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2. “Geographical Unity” e “Genetic Continuity”

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2. “Geographical Unity” e “Genetic Continuity”

Considereremo il tema dell’“inestimabile provincialismo” hardiano all’interno dell’interesse crescente per la geografia, al quale lo stesso Hardy si era dedicato negli anni della sua educazione intellettuale, per affrontare così anche il complesso tema dell’eredità genetica che appassionava moltissimo il pubblico vittoriano.

Grazie all’unione di questi due argomenti, sarà più semplice far luce sul complesso contesto letterario e sociale nel quale Hardy s’impegnò a difendere la realtà locale.

Il motto arnoldiano “the application of ideas to life” entusiasmò e guidò la carriera artistica di Hardy, divenendone uno dei punti di riferimento più stimolanti. Su di esso, fra le altre cose, Hardy poté poi strutturare la nozione di letteratura volta ad una interpretazione dettagliata e “morale” della vita. In una lettera a Symonds, affronta così la “question of conscience”:

I often begin a story with the intention of making it brighter & gayer than usual; but the question of conscience soon comes in; & it does not seem right, even in novels, to wilfully belie one’s own views. All comedy is tragedy, if you only look deep enough into it.1

Infatti, la distinzione che Arnold aveva fatto fra “the two kinds of interpretation, the naturalistic and the moral” – trascritta da Hardy in un volume dei suoi Literary Notebooks2– compare, seppure indirettamente,

in molti dei suoi stimolanti critical essays.

Soprattutto in ‘The Science of Fiction’ (1891), Hardy critica l’approccio naturalista dicendo che un ‘sigh for the finer qualities of existence, an ear for the “still sad music of humanity”, are not to be acquired by the outer senses alone.’3 Infatti, come dice giustamente Enrica Villari:

Nei romanzi di Hardy – soprattutto negli ultimi – è già possibile scorgere molti degli spunti della nuovo poetica romanzesca a venire. Partendo da una – seppur riluttante – soggezione ai vincoli della verosimiglianza, l’itinerario di romanziere di Hardy approda al romanzo delle impressioni e delle astrazioni geometriche, alle soglie del romanzo dominato dalla metafora e dall’analogia. Elaborata dai poeti romantici, la poetica della nuova analogia era destinata, a fine secolo, ad estendersi

1 The Collected Letters of Thomas Hardy, (Vol. One 1840- 1892), cit., p. 190.

2 The Literary Notebooks of Thomas Hardy (vol. I), ed. L. Björk, London, Macmillan, 1985, p. 100 [1171].

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dal dominio della poesia a quello del romanzo. È in questo decisivo passaggio […] che Hardy trova il suo vero posto.4

Per Hardy, un “sigh for the finer qualities of existence”, e un orecchio per la wordsworthiana “still sad music of humanity” sono due aspetti dell’educazione intellettuale che impongono ‘mental tactility that comes from a sympathetic appreciativeness of life in all its manifestations’.5

Lo stesso punto di vista è ripreso in molte prefazioni, nelle quali il poeta era forse più ansioso di difendere la moralità dei suoi romanzi, che il suo stile. Ma la questione della forma e del contenuto, come in ogni grande autore, non presenta mai una soglia definitiva.

Nel 1862, Hardy era assistant-architect presso Sir Arthur Boomfield, e lavorava in dei locali comuni all’Alpine Club; durante questo periodo di formazione professionale, incontrava spesso Leslie Stephen, “an ardent climber and member of the Club, was a visitor to these rooms, though ten years were to elapse before Hardy got to know him, and to be mentally influenced by him so deeply”.6

Quando questi dieci anni trascorsero, nel 1872, Stephen chiese a Horace Moule, di fargli conoscere il talento anonimo che si celava dietro Under the Greenwood Tree. In qualità di direttore del Cornhill Magazine, Stephen chiese quindi a Hardy “a serial story”, ciò che sarebbe poi divenuto Far from the Madding Crowd. Il loro legame crebbe e, fra questi due grandi vittoriani, fiorì un’amicizia molto sincera che perdurò anche dopo la morte dell’intellettuale inglese, grazie a sua figlia Virginia Woolf.

La scrittrice inglese fu una delle persone che visitò Hardy poco prima della sua morte, lasciandoci la sua testimonianza di quel giorno; c’è chi, non a torto, considera la descrizione della Woolf fra le più riuscite e acute fatte fino a quel momento. Invece del solito rassicurante vecchietto, la Woolf fu impressionata da “his freedom, ease and vitality”.7

Stephen raccomandò al giovane Hardy di leggere poca critica, per non guastare la sua “perfectly fresh and original vein”.8 Tuttavia, il suo amico, consigliava di non trascurare gli scritti di Sainte Beuve e Matthew Arnold, unici esempi di lettura feconda, a suo avviso.9

4 E. Villari, “Il Vizio Moderno dell’Irrequietezza”. Saggio sui romanzi di Thomas Hardy, Bari, Adriatica, 1990, p. 29.

5

T. Hardy, “The Science of Fiction”, in op. cit., pp. 109-110. 6 Life, pp. 36-37.

7 V. Woolf, A Writer’s Diary (New York, 1954), citato in R. M. Rehder, “The Form of Hardy’s Novels”, Thomas Hardy after Fifty Years, ed. Lance St John Butler, London, Macmillan, 1977, p. 13. 8 Life, p. 109.

