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B ox T herapy M irror

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Academic year: 2022

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M irror

B ox T herapy

M

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B

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T

herapy

Centro Protesi INAIL

Direzione Sanitaria - Area Comunicazione Istituzionale - Ufficio Stampa Via Rabuina, 14 - 40054 - Vigorso di Budrio (Bo)

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Questo breve trattato è il frutto

dell’appassionato lavoro di ricerca e clinico

del Dott. Daniele Sarti allievo del Professor Antonio Moroni, Direttore della Scuola di Specializzazione

in Medicina Fisica e Riabilitazione dell’Università di Bologna.

Ho avuto modo di apprezzare in oltre un anno di collaborazione

fra il Centro Protesi INAIL e gli Istituti Ortopedici Rizzoli le sinergie che possono offrire due Centri di eccellenza.

Un particolare ringraziamento

al Professor Sandro Giannini per i consigli

ed il supporto Accademico che ha messo a disposizione.

Alla Dottoressa Simona Amadesi,

Responsabile dell’Area Comunicazione Istituzionale del Centro Protesi Inail, ed ai Suoi insostituibili collaboratori Fabio Cesari e Simone Stefani il riconoscimento di una straordinaria professionalità ed amore per la propria missione in ambito istituzionale: grazie di cuore.

Sanatorio di Budrio: primo nucleo del Centro Protesi INAIL, 1906

1961 - 2011 C

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Prefazione

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All’inizio degli anni ‘90, le ricerche di Gallese e Rizzolatti hanno evidenziato la presenza di “neuroni mirror” (“a specchio”), prima nella corteccia prefrontale F5 della scimmia e, successivamente, in quella dell’uomo, ponendo le basi per un’interpretazione in chiave riabilitativa di queste fondamentali scoperte (Gallese, 1996).

Questo gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, utilizzando la stimolazione magnetica transcranica, osserva come questi particolari neuroni si attivino sia durante l’esecuzione che durante la mera osservazione di un gesto. La corteccia motoria dell’uomo viene facilitata dall’osservazione sia delle azioni che dei movimenti altrui.

Si ritiene, verosimilmente a ragione, che questi neuroni abbiano un importante ruolo nell’apprendimento dei movimenti, di cui vicariano la propriocezione nella formazione di una prima mappa motoria di esecuzione del gesto osservato. Questa loro peculiarità li rende di grande interesse per la riabilitazione.

Nell’uomo inoltre sembra che i neuroni mirror concorrano all’attivazione della corteccia prefrontale, la quale contrae rapporti di intimità funzionale con le aree corticali deputate all’ elaborazione dell’immagine.

Il neurologo indiano Vilayanur S. Ramachandran, insieme ai suoi collaboratori, verso la metà degli anni ’90, è il primo a intuire l’importanza che queste scoperte avrebbero potuto ricoprire in ambito riabilitativo: insieme al suo gruppo di ricercatori ha indagato gli effetti dell’uso dello specchio nella riabilitazione del dolore da arto fantasma.

Come detto, alcuni pazienti amputati sperimentano movimenti involontari dolorosi dell’arto fantasma, ad esempio, come se le unghie si conficcassero nel palmo della mano; questi pazienti trovano in seguito difficile muovere volontariamente l’arto per arrestare la sensazione, che è fortemente dolorosa. Sembra che il fantasma sia paralizzato, in seguito ad una sorta di apprendimento della paralisi. Partendo da questa osservazione, Ramachandran (Ramachandran, 1996) vuole cercare qualche mezzo in grado di sbloccare la paralisi e far avvertire al paziente un movimento dell’arto fantasma, tale da liberarlo dalla sensazione dolorosa. A questo scopo crea quella che chiama la “virtual reality box”: l’arto mancante, in cui, per l’appunto, si localizza il dolore, è “ricreato” attraverso l’uso di uno specchio: s’invita il paziente a posizionare il moncone d’amputazione all’interno di una scatola; sulla superficie interna di questa scatola è applicato uno specchio per fare in modo che il paziente possa vedere l’immagine riflessa dell’arto controlaterale sano.

Al paziente poi si chiede di compiere degli esercizi sia con l’arto sano (che è riflesso dallo specchio, in modo da dare l’impressione che l’arto amputato sia ancora presente) sia, contemporaneamente, con l’arto mancante: vedendo l’immagine dell’arto sano riflessa nello specchio, il paziente, oltre a compiere il movimento con l’arto sano, ha l’illusione di eseguirlo anche con l’arto amputato.

In assenza completa di feedback propriocettivo e tattile, è la vista a fornire il feedback per il controllo del movimento (come nel caso del paziente con sindrome da deafferentazione).

L’integrazione sensoriale, avvenuta per via visiva, sommata all’osservazione del movimento riflesso (attivazione dei neuroni mirror) fornisce ai pazienti l’illusione propriocettiva di avere ancora un arto che risponda ai loro comandi.

Il disturbo della rappresentazione di sé a livello corticale trova una forma di compensazione, permettendo una riprogrammazione funzionale dello schema corporeo che ha l’effetto pratico di far diminuire il dolore in modo statisticamente significativo nei pazienti.

Ramachandran riporta il caso di alcuni pazienti sottoposti a quest’esperimento: essi confermano l’esistenza di movimenti volontari nella mano fantasma riflessa che scompaiono al di fuori dalla “Virtual Reality Box” (è inoltre eliminata l’ipotesi di effetto placebo grazie a diversi accorgimenti).

Ramachandran riporta anche casi di apprendimenti a lungo termine, con scomparsa progressiva dell’arto fantasma, in seguito all’utilizzo di questo semplice dispositivo. Lo studioso indiano interroga persino sul fatto che, accanto al feedback visivo, possono sussistere anche quello propriocettivo dell’arto controlaterale e i comandi motori dell’arto sano. Questa ipotesi è però scartata in seguito ad esperimenti in cui la mano del paziente viene sostituita con la mano guantata dello sperimentatore, col fine di produrre un’immagine fantasma: anche in questo caso i pazienti avvertono i movimenti dell’arto fantasma pur senza inviare alcun comando motorio.

Con lo stesso accorgimento, quando lo sperimentatore appoggia la mano sul dorso invece che sul palmo, senza che il paziente possa accorgersi del cambiamento, si possono far sperimentare al paziente posizioni impossibili nella mano fantasma, come una flessione dorsale delle dita che supera l’escursione articolare anatomica. Questo significa

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che non solo la stimolazione propriocettiva (con effetto sui fusi neuromuscolari), ma anche una stimolazione visiva, può indurre illusioni di posizione degli arti.

In altre parole, in certe condizioni, anche la sola apparenza visiva può indurre dolore, sensazioni di movimento, percezione di posizione degli arti.

Questi aspetti ci portano a due considerazioni:

1) L’immagine del corpo è in realtà un fenomeno meno stabile di quanto non si creda; essa dipende dalle percezioni sensoriali e dalle esperienze del singolo; sulla base di queste è pronta a ridefinirsi;

2) Esistono, secondo Ramachandran (1996), moduli separati per l’elaborazione delle informazioni sensoriali:

“Questo risultato contraddice in pieno il punto di vista mantenuto dall’ A.I. community, i quali sostengono che il cervello sia composto da un determinato numero di “moduli” autonomi che, in successione, analizzano l’input sensoriale”.

Alla luce di questi risultati è messa in dubbio l’esaustività del resoconto dell’attività tattile e visiva dato da Klatzky e Lederman nel loro modello di autonomia completa fino ad una integrazione finale a livello delle rappresentazioni.

Secondo Ramachandran è necessario arrivare ad un modello che, oltre che rendere conto delle capacità del tatto, sia anche tale da assumere l’esistenza di fenomeni di interferenza sensoriale tra visione e tatto come quello riportato, di interferenza tra tatto e udito e di sostituzione intersensoriale.

Nonostante i buoni risultati ottenuti, non si parla però ancora di “Mirror Therapy”.

Il termine è coniato qualche anno più tardi da Altschuler e da i suoi collaboratori che nel 1999 hanno parlato di

“Mirror Therapy” presentando una nuova tecnica, volta alla riabilitazione del paziente con emiparesi (Altschuler, 1999). Essi la definiscono come una metodica riabilitativa che consiste nel far muovere entrambe le mani (o le braccia) al paziente con esiti di ictus; al paziente si chiede di eseguire degli esercizi, in modo simmetrico, con entrambe le mani e lo si invita ad osservare il movimento dell’arto sano, riflesso nello specchio. In questo modo il paziente ha l’impressione che l’arto paretico si stia muovendo correttamente.

Ramachandran e Altschuler, sempre nel 1999, lavorano insieme ad uno studio che introduce questa nuova tecnica riabilitativa ai pazienti con “neglect” in seguito ad un ictus a livello dell’emisfero destro (Ramachandran, 1999).

