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Cronache Economiche. N.024, 15 Dicembre 1947

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QUINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO

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P I A Z Z A C A R I G N A N O I N T O R I N O

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N . 24 15 Dicembre 1947

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E b U l l U l l l b h E

QUINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO

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C O N S I G L I O DI R E D A Z I O N E dott. A U G U S T O B A R G O N I prof. dott. A R R I G O B O R D I N prof. avv. ANTONIO CALANDRA dott. G I A C O M O F R I S E T T I prof. dott. S I L V I O G O L Z I O p r o f . d o t t . F R A N C E S C O P A L A Z Z I - T R I V E L L I * prof. d o t t . L U C I A N O GIRETTI D i r e t t o r e d o t t . A U G U S T O B A R G O N I C o n d i r e t t o r e r e s p o n s a b i l e

LA F A V O L A D E L N A B A B B O

C'era una volta un Re, anzi un Nababbo, il quale

reggeva felicemente le sorti d'un impero ricco di gem-me, d'ori ie di uomini industri che alacremente opera-vano per aumentare la prosperità dei singoli e della comunità. Fra le attività 'cui maggiormente si dedica-vano i sudditi del nostro Nababbo spiccava quella del commercio internazionale 'con paesi vicini e lontani. A mezzo di tale commercio i prodotti degli artigiani e operai del luogo venivano con reciproco vantaggio scambiati con gli altri prodotti in cui più eccellevano gli stranieri. Tutto sarebbe dunque andato per il me-glio nel Principato della nostra favola, se — come in tutte le favole degne 'd,i questo nome — non fosse com-parso un Orco e cioè una potenza maligna, rappre-sentata qui da un'organizzazione di interessi occulti e sfruttatori che riuscì a procurarsi il monopolio dei dazi posti alle frontiere sui beni importati per essere destinati al consumo degli abitanti, con la conseguenza di aumentarne indebitamente il costo e di diminuire quindi assai il benessere del Principato.

Il Nababbo, che si considerava iil primo servitore del suo paese e teneva alla felicità dei sudditi, decise di combattere la potenza del male. « Fece ricorso a un espediente inatteso — racconta una cronaca dei suoi tempi — e improvvisamente a'bolì del tutto i dazi sul commercio internazionale ». Era questo, fuor di dub-bio, il rimedio adatto a combattere i malefici del-l'Orco. « Mai c'era stato — continua la cronaca — un metodo più efficace, più semplice e più equo per sba-ragliare le vessazioni del monopolio ».

Purtroppo però questa nostra favola ha una triste fine, perchè l'organizzazione monopolistica, così dura-mente e improvvisadura-mente colpita nei suoi interessi, riuscì con pretesti bugiardi a fomentare disordini nel Principato. Il Nababbo venne deposto, i dazi sul com-mercio rimasero e l'Orco continuò a prosperare alle spaile degli ingenui.

Cose del genere capitano purtroppo spesso, nella storia, ed anche quella che abbiamo riportato non è una ¡fiaba triste, ma un fatto storico realmente acca-duto. Il Nababbo era Cossim Ali Khan, signore del Bengala; l'organizzazione monopolistica e sfruttatrice la Compagnia delle Indie, e il cronista Edmund Burke, che si valse di tale avvenimento, nel 1783, come di un capo d'accusa nelle sue requisitorie parlamentari con-tro Warren Hastings (1).

Come da tutte le favole o dagli avvenimenti della storia, anche da quelli concernenti il Nababbo Cosisim Ali Khan può trarsi una morale, la seguente: che cioè il Nababbo vide allora il meglio, ma non agì per « meglio; operò da moralista, ma

non da politico; si propose un fine di giustizia, ma non seppe rag-giungerlo. Si può dire di lui ciò che Machiavelli diceva ne « Il Princi-pe » di coloro che si raffigurano Repubbliche e Principati quali mai si son visti nella realtà, non misu-rando la differenza che corre da •come si vive a come si dovrebbe vivere, preferendo stoltamente la

il

immaginazione delle cose alla « verità effettuale » di esse, incorrendo così in fallimenti immancabili che riducono a zero la somma di tutte le loro buone in-tenzioni.

Di questa morale bisogna tener conto proprio oggi, quando molti uomini di buona volontà di ogni paese, apparentemente ammaestrati dalla esperienza dei di-sastri del recente passato, vanno discorrendo e trat-tando di leghe doganali, di unioni economiche e di fe-derazioni politiche. Bisogna agire in maniera che gli Orchi della favola, le organizzazioni monopolistiche e sfruttatrici, i « vested interests », creàti dappertutto da cinquanta e più anni dal protezionismo e da un inter-ventismo statale falsamente orientato, non abbiano da coalizzarsi ancora una volta, riuscendo purtroppo a far deporre — come il Na'babbo — i Ibene intenzionati che non si dimostrassero abbastanza a v v e d u t i . Come i

« bootleggers », i contrabbandieri d'alcool americani,

furono i più accaniti fautori del proibizionismo che co-stituiva per loro la ragione prima di larghi cespiti di entrata; come i « borsaneristi » d'ogni tempo sono sem-pre stati 'i partigiani più accesi dei calmieri e' degli ammassi, così il presente, disordinatisisimo e caotico sistema feudale dell'Europa e del mondo, dovuto in primo luogo all'interventismo protezionista, troverebbe difensori potentissimi sia nei baroni della burocrazia che interviene e protegge, sia in quelli protetti, Eia infine nei contrabbandieri della produzione e dello scambio, tutti insieme alleati per combattere senza esclusione di colpi chi volesse toglier loro d'un tratto la fonte del guadagno.

E' per simile « verità 'effettuale » che, pur essendo i piani di moda — così come generalmente li si intende — mere superstizioni, rivelantisi alla lunga assai dannose per l'economia, un'eccezione può esser fatta per un piano a lunga scadenza, che Serva a smobilitare poco alla volta, gradualmente, le sovrastrutture malsane cresciute nelle serre protezioniste, concedendo loro la relativa sicurezza di una morte lenta e contribuendo in tal modo ad evitarne la lotta a coltello, difensiva e coalizzata, contro le forze del bene e della prosperità. Nel 'tentare opera coraggiosa e rivoluzionaria quanto quella del ritorno alla libertà economica occorre sag-giare bene le forze degli infiniti avversari e non ri-nunciare a nessuno degli elementi capaci a tenerli in ¡scacco.

*

S O M M A R I O :

(A. Crespi)

Deflazione privata e inflazione pub Crisi del Piemonte (A. Bordin)

Rosa dei venti

(1) The works of the right honoura-ble E d m u n d Burke. - L o n d r a , G e o r g e

B e l l & S o n s , 1889. . V o l . I V , p a g . 56.

Borsa compensazioni

Macchine per l'industria (G. F. Miche-pag- 14

Notiziario estero pag. 17 . pag. 2 Il mondo offre e chiede pag. 19 i- D i s p o s i z i o n i u f f i c i a l i p e r il

4 c o m m e r c i o con l'estero pag. 21 • Pag. 5 Breve rassegna della « G a z z e t t a

uf-. paguf-. 9 f i c i a l e » pag.

li

(4)

APPUNTI DI SIMBOLISMO ISTITUZIONALE

La notizia della conclusione a Ginevra dell'accordo

tra ventitré nazioni per ridurre le tariffe doganali nel

mondo ci è giunta simultaneamente o quasi col nobile

discorso Truman concernente gli aiuti econcmici

all'Europa e col discorso Marshall in reazione, come

già il discorso Attlee, alla campagna sovietica contro

il successo del piano Marshall, proprio nel

mo-mento in cui a Londra la celebrazione del

matri-monio della Principessa reale, or Duchessa di

Edim-burgo, col luogotenente Mountbatten, or Duca di

Edimburgo, ha dato luogo a manifestazioni di

entu-siasmo superiori a quelle stesse per la vittoria finale

sull'Asse. E' fortuito questo- convergere di eventi?