9 Life, p. 109. Sul rapporto fra il Cornhill Magazine e Thomas Hardy, soprattutto nella stesura di Far

from the Madding Crowd (1874), vedi Rosemarie Morgan, Cancelled Words: Rediscovering Thomas Hardy (New York, Routledge, 1992).

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Il consiglio fu seguito da Hardy, ma il risultato non fu lineare, come sottolinea Terry Eagleton:

Hardy’s fiction violates the Arnoldian imperative that art should be edifying; and since the middle class have always found pessimism somewhat unnerving, its critics have struggled hard to ‘contain’ Hardy as a gauche autodidact, the purveyor of a homespun, crackerbarrel wisdom who had grown a little too big for his literary boots. His ‘clumsy’ provincialism and ‘bucolic’ quaintness could be patronized by a James or a Woolf; but they are unsettlingly mixed in with an undeniably sophisticated artistry, and his work thus calls into question the distinctions between ‘fine writing’ and popular culture, the local and the global, high tragedy and wry, deflating irony.10

Nell’autobiografia di Hardy, leggiamo che venuto a sapere della morte di Arnold nel 1888, l’autore concordò quasi totalmente con la caratterizzazione che ne dava il Times “enthusiasm for the nobler and the detestation of the meaner elements in humanity”.11

Poco dopo il poeta annotò che “the besetting sin of modern literature in its insincerity”;12 questa “insincerità” (“when dogma has to be balanced on its feet by such hair-splitting”13) nasceva anche dall’influenza dell’ultimo Arnold. Rispetto alle intenzioni arnoldiane, Hardy era, come fa notare Eagleton, interessato a “the meaner elements in humanity”, che, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, non era una ricerca verso il basso, anzi ambiva a possedere “a plenary vision of life […]. Each work of his is a fragment of the whole – not a detached and arbitrarily severed fragment, but a unity which implies, calls for and in a profound sense creates a vaster and completely comprehensive whole”.14

Già in questa prima ricognizione del rapporto con Arnold, Hardy appare tutt’altro che agli antipodi; malgrado preferisse la verticalità all’orizzontalità romantica, Hardy coordinava questi due movimenti perfettamente. Era conscio che per cogliere “the heart of things”, era necessario sviluppare l’arnoldiana “imaginative reason”.

Style – Consider the Wordsworthian dictum (the more perfectly the natural object is reproduced, the more truly poetic the picture). This reproduction is achieved by seeing into the heart of things (as rain, wind, for instance), and is realism, in fact, though through being pursued by means of the imagination it is counfounded with invention, which is pursued by the same means. It is, in short, reached by what M. Arnold calls “the imaginative reason”.15

10 T. Eagleton, Prefazione di J. Goode, Thomas Hardy. The Offensive Truth, Oxford: Basil Blackwell, 1988, p. vi.

11 Life, p. 207. 12 Life, p. 215. 13 Ibidem.

14 J. M. M. ,“The Poetry of Mr. Hardy”, cit.. 15 Life, p. 147.

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Ciò detto, “l’applicazione delle idee alla vita” resta un fondamento essenziale nella forma hardiana della scrittura, e le tracce appaiono più nei testi, che nelle espressioni pubbliche, poiché, pur tenendo conto di quanto scritto da Eagleton, Arnold e il resto dell’“humbug”16 della letteratura moderna, appariva agli occhi di Hardy come un palinsesto imprescindibile e edificante. Non è un caso che Arnold appaia in più punti di Jude the Obscure, e che questa presenza influenzerà anche il plot del romanzo. Fra le parole più cocenti di Sue sono memorabili quelle riguardo le presenze spettrali di Christminster.

Questo argomento non riguarda solo i romanzi di Thomas Hardy, ma anche molte delle sue poesie del countryside, così come molte delle sue memorie liriche, come “At a Seaside Town in 1869” (CP 447), scritta ricordando i giorni in cui viveva a Weymouth. Di nuovo le sue memorie d’architetto, gli ricordano il tempo passato a scrivere quello che sarebbe poi dovuto essere il suo primo romanzo, Desperate Remedies (1871).

In questi versi il poeta mescola la nostalgia e la fermezza della sua decisione di lasciare quel luogo per tornare nella sua local habitation17 a Higher Bockhampton.

Beyond myself again I ranged; And saw the free

Life by the sea,

And folk indifferent to me.

Nonostante l’attrazione per quella cittadina gioiosa e promettente, la libertà del mare diventa anche l’incubo di una dispersione intellettuale e di una correlativa delusione d’amore. In quegli anni Hardy era fidanzato con la cugina Tryphena Sparks, che allora viveva a Londra. Quella vivacità cittadina si legava male con lo stato d’animo che viveva il poeta, e la scelta di allontanarsi fu piuttosto una scelta di riavvicinarsi a se stesso. L’indicazione di questo movimento è data sin dal primo verso della poesia che fa “I went and stood outside myself”, per poi viene ripreso dal verso della terzultima quartina “This outside life shall not endure”.

Then rose a time when, as by force, Outwardly wooed

By contacts crude,

Her image in abeyance stood. … […]

16 Life, p. 193.

17 A Local Habitation è il titolo di una delle raccolte di poesia di Norman Nicholson, poeta della Cumbria, noto per una poesia scarna e essenziale, ma allo stesso tempo profondamente ancorata alla realtà inglese, soprattutto a quella regionale.