I miglioramenti osservati sono più evidenti per quanto riguarda la qualità e l’armonia complessiva del movimento piuttosto che per quanto riguarda la forza dello stesso, ma risultano ad ogni modo statisticamente significativi e legati con tutta probabilità al contributo che hanno i neuroni mirror alla ricostruzione dello schema motorio.

L’integrazione sensoriale visiva vicaria quella propriocettiva (errata) proveniente dall’arto paretico.

Vista anche l’efficacia della metodica riportata in alcuni studi sul dolore post-ictus, McCabe ed altri ricercatori ipotizzano che il dolore, non accompagnato da un evidente danno tissutale, possa essere causato dalla discordanza fra intento motorio e movimento. Secondo questa ipotesi, allo stesso modo in cui la povertà qualitativa e quantitativa dei movimenti deriva in parte anche dalla dissonanza delle vie sensoriali in ingresso (apparato vestibolare, propriocettori), il dolore può derivare da cambiamenti della rappresentazione corticale dell’input somatico, che segnala lo stesso tipo di relazione errata fra ideazione del movimento e sua esecuzione. La “riafferentazione sostitutiva” indotta dalla Mirror Therapy risolverebbe la dissonanza, dando al sistema nervoso centrale la possibilità di affrontare una seconda riorganizzazione, risolutiva della rappresentazione corticale errata.

Studi pilota sono condotti anche in Italia: da segnalare quello presentato dal Dott. F. Gimigliano in cui si suggerisce l’adozione della Mirror Therapy in un programma neuroriabilitativo integrato (nel caso specifico i pazienti sono sottoposti alla Mirror Therapy e ad un programma Kabat).

Da segnalare lo studio olandese in corso di Michielsen e colleghi (iniziato nel 2006) in cui si indaga l’efficacia della

“Mirror Therapy”, oltre che per la riabilitazione dell’arto superiore e della mano, nei pazienti nel post-ictus, anche attraverso osservazioni con la FMRI (risonanza magnetica funzionale). Sarà quindi possibile, nel medio termine, avere un imaging dell’attivazione cerebrale di questi pazienti prima, durante e dopo la M.T.

Anche Chan, nel 2007, utilizza la Mirror Therapy a scopo terapeutico in pazienti amputati: egli afferma che,

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guardando il proprio movimento reale in associazione a quello allucinatorio per 15 minuti ogni giorno, possa ridursi il dolore, forse per l’attivazione dei neuroni specchio o per la disattivazione della percezione protopatica.

Nella stragrande maggioranza degli studi sulla “Mirror Therapy” presentati, comunque, ai gruppi di controllo è richiesto o di immaginare il solo movimento dell’arto leso senza specchio o di usare uno specchio annerito e/o coperto (Chan, 2007).

In sintesi ci sentiamo di affermare, forti anche delle esperienze condotte presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio, che ci troviamo di fronte ad una metodica riabilitativa suggestiva e foriera di ottimi risultati nel problema dell’arto fantasma che affligge il 95% dei pazienti amputati ai vari livelli. Questo breve trattato analizzerà i vari aspetti tecnici e fisiopatologici implicati.

Vigorso, 25 agosto 2010

Prof. Tancredi Andrea Moscato

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Presentazione

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Accolgo con piacere l’invito del Prof. Andrea Tancredi Moscato a presentare la sua pubblicazione relativa alla Mirror Box Therapy. L’argomento è quanto mai innovativo, basandosi sulla scoperta dei neuroni “a specchio” da parte di ricercatori italiani negli anni ’90, che ha consentito la messa a punto di metodiche riabilitative a favore di pazienti amputati di arto superiore.

E’ noto anche fuori del nostro paese l’impegno profuso dall’INAIL, in particolare tramite il Centro di Vigorso di Budrio, per supportare le persone che presentano questa grave disabilità con tutte le forme di sostegno, compresa l’applicazione dei più moderni ritrovati della tecnica. Rientra in questo impegno lo sforzo dedicato alla ricerca volta a mettere a punto presidi tecnici che sempre meglio rispondano alle esigenze dei nostri infortunati di poter essere reinseriti in una vita attiva nel contesto familiare, sociale e lavorativo. Ritengo che proprio in tale ambito si collochi la sperimentazione presentata dall’Autore, ennesimo esempio del lavoro quotidiano svolto dalla componente sanitaria dell’Istituto con grande spirito di dedizione e di attenzione ai bisogni dei lavoratori che portano le conseguenze di gravi eventi lavorativi. Non va peraltro dimenticata

la trasferibilità di tali acquisizioni anche sui comuni cittadini che hanno subito analoghe menomazioni, a conferma del rapporto di sinergia tra l’INAIL e il Servizio Sanitario Nazionale già da tempo in atto sul territorio.

È pertanto quanto mai apprezzabile il lavoro del collega Moscato che consente di divulgare sia all’interno che all’esterno dell’Istituto i più recenti progressi in un ambito estremamente importante per la missione istituzionale.

Dr. Giuseppe Bonifaci

(Sovrintendente Medico Generale INAIL)

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CaPitoLo 1

IL DOLORE

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1.1 Il dolore nella storia

1.1.1 Dall’antichità a Santiago Ramon y Cayal

Il dolore è un’esperienza universale, immediata, frequente, talora invalidante per alcuni secondi, minuti od ore, parte integrante della vita degli esseri umani e non solo, attorno alla quale si sono costituite nei millenni tradizioni popolari e conoscenze mediche. Un’esperienza, così comune e diffusa, è però ancora poco conosciuta, riconosciuta, capita e curata.

Già l’etimologia del termine inglese “pain”, che deriva dal latino “poena”, dà l’idea di come possa essere attribuito al dolore un significato di “pena” e “punizione”.

Fin dall’antichità il dolore è stato oggetto di paura, di rispetto, di superstizione, di curiosità, d’interesse e di studio.

La meditazione, l’interpretazione e lo studio sul dolore costituiscono, infatti, un patrimonio culturale antico quanto l’uomo. E’ però sempre stato difficile giungere ad una soddisfacente definizione del termine “dolore”. L’uomo ha sempre dovuto convivere con esso ed il rapporto tra umanità e dolore non è sempre stato uguale nel corso dei secoli, né tanto meno alle diverse latitudini.

Nelle popolazioni primitive lo si interpretava in diversi modi attribuendogli un’origine magica: si riteneva che po- tesse essere causato da un demonio che penetrava nel corpo umano o da un fluido magico oppure ancora da un oggetto recante maleficio e, in questo contesto, il dolore stava a testimoniare l’esistenza di uno spirito nemico den- tro la persona sofferente. Basandosi su queste credenze, lo stregone (esperto di pratiche magiche), o lo sciamano, interveniva sul sofferente incidendone la cute e procurandogli una leggera ferita, attraverso la quale sarebbe dovuto uscire lo spirito maligno, responsabile del dolore.

Questo tipo di credenza ha resistito, in Occidente, fino alla nascita della medicina ippocratica nel IV secolo a.C.

Ippocrate, infatti, fu il primo ad attribuire al dolore termini biologici indicandolo come la conseguenza di un’altera- zione quantitativa, in eccesso o in difetto, degli “umori”, cioè dei quattro elementi costitutivi fondamentali (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) che, equilibrandosi fra loro, regolavano l’armonia del corpo.

Aristotele, nel IV secolo a. C., guardava razionalmente al dolore: come Platone, e seguendo le orme di Ippocrate, voleva individuarne i meccanismi alla base, col fine di trovare cure e soluzioni. Costoro vedevano nel cuore la sede delle emozioni e la sofferenza era un’emozione, così come lo era il piacere. Aristotele riteneva il dolore “una qualità dell’anima”, proprio come la depressione e l’ansia. Egli fu il primo ad imprimere una svolta concettuale e interpre- tativa, considerando il dolore non come una percezione ma come uno stato umorale, escludendolo quindi dai cinque sensi.

Con Galeno, famoso medico greco alla corte di Roma nel II secolo d.C., il centro del dolore è diventato il cervello e si è cominciato a supporre che questo fosse l’organo in cui venivano prodotti e accolti i sentimenti. Il dolore è stato promosso dal rango di “emozione” a quello di “sensazione”, trasmessa dal sistema nervoso. Galeno, grazie alle sue conoscenze anatomiche, intendeva combattere il dolore con la chirurgia e con i farmaci: nutriva enorme rispetto per il malato e agiva sulla base di ragionamenti medici moderni.