O vi è tra essi un qualche profondo nesso organico?

S:no queste manifestazioni mere espressioni di

su-perficiali emozioni da parte di folle volubili, forse

più o meno servili, in reazione alla politica

dell'au-sterità o alla propaganda antimonarchica del

grup-petto comunista, o hanno esse un significato

pro-fondo e non meramente inglese o anglosassone?

Ecco alcune domande a-cui vorremmo cercar di

rispondere con una seria analisi storica e

sociolo-gica, convinti -come siamo che ci sono verità su

questi punti che in Italia sono ignorate o

sotto-valutate.

E' un fatto indiscutibile che se nel 1939 non fosse

esistito tra l'Inghilterra, l'Australia, la Nuova

Ze-landa, il Canadà, Terranova, il Sud Africa, ecc.

quell'unico vincolo che è ormai il vincolo dinastico;

ossia se questi paesi fossero stati con l'Inghilterra

nella stessa relazione che gli Stati Uniti, essi non

si sarebbero immediatamente trovati in guerra con

l'Asse ed è estremamente probabile che a sarebbero

l'uno dopo l'altro caduti preda della Germania e

del Giappone con tutta l'Europa, l'Asia, l'Africa e

come tanti paesi neutri europei, ovvero... sarebbero

intervenuti troppo tardi per sè e per l'Inghilterra!

Senza l'immediata cooperazione dell'Impero

Bri-tannico l'anno d'eroica solitaria resistenza

dell'In-ghilterra sarebbe stato impossibile; senza gli aiuti

transoceanici dal Canadà e soprattutto

dall'Au-stralia e dalla Nuova Zelanda, il Mediterraneo

sa-rebbe stato ben presto perduto. .V'è di più. Pur dopo

tale solitaria annata di resistenza e pur dopo

quel-l'intervento americano che Dio solo sa quanto

an-cora avrebbe potuto tardare senza l'attacco

prodi-torio giapponese a Pearl Harbour, la vittoria sul

Giappone sarebbe stata immensamente difficile je

forse Impossibile senza le basi navali ed aeree

prov-vedute dall'Impero Britannico in India, in Africa,

in Oceania; pur quella sulla Germania sarebbe stata

immensamente più difficile senza le basi navali nel

Med.terraneo e in Africa.

Senza la solitaria resistenza britannica prima, e,

immediatamente dcpo, senza gli aiuti materiali

con-siderevoli americani e britannici inviati alla Russia

per le vie dell'oceano Artico sfidando i sott; marini

tedeschi o per la via del golfo Persico, la Russia

sovietica che parecchie volte f u lì lì per ricevere

colpi mortali, presso che certamente sarebbe stata

vittima. Tante sono le inestimabili conseguenze del

persistere del vincolo dinastico imperiale tra i

po-poli dell'Impero Britannico sparsi per tutti i

con-tinenti e divisi da tanti oceani.

Né questo è tutto. L'inglese che dopo la vittoria

alleata contempla il resto dell'Europa non può

es-sere cieco al fatto che è solo nella Norvegia, nella

Svezia, nella Danimarca, nell'Olanda, nel Belgio,

cioè in monarchie più o meno nordiche dall'Impero

Britannico liberate, che, all'infuori della Svizzera,

sono sicuramente rispettate le libertà individuali, le

libertà di riunione, d'associazione, di stampa, di

co-scienza, di culto. In tutte le repubbliche europee,

tranne la Svizzera, o ci sono dittature, talora

ultra-dispotiche come quelle sotto controllo sovietico,

ov-vero vi è pericolo di cadere o ricadere sotto regimi

dittatoriali, spesso per pressione di partiti di massa.

Pur nel Nuovo Mondo è così: l'Argentina è una

dittatura; nessun Dominion Britannico ha la

mi-nima voglia di toglier la testa del re britannico dai

suoi francobolli per divenir pari in dignità e libertà

di qualsiasi repubblica americana; nemmeno degli

Stati Uniti, giacché mediante la chiara distinzione

tra le funzioni del Re e quelle del Gabinetto

responsa-bile al Parlamento, è resa impossiresponsa-bile, in momenti

gravi, la perdita di tempo talora pericolosissima, che

può derivare dall'essere il Presidente, come capo

d'un partito, di fronte talora a un Parlamento

do-minato dal partito opposto. E la stessa Svizzera, che

è sola fra le repubbliche europee a dar tuttavia

sta-bile esemplo di civiltà e libertà, sopravvive a tutte

le altre repubbliche in questo carattere solo perchè

l'anno di solitaria resistenza britannica rese

pos-sibile la successiva integrale vittoria alleata!

Senza di questa probabilmente gli Stati Uniti

sarebbero non solo la sola repubblica superstite, ma

l'unica oasi di libertà nel mondo intero. E se noi ci

chiediamo perchè gli Stati Uniti siano quella tra le

repubbliche americane che, da che esiste, è sola a

nor> aver conosciuta altra dittatura dopo quella di

Washington e la sola che non ha pressoché mutata

la sua Costituzione, troviamo 'che ciò è dovuto al

fatto che i Padri di questa, sotto l'influenza

del-l'ammirazione del Montesquieu per la monarchia

inglese, cercarono di mantenerne tutto ciò che si

poteva nonostante l'impossibilità di avere un

mo-narca e una Camera ereditaria, e di nulla erano

più preoccupati che della necessità di non essere

una... democrazia, cioè un governo dittatoriale da

parte di -una maggioranza numerica, senza riguardo

a diritti di individui e di minoranze. Nessun

feno-meno più ha colpito l'Inghilterra che pensa dello

spettacolo offerto dalla Germania, da questo pcpolo

che pareva assurto al monopolio naturale della

cultura, nel mandare a spasso dozzine di dinastie

e nel prostituirsi poi ai piedi d'un imbianchino

ne-vropatico, seguito da un'orda di nevropatici e

squi-librati come lui, spesso emersi dalla feccia della

popolazione. Ecco perchè a ogni inglese che pensa

la sopravvivenza pur ora in tanti spiriti d'Europa e

d'America di entusiasmi per l'ideologia repubblicana

pare pur essa un fenomeno psicopatico. Non si era

la Germania data la più perfetta delle cicstituzioni

repubblicane fin qui concepita?

Ebbene come si spiega storicamente e

sociologica-mente questa sopravvivenza e questo indubitato

im-menso successo del vincolo dinastico in un popolo,

che nessuno che lo conosca può accusare di servilità,

visto che non son pochi nella sua storia i re uccisi

o costretti ad abdicare e che esso ha preceduto la

Francia nel dar l'esempio d'una solenne

decapita-zione, dopo processo più io meno regolare d'un re,

e visto che è solo nel 1937 che un altro sovrano —

Edoardo V i l i — si vide additata la via

dell'abdica-zione nientemeno che dall'Arcivescovo di Canterbury

della Chiesa Anglicana di cui il Re è capo e da un

Primo Ministro, capo non di radicali o di socialisti,

ma del partito conservatore?

Per spiegare degnamente il fenomeno occorrerebbe

scrivere un intero commento di quelle Riflessioni sulla

Rivoluzione Francese, che, se pur contengono molti

radicali fraintendimenti di questa da parte del

Burke sono un documento luminosissimo del come

funziona politicamente lo spirito inglese pur oggi.