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Myself again I crept within, Scanned with keen care The temple where

She’d done, but could not find her.

Era già chiaro che il suo dovere d’artista doveva essere indirizzato alla scrittura, non ad amori impossibili. Al di là di questo singolo esempio, spesso la dedizione e la concentrazione nel lavoro, è l’alternativa hardiana all’amore, quello che “lives on propinquity, but dies of contact”.18 In The Woodlanders, Marty South imparerà ad

apprezzare quelle poche ore “d’amore” concessegli da Giles durante il lavoro nei boschi. È soprattutto un amore muto, rassegnato, quello che nasce da questa gioia segreta; a sua volta questo è l’amore che Giles prova per Grace, lo stesso che lo conduce alla rovina quando decide di abbracciarlo. Così come nella poesia “The Pine Planters” (CP 225):

I have worked here with him Since morning shine,

He busy with his thoughts And I with mine.

I have helped him so many, So many days,

But never win any Small word of praise! Shall I not sigh to him That I work on

Glad to be nigh to him Though hope is gone?

Infatti, la differenza tra Giles e Marty, sta nell’accettazione di lasciare muto quest’amore, non dichiarandolo non s’incorre nel rischio di farlo svanire. “Though hope is gone”, l’amore hardiano può resistere e non cessare mai nel cuore di chi ama. È difficile vedere del pessimismo, nella visione che Hardy ci dona dell’amore.

Grieving that never Kind Fate decreed It should for ever Remain a seed.

Marty South è una rustic, ma il suo carattere ha molte punte di “nobiltà” perché incarna il personaggio più vicino alla natura che sa salvarsi da questo rapporto “on propinquity”; la sua capacità di parlare il

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linguaggio muto della natura ricorda il precedentemente citato consiglio letterario di Benjamin: “dare voce alla natura muta”.19

È una verità metafisica che ogni natura prenderebbe a lamentarsi se le fosse data la parola. […] L’incapacità di parlare è il grande dolore della natura (e per redimerla è la vita e la lingua dell’uomo nella natura, e non solo, come si suppone, del poeta). […] Ma il lamento è l’espressione più indifferenziata, impotente della lingua, che contiene quasi solo il fiato sensibile; e ovunque solo un albero stormisce, echeggia insieme un lamento. La natura è triste perché è muta.20

Benjamin dice che la natura parla una lingua che, essenzialmente, resta “innominale, inacustica”, che obbliga a “pensare all’affinità materiale delle cose nella loro comunicazione”. 21 Hardy in una lettera a Clodd, s’interroga sull’abilità del linguaggio umano, intersecando alcune sostanziali affinità con il pensiero di Benjamin:

Just as the Original cause did not (apparently) foresee the pitch of intelligence to which humanity would arrive in the course of the ages, & therefore did not prepare a world adequate to it, so the makers of language did not foresee the uses to which poor poets would wish to put words, & stinted the supply.22

La lingua di cui parla lo studioso tedesco, è soprattutto “simbolo del non-comunicabile”, e “l’intera natura è traversata da una lingua muta e senza nome”.23 Hardy soffre dell’inadeguatezza dei suoi mezzi “linguistici” per dare voce alle parti ineffabili della lingua umana. Marty vive in questo spazio muto, nutre il suo amore e la sua rassegnazione nel mutismo che la distanzia ancora di più dalle parole spesso incaute di Grace.

Le radici di Marty, salde nella terra di quei boschi, ci spingono a vederla anche come una presenza “metafisica”, come, d’altra parte, è una verità metafisica quella sulla tristezza della natura. Non c’è un personaggio hardiano più pagano di Marty. La sua essenza spirituale, la sua attrazione ancestrale verso i segni della natura, sembra opporsi alla sua origine contadina e alla sua figura sempre sconsolata.

Tuttavia, non si tratta di un’opposizione, ma di un’armonia ricercata nelle discordanti tendenze dell’uomo: Hardy non buttava via nulla: da “the meaner elements” alla “still sad music of humanity”.

“Poetry attaches its emotion to the idea; the idea is the fact. The strongest part of our religion to-day is its unconscious poetry”,24 scriveva

19 W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini”, cit., p. 65. 20 Ibidem.

21 Ibidem, p. 66.

22 The Collected Letters of Thomas Hardy, (Vol. Three 1902-1908), cit., pp. 112-113. 23 W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini”, cit., p. 67. 24 The Literary Notebooks of Thomas Hardy, cit., pp. 183-184.

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Arnold in “In the Study of Poetry” (1880). Professore di poesia a Oxford, Arnold era stato oggetto di studio per il giovane Hardy, come testimoniano le innumerevoli citazioni nei Literary Notebooks, fra le quali anche quella appena ricordata. Allo stesso tempo, il poeta era cosciente della necessità di coltivare il suo genio artistico lontano dalla folla, poiché “he took no interest in manners, but in substance of life only”.25

Come scrive nell’autobiografia, nel 1881 Hardy si pose la questione fondamentale “of whereabouts he and his wife should live”.26

During the latter part of May they searched in Dorset, having concluded that it would be better to make London a place of sojourn for a few months only in each year, and establish their home in the country, both for reasons of health and for mental inspiration, Hardy finding, or thinking he found, that residence in or near a city tended to force mechanical and ordinary productions from his pen, concerning ordinary society-life and habits.27

Conoscere le proprie origini, in Hardy, è anche indice di una certa capacità di essere consapevole della vita reale (“sympathetic appreciativeness of life”), come confermano alcune delle sue prime poesie. Solo dalla conoscenza della realtà si poteva partire per raggiungere una dimensione più sfumata, personale, sognante, filosofica, sostanzialmente meno oggettiva.