Eccezion fatta per la medicina araba e per Avicenna (colui che iniziò a sperimentare con fini anti-dolorifici l’oppio, la mandragora, l’edera e altre erbe), nel Medioevo c’è stato un silenzio pressoché totale della Scienza. In quest’epoca l’attenzione era rivolta essenzialmente alla dimensione spirituale del dolore, inteso come espiazione, mutuata dalla tradizione Giudaico-Cristiana. Il malato, spessissimo, era nelle mani di persone che, più o meno in buona fede, spe- rimentavano, e il “perdere” il paziente durante una cura o un intervento chirurgico (per altro eseguiti senza troppa attenzione al dolore provocato) era un’eventualità frequente.

Il Rinascimento ha creato un atteggiamento moderno nell’osservazione del dolore: l’attenzione era rivolta al corpo umano e, sulla fervida scia degli studi anatomici di Vesalio e di Leonardo, il dolore viene fatto risiedere nel sistema nervoso, all’interno del quale viene trasmesso.

Contemporaneamente Paracelso iniziava ad utilizzare, in modo empirico, l’etere per le anestesie. Cartesio vedeva il dolore come un’esasperazione del tatto: egli ha approfondito e sviluppato il concetto di dolore come sistema di auto-

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difesa, non solo a favore della tutela del singolo essere vivente ma, in prospettiva, nella salvaguardia della specie.

Nel XX secolo, con la scoperta della natura elettrica della trasmissione nervosa, c’è stato il superamento della con- cezione cartesiana del dolore e la nascita della moderna neurofisiologia.

Parallelamente, da un punto di vista terapeutico, Mesmer nel 1810 scopriva l’ipnosi, Hickmann nel 1828 utilizzava il protossido di azoto, Justus von Liebig ed Eugène Soubeiran nel 1831 ottenevano in laboratorio il cloroformio facendo reagire ipoclorito di calcio e acetone (o etanolo) e il dentista William Green Morton, nel 1846, utilizzava l’etere per l’estrazione di un dente. Nel 1894 compariva l’aspirina, mentre il veronal, un barbiturico che ha rivolu- zionato l’anestesia, compariva nel 1903. Nella storia la lotta al dolore non ha sempre trovato nei medici degli alleati per la paura che essi avevano di veder scomparire uno dei più importanti segni diagnostici.

Soltanto gli studi della neurofisiologia moderna hanno permesso di iniziare il cammino per l’interpretazione di una percezione sensoriale così complessa.

Il primo a descrivere scientificamente le vie anatomiche della sensibilità e del dolore è stato un anatomista spagnolo, Santiago Ramon y Cayal (1852-1934), premio Nobel per la Medicina nel 1906. Egli, grazie al metodo di colorazione delle fibre e delle cellule nervose ideato da Camillo Golgi, ha eseguito numerose ricerche ed è riuscito a scoprire le vie che vengono percorse da un impulso doloroso, dalla sua origine più periferica fino al cervello.

1.1.2 Il dolore secondo la IASP

Nel 1979 la IASP (International Association for the Study of Pain), l’organizzazione emersa dalla Seattle-Issaquah Conference, ha definito il dolore come “una spiacevole esperienza sensitiva ed emotiva associata ad un danno tis- sutale reale e/o potenziale, o descritta nei termini di tale danno. Il dolore è sempre un’esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita. Sicuramente si accompagna ad una componente somatica ma ha anche un carattere spiacevole e, perciò, ad una carica emozionale” (IASP 1979).

Gli Autori della IASP hanno sottolineato inoltre che nel momento in cui una persona sostenga di provare dolore, anche in assenza di evidenza organica e funzionale, esso “deve essere accettato come dolore”.

Per la prima volta questa definizione ha attribuito al dolore una possibile insorgenza anche in assenza di danno tissutale e, cosa ancor più importante, la IASP ha riconosciuto il dolore quale stato psicologico soggettivo. Per la maggior parte delle persone, specialmente per i pazienti, il danno tissutale restava il “gold standard” del dolore.

Tuttavia la IASP ha sottolineato la possibile insorgenza del dolore anche in assenza di danno. Questa definizione affermava chiaramente che il dolore non equivale alla nocicezione, cioè al processo mediante il quale un segnale viene trasmesso dalla lesione tissutale attraverso il sistema nervoso: “l’attività indotta nella vie nocicettrici e nocicet- tive da uno stimolo nocivo,” hanno insistito gli Autori della IASP “non è dolore, che è sempre uno stato psicologico…”.

In quanto stato psicologico, il dolore non è riducibile a segni oggettivi. Come hanno inequivocabilmente segnalato questi Autori “il dolore è sempre soggettivo”.

Questa breve definizione di dolore ha dissolto gentilmente, ma fermamente, qualsiasi necessaria connessione tra dolore e danno tissutale. Un danno tissutale esteso può insorgere senza dolore, come ha dimostrato Henry K. Bee- cher nel suo intramontabile studio sui soldati feriti nella Seconda Guerra Mondiale (Beecher, 1959).

Allo stesso tempo, il dolore può insorgere anche in totale assenza di danno tissutale, come dimostrato nel 1991 da Bayer e dal suo gruppo di ricercatori (Bayer, 1991).

Ancor più importante il fatto che la IASP abbia sempre riconosciuto al dolore uno stato psicologico, soggettivo. Nes- sun modello puramente fisiopatologico può comprendere questo riconoscimento. Contemporaneamente, gli Autori della “task force” hanno affermato un fatto sicuramente vero: che il dolore, nonostante la sua natura psicologica e soggettiva, “molto spesso ha una causa fisica correlata”. In breve, la definizione IASP si è dimostrata concisa, elasti- ca ed accurata. Essa ha servito molto bene la comunità della medicina del dolore nonostante, negli anni successivi, le siano piovute addosso numerose critiche.

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Grazie alla definizione IASP, i ricercatori e i clinici, anche se non sempre in grado di spiegarlo o curarlo, sono nella maggior parte concordi su ciò che intendono o non intendono per dolore.

1.2 Il dolore e la sofferenza

Dal concetto di dolore (o, meglio, di nocicezione) è importante distinguere quello di sofferenza. Essa riguarda fon- damentalmente la risposta emotiva ed affettiva ad una stimolazione dolorosa e può essere associata ad altri eventi quali la paura, la minaccia o i presentimenti.

Il termine sofferenza viene talvolta erroneamente impiegato come sinonimo del termine dolore, come se il dolore fosse la causa, la sofferenza l’effetto e la loro relazione linguistica fosse intercambiabile. Essi, in realtà, sono teori- camente distinti: una frattura ossea può determinare dolore senza sofferenza; una rottura di cuore può determinare sofferenza senza dolore. La sofferenza e il dolore possono perciò non essere esattamente identici o sinonimi. Questa differenza teorica, tuttavia, spesso scompare nella pratica, dove la sofferenza e il dolore spesso possono essere con- temporaneamente presenti con modalità che non solo minano l’ipotetica distinzione ma che anche alterano la loro correlazione. Le particolari complicazioni che caratterizzano le relazioni instabili tra dolore e sofferenza sono state analizzate dallo psicologo C. Richard Chapman e dallo specialista del dolore Jonathan Gavrin. Essi definiscono la sofferenza come “la minaccia o il danno all’integrità dell’io”, in accordo con il medico e bioetico Eric J. Cassell, e specificano che la minaccia o il danno implicano “una disparità tra ciò che ci si attende dal proprio io e ciò che si fa o si è”. Essi osservano che il dolore persistente spesso causa una “grave disgregazione” della vita di un uomo e questa disgregazione può costituire una crisi d’identità che viene percepita come sofferenza e perpetuata da processi fisio- logici simili alla risposta inadeguata allo stress. Chapman e Gavrin non pretendono di dare una soluzione al proble- ma della sofferenza, ma essi affermano che i medici in grado di capire la sofferenza possono imparare a prevenire il danno prevedibile dell’io che spesso accompagna il dolore persistente.

1.3 Neuroanatomia del dolore

1.3.1 La nocicezione e la percezione del dolore

Nocicezione e percezione del dolore sono due concetti spesso interscambiati nel linguaggio comune. In realtà, men- tre la nocicezione rappresenta l’attività di risposta del sistema nervoso alla presenza di stimoli lesivi, la percezione del dolore è un processo di elaborazione centrale più complesso, che coinvolge aspetti sensoriali, emozionali e co- gnitivi.

La nocicezione può essere definita come il processo sensitivo in base al quale uno stimolo lesivo viene captato a livello periferico e successivamente trasmesso al cervello, dove viene riconosciuto e localizzato, potenziato o inibito e, infine, memorizzato. Questo processo si basa sulla presenza nei tessuti di nocicettori, cioè di strutture istologica- mente non identificabili costituite da terminazioni libere di nervi periferici. I nocicettori sono dei recettori specia- lizzati ad alta soglia che vengono depolarizzati da meccanismi atti a provocare un danno tissutale (noxa o stimolo nocivo) o da stimoli potenzialmente nocivi. Essi, per lungo tempo, furono considerati delle strutture specifiche ma oggi sono riconosciuti soprattutto come fibre di piccolo calibro mieliniche o amieliniche predisposte alla decodifi- cazione degli stimoli dolorosi.