Ci limiteremo a dire che la spiegazione potrebbe

riassumersi così. A cagione della conquista

norman-na del 1066 si trovarono di fronte ima forte

Mo-narchia, una forte aristocrazia feudale ed un forte

popolo vinto anglosassone; ossia tre forze di cui

nes-suna potè mai sopraffar da sola le altre due, e di

cui ciascuna ebbe bisogno di qualche altra per

re-sistere alla terza; donde un equilibrio instabile che

un po' alla volta educò tutte al senso del limite e

a preferire l'unità che viene da reciproche

conces-sioni che tutti s'impegnano di rispettare, alla unità

che è mera uniformità livellatrice imposta da una

f

(5)

parte a tutte le altre. S'aggiunga che l'Inghilterra medievale oltre a vari re di genio •— Guglielmo il Conquistatore, Enrico I I e I I I , Edoardo I e I I I f o n -datori del sistema giuridico inglese — ebbe ot-timi cooperatori arcivescovi che prima di essere ecclesiastici erano stati giuristi: tali Lanfranco di Pavia, ed Anselmo d'Aosta, nonché vari altri di grande spirito di conciliazione tra queste parti e di res.stenza nientemeno che a papi come Innocen-zo I I I : tale Stefano Langton, arcivescovo di Londra e padre della « M a g n a Charta ». E' sotto questi in-flussi fondamentali che si è sviluppato il genio emi-nentemente pratico del popolo inglese e che questo, protetto per molti secoli dall'insularità, ha appreso, per dirla col Carlyle, che le piramidi stanno in piedi sulla base e non sul vertice!

Ebbene, è il senso del limite al cuore di questo sempre più diffuso eminentemente genio pratico che ha condotto il popolo inglese alla scoperta che una società, come ogni organismo vivente, ha bisogno ad un tempo di unità e di mutamento e che gli or-gani per la preservazione dell'unità e quelli per l'a-dattamento a nuove circostanze interne ed esterne non possono essere riuniti nelle stesse mani senza presto o tardi condurre a conseguenze disastrose. E' quello che avviene quando un re come Carlo I, oltre a rappresentare il bisogno d'unità, cerca anche con-durre od iniziare la politica di adattamento a :iuove situazioni; o quando un uomo, sia pur di grandissimo genio come Cromwell, oltre ad attendere alla poli-tica si mette in testa di creare o ricreare e rappre-sentare l'unità nazionale. Siccome presto o tardi è inevitabile che si commettano errori, in entrambi questi casi si costringe il popolo o a rendersi cor-responsabile di errori e di colpe io a ribellarsi, in ambo le eventualità mettendo in pericolo la pace e financo l'indipendenza del paese. Ecco ciò che, ri-petendosi più volte, ha finito col condurre alla scoperta della monarchia limitata, cioè a lasciare al M i -nistero e al Parlamento la responsabilità ultima delle innovazioni politiche e ad affidare al caso della nascita o a Dio, cioè a una forza superiore ai con-flitti d'idee e d'interessi politici, la conservazione e la rappresentazione dell'unità. L'esperienza ha inse-gnato che la scelta d'una famiglia il « l i capo rap-presenti l'unità e può essere educato a rappresen-tarla e può esser mandato a spasso o al patibolo ove trasgredisca i limiti assegnatigli dalla legge supe-riore a tutti è il miglior modo di risolvere il pro-blema, in quanto utilizza ai fini della pace e della coesione nazionale le emozioni domestiche connesse nella vita di tutti con gli eventi misteriosi e solenni della nascita, del matrimonio e della morte e le emo-zioni religiose in quanto per chi non crede nella for-tuna o nei fato, pure i casi della nascita, dell'amore e della morte, che interrompono o possono interrom-pere la regolarità della successione, acquistano so-lennità quando sono riguardati come voluti da Dio.

Per di più non v'è chi non veda che i costi e i rischi d'una rivoluzione sono immensamente mag-giori delle spese occasionate da simili festività; que-ste sono financo infinitesimali in confronto delle conseguenze pur di tanti scioperi ufficiali o non ufficiali e di molto assenteismo; e laddove i vantaggi della scoperta di questo vero e proprio meccanismo istituzionale sono, come si vide, incalcolabili :.ion solo per gli inglesi, ma pel mondo intero. Senza dub-bio all'invenzione e alla fortuna di questo meccani-smo ha concorso anche il caso della frequente man-canza di prole nelle famiglie regali inglesi, ciò che contribuì a mantenere sempre vivo il controllo na-zionale in materia di successione; laddove, ad es. in Francia, la prole non mai mancata contribuì a man-tenere per secoli la corona ininterrottamente nella stessa famiglia. M a è indiscutibile che molto a tale invenzione contribuì tanto il concetto medievale del-la regalità e deldel-la autorità come servigio quanto il concetto medievale della legge come superiore al sovrano. Il concetto imperiale romano del princeps

a legibus Solutus non trionfò mai in Inghilterra.

Soprattutto vi contribuì per altro lo sviluppo e la preservazione promossi considerevolmente da in-flussi ecclesiasdcl e monastici, delle istituzioni

rap-presentative parlamentari : sono queste che hanno impedito in Inghilterra lo sviluppo della monarchia feudale prima e poi assolutistica a tipo francese. A n -che i re più dispotici hanno preferito governare per mezzo di parlamenti anche servili, anziché farne sen-za; e durante la guerra delle Due Rose le due case di-nastiche rivali andarono a gara a f a r registrare i pro-pri diritti dal Parlamento. In tempi recentissimi vi è la secessione delle colonie americane che andarono a costituire gli Stati Uniti che, in combinazione con la lunga vedovanza e il lungo regno della Regina Vittoria, contribuì a sviluppare quél regime di Gabi-netto responsabile al Parlamento che, se fosse esi-stito nel secolo X V I I I , avrebbe impedito tale seces-sione, con conseguenze incalcolabili per la pace nel mondo e che, sviluppatosi ininterrottamente dal 1837 in poi, permise lo sviluppo del regime parla-mentare nei paesi britannici transoceanici.

Lord Samuel, liberale ed ebreo, in una recente conferenza ha richiamato l'attenzione sul fatto che, in contraddizione della tesi marxista secondo la quale ogni grande progresso politico sociale non sarebbe stato fin qui che strappato rivoluzionaria-mente dagli sfruttati privilegiati, in Inghilterra, mercè « la diffusa coscienza cristiana, l'abitudine del compromesso tra i partiti e libero gioco delle idee e la pace nella legalità resa possibile dalla monarchia parlamentare, la transizione dal governo aristocra-tico al governo delle classi medie e lavoratrici, non-ché il conferimento dell'autonomia ai Dominion» sotto l'egida della stessa Corona si sono compiuti nel secolo XIX e si stanno compiendo ora (Birmania. India, Ceylon, M a l t a ) senza rivoluzioni dal basso e semplicemente per la forza della persuasione mo-rale, costituendo un fenomeno unico nella sua gran-diosità storica. V'è di più: non è negli Stati Uniti, ma in Giamaica, sotto la Corona britannica, chc-abbiamo un paese governato da negri ed in cui giudici negri possono giudicare cittadini bianchi!

• • •

Ed ora il nesso tra i tre eventi da cui abbiamo preso le mosse — l'accordo di Ginevra riducente le tariffe doganali fra ventitré nazioni, il messaggio Truman al Congresso circa gli aiuti all'Europa e la celebrazione del matrimonio della Principessa Reale d'Inghilterra — è ovvio : quest'ultimo studiato nelle cause storiche che hanno reso possibile una simile cerimonia, in un momento economico tanto buio e grave pel Regno Unito ed in mezzo a manife-stazioni di devozione e d'entusiasmo superiori a quelle stesse della recente vittoria mette in evidenza le forze che sole possono permettere il regolare e co-struttivo funzionamento delle energie economiche: le forze morali. L a condizione essenziale al costrut-tivo funzionamento delle forze economiche si è la possibilità di f a r piani a lunga scadenza e questa esige fiducia nella pace, spirito di tolleranza, di transazione, di rispetto reciproco tra popoli come tra classi sociali; abitudine a preferire la coopera-zione -al conflitto tra le classi, l'unità che è sintesi volontaria di "differenze a quella che è mera uni-formità livellatrice impesta dall'alto. In un mo-mento in cui la Russia e i suoi ammiratori in tutti i modi, per settantadue ore al giorno si sbracciano ad accusar d'imperialismo il mondo anglosassone, vai la pena di meditare l'immenso contributo, a van-taggio di tutti e della stessa Russia, apportato dalla frazione britannica di questo mondo, semplicemen-te mediansemplicemen-te l'invenzione nel corso dei secoli del meccanismo istituzionale che pone in organi di-versi l'appagamento dei bisogni organicamente con-nessi della unità e del divenire sociale in ogni na-zione. Quei riti, quelle cerimonie, quelle istituzioni che, a bella prima, a chi le consideri superficial-mente, paiono mere reliquie feudali, al sociologo osservatore si rivelano i simboli della capacità di preferire il concreto all'astratto, di distinguere ad ogni momento il possibile dall'impossibile e di con-seguire i massimi risultati col minimo sforzo e col massimo comune consenso.