Come dice Zolla: “più la riproduzione coincide con la realtà e più s’apparenta con l’immaginazione”.28

Ingannare la propria coscienza intellettuale equivale ad ingannare il lettore, e dunque inquinare il senso fragrante della poesia, al di là della morale o del gusto letterario del tempo. La ricerca visuale del reale e il racconto interno all’opera, devono trovare una forma che li avvicini e garantisca un senso simbolico e un senso comune. Zolla delinea la scrittura poetica in maniera molto simile a quella che sviluppò Thomas Hardy:

La poesia individua il riverbero ritmico, tonale delle impressioni che un avvenimento suscita nei cinque sensi, e non è tale se non trasmette con la voce che la dice un aroma, una qualità di luce, un sapore; del pari della musica, che alle origini era una parte della prosodia.29

Il mondo “is a blighted star”, dice Tess al fratello Abraham,30 ma questo non le impedisce di sognare e danzare dimenticando la sua

25 Life, p. 104. 26 Life, p. 149. 27 Ibidem.

28 E. Zolla, Storia del Fantasticare, Milano, Bompiani, 1964, p. 216. 29 Ibidem, p. 216.

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tragedia. Zolla avvicina la poesia alla musica, e il legame fra le parole e la melodia ricorre frequentemente nell’opera di Hardy.

Per Schopenhauer la musica non era il rivivere delle emozioni, ma il provare la sensazione di lottare contro il tempo: è un sentire astratto, è una lotta virtuale, dunque rimanda ad altri piani di esperienza.31 È difficile dire se Hardy condividesse questa visione del tempo e della musica, visto che per lui, la musica, come dice Armstrong, è soprattutto il senso della storia dell’uomo.

In poesie come “At the Entering of the New Year”, Hardy sembra addirittura vedere nella musica lo stato pacifico dell’uomo, lo stato antibelligerante dell’umanità perché al massimo della comunione e della partecipazione. Nel romanzo The Mayor of Casterbridge (1886), quando Farfrae inizia a cantare, scopre i nervi più nascosti della personalità di Henchard e lo commuove fino alle lacrime.

Nella poesia “To Meet, or Otherwise” (CP 251), scritta per la seconda moglie Florence Emily, Hardy dice che l’amore è una musica muta:

By briefest meeting something sure is won; It will have been:

Nor God nor Demon can undo the done, Unsight the seen,

Make muted music be as unbegun, Though things terrene

Groan in their bondage till oblivion supervene.

Questi versi indicano anche un Hardy diverso, che si avvicina ad un amore nuovo con uno slancio giovanile, fresco, combattivo. Il vincolo filosofico fra Schopenhauer e Hardy è certamente nel credere che la musica contenga e sprigioni, nell’emozione, la coscienza liberandola illusoriamente dall’eterna e struggente condizione umana. Come ulteriore conferma di questa convinzione, Hardy annota una citazione di Ford Madox Hueffer (Ford):“The lyrics that survive were mostly written for a tune”.32 Questa frase rimanda a poesie come “Music in a Snowy Street”

(CP 705), o “A Church Romance” (CP 211).

In “The Musical Box” (CP 425), il poeta, piuttosto, sembra dire che “the mindless lyre” sia solo un’apertura profana tra la sua memoria di Emma, la prima moglie (soprattutto nelle giornate in cui ella ascoltava lo strumento in assenza del marito), e il suo rimorso d’averla trascurata quando era ancora in vita. La musica è anche il tramite della riflessione nella memoria, come in “The Last Performance” (CP 430):

31 A. Schopenhauer, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione (1819), Milano, Mursia, 1991, pp. 297-310.

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A few morns onward found her fading, And, as her life outflew,

I thought of her playing her tunes right through; And I felt she had known of what was coming, And wondered how she knew.

Nella celebre poesia “In a Eweleaze near Weatherbury” (in Wessex Poems, CP 47) il poeta, mentre osserva una distesa di terra (Coombe Eweleaze), lascia che siano i suoi occhiali a segnare il tempo che passa e che cambia i luoghi – ma che non può cambiare le sensazioni, i ricordi – mescolando il senso della distanza spaziale con quella temporale. Hardy vince lo stillicidio della vecchiaia e delle cose che finiscono, con l’arma infallibile del suo equilibrio visionario della percezione e della memoria.

The years have gathered grayly Since I danced upon this leaze With one who kindled gaily Love’s fitful ecstasies!

But despite the term as teacher, I remain what I was then In each essential feature Of the fantasies of men.

Nello spazio del ricordo, il ragazzo e l’anziano sono la stessa persona, la voce e l’immagine di quegli anni non sono cambiati. La promessa eterna del suo amore ha fallito, perché non è durata, ma la sensazione vissuta (racchiusa soprattutto nell’immagine leggera della danza) si mantiene giovane nella sua memoria. Come i luoghi vincono sempre sul tempo, così la memoria domina il passato donandogli significato e forma.

