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Questi sconvolgimenti nel processo depurativo sono facilmente interpretabili come la naturale risposta delle biocenosi che compongono il fango attivo al cambiamento delle condizioni dell’ambiente in cui vivono.

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Academic year: 2021

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1 Introduzione

Gli impianti biologici per il trattamento della acque reflue sono una componente fondamentale per il processo di abbattimento dell’inquinamento idrico. Questi impianti devono essere progettati adeguatamente per prevenire la contaminazione successiva della acque sia superficiali che sotterranee e per evitare conseguenti problemi per il riuso delle acque stesse. Inoltre non è infrequente che, anche in presenza di impianti ben progettati e efficienti, che i cambiamenti nella caratteristiche chimiche dei reflui o delle condizioni climatiche della località in cui l’impianto è costruito possano causare inconvenienti e abbassare l’efficacia depurativa dell’impianto.

Fig 1.1, Schema a blocchi di un generico impianto per la depurazione delle acque reflue

Queste tipologie di shock sono frequentemente documentate indipendentemente dal tipo di refluo trattato (civile, industriale, misto) e possono generare tutta una serie di problemi gestionali che vanno dall’eccessivo consumo di energia al calo di attività depurativa del fango attivo, come ad esempio un insufficiente abbattimento del carico organico.

Questi sconvolgimenti nel processo depurativo sono facilmente interpretabili come la naturale risposta delle biocenosi che compongono il fango attivo al cambiamento delle condizioni dell’ambiente in cui vivono.

Tuttavia è importante notare come una volta che il trattamento biologico è

stato compromesso, i tempi di ricostituzione dell’efficienza depurativa

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possono essere sufficientemente lunghi da causare un impatto significativo nello stato ambientale del corpo idrico che riceve l’effluente del depuratore in questione.

Saper gestire le grandi e le piccole emergenze di questo tipo risulta dunque una componente fondamentale per una corretta gestione dell’impianto, associata ad un efficiente sistema di monitoraggio che possa identificare rapidamente i fattori di malfunzionamento che possono causare uno stress eccessivo per la biomassa responsabile della degradazione del carico organico del liquame.

Tra i molteplici processi che avvengono all’interno di una vasca di ossidazione biologica (che di fatto costituisce il cuore di un impianto di depurazione delle acque) possono essere individuate due grandi famiglie, la famiglia responsabile dei processi di ossidazione dei substrati carboniosi, più conosciuta e più studiata, e la famiglia responsabile dei procssi di ossidazione e rimozione dei substrati azotati. Quest’ultima famiglia di processi, (comunemente conosciuti sotto il nome generico di processi nitrificatori) sebbene tradizionalmente meno studiata rispetto alla via carbonio-ossidante risulta essere uno dei processi cruciali per il buon funzionamento di un impianto di depurazione. Questo perché i processi nitrificatori risultano essere maggiormente delicati dal punto di vista biologico (da letteratura si riscontra come la biomassa che li conduce è meno resistente ai cambiamenti delle condizioni dell’ambiente in cui è immersa) e anche per la criticità degli effetti che eventuali crisi nelle vie di rimozione dei substrati azotati possono avere sui macro ecosistemi. Infatti i corpi idrici le cui acque risultano essere eccessivamente ricche in azoto vanno spesso incontro a gravi crisi ecologiche dovute ad un’eccessiva eutrofizzazione. La prima tappa delle vie di rimozione dei substrati azotati è la nitrificazione.

1.1 La nitrificazione

La nitrificazione, intesa in senso lato, è un processo di ossidazione

biologica dell’azoto prima a ione nitrito e in seguito a ione nitrato. Può a

tutti gli effetti essere considerata il primo stadio del processo di rimozione

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dell’azoto nelle acque reflue. La nitrificazione si compie in due fasi successive, condotte da due distinte popolazioni batteriche: quelle appartenenti al gruppo Nitrosobacteria e quelle appartenenti al gruppo

Nitrobacteria. Entrambe le tipologie appartengono alla famiglia delle Nitrobacteriaceae. Per semplicità di linguaggio indicheremo d’ora in avanti

i Nitrosobacteria come AOB (Ammonia Oxidizing Bacteria) e i

Nitrobacteria come NOB (Nitrite Oxidizing Bacteria).

Gli AOB (tra i quali spiccano le specie appartenenti al genere

Nitrosomonas) convertono in una prima fase NH4+

- N in NO

2-

- N secondo la seguente stechiometria equivalente:

(1.1) 2NH

4+

+ 3O

2

→ 4H

+

+ 2NO

2-

+ 2H

2

O + 550 KJ

questo processo è accompagnato parallelamente ad una riduzione di carbonio inorganico a carbonio organico.