ANGELO CRESPI

(6)

DEFLAZIONE PRIVATA e INFLAZIONE PUBBLICA?

Negli sviluppi della politica anti-inflazionistica

del governo, definita in sintesi dalle cosiddette

«restrizioni creditizie», e nelle reazioni ed effetti

sul complesso economico del Paese sono da

distin-guersi, a nostro avviso, alcune ben determinate e

successive fasi.

— In un primo tempo (luglio-agosto), provocato

dalle iniziative e dai richiami della Banca d'Italia

e dalle crescenti restrizioni praticate dalle

maggio-ri banche (gruppo dell'I.R.I.), abbiamo avuto un

periodo di riflessione, di quasi incredula attesa:

con riflessi sensibili solo sul contegno delle Borse

(caduta dai massimi di maggio) e del mercato dei

beni strumentali.

— In secondo tempo (settembre-ottobre), al

ri-gido obbligato estendersi delle restrizioni per il

com-plesso bancario nazionale hanno corrisposto un

ri-sveglio quasi affannoso, una levata di proteste

vee-menti e una attiva insurrezione — delle

organizza-zioni padronali e di quelle sindacali — contro

au-tori ed esecuau-tori di quella politica: in seguito ad

evidenti e gravi difficoltà di giro e di assestamento

delle economie aziendali, del tutto impreparate alla

brusca inversione degli indirizzi e delle abitudini

facili, assunte in un lunghissimo periodo di

espan-sione dei mezzi di pagamento e dei prezzi.

— In terzo tempo (novembre), con lo stabilirsi

di un giudizio obbiettivo nella pubblica opinione

(compresi ceti e gruppi direttamente colpiti) sulla

necessità dei sacrifici particolari per l'interesse

generale della salvezza monetaria, con l'apparire

dei primi frutti in sensibili ribassi di materie

pri-me e anche di generi alipri-mentari, col volonteroso

sforzo di aggiustamento delle economie aziendali,

si è potuto rilevare un primo adeguamento alla

nuova situazione: con molte premesse —

dall'of-ferta delle materie prime agli abbondanti arrivi

di forniture americane — per il passaggio a una

politica di « produzione » .

Da questi primi giorni di dicembre faremmo

de-correre un quarto tempo, che costituisce per noi

la fase critica e delicata: perchè vengono a galla

le manchevolezze organiche ed esecutive di una

manovra di vasta portata, mossa col tocco quasi

magico di un meccanismo — le restrizioni

credi-tizie — di efficacia insospettata ma pur sempre

parziale. Le restrizioni han potuto segnare lo

spun-to della nuova tendenza, ma debbono essere

inte-grate da direttive convergenti nei vari strumenti

e forme dell'attività economica: altrimenti la

ten-denza stessa rischia di esaurirsi e ci ritroveremo

al punto di partenza, con una nuova delusione e

l'aggravante di dispersioni e di sacrifici

inutil-mente sopportati.

Premettiamo che, parlando di manchevolezze,

non si allude agli uomini che l'odierna politica

economica hanno progettato e vanno con

grandis-sima tenacia conducendo, perchè il problema

eco-nomico si risolve, purtroppo, assai meno in sede

tecnica che non in quella politica: è questione

della forza e autorità dello stato nel seguire una

direttiva (per la quale non mancano certo schemi

né consulenti) in confronto alle fortissime

pres-sioni politico-sociali. Non quindi l'intenzione e la

competenza di quegli uomini sono in gioco, ma i

compromessi inevitabili in uno scontro di forze:

con tale avvertenza sono da porre in rilievo le

pe-ricolose carenze dell'azione del governo, nei

con-fronti della politica anti-inflazionistica:

diretta-mente, nel proprio settore monetario-finanziario

(costi pubblici); indirettamente, nel settore

pro-duttivo-sindacale (costi privati).

E' logico pensare che le « restrizioni creditizie » ,

intese a comprimere l'espansione e le disponibilità

dei settori produttivi, ossia la « spesa privata »,

dovevano essere affiancate da una disciplina

al-trettanto energica della « spesa pubblica » : perchè

altrimenti dal cronico disavanzo del bilancio

sta-tale rinasce e dilaga, in tutti i settori

dell'econo-mia, la spinta inflazionistica. E occorre

riconosce-re che tale affiancamento è mancato dall'origine,

fino a farci concludere che la spesa pubblica resta

la nemica prima del risanamento monetario ed

economico.

Che vale, infatti, aumentare la pressione

fisca-le, pompare il risparmio coi buoni ordinari,

assor-bire indirettamente (tesserandolo ai settori

pri-vati) il risparmio bancario, se poi ogni maggior

entrata viene superata in tromba dalle spese e non

ci salva neppure dalla continua emissione (ancora

13 miliardi in ottobre) di biglietti? Si è riusciti,

con la ripresa dell'apparato fiscale e raggiungendo

limiti pesanti di pressione anche straordinaria, a

contenere il deficit nei 300 miliardi previsti, ma

se continua la corsa delle spese, imposta da fattori

politici e sociali, come potrà frenarsi la stampa

di biglietti?

Converge sul bilancio pubblico un enorme

com-plesso di « spese generali » della collettività, dai

prezzi politici alle integrazioni salariali, al blocco

del personale statale, ai lavori pubblici escogitati

all'infuori dei giudizi di economicità, nella luce

illusoria dello slogan tutt'altro che nuovo del « dar

lavoro » . Tutta la nostra vita economica è viziata

da un paternalismo disordinato e spendereccio,

che accolla al bilancio pubblico il peso di ognuno

e di molti senza conto di funzioni nè di

rendi-mento, spegnendo l'iniziativa e la responsabilità

dell'individuo, ogni stimolo a muovere verso gli

impieghi più utili a sè e al prossimo. I blocchi, i

freni ai trasferimenti dai settori in crisi a quelli

attivi e ampliabili, il mantenimento artificioso dei

complessi inguaribilmente antieconomici, sono

sta-ti gli ostacoli primi alla ricostruzione: si sterilizza

la nostra ricchezza di mano d'opera e si

disper-dono dal bilancio statale i nostri scarsi capitali,

prelevati con imposte, con prestiti e,

indiscrimi-natamente a carico dei ricchi e dei poveri, con

stampa di biglietti.

Quando fu istituito il ministero del bilancio, per

forzare il ritomo al pareggio, pensammo che ciò

doveva comportare al Ministro non già il compito

di inseguire l'equilibrio finale tra le due

gigante-sche colonne di entrate e uscite, ma il potere di

operare in senso qualitativo tra queste ultime:

se-lezionare e ridurre le spese veramente pubbliche,

eliminare senza compromessi gli oneri e le

gestio-ni di natura privata. Invece, evidentemente, il

Ministro deve limitarsi a contenere il danno, a

cir-coscrivere le falle che le richieste esterne tendono

a creare ed allargare.

E' urgente che lo stato normalizzi le sue

fun-zioni e i suoi oneri, in modo da poter rompere non

solo metaforicamente il torchio dei biglietti,

sta-bilizzare una pressione fiscale divenuta fattore

gra-voso dei costi, ridurre il ricorso del Tesoro al

mer-cato del risparmio. Ossia cessare l'inflazione

pub-blica a lato della deflazione privata, garantire alle

aziende un sano ambiente monetario e lasciare

loro i mezzi per assumere, produttivamente, i

carichi privati tenuti dallo stato con scusa di « e m e r

-genza ».