Tim Armstrong parla del rapporto fra il senso del passato svanito e la storia dell’uomo in Hardy,33 e ci ricorda che la musica è stata ormai riconosciuta, dallo psicologo cognitivo Bob Snyder, come un mezzo per “memorizzare” il mondo.34 Armstrong dimentica però ciò che emerge dalla scena della danza in Tess, quella “half-unconscious rhapsody was a Fetishistic utterance in a Monotheistic setting”,35 un aspetto che sarà però analizzato da John Goode:

In other words music is a double signifier of the human impulse for survival and the other into which it is inserted. […] The whole Victorian functional discourse of the fallen woman is thus put aside in the moment of musical response to the external world. All art, Pater had said, aspires to the condition of music, because music is the least vulnerable to the moral order which constrains art. And art, as we

33 T. Armstrong, “Hardy, History, and Recorded Music”, Thomas Hardy and Contemporary Literary

Studies, eds Dolin and Widdwson, London: Palgrave Macmillan, 2004. 34 B. Snyder, Music and Memory, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2000. 35 T. Hardy, Tess of the d’Urbervilles, cit., p. 919.

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have seen, is the equivalent at least for a sense of freedom for the modern mind engendered not only by circumstances but by its own forces.36

La musica, e conseguentemente la danza, è il tempo liberato, nel quale l’uomo può trasmettere la sua tradizione, il suo bagaglio culturale, attraverso un’apparente dispersione del corpo. In questa “scissione” Hardy vede la libertà della poesia e “that stream of tendency by which all things strive to fulfil the law of their being”.37

Del resto, ricordare le melodie segue lo stesso meccanismo del ricordare gli episodi della vita. La musica aveva avuto lo stesso effetto per Leopardi, e la sua sofferenza nella poesia “La sera del dì di festa” è memorabile anche per il lettore.

Ascoltare, concentrarsi e memorizzare, inoltre, è fare esperienza esattamente come l’agire e il vivere le situazioni. Hardy rende tutto questo in poesie come “Great Things” (CP 414), o “Silences” (CP 849). In quest’ultima, contenuta nella raccolta postuma Winter Words (1928), il poeta è chiarissimo:

Pasts are remembered songs and music-strains Once audible there:

Roof, rafters, panes

Look absent-thoughted, tranced, or locked in prayer. It seems no power on earth can waken it

Or rouse its rooms, Or its past permit

The present to stir a torpor like a tomb’s.

Un altro segnale del debito hardiano verso il motto “the application of ideas to life”, è tangibile nella scelta di usare già nella sua prima raccolta di poesia, Wessex Poems, i veri nomi dei luoghi, o termini dialettali – come leaze invece che meadow – rischiando di deludere il gusto vittoriano, abituato a dei luoghi precisi (soprattutto cittadini o all’opposto, semplicemente immaginari).

Questo oscuro eclettismo nasceva, d’altro canto, dalla sua educazione intellettuale, e dai suoi interminabili dubbi su come far conciliare il paesaggio esterno con la vita intima delle sensazioni, e spesso con quella disillusa della memoria. Secondo questa scelta Hardy mantenne saldo forse anche il principio che solo con la conoscenza del

36 J. Goode, Thomas Hardy. The Offensive Truth, cit., p. 116.

37 M. Arnold, “St. Paul and Protestantism”, citato da Hardy in una lettera a Henry Newbolt in occasione della pubblicazione di An English Anthology of Prose and Poetry, Shewing the Main Stream

of English Literature Through Six Centuries, 14th Century-19th Century (London 1921), in The

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reale, temporale e spaziale, si può onorare la memoria del passato. In una lettera a Stephen, Hardy confessò al suo mentore:

I have decide to finish it here, which is within a walk of the district in which the incidents are supposed to occur. I find it a great advantage to be actually among the people described at the time of describing them.38

Ma in realtà, tenendo conto del seguente commento della Villari, il poeta osservò il reale, lo registrò nella sua memoria – a volte trasfigurandola pur mantenendone sempre la fragranza originaria – anche con lo scopo di scoprire nella realtà nuovi e originali insegnamenti letterari, per evolvere e dare forma al suo personale punto di vista:

Alla nozione dello stile inteso come ornamento o, al meglio, come ineffabile cifra dell’arte, si oppone quella di costruzione: la coerenza interna – principio architettonico per eccellenza (e Hardy era anche un architetto) – prevale come valore artistico a scapito anche della fedeltà mimetica.39

Non potendo segnare una linea di confine fra reale e astratto, come dice Hardy stesso nel suo saggio “Candour in English Fiction” (1890), bisogna accettare che: “even imagination is the slave of stolid circumstance”, e continua così:

Conscientious fiction alone it is which can excite a reflective and abiding interest in the minds of thoughtful readers of mature age, who are weary of puerile inventions and famishing for accuracy; who consider that, in representations of the world, the passion ought to be proportioned as in the world itself. […] They [the immortal tragedies] reflected life, revealed life, criticised life.40

Quando Hardy dice che l’immaginazione “is the slave of stolid circumstance”, forse si riferisce solo alla prosa; perché, nonostante la sua prosa e la sua poesia si somiglino molto, Hardy vive le due esperienze in maniera totalmente differente. In poesia, Hardy non deve confrontarsi con uno stile prestabilito, e anche la questione del gusto diventa, in un certo senso, valicabile.