Successivamente le specie appartenenti al gruppo NOB (prime fra tutte le specie appartenenti al genere Nitrobacter) ossidano NO

2-

- N in NO

3-

- N con la stechiometria equivalente che segue:

(1.2) 2NO

2-

+ O

2

→ 2NO

3-

+ 150 KJ

anche questo processo è accompagnato dalla sintesi contestuale di materia organica. Governare l’andamento delle reazioni di nitrificazione in un impianto in opera può risultare complesso e non sempre gli sforzi condotti risultano efficaci. Tra tutti i processi di degradazione che un fango attivo è capace di portare avanti, la nitrificazione viene di norma considerata come il più fragile, anche perché dipende da una serie di processi spesso tra loro interconnessi. Per esempio affluenti che abbiano una forte variazione temporale nella concentrazione di ammonio, nel tenore del COD, o nella concentrazione di nutrienti possono causare due tipi differenti di comportamento non ottimale per quanto riguarda la nitrificazione, ovvero possono causarne sia l’arresto che un’improvvisa accelerazione.

Considerare costante la velocità di nitrificazione di un fango è un

approssimazione che può tuttavia ridurre l’efficacia depurativa complessiva

(4)

dell’impianto. Una sottostima di questi processi infatti può causare uno spreco notevole di energia e di risorse usate per spingere al massimo i processi biologici; viceversa una loro sovrastima porta ad un accumulo di intermedi nocivi nell’effluente, come l’ammoniaca e i nitriti (su i quali sono non a caso imposti severi limiti di legge). Quando questi prodotti si accumulano nel corpo idrico recettore infatti, possono causare seri problemi come l’eutrofizzazione delle acque, calo del tasso di ossigeno disciolto, casi di avvelenamento nella popolazione e morie improvvise di organismi acquatici.

Per prevenire queste sgradevoli conseguenze sull’ambiente e sulla salute umana è necessario che chi gestisce un impianto di depurazione possa assicurare le condizioni adatte affinché la biomassa responsabile del trattamento biologico sia in grado di mantenere un’adeguata attività nitrificatoria. La nitrificazione inoltre è uno dei processi biologici più delicati; una grande quantità di composti che possono trovarsi occasionalmente (o sistematicamente) nei reflui in arrivo a un impianto di depurazione può avere effetti inibitori sull’attività nitrificatoria del fango attivo. Ricerche recenti hanno infatti mostrato come anche in paesi tradizionalmente attenti alla sfera ambientale in una larga maggioranza di impianti le acque reflue in ingresso ai depuratori contenevano sostanze dall’effetto potenzialmente inibitorio sull’attività nitrificante: si parla di una quota del 60% in Svezia (Jönnson et al., 2000), e del 64% in Danimarca, (Laursen e Jansen, 1995).

Inoltre, in accordo con gli studi di McCarty (McCarty 1999), la fase più sensibile di tutto il processo sembra essere la prima fase relativa alla nitrosazione dell’ammonio, in quanto gli AOB risultano essere anche i più sensibili a variazioni anche modeste delle condizioni ambientali.

Tuttavia, nonostante l’estrema importanza di conoscere e saper governare i processi azoto-ossidanti che avvengono all’interno di una vasca di ossidazione biologica, solo da poco la comunità scientifica sembra aver sviluppato la volontà di studiare a fondo queste problematiche.

Attuare una serie di esperimenti per valutare come la cinetica di tali

reazioni possa cambiare in base ad alcune grandezze fondamentali che

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caratterizzano la realtà del bioreattore è stato lo scopo fondamentale di questo lavoro.

1.2 La respirometria

La metodica maggiormente usata per lo studio dei processi metabolici più vari è a tutt’oggi la respirometria. La respirometria raggruppa una famiglia di tecniche che vengono utilizzate per valutare macroscopicamente l’attività respiratoria degli organismi viventi. La respirazione cellulare è un processo metabolico con in quale le cellule costruiscono legami fosfodiesterici altamente energetici per conservare l’energia. La molecola usata comunemente nelle cellule come moneta energetica è l’ATP (adenosintrifosfato), ed è fosforilata attraverso una catena di reazioni di ossidoriduzione nella quale gli elettroni vengono trasferiti dal substrato a una molecola accettrice (per gli organismi aerobi tale molecola è l’ossigeno atmosferico). La respirometria è utilizzata già da molti anni come tecnica di controllo per il monitoraggio del biotrattamento. I primi studi sul consumo diretto dell’ossigeno da parte dei microrganismi del fango attivo risalgono addirittura agli anni trenta e l’affidabilità di questa tecnica è ormai comunemente accettata dalla comunità scientifica.