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Nocicettori

Tipo Mielinici Amielinici

Nome Nocicettore mielinizzato Nocicettore C-polimodale

Morfologia Cellula di Schwann con neurite non mielinizzato Sconosciuta, presumibilmente terminazioni libere

Stimolo adeguato Deformazione dolorosa della cute (11-13 g/mm2 nei primati)

Deformazione dolorosa della cute Calore nocivo

Sostanze chimiche nocive 6-26 g/mm2 primati 2-44 g/mm2 Von Frey

Velocità di

conduzione Aδ-Aαβ (5-40 m/sec nelle scimmie) C (media 0,7 m/sec) Sensazione Dolore acuto, tagliente Dolore urente, acuto o sordo

I recettori del dolore possono essere distinti in:

- Nocicettori cutanei;

- Nocicettori muscolari;

- Nocicettori viscerali.

Nocicettori cutanei:

- Unimodali  vengono eccitati solo da stimoli meccanici di alta intensità e sono correlati a fibre piccole mieliniche Aδ e amieliniche C. Hanno un campo recettoriale molto piccolo;

- Polimodali  vengono eccitati da stimolazioni meccaniche, termiche e/o chimiche (ad esempio soluzioni ipertoni- che di NaCl o KCl, sostanze endogene quali la 5-idrossitriptamina o serotonina, le prostaglandine o altro) e sono in connessione con fibre piccole mieliniche Aδ e amieliniche C. La loro soglia è elevata ed hanno un campo recettoriale piuttosto ampio.

Nocicettori muscolari:

una parte di questi recettori viene eccitata solo da una pressione violenta per cui sono detti anche recettori per la pressione dolorosa e sono collegati a fibre mieliniche A. Un’altra parte, invece, è rappresentata da recettori ad alta soglia, in connessione con fibre amieliniche C, eccitati solo da una pressione portata direttamente sull’area recetto- riale; sono più facilmente eccitabili se la temperatura del muscolo va incontro a variazioni eccessive.

Nocicettori viscerali:

sono sensibili alla distensione dello strato muscolare della parete, della mucosa, della sierosa e all’ischemia.

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1.3.2 Trasduzione, trasmissione, modulazione e percezione del dolore

Tra una stimolazione dolorosa (noxa) a livello tissutale e l’esperienza soggettiva del dolore è interposta una serie di complessi eventi chimici ed elettrici.

Vengono coinvolti quattro distinti meccanismi:

- La trasduzione;

- La trasmissione;

- La modulazione;

- La percezione.

Trasduzione: Meccanismo di trasformazione dello stimolo algico (meccanico, chimico, termico) in impulsi elettrici.

Trasmissione: Meccanismo neurologico che permette allo stimolo elettrico di raggiungere il cervello, grazie ai nervi sensitivi (periferia-midollo), alla rete di neuroni di connessione (midollo-tronco encefalico-talamo) e alla via tala- mo-corticale.

Modulazione: Meccanismo di controllo, amplificazione o inibizione dell’informazione nocicettiva: questo processo può avvenire a diversi livelli del circuito algico, sia prima che dopo la proiezione dello stimolo alle aree corticali spe- cifiche, dando luogo ad una varietà di possibili risposte. La modulazione viene attivata dallo stesso input doloroso, da alcune sostanze endogene, dagli stati emotivi, dallo stress, dai processi cognitivi, da certi farmaci e da diverse tecniche antalgiche.

Percezione: Meccanismo, ancora in parte sconosciuto, attraverso cui l’evento nocicettivo diventa fenomeno sogget- tivo e ciò porta ad una diversificazione notevole delle risposte nelle diverse persone.

Il rilevamento di segnali citochimici da parte delle terminazioni periferiche è effettuato da specifici sistemi moleco- lari che utilizzano meccanismi tipo ligando-recettore o canali ionici.

Le terminazioni nervose sono in grado di rispondere a differenti tipi di segnali ma solo ad alcuni di questi è consen- tito raggiungere il corpo cellulare ed interessare l’espressione genica. Perciò lo screening delle condizioni tissutali da parte dei nocicettori è così sofisticata al pari di quella che nelle corna dorsali regola l’accesso delle informazioni periferiche al Sistema Nervoso Centrale (Stein, 1995 e Carlton, 1998).

Poiché l’informazione che passa attraverso le corna dorsali dipende da una serie di meccanismi modulanti a livello delle connessioni sinaptiche con i neuroni centrali (Melzack, 1965), i segnali periferici non raggiungono il Siste- ma Nevoso Centrale senza che essi abbiano superato la soglia fisiologica e molecolare richiesta dalle terminazioni nervose che fungono, pertanto, da “primi critici guardiani” che selezionano, limitano o amplificano l’accesso dei segnali nervosi al Sistema Nervoso Centrale. Inoltre la capacità di generare i segnali da parte dei nocicettori passa attraverso diversi livelli o fenotipi funzionali che variano a seconda che il tessuto sia in condizioni fisiologiche, in preda all’infiammazione o irrimediabilmente danneggiato. Queste modificazioni del fenotipo funzionale o citochi- mico sono tutte rilevate dalle terminazioni nervose dei nocicettori attraverso recettori di membrana, canali ionici, G-protein, cascate di secondi messaggeri (nucleotidi ciclici, calcio, inositolo trifosfato, NO, eicosanoidi); vari effet- tori (kinasi, fosfatasi) e proteine di trasporto assonale.

Quindi, se le condizioni tissutali producono risposte algiche o analgesiche, dipende da come i neuroni afferenti primari codificano e rispondono e da come le loro funzioni sono modulate dalle interazioni neuroinfiammatorie, neuroimmuni e neuroendocrine.

Il sistema di rilevamento degli afferenti primari sia a livello delle terminazioni periferiche che di quelle centrali, lun- go l’assone o nel corpo cellulare si serve di almeno quattro patways intraneuronali che sono:

- un veloce segnale elettrofisiologico, condotto dai potenziali d’azione;

- sistemi citochimici più lenti quali il trasporto assonale;

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- rapidi segnali di fosforilazione retrograda dalle terminazioni nervose al corpo cellulare;

- diffusione di molecole permeabili alle membrane cellulari come il NO.

Gli effetti combinati dei complessi messaggi sono trasportati da questi sistemi informativi intraneuronali i quali rispecchiano le modificazioni fenotipiche dei neuroni nocicettivi periferici durante diversi stadi dell’infiammazione o di offese neuropatiche.

La funzione caratteristica del recettore sensitivo è, dunque, quella di rispondere ad un particolare tipo di stimolo la cui presenza provoca la depolarizzazione del nocicettore e l’insorgenza di impulsi nervosi realizzando, così, quel processo noto come trasduzione.

Le terminazioni dei nocicettori vengono attivate da sostanze algogene liberate dalle cellule danneggiate dallo stimo- lo nocivo. La diretta conseguenza di una lesione tissutale è l’accumulo di diverse sostanze vicino alle terminazioni nervose.

Tali sostanze hanno solitamente una triplice origine:

- possono semplicemente fuoriuscire dalle cellule danneggiate dallo stimolo nocivo;

- possono essere sintetizzate localmente per via enzimatica da substrati liberati dalla lesione o penetrati nell’area lesa in seguito allo stravaso di plasma o, infine, alla migrazione di linfociti;

- possono essere liberate dall’attività del nocicettore stesso.

La lesione delle cellule provoca la fuoriuscita di sostanze intracellulari in grado di attivare o di sensibilizzare i no- cicettori: le più importanti sono il potassio e l’istamina, ma quest’azione può anche essere svolta dall’acetilcolina, dalla serotonina e dall’ATP (Pearl, 1976).

Una delle più potenti sostanze algogene che compare nei tessuti lesi è la bradichinina, un peptide che deriva dalla frammentazione enzimatica di molecole proteiche plasmatiche. Anche i prodotti metabolici dell’acido arachidonico vengono sintetizzati nelle aree di danno tissutale e rappresentano i più potenti ed ubiquitari mediatori dell’infiam- mazione: a questo gruppo appartengono le prostaglandine ed i leucotrieni. Le prostaglandine causano iperalgesia e sensibilizzano i nocicettori afferenti primari, i leucotrieni provocano anch’essi iperalgesia che viene bloccata dalla deplezione di leucociti polimorfonucleati e non dagli inibitori delle ciclossigenasi come accade, invece, nell’iperal- gesia mediata dalle prostaglandine. Ciò suggerisce l’ipotesi che anche i leucociti contribuiscano all’attivazione dei nocicettori.