La “stolid circumstance” non impedisce a Hardy di esprimere il suo idiosincratico approccio lirico; in poesia il dibattito morale, infatti, avviene più profondamente, cinicamente, e spesso ironicamente.

Tuttavia la contaminazione fra il linguaggio della prosa e quello della lirica aiuta a sviluppare il senso della proporzione fra l’emozione da rappresentare e il mondo “esterno” che deve contenerla, inoltre sorregge

38 The Collected Letters of Thomas Hardy (vol. One, 1840-1892), cit., p. 27. 39 E. Villari, op. cit., p. 15.

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l’equilibrio virtuale fra il presente e la memoria. Nel 1890, Hardy scriveva:

Reflections on Art. Art is a changing of the actual proportions and order of things, so s to bring out more forcibly than might otherwise be done that feature in them which appeals most strongly to the idiosyncrasy of the artist. The changing, or distortion, may be of two kinds: (1) The kind which increases the sense of vraisemblance: (2) That which diminishes it. (1) is high art: (2) is low art.41

Questa ricerca condusse Hardy a esaminare la letteratura come un mezzo espressivo capace di inglobare i risultati del passato nelle premesse del futuro, “responsabilizzando” così anche il presente letterario. Ancora una volta, la memoria della letteratura “precedente”, Matthew Arnold compreso, per il poeta non si fermò al semplice stato di conoscenza ma si evolse in una componente letteraria attuale e creativa.

Il grado interpretativo della memoria riflette in pieno il senso della morale hardiana, e si comprende adesso, forse più chiaramente, perché “l’applicazione delle idee alla vita” fosse un punto di vista “morale” irrinunciabile, sebbene destinato a contaminarsi.

2.

1

L’universalità del provincialismo hardiano

Il motto di Arnold sul dovere dell’artista (rendere l’oggetto così come l’oggetto è, in sostanza) resiste fino a Ford Madox Ford che nel 1907, in The Spirit of the People: An Analysis of the English Mind, dice: “His [The artist’s] business is to render rightly the appearance of things”.42

Eppure a partire dai primi anni ’80, Hardy già iniziava a percepire che nell’applicazione delle idee alla vita, si perdesse qualcosa di più grande, qualcosa che era sempre esistito e che le scoperte del suo secolo avevano messo in luce in tutta la sua indivisibile e innegabile verità: l’inesattezza della percezione umana.

Nella prefazione alla seconda edizione di Darwin’s Plots, Gillian Beer dice: “I came to realise that the true intellectual and emotional excitement generated by The Origin of Species was partly the outcome of Darwin’s struggle to find a language to think in.”43

Darwin infatti passò molto tempo a cercare di dar forma ad un nuovo linguaggio scientifico per presentare il suo libro, e si accorse che

41 Life, p. 228.

42 F. M. Ford, The Spirit of the People: An Analysis of the English Mind, London, Alston Rivers, 1907, p. xv.

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malgrado la semplicità della sua esposizione, ciò che andava descrivendo non poteva che risultare “nuovo”, “capovolto”, osservante di leggi naturali e non sociali. Il linguaggio scopriva la sua convenzionale appartenenza all’uomo, e l’uomo doveva imparare a plasmarlo attraverso la coscienza.

Un po’ più avanti, la Beer continua:

Gladness and destruction: life, making and destroying itself; the individual, swamped and yet demanded as a medium for mutation; the human, everywhere and nowhere in his argument.44

Darwin aveva infatti introdotto nelle vite dei vittoriani il dubbio che l’Inghilterra non fosse poi il centro essenziale della vita sulla terra; al contrario, aveva instillato la paura che la vita individuale fosse poca cosa rispetto ai meccanismi inesorabili della vita delle specie e della loro evoluzione casuale e progressiva. A questo punto, tutti i vittoriani, ognuno a modo suo, cercano di ricreare un mondo scomparso, una geografia del passato, un paesaggio perduto, già vissuto, e già oltrepassato da una nuova geografia, da nuovi paesaggi e dalla scoperta di una nuova, arcaica, sempre presente, vita sulla terra.

Matthew Arnold si aggrappava alla sua giovinezza in “Dover Beach”:

[…] we

Find also in the sound of a thought, Hearing it by this distant northern sea. The sea of faith

Was once, too, at the full, and round earth’s shore Lay like the folds of a bright girdle furled.

But now I only hear

Its melancholy, long, withdrawing roar, Retreating, to the breath,

Of the night-wind, down the vast edges drear And naked shingles of the world.

Tennyson scriveva “In Memoriam”, creando quasi una litania della vita passata che si presentava improvvisamente come selvaggia, ostile, e, comunque, non solo e non solamente umana. Mentre Hardy riusciva nei suoi versi a coniugare la spaventosa grandezza del cosmo, così come il tempo darwiniano l’aveva descritto, con la piccolezza e la miseria della vita umana. Come Darwin, anche Hardy aveva dovuto ripensare un linguaggio per la propria arte, tenendo conto di ciò che finora i suoi predecessori avevano raggiunto.