Oltre ai più comuni fattori ambientali (come la temperatura, il pH, il tasso di ossigeno disciolto e la disponibilità di nutrienti), i altri fattori che possono influenzare la respirazione della biomassa in un fango attivo sono:

• Il tipo di organismi da cui il fango stesso è composto;

• La vitalità degli organismi stessi;

• La natura e la concentrazione dei nutrienti;

• La presenza di composti tossici o inibitori.

A partire dagli anni sessanta sono stati effettuati un grande numero di

esperimenti di respirometria per cercare di chiarificare quale sia la relazione

tra tutte queste variabili e il tasso di respirazione cellulare.

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In letteratura possono essere riscontrati un grande numero di esperimenti condotti con diverse tecnologie e diversi respirometri, a partire da semplici bioreattori in vetro pyrex fino ad arrivare a sistemi completamente automatizzati.

Le aree di applicazione delle tecniche respirometriche sono innumerevoli, tuttavia i maggiori usi possono essere così raggruppati:

• Studio della biodegradabilità e del biotrattamento delle acque reflue;

• Valutazione dei parametri cinetici della biomassa;

• Caratterizzazione dei reflui urbani, industriali e misti;

• Valutazione della tossicità di un refluo.

Le informazioni fornite da queste tecniche possono essere utilizzate per costruire modelli di calibrazione o per monitorare impianti pilota che possano aiutare i gestori degli impianti per il trattamento di acque reflue a prevedere il comportamento degli impianti stessi al variare della composizione del refluo in ingresso con il fine di ottimizzare l’uso delle risorse e di minimizzare il consumo di energia.

Un respirometro classico può essere definito genericamente come uno strumento capace di valutare il tasso di respirazione cellulare (valutandolo come la quantità equivalente di ossigeno consumato per unità di volume) di un campione di biomassa. Una generale classificazione delle tecniche di respirometria può essere fatta seguendo i seguenti criteri:

• Dove viene materialmente misurata la grandezza che si intende monitorare (se nel mix liquor, e quindi nella fase liquida, o nell’aria presente all’interno del bioreattore);

• Il tipo di bioreattore stesso, ovvero se il funzionamento di questa

apparecchiature richieda un flusso di gas (da ottenere con un

semplice aeratore a immersione), la somministrazione di liquido (ad

esempio una soluzione di acqua ossigenata), entrambi o nessuno dei

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due flussi (in questo caso si parla di respirometro chiuso, altrimenti di respirometro aperto).

Recentemente sono state implementate una serie di nuove tecnologie respirometriche denominate “upset early warning tecnologies”, UEWT (Love and Bott, 2000) basate su una nuova generazione di sensori, che possano avvertire i gestori degli impianti quando una condizione non favorevole si sviluppa nel refluo affluente o all’interno del bioreattore.

Queste tecniche risultano essere particolarmente efficaci e veloci, in quanto consentono di misurare in tempo reale l’efficienza del processo di depurazione misurando direttamente l’attività della biomassa, piuttosto che controllare indirettamente le concentrazione degli inquinanti di vario tipo nell’effluente.

Queste nuove tecnologie risultano particolarmente efficaci nel monitorare e segnalare in tempo reale i cambiamenti nell’attività metabolica della biomassa (questo fattore è di fondamentale importanza, si noti infatti come l’efficacia nella rimozione degli inquinanti da parte della biomassa può essere propriamente rilevata nell’effluente solo con un ritardo pari almeno al tempo di ritenzione in vasca del liquame), e poiché ancora non si conoscono sistemi per predire con sufficiente anticipo la formazione di condizioni limitanti per la biomassa nella vasca di ossidazione, è necessario avere una buona conoscenza dei processi metabolici.

Anche se un grosso sforzo è stato condotto nello sviluppo di simili tecnologie, molte di queste non hanno mai avuto un reale sbocco sul mercato, sia per il loro costo elevato, sia per la loro scarsa adattabilità a matrici ambientali, come le acque reflue, che possono variare notevolmente la loro composizione. Le principali caratteristiche che una tecnologia UEWT dovrebbe possedere sono (Love e Bott, 2000; Ficara, 2000):

• Rapidità nella risposta per attivare contromisure in tempi efficaci;

• Attendibilità della risposta stessa per evitare fasi positivi e falsi negativi;

• Basso costo d’acquisto e manutenzione;

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• Facilità d’uso.

Agli esordi, la tecnologia respirometrica si basava unicamente sul controllo del consumo di ossigeno da parte della biomassa, ma successivamente sono state sviluppate altri tipi di tecniche, che monitorano altre grandezze sperimentali correlate con il metabolismo degli organismi viventi. Queste tecniche di misura dell’interazione tra la biomassa e il refluo sono caratterizzate dall’avere una forte interazione con componente biologica, caratteristica che permette di ottenere una maggior completezza nell’informazione rispetto ai tradizionali sensori fisico chimici. Tra le tecniche più utilizzate abbiamo:

• La misura dell’ossigeno disciolto: si basa sulla misura diretta della velocità di consumo dell’ossigeno come indicatore della velocità metabolica della biomassa.