Sostanze potenzianti la nocicezione sono pure quelle liberate dagli stessi nocicettori, come, ad esempio, la sostanza P, rilasciata durante l’attività delle fibre primarie afferenti amieliniche.

Per giunta, anche nella parete dei vasi ematici si riscontrano plessi di nervi afferenti contenenti sostanza P (Norre- gaard, 1985).

Tale polipeptide oltre ad esser un potente vasodilatatore, azione probabilmente mediata dal plesso vascolare di fibre nervose che lo contengono, causa anche il rilascio di istamina da parte delle mast-cell la quale attiva a sua volta i nocicettori. E’ quindi verosimile che la propagazione di origine neurogena della vasodilatazione e dell’iperalgesia dopo un trauma cutaneo possa dipendere dall’attivazione dei nocicettori e dalla conseguente liberazione di sostanza P e di istamina quest’ultima proveniente dalle mast-cell.

Una volta avvenuto il fenomeno della trasduzione, l’impulso viene trasmesso dalla periferia al centro. Le fibre dolo- rifiche che veicolano le informazioni dolorifiche possono essere di tre tipi:

- Fibre Aβ, mieliniche, di grosso diametro, rispondono sia alle stimolazioni meccaniche di bassa intensità (tattili e pressorie) che a quelle di alta intensità (nocicettiva);

- Fibre Aδ, lievemente mielinizzate (minore velocità di conduzione), rispondono a stimoli meccanici e termici se di intensità molto elevata e a stimoli chimici;

- Fibre C, non mielinizzate (lente), di piccolo diametro, rispondono a stimoli meccanici, termici e chimici di alta

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intensità e rappresentano gli afferenti primari provenienti dai visceri.

La stragrande maggioranza dei nocicettori mielinici sono costituiti da fibre Aδ che rispondono soprattutto a stimoli nocivi di natura meccanica (nocicettori meccanici o meccanocettori); una percentuale significativa di questi rispon- de anche a stimoli termici (nocicettori meccano-termici) (Adriansen, 1983).

I nocicettori meccanici Aδ, chiamati anche meccanocettori ad alta soglia, rispondono solamente quando gli stimoli meccanici sono moderatamente intensi o decisamente nocivi. In assenza di stimolazione essi sono silenti sebbene la stimolazione ripetitiva comporti un lento "firing" che risulta importante per l'attivazione centrale dei meccanismi dell'iperalgesia (Woolf, 1983).

Nei nocicettori Aδ sensibili agli stimoli termici si hanno risposte per temperature cutanee inferiori alla soglia dolo- rifica; in tutti però la risposta aumenta quando la temperatura raggiunge valori appartenenti all'ambito considerato nocivo (45-47 ° C).

Entrambi i tipi di nocicettori Aδ possiedono una proprietà nota come sensibilizzazione che, in linea di massima, si riferisce ad un aumento di sensibilità di un recettore in seguito a ripetute applicazioni dello stimolo nocivo.

I nocicettori a fibre C, amielinici, rispondono invece a stimoli nocivi termici, meccanici e chimici e sono pertanto noti con il termine di nocicettori C polimodali. Essi costituiscono almeno i 3/4 degli assoni afferenti primari. Al pari dei nocicettori mielinici, anche i nocicettori C polimodali vengono sensibilizzati da stimoli nocivi ripetuti e, dopo la sensibilizzazione, sviluppano un’attività di fondo continua.

1.3.3 Classificazione dei nervi periferici

Nella percezione del dolore sia le fibre Aδ che le fibre C sono responsabili di due diverse sensazioni:

- una sensazione precoce a carattere puntorio, acuta, relativamente breve (primo dolore), sostenuta dall'attività delle fibre Aδ;

- una sensazione tardiva, sorda, a carattere urente e talvolta prolungata (secondo dolore), in cui è invece implicata l'attività delle fibre C.

Classificazione dei nervi periferici

Tipo Diametro (mcm) Velocità di Conduzione (m/sec) Mielina

12-20 70-120 +

6-12 30-70 +

1-6 5-30 +/-

C < 1,5 0,5-2 -

Se si paragona la velocità delle informazioni provenienti da altri neuroni periferici, la cui velocità di trasmissione può raggiungere i 100 m/sec, le informazioni legate alla nocicezione e al dolore sono molto più lente. A livello visce- rale, in particolare, proprio per la scarsezza di fibre veloci, il dolore viene descritto come profondo, urente, mal de- finito e mal localizzabile. Inoltre, questo tipo di dolore provoca forti reazioni riflesse del sistema nervoso autonomo con nausea, risposte vasomotorie e un’importante reazione di allarme.

I neuroni afferenti primari hanno una forma bipolare ed il loro corpo cellulare è localizzato nei gangli spinali o cra- nici della radice posteriore. Dal corpo cellulare si dipartono proiezioni assonali periferiche o centrifughe, e centrali o centripete. I corpi cellulari non stabiliscono connessioni sinaptiche e pertanto non giocano un ruolo diretto nell’ana- lisi continua dei segnali nocicettivi.

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Essi variano in dimensioni e possono essere divisi in due gruppi:

TIPO A : hanno un diametro compreso tra 60 e 120 μm, sono associate a fibre mieliniche pure esse di grande dia- metro.

TIPO B : hanno un diametro compreso tra 10 e 30 μm e danno origine a fibre mieliniche ed amieliniche di piccolo diametro.

Il 60-70% della popolazione cellulare gangliare annesso alla radice dorsale è approssimativamente rappresentato dal tipo B; ciò è in accordo con la preponderanza, nella radice dorsale, di fibre amieliniche su quelle mieliniche.

E’ stato dimostrato che questi due gruppi hanno differenti “orari” per la morte cellulare programmata durante lo sviluppo e diversa dipendenza da fattori di crescita (Snider, 1998).

Gli impulsi nocicettivi che provengono dai tessuti situati sotto il capo sono trasmessi attraverso i nervi spinali ed il nervo vago i quali contraggono sinapsi con interneuroni (o neuroni di secondo ordine) nelle corna dorsali del midollo spinale. Quelli che invece provengono dal capo contraggono sinapsi con neuroni situati nei nuclei sensitivi trigeminali. Al livello di queste prime sinapsi gli impulsi nocicettivi sono sottoposti ad altre influenze provenienti dalla periferia, dagli interneuroni, dal midollo spinale, dai nuclei trigeminali o dai sistemi di controllo sovraspinali.

Tutto ciò fornisce una ulteriore elaborazione dei segnali afferenti del danno tissutale.

Dopo essere stati sottoposti a tutte queste influenze modulatrici nel corno dorsale del midollo spinale alcuni impulsi nocicettivi passano direttamente o attraverso interneuroni alle cellule del corno ventrale e ventrolaterale degli stessi o degli adiacenti segmenti del midollo nei quali stimolano, rispettivamente, i neuroni somatomotori e quelli del simpatico pregangliare generando così risposte riflesse nocicettive. Anche le citochine prodotte dal sistema immu- nitario interagiscono con i neuroni afferenti primari, specie quelli del vago, con conseguenti ed importanti influenze sul cervello, sull’andamento della malattia, sull’intensità e la durata del dolore.

All’interno della sostanza grigia del midollo spinale le lamine più interessate alla nocicezione sono la I, la II, la III, la IV e la V; in particolare le fibre Aδ terminano nelle lamine I e II, le fibre Aβ nelle lamine III e V mentre le fibre C terminano nelle lamine I e V. La maggior parte dei neuroni della lamina I risponde esclusivamente a stimoli nocivi e, di conseguenza, questi neuroni vengono chiamati “nocicettori specifici” (NS); altri neuroni della stessa lamina ri- spondono invece in modo graduato sia a stimoli meccanici non nocivi che a stimoli nocivi e, per questo, vengono de- finiti “neuroni ad ampio spettro dinamico” (Wide Dynamic Range – WDR). La lamina V contiene prevalentemente neuroni WDR che proiettano al tronco encefalico o al talamo; la convergenza a livello di questa lamina di afferenze nocicettive somatiche e viscerali può fornire una spiegazione del cosiddetto “dolore riferito”, in cui il dolore di una lesione viscerale viene avvertito in altre parti della superficie corporea.