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Two contrasting visions co-existed in his mind: the individual is both the centre of his own world and an insignificant entity in a scientific dimensions of space and time.45

Verso la fine del 1925, Hardy annotava nel suo taccuino una frase di William James: “Truth is what will work”, e commentava “A worse corruption of language was never perpetrated”.46 Hardy non aveva mai sopportato questo genere di opportunismo linguistico, soprattutto quando questo tipo di interpretazione comportava un salto: da un significato universalmente riconosciuto verso un valore astratto, arbitrariamente attribuito, della lingua.

Fin dalle prime poesie, l’intenzione di Hardy era stata quella di avvicinarsi al verità senza mediazioni, come nel caso di “I look into my glass” (CP 52):

I look into my glass, And view my wasting skin,

And say, ‘Would God it came to pass My heart had shrunk as thin!’

For then, I, undistrest By hearts grown cold to me, Could lonely wait my endless rest With equanimity.

But Time, to make me grieve, Part steals, lets part abide;

And shakes this fragile frame at eve With throbbings of noontide.

Questa poesia si riallaccia ad una constatazione che Hardy fa nell’autobiografia. Il poeta si domanda come sia possibile che l’uomo possieda solo un misero corpo, “this fragile frame” per affrontare un mondo regolato da “such close, sad, sensational, inexplicable relations”.47 L’osservazione scaturisce dal riflesso del poeta nello specchio, così come nella poesia che fissa sulla pagina un riflesso. La verità, dunque l’uso della verità, sta nel non corrompere il linguaggio che si adopera, perciò Hardy, malgrado la “humiliating sorriness”48 della sua figura (“tabernacle”), aderisce a ciò che vede.

Proprio Leopardi, uno dei filosofi preferiti da Hardy, riconosce alla vista la capacità di sondare e contenere la verità che spesso sfugge

45 F. B. Pinion, “The Ranging Vision”, in Thomas Hardy after Fifty Years, cit., p. 3. 46 The Personal Notebooks of Thomas Hardy, ed. Richard H. Taylor, cit., p. 89. 47 Life, p. 251.

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all’uomo, a causa del suo parlare “per via di sentimento e d’immaginazione”.49 Il poeta italiano spiega così questa proprietà:

Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quando meglio e più finalmente vede.50

Credere che il mondo e il tempo siano fatti per esseri corrotti nel linguaggio è una pecca imperdonabile, e Hardy, pur rischiando di essere considerato un poeta non-poetico, affida alla sua vista, e all’osservazione, il senso della sua verità.

A proposito di Far From the Madding Crowd, Henry James, in una recensione su The Nation (New York, 24 Dicembre 1874), parlava di “fatal lack of magic” e di “singularly inartistic”.51 Ma la cosa più notevole James la dice parlando delle regole della narrativa (regole notoriamente arbitrarie e mutevoli): “no description of an inanimate object should consist of more than a fixed number of lines”:52 “Necessity is the mother of invention”.53 Allora perché James non riesce a vedere come spesso Hardy parta proprio da uno stato di inevitabilità, anche e soprattutto nel regno delle cose mute, per arrivare a raggiungere spesso uno stato di grazia espressiva che sovrasta le convenzioni linguistiche?

Tuttavia, la cosa più sorprendente riguardo le recensioni di Henry James è che, malgrado l’intenzione opposta, spesso riescono a dare ad Hardy la ragione della sua arte, elencando le sue qualità, capacità e straordinario senso di insight, solo per negare la sua importanza e sottovalutare le sue squisite, originali facoltà artistiche.

Questi attacchi critici insistevano sul suo supposto grande limite: “il provincialismo”,54 e avanzavano argomenti che non avevano altra ragione che quella di compiacere un gusto, fino a quel momento mai messo in discussione. Hardy, in una conversazione con William Archer, spiegava così la sua presa di posizione riguardo la lingua e la letteratura:

I have no sympathy with the criticism which would treat English as a dead language,– a thing crystallized at an arbitrary selected stage of its existence, and

49 G. Leopardi, Zibaldone (1898-1900), Roma, Newton Compton, 2007, p. 637 [3243]. 50 Ibidem, p. 584 [2942-2943].

51 Thomas Hardy and His Readers, eds. L. Lerner e John Holmstrom, London, Sydney, Toronto, The Bodley Head, 1968, p. 30.

52Ibidem, p. 31. 53Ibidem, p. 32.

54 Henry James in una lettera a R. L. Stevenson (19 Marzo 1892) scrive: “The good little Thomas Hardy has scored a great success with Tess of the d’Urbervilles, which is chock-full of faults and falsity and yet has a singular beauty and charm” ( The Personal Notebooks of Thomas Hardy, op. cit., pp. 38-39). Anche in questo attacco, come si può ben vedere l’offesa di James nasconde un involontario complimento per la “singular beauty and charm” di Tess.

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bidden to forget that it has a past and deny that it has a future. Purism, whether in grammar or vocabulary, almost always means ignorance.55

Peter Ackroyd, allargando questo concetto all’idea di provincialismo, dice:

Thomas Hardy’s apophthegm is that ‘it is better for a writer to know a little bit of the world remarkably well than to know a great part of the world remarkably little’. In England it is believed that to know one’s locale thoroughly is to understand the forces of the world or, even, of the universe itself.56

La proverbiale timidezza, o semplice reticenza, di Hardy a fare grandi statements e di parlare chiaro, instilla il dubbio che esista un legame fra la sua local geography letteraria (la volontà di non allargarsi troppo nelle sue opinioni e nelle sue prese di posizione) e il suo apprezzamento del mondo dopo Darwin.

