. Per quanto riguarda l’imperatore, Facondo ribadisce che in nessun modo egli si può intromettere in questioni di fede, perché in questo ambito come tutti i cristiani si deve rimettere all’autorità della Chiesa. Su questi punti, ai quali è dedicato l’intero libro dodicesimo, si veda Eno 1976, pp. 95 -113. 88 Cf. Defensio XII, III, 1-16.. 26.

(23) La voce di Facondo del resto non rimase isolata. Oltre alle ingerenze dell’imperatore in campo dottrinale, particolarmente sentito era anche il problema delle nomine episcopali: a Giustinano infatti si rimproveravano le frequenti deposizioni e sostituzioni di vescovi compiute di sua propria iniziativa e senza alcun rispetto dei canoni. Naturalmente in questi casi alla critica all’operato dell’imperatore si aggiunge il biasimo per quei vescovi che per ambizione hanno accettato una nomina irregolare; ad esempio questo è il quadro sconfortante tracciato da Vittore di Tunnuna a proposito dei patriarchi convocati al concilio di Costantinopoli: «Constantinopolim sinodus Iustiniani principis precepto colligitur, cui presules sedium aderant. Vigilius Romanus episcopus superstite Siluerio ordinatus, Appollinarius Alexandrinus Zoylo uiuente promotus, Anthiochenus Domninus, Eustochius Machario remoto Iherosolimitano episcopo episcopus factus, et Eutices Constantinopolitanus, qui Mene fuerat subrogatus ibi tria sepe fata capitula cum defendentibus ea damnationi subiciunt»89.. Fra i cinque patriarchi, dunque, il solo Domnino di Antiochia risulta immune da sospetti;. i. vertici. della. Chiesa,. dunque,. appaiono. rigidamente. controllati. dall’imperatore. Il problema dei rapporti fra Chiesa e Impero è quindi principalmente un problema di rapporti fra vescovi e imperatore: il contrasto verteva principalmente sulla definizione delle reciproche sfere di influenza. Anche dal punto di vista giuridico all’epoca la questione era cruciale dato il ruolo non solo religioso riconosciuto ai vescovi proprio dalla legislazione giustinianea. I vescovi, infatti, nel quadro della decadenza delle istituzioni cittadine dell’epoca tardo -antica, avevano colmato in qualche modo questo vuoto. Il loro ruolo era soprattutto quello di rappresentare la loro comunità e di difenderne gli interessi, soprattutto nei confronti del potere centrale, che all’epoca di Giustiniano, come si è visto, tendeva ad essere fortemente accentrato e pervasivo; d’altra parte, pe rò, in quanto parte del più ampio organismo della Chiesa, rimanevano pur sempre collocati all’interno di un orizzonte più vasto della loro singola sede. I vescovi, dunque, potevano efficacemente ricoprire una funzione mediatrice fra le spinte autonomistiche locali e l’unità dell’Impero 90. I vescovi avevano cominciato ad essere utilizzati per mansioni non solo strettamente religiose già dal IV secolo, ma Giustiniano, pur rimanendo nel solco di questa tradizione, ne ampliò notevolmente gli ambiti di competenza; si trattava di mansioni 89 90. Vittore di Tunnuna, Chronicon ad a. 553. Cf. Puliatti 2004, pp. 139-146.. 27.