• • «

Pure logico appare, passando al campo privato,

che la pressione sui prezzi investa anche i costi e

che, in sostanza, alla imposta riduzione delle

ca-pacità di spendita dei produttori corrisponda

ana-loga riduzione di quella dei consumatori:

altri-menti, mancando — come manca — un vero

in-cremento della produzione di beni e servizi, si

riforma un potente fattore d'inflazione. Vediamo

(7)

-X, I 3B 1«. ir

C R I S I D E L P I E M O N T E

La Commissione di studio nominata dal-la Camera di Com-mercio ha avuto ed ha tuttora il compito di mettere in luce gli aspetti più sa-lienti dell'economia piemontese, di r a f -frontarli con quelli delle regioni limitrofe

e di seguirne la mu-tevole vicenda, spe-cialmente in questi ultimi anni di f a t i

-cosa e, per vari indizi, ancora non ben orientata ripresa. Essa ha pertanto un fine strettamente conoscitivo anche quando allarga la sua indagine alle cause, ai motivi, cui è dovuto un certo stato di cose; esclude senz'altro dai suoi lavori la dimo-strazione d'una tesi a priori stabilita e tanto più esclude la giustificazione d'una tesi che le fosse comunque imposta.

Per il fine dianzi chiarito la Commissione è stata composta di tecnici, di professionisti, di studiosi che, per coltura ed attività e con l'aiuto della Ca-mera e di altri enti collaboratori, fossero in grado di ottenere le più ricche e sicure informazioni dai vari settori dell'economia piemontese e di descri-verne la fisionomia con la più-stretta approssima-zione al vero. E, mentre con contorno via via più sicuro si andavano delineando i vari capitoli della sua fatica, non ha mancato d'accogliere altri e-sperti, di rilevare la specifica competenza dei suoi componenti ed ha coordinato le diverse indagini

delle quali il primo frutto è l'opera del prof. Zi-gnoli (1). A questo lavoro, appena pronto, segui-ranno altre pubblicazioni sul credito, sull'agricol-tura, sul sistema fiscale, sui trasporti, ecc. Non è punto detto che l'orientamento e la composizione della Commissione siano definitivi: aperta ad ogni critica e ad ogni collaborazione essa accoglie tutti i suggerimenti che si palesino utili al fine che si è proposto.

La Commissione, come tale, orienta dunque le singole indagini e le coordina; il merito e la re-sponsabilità d'ogni lavoro restano ai singoli rela-tori. La seconda e forse la maggiore difficoltà da superare è la ricerca dei dati: scarsissime sono le statistiche regionali, poche e talora mal sicure sono pure quelle a base nazionale, specie se rife-rite a questi ultimi tre anni. A queste lacune s'è tentato di rimediare con inchieste sistematiche sia pure limitate ad alcune aziende tipiche rappresen-tative d'ogni ramo e, nell'impossibilità di sfruttare questa via, si è proceduto alla raccolta di notizie, di rilievi, fatta da persone serene, competenti, e in grado di meritare l'intera fiducia delle aziende interrogate. M a i risultati, almeno , sinora, sono tutt'altrò che cospicui.

Tutto ciò mostra due cose: in primo luogo la necessità di por mano al più presto ad un ben or-ganizzato servizio statistico a carattere regionale. N o n si può parlare di regione e dei suoi problemi senza conoscerla se non per informazioni sporadi-che ed indirette oppure attraverso ad un coro di lamentele non sempre giustificate. In secondo luo-go, che i lavori che si andranno via via pubbli-cando, in particolare i primi, non sono che la prefazione ad altri lavori più completi e

sistema-ti) V I T T O R I O Z I G N O L I - Aspetti tecnici della crisi del

Piemonte - Quaderni di « Cronache Economiche », I -

Camera di Commercio, Industria e A g r i c o l t u r a d i T o -rino 1947.

tici. Nessun relatore ha la pretesa d'aver esaurito il suo tema:

a parte il naturale futuro aggiornamen-to, egli ha coscienza d'aver appena inizia-to un lavoro che per divenire definitivo

re-sta aperto ad ogni nuovo suggerimento e

ad ogni volenterosa I c o l l a b o r a z i o n e . Se, nonostante q u e s t o stato di cose, si è cominciato subito a pubblicare è perchè l'urgenza di certi problemi consigliavano a farlo.

L'esperienza ha purtroppo dimostrato che se è facile udire le critiche ai vigenti ordinamenti eco-nomici, meno facile è ottenere dagli interessati le prove dei loro lamenti, anche quando le domande, e non furono poche, che ad essi si posero, non er9-no nè indiscrete nè pericolose. Il naturale e per vari aspetti legittimo riserbo in cui si avvolge la attività di ogni azienda, delle organizzazioni sin-dacali e di categoria, dei professionisti, ecc., è so-vente portato agli eccessi forse per giustificare lo scarso interesse o addirittura l'avversione a certe inchieste o per evitare una fatica che si spera possa essere sopportata con gli stessi vantaggi da altri.

Questo spirito individualista così diffuso nel no-stro paese se ha taluni aspetti certamente positivi

(bisogna pur prendere gli uomini come sono e non come, secondo le variabili circostanze, si vorrebbe-ro) ne ha altri negativi, dannosissimi: nessun in-teresse di gruppo, di regione, può essere difeso senza il concorso di tutti i loro componenti. L'occasionale sporadico privilegio di alcuni pochi a lungo andare scompare e nella lotta con gruppi compatti ed agguerriti resta infine il danno di tutti. Bisogna pur vedere, e ciò nel proprio illu-minato interesse, un po' al di là della porta della propria bottega, del proprio ufficio, della propria fabbrica: ogni azienda è una cellula d'un tessuto complesso e vasto formato da tutte le altre azien-de, da tutti gli altri operatori, che costituiscono il suo mercato. L'utile individuale che non tenga conto di codesta interdipendenza tosto o tardi di-legua e lascia il posto a .vere e proprie perdite.

Tutte queste cose si son dette non per recri-minare su di una esperienza passata, il che è inutile, ma per invocare maggiori aiuti per-l'avve-nire: forse gli immancabili consensi e le stesse critiche allo studio dello Zignoli susciteranno ima collaborazione più ricca di quella passata. Così vogliamo sperare.

• • •

Non intendiamo riassumere il lavoro del prof. Zignoli ma mettere in risalto il filo conduttore di un'indagine che al massimo si spinge ai primi mesi di quest'anno.

Per scarsità di nascite e perchè sempre più s'allenta i l suo potere d'attrazione sulle correnti i m -migratorie è il Piemonte una regione a scarso in-cremento demografico; ha una occupazione indu-striale relativa che sta f r a quella della Liguria, la più bassa, e quella della Lombardia ed impiega nell'industria circa un terzo della popolazione in età produttiva. Sotto questi rispetti poco si stacca dalla Lombardia, molto dalla Liguria.

Se l'industria lombarda e la ligure sono caratterizzate da una diffusa composita varietà di a -ziende sicché, specie in Lombardia, pochi sono

E' uscito per la collana dei « Quaderni di Cronache Economiche » il primo volume del prof. Vittorio Zignoli, del Politecnico di Torino, nella serie de-stinata allo studio della crisi del Piemonte. Il pro-fessore Arrigo Bordini, della nostra Università, Presidente della Commissione di studio costituita dalla Camera di Commercio, ha scritto per l'opera del prof. Zignoli la prefazione che riportiamo qui

(8)

i rami d'industria che non siano rappresentati,

l'industria piemontese, astrazion fatta del gruppo

biellese che per molti versi gravita più su Milano

che su Torino, in larga parte fa capo e come

ausi-liaria e come tributaria al gruppo Fiat' e a pochi

altri gruppi indipendenti minori. Manica d'altra

parte in Piemonte l'alto grado di attività

mercan-tile, d'intermediazione, del credito, dei trasporti

proprio alle altre due regioni, in particolare alla

lombarda; lungo la congiungente delle due città,

Milano e Genova, corre, infatti, l'arteria principale

dei traffici nazionali e di transito.