A livello spinale la trasmissione sinaptica e la modulazione dell’informazione nocicettiva vengono mediate da di- versi tipi di neurotrasmettitori. Le terminazioni nervose contengono e rilasciano glutammato, aspartato e, in minor proporzione, sostanza P, somatostatina, dinorfina B, neurochinina A e B e peptide collegato al gene della calcito- nina (CGRP). Tra tutti i neuropeptidi presenti nei nocicettori afferenti primari alcuni sono eccitatori (sostanza P e CGRP), altri sono inibitori (somatostatina). Il principale neurotramettitore eccitatorio liberato dalle fibre Aδ e C è il glutammato. In particolare le terminazioni delle fibre C contengono sia glutammato sia neuropeptidi, tra cui la sostanza P; questi neurotrasmettitori sono liberati insieme e agiscono in modo coordinato nella regolazione dei neuroni post-sinaptici: i neuropeptidi, compresa la sostanza P, prolungano l’azione del glutammato. Inoltre, mentre il glutammato rimane circoscritto alle terminazioni sinaptiche dalle quali viene liberato, i neuropeptidi possono diffondere a considerevole distanza dalla sede del loro rilascio: questa caratteristica suggerisce un contributo signi- ficativo dei neuropeptidi sia all’eccitabilità dei neuroni del corno dorsale sia al carattere diffuso di molte sindromi dolorose. Il glutammato è anche responsabile dell’ipereccitabilità dei neuroni del corno dorsale, fenomeno alla base dell’iperalgesia secondaria (centrale). Nelle condizioni di grave e persistente danno tissutale le fibre C scaricano in modo ripetitivo e la risposta dei neuroni del corno dorsale aumenta progressivamente. Queste modificazioni a lungo termine dell’eccitabilità e delle proprietà biochimiche dei neuroni del corno dorsale (maggior espressione di neu- ropeptidi, di neurotrasmettitori e dei loro recettori) costituiscono una specie di memoria dei segnali afferenti delle fibre C e possono determinare una diminuzione della soglia per la comparsa di dolore o di dolore spontaneo.

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1.3.4 Le vie ascendenti della nocicezione

Le informazioni nocicettive vengono ritrasmesse dal midollo spinale al talamo e alla corteccia attraverso alcune vie ascendenti principali.

Il tratto spinotalamico rappresenta la via nocicettiva ascendente maggiormente sviluppata; è costituito dai fasci neo-spinotalamico e paleo-spinotalamico che originano a livello del corno dorsale del midollo e terminano a livello di distinti nuclei del talamo, ognuno dei quali proietta ad una specifica area corticale. Gli assoni del tratto spino- talamico si raggruppano, avvicinandosi al talamo, in due porzioni, laterale e mediale.

Il fascio neo-spinotalamico origina nelle lamine I e V (neuroni specifici e WDR) e termina nel gruppo nucleare laterale del talamo (nucleo ventrale posteromediale, nucleo ventrale posterolaterale-VPL e nucleo posteriore): dal nucleo VPL del talamo origina poi il fascio talamo-parietale che raggiunge la corteccia somato-sensitiva (S1 e S2).

Il fascio neo-spinotalamico ha un’origine filogenetico recente e costituisce la via oligosinaptica della componente epicritica (discriminata, superficiale) del dolore: è quindi una via rapida, con meno stazioni intermedie, le fibre sono più grosse e hanno meno sinapsi, sono organizzate somatotopicamente, riuscendo così a localizzare con precisione lo stimolo nocicettivo.

Il fascio paleo-spinotalamico costituisce il contingent più numeroso del tratto spinotalamico, origina nelle lamine I, VII e VIII e termina nel gruppo nucleare mediale del talamo (nucleo centrale laterale e complesso intralaminare); da qui partono proiezioni diffuse ai nuclei della base e a numerose aree corticali, tra cui il giro del cingolo e la corteccia insulare. Il giro del cingolo fa parte del sistema limbico e si ritiene quindi che sia implicato nell’elaborazione della componente emozionale del dolore; la corteccia dell’insula ha invece un ruolo nell’integrazione delle componenti sensitiva, affettiva e cognitiva del dolore. Il fascio paleo-spinotalamico è da considerarsi la via filogeneticamente più antica: non solo veicola la componente protopatica (indiscriminata, profonda) del dolore ma fornisce anche infor- mazioni relative agli stimoli che attivano un sistema aspecifico che presiede lo stato di vigilanza.

Il tratto spino-reticolare origina nelle lamine VII e VIII del midollo, frammisto al fascio paleo-spinotalamico, e ter- mina sia nella formazione reticolare che nella sostanza grigia periacqueduttale (PAG) mesencefalica; a loro volta, i nuclei reticolari proiettano sul gruppo nucleare mediale del talamo.

Il tratto spinomesencefalico è una via multisinaptica con cellule di origine localizzate nelle lamine I e V e che termi- nano a livello della formazione reticolare del mesencefalo, alla PAG e ai nuclei parabrachiali. A loro volta i nuclei pa- rabrachiali proiettano all’amigdala (la principale formazione del sistema limbico); il nucleo centrale dell’amigdala, insieme ai nuclei ipotalamici, è fortemente implicato nella paura, nelle componenti emozionali della memoria e del comportamento, e nelle risposte autonomiche e somatomotorie agli stimoli minacciosi. Dal punto di vista funziona- le questo fascio conduce stimoli nocicettivi epicritici, proptopatici, contribuisce alla componente affettiva del dolore (connessioni limbiche) e attiva la via discendente inibitoria collegandosi alla PAG.

Il tratto spinoipotalamico è composto dagli assoni di neuroni delle lamine I, V e VIII e proietta direttamente ai centri di controllo sovraspinale del sistema nervoso autonomo, attivando risposte endocrine e cardiovascolari complesse.

L’ipotalamo è verosimilmente l’area del cervello più importante per la regolazione e l’integrazione delle principali funzioni dell’organismo; a questo livello le funzioni neurovegetative, neuroendocrine, affettive, emozionali e co- gnitive si incontrano tra loro grazie a un flusso costante di informazioni provenienti dalle principali strutture del sistema nervoso centrale. L’ipotalamo svolge il suo ruolo sul dolore sia attraverso il tratto spinoipotalamico sia at- traverso il fascio trigeminoipotalamico, filogeneticamente più antico, che porta informazioni, sia dolorose che non, dalle strutture della testa: tali stimoli raggiungono direttamente l’ipotalamo dalle strutture meningee, dalle arterie intra ed extracraniche, dalla cute della testa e del viso, dalla cornea, dalle mucose, dalla polpa dentaria e da altre regioni del capo.

L’informazione nocicettiva non è però il prodotto della sola attività delle vie ascendenti poiché il sistema nervoso centrale è dotato di almeno due differenti sistemi di controllo del dolore ben integrati fra loro: uno rapido, basato su meccanismi intraspinali metamerici, la “teoria del controllo a cancello” (Melzack e Wall, 1965), l’altro più lento, basato su meccanismi riflessi discendenti multisinaptici attivati dallo stesso dolore («controllo endogeno del dolo- re», Basbaum e Fields, 1978).

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Le differenze fra i due meccanismi sono numerose, ma quella più saliente è rappresentata dalla differente suscetti- bilità al naloxone, antagonista oppioide a vasto spettro: il controllo metamerico è naloxone-indipendente, mentre il controllo endogeno è in gran misura naloxone-dipendente.

1.3.5 Teoria del controllo a cancello.

Una prima modulazione avviene a livello spinale, più precisamente a livello della sostanza gelatinosa di Rolando;

questa modulazione nocicettiva è spiegata dalla teoria del “gate control”, formulata da Melzack e Wall nel 1965 e modificata dagli stessi nel 1982.

Essa si basa sull’osservazione che l’attivazione delle fibre A afferenti (di grosso calibro), in seguito a stimoli di entità medio-lieve, crea uno sbarramento che inibisce la liberazione di sostanza P da parte delle fibre C di piccolo calibro, impedendo così la percezione dolorosa in quel dermatomero (inibizione per chiusura della porta). Al contrario, la stimolazione ripetuta delle piccole fibre C determina l’apertura della porta e la conseguente diminuzione della soglia del dolore.

Il ruolo di “gate” è svolto dalle cellule T, attraverso interneuroni spinali, mediante un meccanismo legato alla quan- tità di impulsi che esse ricevono simultaneamente dalle fibre di grosso e di piccolo calibro. Superata una certa soglia (livello critico), sembra che la scarica provochi un’importante attivazione non solo neocorticale, ma anche a livello del sistema limbico-motivazionale, con conseguenti reazioni comportamentali e neurovegetative alla percezione cosciente del dolore (ipotesi del sistema di controllo a cancello, “gate control system).

Le cellule T entrano in contatto anche coi sistemi discendenti di modulazione.

Questi meccanismi di “gate control” possono essere attivi anche ad altri livelli del sistema nervoso centrale, come, ad esempio, il talamo.