(24) amministrative, fiscali, giurisdizionali, oltre che ad attività più connaturate alla Chiesa, come l’assistenza ai soggetti più deboli della società. Alcuni di questi incarichi potevano essere anche di grande rilievo: ad esempio, il vescovo aveva il dovere di controllare l’operato dei funzionari civili, non solo denunciando eventuali illeciti, ma anche impedendoli, in forza dei loro poteri giurisdizionali. Inoltre, in alcune province periferiche, il governatore, non potendo giurare fedeltà direttamente all’Imperatore, giurava nelle mani del vescovo; il vescovo, poi, aveva il potere di intervenire nella nomina di alcuni funzionari cittadini; e in Italia la Pragmatica Sanctio riconosce al vescovo, insieme ai più importanti cittadini, il diritto di intervenire nella scelta del governatore provinciale. Naturalmente però l’imperatore vigila sull’operato dei vescovi e sono previste sanzioni per quanti non svolgano correttamente le mansioni civili loro conferite91. Proprio l’importanza confer ita ai vescovi nell’amministrazione dello stato fa sì naturalmente che da una parte essi vedano accresciuta la propria autorità e il proprio potere, ma dall’altra mette la Chiesa di fronte al pericolo di perdere la sua specificità e la sottopone alle continue pressioni del potere politico92. In Oriente si trattava ormai di una situazione già consolidata, ma nelle regioni occidentali riconquistate da Giustiniano il cambiamento fu molto repentino e mise l’episcopato, e la Chiesa in generale, di fronte a problemi nuovi che imposero di affrontare da un diverso punto di vista la riflessione sul proprio ruolo all’interno dello stato e sui rapporti con il potere politico. SOCIETA’ E CULTURA NELL’ITALIA DOMINATA DAI GOTI Rustico visse gli anni della sua formazione, verisimilmente all’inizio del VI secolo, nel contesto relativamente sereno e culturalmente ancora vivace del regno gotico; gli anni del suo diaconato, invece, furono segnati dalle devastazioni della guerra greco-gotica. È opportuno quindi ripercorrere, almeno nelle sue linee fondamentali, la storia di questo periodo e ricostruire l’ambiente sociale e culturale nel quale visse Rustico prima di lasciare l’Italia, in modo da poter esaminare la sua figura e il suo pensiero alla luce del loro contesto storico.. 91. Per un’analisi approfondita della legislazio ne giustinianea relativa ai vescovi cf. Puliatti 2004, pp. 147168. 92 Nell’ottica di Giustiniano, comunque, gli ampi poteri conferiti ai vescovi si giustificavano proprio in considerazione dell’integrità di cui essi per il loro ruolo di uomini di Chiesa do vevano dar prova in misura maggiore rispetto ai funzionari laici; cf. Puliatti 2004, p. 147.. 28.

(25) Il regno dei Goti I Goti giunsero in Italia nel 488 guidati da Teodorico, che era stato incaricato dall’imperatore Zenone di riprendere il controllo dell’Italia 93. Odoacre, infatti, acclamato re dalle sue truppe nel 476 ma mai riconosciuto da Costantinopoli, nel 486/7, approfittando della debolezza dell’imperatore, costretto in quel periodo a fronteggiare una rivolta, aveva invaso l’Illirico; questo indusse Zenone ad offrire agli Ostrogoti, che si trovavano allora in Pannonia, di sistemarsi in Italia in modo da eliminare contemporaneamente il pericolo rappresentato da questi barbari e dalla politica aggressiva di Odoacre. Teodorico sconfisse l’esercito di Odoacre e si impossessò rapidamente dell’Italia: alla fine del 489 ormai resisteva soltanto Ravenna. I Goti vi entrarono soltanto nel 493, quando Odoacre accettò la resa, e qui proclamarono Teodorico loro re. Questo titolo, naturalmente, complicò le relazioni con Costantinopoli, perché l’imperatore non intendeva rinunciare ai suoi diritti sull’Italia, pur n on essendo in grado di amministrarla direttamente, e temeva che anche Teodorico potesse dimostrarsi una minaccia come lo era stato Odoacre. Il riconoscimento da parte dell’impero giunse quindi solo alcuni anni più tardi, nel 497/8, quando Anastasio inviò a Teodorico le insegne reali a patto che la supremazia dell’imperatore fosse, almeno formalmente, garantita. Teodorico, nonostante le tensioni con Costantinopoli, riuscì a consolidare il suo potere in Italia sia fra i goti che fra i romani. I primi rispettavano in lui il valoroso capo militare che li aveva condotti vittoriosamente in Italia e che aveva dato loro terre dove stabilirsi; i romani ne apprezzarono la moderazione e il riguardo che dimostrò per le istituzioni tradizionali, in primo luogo il senato, e per la cultura e la religione dei suoi sudditi latini. Nonostante che fosse di fede ariana, infatti, Teodorico non perseguitò in alcun modo i latini niceni, mostrando invece di onorare e rispettare la Chiesa ed il clero, primo fra tutti il vescovo di Roma; la Chiesa, dunque, da parte sua, non fece mancare il suo sostegno al sovrano, che, pur essendo eretico, non costituiva una minaccia per la sua dottrina, per la sua autonomia e per la sua prosperità. Teodorico mostrò anche molto rispetto per l’aristocra zia latina, che poté conservare in gran parte il suo prestigio e la sua ricchezza; in effetti, a differenza di quanto avvenne in altre regioni dell’impero, la. 93. Per queste notizie si fa sostanzialmente riferimento a Humphries 2000, pp. 529-535; cf. anche Spataro 2007, pp. 17-26.. 29.

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