Da questi due fatti discende che il settore

indu-striale piemontese che non cada sotto orbita dei

gruppi considerati, e in quanto difetti di

autono-mia, resta tributario delle regioni limitrofe sia per

l'approvvigionamento di manufatti, di materie e di

servizi e sia per lo sbocco dei prodotti; esso

per-tanto si trova in condizioni d'inferiorità rispetto

alle industrie similari delle altre due regioni. In

un'economia di mercato è parziale correttivo a

questa situazione la possibile espansione di talune

aziende dei gruppi autonomi testé ricordati oltre i

limiti strettamente necessari ad alimentare i

grup-pi stessi, sempre che la finalità del massimo utile

dell'intero gruppo cui queste aziende appartengono

lo consenta; tale correttivo viene a mancare in

un'economia regolata, di razionamento, quando le

materie, l'energia, siano disponibili in quantità

in-feriore a quella necessaria ad ogni gruppo. In

se-condo luogo, un'accentuata specializzazione della

industria pone la regione di fronte al rischio di

restare paralizzate quando una crisi gravi sul ramo

cui si è dedicata.

Queste due conseguenzìe della situazione

de-scritta fatalmente pesano sull'industria

piemon-tese e la spingono sempre più verso le

caratteri-stiche che già da lungo tempo la distinguono da

quella delle altre due regioni. E, poiché anche in

una economia di mercato l'ottima dimensione dei

gruppi ricordati non si sviluppa automaticamente

in ragione inversa del volume delle imprese

rima-nenti, alla regione vengono a mancare i compensi

derivanti da un più rigoglioso fiorire di gruppi

au-tonomi. Così il Piemonte dopo un passato glorioso,

corre il rischio di divenire, almeno rispetto

altre due regioni, un'area depressa che non potrà

risollevarsi se non rimovendo o almeno

neutraliz-zando le cause che a tale stato l'avranno portata

oppure ricorrendo agli aiuti di un'economia

supe-riormente regolata.

Sostituisce, infatti, quest'ultima un interesse

ex-tra-economico, diremo politico, all'interesse

privati-stico mancante pro-tempore, e d'imperio inserisce

un'aliquota del reddito di altre regioni in quella

che desidera bonificare. Può darsi che tale

drenag-gio dalle prime alla seconda debba continuare

in-definitivamente come, ml& con minore probabilità,

può darsi che. ammortizzati gli impianti, l'area

bo-nificata viva di vita propria.

Ma per il Piemonte tutto questo fare e disfare

comporterebbe sacrifici, rischi e spese che è meglio

evitare fin che c'è tempo. D'altra parte non si vede

perchè si debbano porre, le ultime speranze in una

economia del tipo descritto quando, pur nella sua

crisi, la nostra regione per vari segni mostra una

congenita vitalità suscettibile del miglior sviluppo.

• • «

Non ci nascondiamo che la situazione industriale

delle tre regioni sia ad un tempo un prodotto

po-litico da un Iato ed economico-geografico

dall'al-tro; un prodotto, per cosi dire, misto, artificiale e

naturale insieme, sul quale hanno in variabilissima

misura pesato interessi locali, nazionali e stranieri,

mentre sono rimasti soffocati interessi che, nella

lotta per sopravvivere, si sono rivelati più deboli.

E' una situazione di fatto, codesta, cui nessuna

collettività politico-sociale può sottrarsi, giacché la

realtà è un tutto composito del quale l'economico,

nonostante le astrazioni e l'importanza, non è

sem-pre l'aspetto sem-preminente e non è mai il solo: la

storia dell'industria, della banca, delle

comunica-zioni italiane dall'unità d'Italia in poi è

sufficien-temente istruttiva a questo proposito.

Non ci nascondiamo, di conseguenza, che certe

incrostazioni dforiginie politica costituisca/no

or-mai una forza concorrenziale di chi ne beneficia

che difficilmente potrà essere abbattuta anche se si

potesse instaurare una pura e semplice economia

di mercato: chi gode d'una ferrovia, d'un impianto,

ormai ammortizzati, sarà sempre in condizioni più

favorevoli di chi questa ferrovia e questo impianto,

dovunque li ponga, debba costruirseli ex-novo.

Tutto ciò concesso, non possiamo peraltro

na-scondere l'impressione — e il lavoro dello Zignoli

è chiara testimonianza — che dal 1920 in poi, e

specie in questi ultimi tre anni, non tanto per il

ricordato naturale processo quanto per l'accentuarsi

del fattore politico la situazione piemontese si sia

andata progressivamente aggravando; e s'è

aggra-vate perchè l'elemento politico ha avuto facile gioco

nella distribuzione arbitrale di beni, di materie,

di servizi, disponibili soltanto in misura inferiore

a quella richiesta dai bisogni già consolidati di una

economia di mercato.

Chi dice intervento, agli effetti pratici, dice f a

-vore concesso a certi gruppi a danno di certi

al-tri; raramente il male dei secondi è confrontabile

con il bene dei primi e, quando lo sia, non sempre

i conti chiudono con un attivo del quale i

sacrifi-cati del resto poco si curano. Nonostante gli sforzi

della classe dirigente per convincere se stessa e le

altre classi del contrario, ancor più raro è

l'inter-vento per il quale i conti si chiudono con un attivo,

0 almeno con un pareggio, per ogni membro della

collettività. Naturalmente, e magari in tutta buona

fede, l'intervento è promosso in omaggio ad un

presunto obbiettivo pubblico interesse e sarebbe

in-genua malizia pensare che questo pubblico

resse sia sempre il velo ben fitto di potenti

inte-ressi privati. Comunque sia di ciò, e sapendo che

di obbiettivo in questa materia c'è ben poco, non

ci curiamo delle intenzioni ma guardiamo ai fatti,

e cioè ai pratici effetti degli interventi che quelle

intenzioni hanno promosso. Questi effetti, non

sem-pre voluti perchè bisogna tenere pur conto delle

evasioni ai controlli, sono stati particolarmente

gravi per l'industria piemontese.

In secondo luogo, con la nuova carta d'Europa

e specialmente della sua parte centrale, con lo

smantellamento dell'industria tedesca, i fattori che

in passato hanno tanto influito sul nostro

orienta-mento industriale e su quello delle correnti di

traf-fico si sono indeboliti e lo saranno forse più in

se-guito; se non c'inganniamo, dette correnti si

pie-gheranno in futuro più verso occidente. Se non

vogliamo che le incrostazioni del passato abbiano

peso decisivo anche per l'avvenire- accampando, a

motivo della loro storia, una vitalità che non sarà

del nuovo ordine naturale delle cose (e però, se

perpetuata, decisamente antieconomica) è

gioco-forza vigilare e far sentire la voce del Piemont». I

ti

un'economia povera come la nostra non si

ricon-verte, non si sostituisce, senza un esame scrupoloso

di quanto si perde e di quanto si acquista. Tutto

ciò è vero, conti ben ponderati adunque; ma' non

si continui a mettere al passivo, perchè ogni

inizia-tiva a priori appaia decisamente antieconomica.

1 rami che stanno intristendo con la speciosa

ra-gione che fino a ieri erano rigogliosi.

(9)

per l'energìa è ancora in testa il Piemonte (51 %),

segue la Liguria (45 %), buona ultima la Lombardia

con appena il 30 % ; per i petroli, di minore

im-portanza, s'ebbe un andamento analogo a quello

del carbone. Qualche aggiornamento anche

rile-vante di cifre, in quanto sarà comune a tutte le

regioni, non sposterà i rapporti da una regione

al-l'altra; e sono questi rapporti che contano. La

spe-requazione del '38 si è enormemente aggravata.