• La titolazione pH-stat: questa tecnica monitora la capacità di alcuni microrganismi di cambiare il carattere acido, basico o neutro di alcuni substrati. Questo sistema è molto versatile, ed è applicabile a qualunque reazione che coinvolga un cambiamento di pH.

• La microcalorimetria: consiste nel valutare l’attività metabolica misurando l’energia termica prodotta.

• I biosensori a cella intera: questa tecnica stima lo stato

metabolico della comunità microbica attraverso la valutazione

di parametri chimico-fisici. Tra i biosensori a cella intera il più

comune è il Microtox

®

, che determina l’intensità luminosa

della bioluminescenza naturalmente prodotta da diverse specie

di batterici origine marina.

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• Biosensori a base molecolare: in questi dispositivi la componente biologica è una specifica molecola (come un enzima, una catena di nucleotidi o molecole di anticorpo) che reagiscono con un substrato specifico. Questi dispositivi hanno la caratteristica di essere molto specifici, e rispondono solamente alla classe di analiti per cui sono stati studiati. Il loro uso corrente comprende il rilevamento di pesticidi e composti organici di vario tipo, presenti sia nell’industria alimentare che nel campo della tutela e del monitoraggio ambientale.

Fino a qualche anno fa, le tecniche respirometriche applicate al monitoraggio della nitrificazione potevano essere divise in due grandi categorie: quelle basati sulla domanda biochimica di ossigeno e quelle basati sulla titolazione pH-stat.

I metodi basati sulla domanda di ossigeno fanno sorgere il problema della discriminazione del contributo al consumo di ossigeno da parte dei batteri nitrificanti dal consumo dovuto alla respirazione endogena e alla degradazione di substrati carboniosi da parte dei batteri eterotrofi (quest’ultimo contributo può in realtà essere facilmente minimizzato adoperando un fango che sia già arrivato alle condizioni endogene). Inoltre, poiché entrambe le fasi della nitrificazione richiedono ossigeno, diventa difficile calcolare separatamente la velocità di nitrosazione e quella di nitrificazione. Il respirometro NITROX (Vershuere et al., 1995

;

Surmacz- Gorska et al. 1995, 1996; Gernaey et al., 1997), ad esempio, è stato proposto per valutare il tasso massimo di nitrificazione con un metodo che si basa sulla differenza tra il tasso di consumo di ossigeno (Oxygen Uptake Rate, OUR) calcolato sul metabolismo cumulato dagli organismi eterotrofi e di quelli autotrofi e l’OUR calcolato dopo l’inibizione selettiva degli AOB e dei NOB attraverso l’aggiunta di inibitori selettivi (come l’alliltiourea).

Questo metodo comunque, che prevede l’inattivazione della biomassa, rende necessario ogni volta il campionamento di nuovi volumi di fango.

E’ stato pensato anche di valutare le costanti cinetiche di entrambe le

popolazioni (eterotrofa e autotrofa) dosando simultaneamente substrati

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carboniosi e azotati in un respirometro aperto, (Vandebroek, 1986;

Vanrolleghem et al., 1990), dove il profilo dell’OUR deriva sia dalla diffusione dell’ossigeno all’interno del bioreattore sia dalla respirazione complessiva della biomassa. Una elaborazione adeguata permette la divisione del respirogramma in due parti: una prima parte in cui il consumo dell’ossigeno è dovuto anche all’ossidazione del substrato carbonioso, e una seconda dove il consumo di ossigeno è attribuibile unicamente alla respirazione della popolazione autotrofa.

Utilizzando questa tecnica non è comunque possibile separare l’attività di nitrosazione da quella di nitrificazione in senso stretto, mentre più efficace è in questo senso l’utilizzo delle procedure titolative, in quanto nel processo di nitrosazione si ha una variazione di pH non presente durante l’ossidazione di nitriti a nitrati. In letteratura tuttavia si trovano pochi esperimenti basati esclusivamente sulla titolazione in quanto, a distanza di poco tempo dalla diffusione di questa tecnica nella comunità scientifica, ha fatto la sua comparsa una nuova e più efficiente metodologia, ovvero la combinazione della misura dell’ossigeno disciolto e delle procedure titolative. Tale combinazione si rivelerà ben presto lo strumento più efficace per lo studio dei processi metabolici della flora batterica ammonio ossidante.

Poiché per comprendere le potenzialità della combinazione delle

tecniche che sfruttano la domanda biochimica di ossigeno e delle tecniche di

titolazione pH-stat, è necessario conoscerle prima singolarmente, queste

metodologie verranno descritte più approfonditamente nei paragrafi

seguenti.

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