La teoria del “gate control” si riferisce quindi ai sistemi rapidi di elaborazione e controllo della trasmissione sensiti- va intraspinale, e contempla pertanto quattro componenti:

1) interazione funzionale fra afferenze a conduzione rapida (Aβ) e lenta (Aδ-C), dimostrata dall’inibizione rapida del dolore per stimolazione ripetitiva di fibre Aβ-δ afferenti allo stesso livello metamerico fino al raggiungimento di dolore puntorio (stimolazione periferica transcutanea dell’area algica);

2) ricca dotazione di interneuroni nel corno posteriore, specie nelle lamine I-II;

3) controllo centrale delle stesse aree da parte di efferenze discendenti (dai metameri spinali più craniali, dai nuclei di Goll e di Burdach, dai nuclei del rafe e locus coeruleus, dal tetto mesencefalico, dall’ipotalamo, dal n. parafascico- lare del talamo, dalla corteccia fronto-parietale e da collaterali piramidali, etc.);

4) neuroni spinotalamici di proiezione, deputati all’elaborazione sinaptica e trasmissione del messaggio doloroso, suscettibili di modificazioni plastiche.

1.3.6 Il controllo discendente della modulazione del dolore

Oltre alla modulazione a livello intraspinale, il segnale che percorre i neuroni afferenti primari può essere soggetto anche a una seconda modulazione di tipo endogeno.

Questo fenomeno è noto come “antinocicezione” e, ad essa, possono partecipare svariate categorie di agenti antino- cicettivi, come gli endocannabinoidi, i peptidi oppioidi, l’adenosina e il fattore inibente le citochine leucocitarie.

L’informazione nocicettiva non è quindi solo il prodotto dell’attività della vie ascendenti ma è la conseguenza dell’in- terazione fra un sistema di trasmissione nocicettiva ascendente e uno di modulazione antinocicettiva discendente.

La via di modulazione del dolore maggiormente conosciuta è quella che origina dalla corteccia cerebrale e si dirige verso il tronco cerebrale; qui prende contatto con la sostanza grigia periacqueduttale, con il bulbo ventromediale ro-

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strale e con il nucleo del rafe magnum; distalmente le proiezioni discendenti giungono fino alle corna posteriori del midollo spinale attraverso le fibre del funicolo dorso laterale. Per quanto ognuna delle strutture coinvolte possa eser- citare un controllo autonomo sul dolore, queste sembrano funzionare più come un’unità esercitante un controllo globale e non semplicemente localizzato e topografico sui neuroni che convogliano il dolore nel corno dorsale. Esse esercitano a questo livello una modulazione di tipo soprattutto presinaptica sulle fibre che trasportano lo stimolo.

Esistono altre aree del tronco cerebrale implicate nell’inibizione discendente: il tegumento pontino dorsolaterale, che è la sorgente principale dell’innervazione noradrenergica delle corna dorsali del midollo e le interconnessioni anatomiche tra bulbo ventromediale rostrale e tegumento pontino dorsolaterale.

Le vie di trasmissione e le vie di modulazione dello stimolo doloroso, sia ascendenti che discendenti, utilizzano dei neurotrasmettitori peptidici e non. Tra i primi i più importanti sono gli oppioidi endogeni e la sostanza P. Gli oppio- idi endogeni (metenkefalina, dinorfina, endomorfina, deltorfina) agiscono su specifici recettori, identificati dalle lettere greche µ, δ, e κ, con una distribuzione non ubiquitaria.

I recettori µ si trovano prevalentemente a livello cerebrale, i recettori κ a livello midollare mentre i recettori δ sono presenti in entrambi i distretti. Ai tre recettori corrispondono oppiacei endogeni differenti: la beta-endorfina è attiva soprattutto a livello del recettore µ, la dinorfina è attiva essenzialmente sui recettori κ, le encefaline sono attive a livello del recettore δ. Recentemente è stato scoperto anche un quarto recettore, chiamato “orfano”, perché ancora non era stato scoperto l’oppioide specifico, che è stato in seguito identificato e chiamato “orfanina” o “nocicettina”:

in alcune condizioni sperimentali agisce come antagonista degli oppioidi endogeni ma si pensa che, in condizioni diverse, possa svolgere anche un ruolo analgesico.

Anche la somatostatina è un neuropeptide con azione prevalentemente antagonista degli oppiacei e ne contrasta quindi l’effetto analgesico.

L’inibizione discendente proveniente dalla sostanza grigia periacqueduttale e dal bulbo ventromediale rostrale è mediata da recettori serotoninergici e noradrenergici presenti nel midollo spinale.

L’importanza dei recettori spinali noradrenergici è stata confermata da numerose ricerche che dimostrano come la somministrazione intratecale o epidurale di clonidina, un farmaco α2 agonista, produca analgesia negli animali così come nell’uomo. Anche la somministrazione di serotonina produce effetti simili, solo che la serotonina ha an- che altri effetti come il controllo motorio e la regolazione vasomotoria.

Anche altri trasmettitori provenienti dal tronco cerebrale contribuiscono al controllo discendente: l’acido γ-butirrico (GABA), le encefaline, il glutammato, la somatostatina, la sostanza P e la colecistochinina.

Gli stimoli naturali che attivano il sistema inibitorio discendente includono lo stress (analgesia stress-indotta), la paura e l’ansia, l’esercizio intenso e prolungato e l’attività sessuale.

Se esiste un’inibizione discendente, esiste però anche un sistema discendente facilitante, che utilizza le stesse strut- ture neuronali e trasmettitoriali, con la differenza che risiede solo nell’intensità della stimolazione o nella concen- trazione delle sostanze introdotte. In generale, la facilitazione è prodotta da correnti di bassa intensità, mentre l’ini- bizione è prodotta da alte intensità di stimolazione.

1.4 Definizione e inquadramento tassonomico del dolore

1.4.1 I vari tipi di dolore

Per poter comprendere correttamente i fenomeni clinici e fisiopatologici relativi al dolore e per migliorare la comu- nicazione tra tutti gli studiosi di questa tematica, sia a livello clinico che sperimentale, è indispensabile premettere, oltre a quella di dolore, anche la definizione di altri termini (Merskey, 1994):

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Soglia del dolore  La più piccola esperienza di dolore che un soggetto è in grado di riconoscere. E’ un’esperienza soggettiva, mentre l’intensità dello stimolo è un evento esterno, oggettivo e misurabile.

Tolleranza  Il livello più alto di dolore tollerabile. E’ un’esperienza squisitamente soggettiva.

Disestesia  Sensazione anomala spiacevole, non necessariamente dolorosa, che si manifesta con parestesie spon- tanee o evocate. Disestesia è quindi un termine piuttosto generico, riferibile ad una grande varietà di dolori causati da stimoli periferici o ad insorgenza spontanea. Nella definizione di disestesia occorre porre attenzione all’aggettivo

«abnorme»: un dolore con caratteristiche disestesiche è un dolore inusuale, «strano», che il paziente difficilmente ha avvertito in precedenza. Si tratta di dolori urenti, simili a scosse elettriche, a punture di spillo, avvertiti sempre nel territorio di innervazione di un nervo o di una o più radici nervose. Le disestesie sono provocate dalla sensibiliz- zazione dei nocicettori C.

Parestesia  Sensazione anomala, in genere non dolorosa, che può essere spontanea o evocata. E’ descritta come

“formicolio” o come “puntura di spillo” e si ritiene rifletta l’attività spontanea di fibre Aβ.

Iperestesia  Aumentata sensibilità ad uno stimolo. Si usa per indicare in senso generale una diminuzione della so- glia ad uno stimolo (tattile, termico, dolorifico), oppure per definire l’aumentata risposta ad uno stimolo che viene riconosciuto normalmente. Casi particolari di iperestesia sono l’iperalgesia e l’allodinia.

Iperalgesia  Aumentata risposta a uno stimolo normalmente non doloroso.

Questo termine deve essere utilizzato in tutti quei casi in cui si ha una risposta aumentata con soglia normale o an- che con soglia aumentata, come nei pazienti con neuropatia. Il termine “iperalgesia” può essere utilizzato quando è presente un’alterazione del sistema nocicettivo con sensibilizzazione centrale o periferica.

L’iperalgesia meccanica è divisa in:

- Iperalgesia statica: una lieve pressione sulla cute evoca dolore. E’ mediata da nocicettori C;

- Iperalgesia puntata: è ottenuta da stimoli puntiformi come la puntura di spillo. E’ mediata da nocicettori Aδ sen- sibilizzati;

- Iperalgesia dinamica: il passaggio di un pennello evoca dolore. E’ mediata da fibre A beta.

L’iperalgesia da freddo e quella da caldo sono mediate da nocicettori C.

Allodinia  E’ la percezione di dolore, anche intenso, in risposta a stimoli che normalmente non sono dolorosi, in particolar modo se tattili. Si tratta quindi di un errore nell’identificazione della qualità dello stimolo.

Nel 1996 Greceley sosteneva che “lo sfioramento della cute con un batuffolo di cotone non genera alcuna sensazione sgradevole o dolore. Quando ciò avviene parliamo di “allodinia” (Sang e Gracely, 1996).