Qual è stato il criterio distributivo? A quale

mi-sterioso e, se si vuole, obbiettivo interesse

nazio-nale si è esso inspirato? Il numero degli abitanti,

quello degli addetti all'industria, l'importanza

de-k

gli impianti, la qualifica — si noti bene — delle

imprese secondo il genere del prodotto? Nulla di

tutto questo, le cifre dello Zignoli ne fanno fede.

E allora? Si deve di necessità concludere che quel

misterioso interesse nazionale, qualunque faccia

avesse potuto avere, praticamente si risolveva come

se fosse stato un interesse prettamente regionale.

L'energia con prezzi bloccati e validamente

con-trollati, rispetto al carbone con prezzi di borsa nera

e con mercato meno sorvegliato, diventa energia a

basso costo e va consumata sia al posto del secondo

(v. trasformazioni e consumi di forni) e sia in

pro-duzioni che, almeno in certe stagioni, in tempi

nor-mali. non avrebbero mai avuto luogo.

D'altro canto il prezzo d'assegnazione del

car-bone ne facilitava l'impiego nelle centrali

termo-elettriche per essere successivamente trasformato

magari in vapore e in calore! Anche le strade più

complicate, e che tecnicamente girano su se stesse,

possono al privato riuscire le più convenienti. Ma

chi fa le spese?

E' naturale che della nuova artificiosa dinamica

dei mercati di questi fattori concorrenti (carbone

ed energia) più facilmente hanno saputo

appro-fittare le regioni che avevano l'attrezzatura

ade-guata. Ma il Piemonte non è del numero, anzi ne

soffre le conseguenze. Non ultima, fra queste, un

eccesso di maestranza il quale si risolve in

un'im-posta a carico delle imprese che meno sono in

grado (l'eccesso stesso ne è testimonianza) di

sop-portarla: un sistema tributario veramente a

rove-scio giacché è pacifico che il peso della

disoccu-pazione sia un peso non del singolo ma della

col-lettività e pertanto debba far capo alle imposte.

Abbiamo voluto sintetizzare talune conclusioni

del lavoro del prof. Zignoli per invogliare il

let-tore ad un esame attento e diffuso di questa opera

per tanti aspetti pregevole. La morale spiccia del

frettoloso lettore potrebbe essere che i danni del

Piemonte sono dovuti ai non piemontesi e che

ogni intervento politico sull'economia sia da

de-precare. Non è così. Un più attento giudizio sulla

fatica dello Zignoli porta, invece, a concludere:

le cause della depressione piemontese stanno tanto

nelle persone quanto nelle cose e le prime sono

sia in Piemonte e sia al di fuori, anche in regioni

diverse dalle limitrofe. E, per quanto riguarda gli

interventi, sono certamente dannosi quando non

siano nè efficaci (fra l'altro perchè non adeguati

al fine), nè coordinati e non abbiano un fine

con-forme alla più urgente necessità di quest'epoca:

quella di ricostruire, e ricostruire al più presto,

un * reddito che in larga misura è andato perduto.

ARRIGO BORDIN

Deflazione privata e inflazione pubblica?

( C o n t i n u a z i o n e da paj». 4 )

invece che i due settori procedono in brillante

in-dipendenza e che, per bizzarrie della scala mobile,

ai ribassi di molti prezzi, specie alimentari, fa

ri-scontro un aumento della contingenza.

Permane l'opinione che i ribassi dei prezzi

deb-bano consolidarsi e accentuarsi senza toccare le

retribuzioni, mentre già si pattuisce di ridurre

que-ste ultime in modeque-ste quote rispetto a una corsa

in discesa dei prezzi. Non si vende, così facendo,

la pelle di un orso che non sarà più ucciso? Si

dimentica che ogni prezzo, in misura maggiore o

minore, oltre a materiali e imposte e

ammorta-menti, è fatto di salari e stipendi; si mostra di

credere nell'esistenza, anche per i grandi

comples-si a forte carico di maestranze, di sopraprofittì

tali da assorbire, proprio oggi, una riduzione dei

ricavi con icosti quasi invariati.

La realtà è che moltissime aziende, per effetto

di trenta mesi di una politica di pura e irriflessiva

« distribuzione » imposta dall'alto con impegni di

diritto e di fatto (dal blocco dei licenziamenti

al-l'incessante aumento dei carichi previdenziali e

contrattuali), hanno perduto l'equilibrio dei conti

economici e consumato gli ingenti aumenti di

ca-pitale fresco fatti nello scorso semestre, fino a

tro-varsi ora in quella posizione giuridica che

tecnica-mente si definisce « cessazione dei pagamenti ».

Come faranno, ad esempio, a corrispondere la

tre-dicesima mensilità le aziende, per talune delle

qua-li la maggior spesa saqua-lirà in dicembre a qualche

miliardo?

11 problema urgente è di tornare, senza altri

ri-tardi, a una politica di « produzione », strettamente

econòmica, ossia a costi accetti ai mercati e

quin-di tali da non provocare magazzini congelati ma

sviluppo di ricavi. Comunque si giri la questione,

ogni azienda può spendere entro il limite massimo

dei ricavi: deve quindi commisurare ad essi, ossia

alle concrete possibilità del suo ciclo

economica-mente impostato, l'impiego di energie retribuite,

sempre che esse forniscano il loro pieno

rendi-mento potenziale.

Elevare la produzione al livello della massa

del-le retribuzioni, o fatalmente abbassare queste

ul-time, in esse compresi profitto e interesse, al

li-vello della prima. Altrimenti la riduzione dei

prez-zi si circoscrive nei limiti di tempo di una forzata

liquidazione degli « stocks » costituiti, col solo

frut-to di un depauperamenfrut-to dei capitali aziendali, e

la produzione nuova impone al mercato il

ricono-scimento del proprio costo: con l'alternativa di

ar-restarsi oppure di ottenere un'immediata ripresa

di inflazione, per conseguire in ogni scaglione

cre-scente di prezzi la copertura del precedente

sca-glione di costi. GIUSEPPE ALPINO

CRONACHE ECONOMICHE

t Lai tioúltii Italiana, a ecLmttere. ¿eo naif tito -e&mmwciah,

p i ù f t i x f j f t i & a in Qtalia. t ivi tutti i piieiù del

tvióvidó-\ lt I t o tvióvidó-\ A I V I o II 1 tvióvidó-\ tvióvidó-\ « V tvióvidó-\ T i: il vostro a b b o n a m e n t o ( a n n u a l e :

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; L. 2 0 0 0 : semestrale L . I l O O ) utilizzando il bollettino di versamento :

I postale inserito in questo fascicolo. .

(10)

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annuncia l'uscita d e l II v o l u m e d e l suo

A N N U A R I O GENERALE D'ITALIA

Il III v o l u m e c h e c o m p l e t a la 55

a

E d i z i o n e , 1947-48 è in avanzato

c o r s o di stampa e v e r r à p r e s e n t a t o in c o m m e r c i o ai p r i m i d e l

p r o s s i m o G e n n a i o .

La p r e s e n t e e d i z i o n e è la p r i m a uscita n e l d o p o g u e r r a e c o m p r e n d e :

Amministrazioni dello Stato (Ministeri) - Le indicazioni generali di tutti i Comuni ripartiti

per regioni - Per ogni Comune le notizie ad esso inerenti: superficie, popolazione, mezzi

di comunicazione, poste, telegrafi, fiere e mercati, sorgenti minerali, miniere e cave,

pro-dotti e industrie, i nomi degli industriali, commercianti, professionisti, artigiani,

classificati nell'ordine alfabetico dell'attività esercitata.

Stato libero della Città di Trieste - Stato della Città del Vaticano - Repubblica di S. Marino

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T O R I N O - V i a M a r e s c i a l l o G i a r d i n o , 9 - T e l . 62.691 - C a s e l l a p o s t a l e 505

M O N C A L I E R I - T e l e f o n i 5 5 0 . 2 2 5 - 5 5 0 . 2 9 7

(11)

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I

LA RELAZIONE HARRIMAN

SUL PIANO MARSHALL

II Comitato Harriman per gli

aiuti all'Europa ha dato atto

delle sue conclusioni favorevoli

al piano Marshall in un

circon-stanziato rapporto sottoposto al

Presidente Truman il 9

novem-bre scorso. Il programma

con-cepito dal ministro degli esteri

nordamericano nel mese di

giu-gno ed elaborato sotto la

direzio-ne del signor Claytcm a Parigi

nel mese di settembre ha quindi

superato con successo il primo

difficile esame e, se procederà

nella sua gestazione di questo

passo, c'è da sperare che sia

pron-to per entrare in azione col 1"

aprile dell'anno prossimo,

quan-do appunto quan-dovranno cessare gli

aiuti di emergenza a favore

del-l'Italia, della Francia e

dell'Au-stria recentemente approvati dal

Senato di Washington.

Affermato il principio che gli

aiuti statunitensi debbono

assi-curare ai paesi dell'Europa

occi-dentale non più che la scintilla

necessaria per avviare la loro

macchina produttiva (the spark

whieh cari fire the erigine), la

relazicme Harriman sfronda

con-siderevolmente la richiesta di

19.310 milioni di dollari avanzata

dalla Commissione parigina dei

16 stati, determinando il loro

fab-bisogno per il quadriennio

1948-1951 in misura che potrà variare,

secondo le scorte disponibili e

l'andamento dei prezzi sul

mer-cato mondiale, da 13 a 18,5

mi-liardi di dollari. Tenuto poi

con-to che a) parte del programma

di aiuti potrà essere finanziato

dalla Banca Mondiale e da

ban-che private e

b) che gli Stati

Uniti non dovranno assumersi

l'intero finanziamento del deficit

commerciane dei 16 stati

euro-pei verso gli altri paesi dell'area

del dollaro, la relazione Harriman

conclude valutando l'onere

finan-ziario del piano Marshall per il

governo americarìo nella cifra

sempre rispettabile di 12-17

mi-liardi.

Quanto al finanziamento del

piano di aiuti, il Comitato

Har-riman suggerisce che le

provvi-ste alimentari, i combustibili e i

fertilizzanti, per un importo nel

solo primo anno da 3 a 3,5

mi-liardi di dollari, siano forniti a

titolo gratuito e posti a carico

del bilancio statale. Le forniture

di macchine e attrezzi dovranno

essere invece finanziate dalla

Banca Internazionale, mentre le

rimesse di malterie prime, escluse

quelle fornite gratuitamente,

sa-ranno sussidiale dalla

Export-Import Bank, sotto la direzione

del nuovo organismo creato per

amministrare l'intero programma.

Alla prestazione dei fondi

occor-renti per stabilizzare la

circola-zione monetaria nei paesi

aderen-ti al piano Marshall dovrà infine

provvedere il Fondo Monetano

Internazionale con le somme già

ricevute a tal fine dal governo di

Washington.

I primi commenti della

stam-pa economica internazionale

sul-la resul-lazione Harriman sono

con-cordi nell'ammettere che, per

quanto limitato alla cifra di

12-17 miliardi, il contributo

nord-americano alla rinascita

dell'Eu-ropa occidentale sia sufficiente a

riattivare l'assetto produttivo dei

sedici stati adereìiti al piano di

aiuti. La lettera e lo spirito

del-la redel-lazicme contraddicono poi

apertamente alla profezia del

si-gnor Molotof, secondo la quale

l'adesione al piano Marshall

im-plicherebbe l'accettazione della

schiavitù del dollaro. Il Comitato

Harriman ha naturalmente

pro-posto che l'esecuzione del piano

sia subordinata aUa condizione

che i paesi partecipanti

provve-dano quanto prima a risanare la

loro circolazione e ad assestare

i loro bilanci; inoltre, ha

esplici-tamente richiesto che le

disponi-bilità finanziarie ricavate con la

vendita delle forniture a titolo

gratuito non possano venire

uti-lizzate dagli stati beneficiari per

colmare i loro deficit di bilancio.

Ma siffatte condizioni, ed altre dì

minor conto suggerite nella

rela-zione, non appaiono così

vessa-torie che possa risultarne

minac-ciata la sovranità o

l'indipenden-za degli stati partecipanti;

co-munque, ogni dubbio in proposito

dovrebb'essere fugato dalle

pre-cise dichiarazioni del Comitato

Harriman, che, pur affermando

le sue preferenze per il sistema

economico americano fondato sul

principio della libera iniziativa,

riconosce in termini chiari che

« valersi di un programma di

aiuti per imporre quel sistema ad

altri paesi costituirebbe

un'in-giustificata interferenza nei loro

affari interni ».

C'è piuttosto da chiedersi se

alcuna delle contropartite

im-poste ai sedici stati destinatari

degli aiuti nordamericani non

fi-nisca per ostacolarli nell'intento,

d'altronde in armonia con la

fina-lità del piano Marshall, di

rag-giungere al più presto la loro

au-tosufficienza economica. Ma se è

vero che la considerevole falcidia

apportata dal Comitato

Harri-man alle richieste europee di

ac-ciaio per costruzioni navali

pre-giudica manifestamente i piani

industriali di alcuni paesi, e

l'ob-bligo imposto ai sedici stati

par-tecipanti di finanziare le spese

locali del governo americano col

ricavo delle forniture gratuite è

suscettibile di ridurre

sensibil-mente l'entità degli aiuti

presta-ti, non è meno vero che l'America

non può illudersi di

sovvenziona-re la ripsovvenziona-resa dell'Europa

occi-dentale rifiutandosi di accettarla

come futura rivale nei traffici

co-muni. Dice bene The Economist

avvertendo che l'America può

fa-re degli stati europei altfa-rettanti

competitori solvibili, oppure

al-trettanti non competitori

disse-stati; essa non potrà farne

inve-ce, come forse preferirebbe, dei

non competitori assestati.

IMPIANTI INDUSTRIALI E DEFLAZIONE

Chi osservi l'indice dei prezzi

in Italia rileverà subito che molti

di essi divergono fortemente dalla

curva che ne segna l'andamento

medio generale. Tali deviazioni

ri-flettono, per una parte, durevoli

modificazioni dell'equilibrio

eco-nomico, e sono perciò destinate a

permanere nel tempo; per altra

parte, ovviamente si connettono

al parallelo comportamento dei

prezzi mondiali, anch'essi lontani

dall'aver trovato la loro definitiva

sistemazione; ma in misura assai

più rilevante esse traggono

ori-gine dai vincoli e dalle

sollecita-zioni di ogni specie, in cui si è

venuto concretando l'intervento

statale nello svolgimento della

vita economica.

E' chiaro che la compressione

esercitata dall'alto sui prezzi di

certi beni ne scoraggia la

produ-zione, mentre la protezione

di-retta o indidi-retta accordata ad

tri beni, spingendone i prezzi

al-l'aumento, vale a stimolarne

l'ap-prestamento. E poiché i processi

produttivi moderni richiedono la

formazione di cospicui

investi-menti a carattere duraturo,

que-sti, ovviamente orientati sul

si-stema attuale e prospettico dei

prezzi, si sviluppano in

propor-zioni tanto più artificiosamente

deformati dalla politica

econo-mica dello Stato.

In fase di generale deflazione,

com'è appunto quella avviata

dal-le recenti restrizioni creditizie, dal-le

imprese che, sotto lo stimolo di

fallaci prospettive, hanno

costi-tuito immobilizzazioni in periodi

di costi elevati, mal si adattano

allo sfioramento dei prezzi, di cui

esse per prime sono destinate a

sopportare il peso. Esse, quindi,

reagiscono ai ribassi, reclamano

dal governo la tutela dei loro

im-mobilizzi, si fanno forti del

nu-mero di maestranze occupato.

Oserà lo Stato abbandonarle a un

destino, del quale esse non hanno

tutta la colpa? Oppure si

rasse-gnerà ad aiutarle, addossando alla

collettività l'onere indefinito della

loro sopravvivenza? Tra le due

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