Nella genesi dell’allodinia è stata ipotizzata la reinnervazione della lamina II, parzialmente deprivata per lesione neuroperiferica di afferenze Aδ-C, da parte di fibre afferenti mieliniche di grosso calibro, o un’ipersensibilizzazione dei neuroni spino-talamici ad ampia dinamica (sensibili cioè a stimoli nocivi e non nocivi), per potenziamento a lungo termine NMDA-mediato. Quest’ultima ipotesi, che si adatterebbe particolarmente ai casi in cui iperalgesia ed allodinia coesistono, trova supporto sperimentale nel fatto che l’allodinia da danno neuroperiferico è preceduta da una marcata e selettiva espressione della subunità α2-delta del canale del Ca2+ voltaggio-dipendente di tipo L nei rispettivi neuroni ganglionari (Luo et al., 2001).

Ciò può spiegare l’efficacia antidolorifica del gabapentin, farmaco antiepilettico selettivo per tale subunità.

Alloestesia  E’ la percezione di dolore superficiale in un’area normoestesica differente da quella ipoestesica sti- molata. Può assumere carattere controlaterale, nel qual caso è più correttamente definita allochiria. È attribuita alla conduzione del messaggio nocicettivo attraverso il contingente ascendente omolaterale del tratto spinoreticolare.

Iperpatia  Sindrome dolorosa nella quale dopo uno stimolo, specie se ripetuto (sommazione spaziale o tempo- rale) si ha una reazione dolorosa abnorme. E’ di solito associata a lesioni centrali vascolari o tumorali, soprattutto talamiche.

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Il fenomeno iperpatico consiste in una risposta dolorosa, esplosiva, evocata da aree cutanee ipo o anestesiche a causa di stimolazioni intense ripetute. L’iperpatia riflette la deafferentazione periferica o centrale che determina l’innalzamento della soglia da una parte e un’ipereccitabilità centrale dall’altra. In questo tipo di dolore possono essere presenti anche erronee identificazioni e localizzazioni dello stimolo.

Analgesia  Assenza di dolore in presenza di stimolazioni che normalmente sono dolorose.

Dolore parossistico  E’ un dolore trafittivo tipo scossa elettrica o pugnalata, tipico, ad esempio della nevralgia del trigemino. E’ provocato da stimoli meccanici innocui. Non si ottiene da stimoli dolorosi.

Deficit sensitivo e dolore  Tipico del dolore neuropatico è la perdita parziale o completa della funzione sensitiva afferente e della presenza di alcuni iperfenomeni nell’area dolente. La perdita delle sensibilità può coinvolgere tutte le modalità sensitive, ma la perdita delle funzioni spino-talamiche (freddo, caldo, puntura di spillo) sono cruciali.

Dolore riferito  Diffusione anomala del dolore in conseguenza lesioni anomale e/o centrali. Il dolore riferito è generalmente descritto a partenza da strutture profonde verso strutture cutanee. Questa irradiazione anomala è correlata con variazione dei neuroni spinali ad ampio spettro dinamico (WDR) che codificano le informazioni no- cicettive. I neuroni WDR sono caratterizzati da campi recettoriali piccoli eccitati da stimoli non dolorosi circondati da una zona estesa nella quale gli stimoli dolorosi possono scaricare stimoli ad alta frequenza. Questi ampi campi recettoriali possono estendersi sovrapponendosi per più dermatomeri e riflettono interconnessioni sinaptiche pro- priospinali nel corno spinale dorsale che si estendono per vari segmenti.

1.5 Durata del dolore

1.5.1 Dolore acuto

Il dolore acuto è generalmente provocato da stimolazioni nocive per i tessuti (ustioni, punture, pizzicamenti ecc.).

In tali situazioni il dolore ha la funzione di sentinella e avverte l’individuo di una potenziale situazione di pericolo: in questi casi è evidente il concetto classico di dolore come “segnale d’allarme”.

L’applicazione di stimoli intensi, sia nell’uomo che nell’animale, innesca numerose reazioni, come ad esempio la retrazione, la fuga, l’urlo e l’immobilizzazione della regione colpita: tutte queste manifestazioni hanno lo scopo di sottrazione dalla stimolazione dolorosa, di avvertimento verso chi è accanto e di protezione dei tessuti lesi.

Il dolore acuto, quindi, determina un tipo di comportamento volto a eliminare o ad evitare il pericolo. I riflessi del si- stema motorio, l’attivazione del sistema nervoso simpatico e l’apprendimento di modalità volte a prevenire il dolore sono i mezzi di difesa attuati in tal senso. Gli stimoli dolorosi vengono quindi classificati come stimoli nocivi (algici), mentre le reazioni come comportamenti di difesa antalgica.

In definitiva, il dolore acuto, in condizioni normali, funge da «campanello di allarme» per avvertire l’individuo che esiste un danno tissutale o un imminente pericolo di danno. La differenza significativa fra questo e i comuni sistemi di allarme (che possono essere disattivati una volta assolto il loro compito) risiede nel fatto che il dolore causato da danno dei tessuti somatici tende a mantenersi nel tempo e, in caso di danno delle fibre nervose o del sistema nervoso centrale, a trasformarsi in dolore cronico o «dolore inutile».

1.5.2 Dolore cronico

Una definizione basata esclusivamente su parametri temporali definisce il dolore cronico come un dolore che dura da più di tre mesi.

John John Bonica, padre fondatore della IASP, ha proposto una definizione più articolata affermando che “il dolore cronico è quello che si mantiene oltre il tempo normale di guarigione”.

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I dolori cronici sono la conseguenza e l’espressione di modificazioni fisiopatologiche permanenti ed è significativo che le reazioni comportamentali non riescano ad eliminare la causa del dolore.

Quando il dolore diventa cronico invade l’universo affettivo dell’individuo; subentrano reazioni e adattamenti di or- dine psicologico e psicosociale: il dolore si trasforma in una malattia vera e propria e la sofferenza diventa cronica.

“Nella sua forma patologica cronica,” continua John John Bonica “il dolore non ha più una funzione biologica ma è, al contrario, una forza malefica che impone al malato, alla sua famiglia e alla società gravi stress emotivi, economici e sociali”.

Le manifestazioni di sofferenza in caso di dolore cronico sono simili fra uomo ed animale: l’atteggiamento diventa cauto, la mimica sofferente, la vitalità ridotta e cambia il modo di rapportarsi con gli altri individui della specie. Le persone con dolore cronico spesso non sono più in grado di lavorare, hanno un calo dell’appetito, hanno un sonno peggiore, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, e manifestano irritabilità.

1.6 Psicopatologia del dolore

“Vuoi ascoltarmi mia cara? C’è qualcosa di nuovo, ne sono sicura, dal momento che nessuno vuole ascoltarmi. Niente di bello.”

“Stai male, cara mamma?”

“Io penso che ci sia dolore nella stanza”, disse Mrs Gradgrind, “ma non potrei dire con sicurezza di averlo io”

(Charles Dickens, 1854)

1.6.1 Introduzione alla psicologia del dolore

L’esperienza del dolore costituisce un fenomeno complesso in cui si trovano intrecciate componenti fisiche e psico- logiche di fatto inscindibili nell’immediata percezione; ciò si verifica sia nei casi in cui la sua origine vada primaria- mente e chiaramente collocata a livello organico sia che i processi emotivi svolgano un ruolo centrale e determinante per la sua genesi.

Il dolore non è semplicemente il prodotto finale di un sistema di trasmissioni sensoriali lineari ma è un processo dinamico che produce continue interazioni con il sistema nervoso.

Quindi, considerare unicamente le componenti sensoriali del dolore, ignorando le sue proprietà motivazionali-af- fettive, porta ad avere una visione del problema limitata ad una sola parte.

Anche da un punto di vista psicopatologico, il dolore è un argomento concettualmente molto difficile, arduo da descrivere e categorizzare: il solo aspetto chiaro è che esso rappresenta uno stato di sofferenza soggettiva del pa- ziente.

Il significato del termine dolore è qualcosa di più del dolore stesso e, spesso, è il motivo per cui le sensazioni vengono interpretate come sofferenza. Un paziente con bruciore di stomaco può sospettare l’insorgenza di un cancro allo stomaco se tra i suoi parenti c’è familiarità per questa malattia. La relazione tra i sintomi e il loro significato spesso non è lineare.

Tra i pazienti psichiatrici, l’accusare dolore può essere associato con un’incertezza diagnostica (Anstee, Fleminger, 1977).

Gli aspetti fenomenologici dell’esperienza del dolore non hanno ricevuto un’adeguata rilevazione, benché in medi- cina generale questa sia, più di ogni altra, l’area in cui la fenomenologia potrebbe essere più utile, giacché il dolore è

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