The “region” of the Victorians becomes exactly the commonplace – a locus

amoenus, indeed – in which the division of modern society are reconstituted into an

archetypal, wholesome community.57

Lo studioso Roberto M. Dainotto, in questo commento, sottolinea il senso della mappa del “Wessex”, circoscritta in quelle sei contee nominate da Hardy nei suoi romanzi, all’interno delle quali il Dorset è sempre implicitamente compreso, ma mai nominato.

La poesia “Geographical Knowledge” (CP 237) è dedicata alla postina, Christiana Coward, di Lower Bockhampton, luogo natale di Hardy.

Where Blackmoor was, the road that led To Bath, she not show,

Nor point the sky that overspread Towns ten miles off or so. But that Calcutta stood this way, Cape Horn there figures fell,

That here was Boston, here Bombay, She could declare full well.

Mrs Coward resta nella memoria di Hardy come colei che, sebbene smistasse la posta di tutti i paesini limitrofi al suo, non conosceva nessuna strada, non aveva nessuna “conoscenza geografica” delle sue

55 A Conversation between Thomas Hardy and William Archer (pubblicato su The Critic, New York, 1901), St. Peter Port, The Toucan Press, 1979.

56 The Personal Notebooks of Thomas Hardy, Richard H. Taylor ed., London, Macmillan, 1979, p. 60. 57 R. M. Dainotto, Place in Literature. Regions, Cultures, Communities, Ithaca and London, Cornell University Press, 2000, p. 29.

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zone. Malgrado ciò, il poeta sottolinea la “conoscenza” virtuale della donna; ironicamente Hardy ricorda il suo dispiegarsi e dislocarsi verso spiagge e città lontane, immaginando rotte e linee nella sua fantasia di madre, che, per raggiungere il figlio marinaio che “points and shows / Each country where it stands”, viveva in nessun luogo nel suo nativo Dorset.

Il luogo è l’“outside” della percezione, diventa cioè il senso di distanza che s’instaura nelle logiche delle ragioni individuali e personali (Hardy nella prefazione della prima raccolta Wessex Poems, aggiunge locali). Ma è l’ironia di questo componimento che contiene il senso della geografia “esterna” e “interna” che non sa come allacciarsi alla realtà.

He seems not to have recognised that the authenticity of the original memories would inevitably be compromised by his repeated acts of revisitation, nor would such knowledge necessarily have troubled him. What he did know was that memories, true or false, were for him a primary source of emotions, hence of poems, and that he could most effectively invoke them by entering into the presence of memorials, whether natural or man-made, of the local, personal, or dynastic past.58

Millgate ha, comunque, riconosciuto che nella ripetizione della “revisitation” dei luoghi e delle persone, Hardy ha decisamente condotto la sua esistenza verso un’irreversibile ossessione del passato, come il poeta stesso riconosce nel verso “This outside life shall not endure” (“At a Seaside Town in 1869”) contenuto nella poesia prima citata. Vivere all’interno di una regione ha significato, per Hardy, anche aver vissuto una vita nella memoria di quei luoghi, e spesso per quella memoria.

Tuttavia, la funzione mnemonica è anche una risorsa letteraria, come abbiamo visto finora, che concede al poeta la più grande autonomia di immaginare e di astrarsi liberamente; non può non essere coltivata come sacra. Il ricordo di Mrs Coward stabilisce con il passato di Hardy quel legame di tenerezza e sottile ironia che lo legava ai suoi luoghi, alle sue contraddizioni e all’uneventful Wessex. “I lived […] in close contact with the people”,59 diceva a William Archer, per affondare la sua penna nella “substance of life”.

Nella poesia “Geographical Knowledge”, Hardy valuta ironicamente la reazione della coscienza individuale nei riguardi delle distanze geografiche. Questo è un pretesto per mettere in luce la realtà psicologica della percezione umana del mondo: tutto avviene in ciò che vediamo, registriamo e conserviamo. Il poeta allarga lo spettro necessario per considerare il valore della cultura locale, regionale, che spesso non è solo tradizionale e arcaica, ma psicologica e individuale.

58 M. Millgate, Thomas Hardy. A Biography Revisited, cit., p. 520. 59 A Conversation between Thomas Hardy and William Archer, cit..

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“One special aspect of Hardy’s anti-intellectualism is his perception that mankind is growing increasingly introspective”,60 ci ricorda Lennart Björk. Hardy sottolinea la condizione umana, e compatisce le condizioni di vita e lavoro dei suoi rustics, e, come Darwin, non aspira alla rivoluzione intesa come cambiamento e sovvertimento del passato.

Dice bene Dainotto riguardo al concetto vittoriano di “regione” il relazione al mondo che avanza: “In this “place,” […] there is pastoral identity rather than class conflict”,61 perché:

Whereas the discourse of revolution breaks the “old local and national seclusion and self-sufficiency” to create “from the numerous national and local literatures … a world literature,” the discourse of place moves instead toward the regionalist restoration of localism centered on the celebration of the pastoral “idiocy of rural life.62

Dainotto estrapola alcuni passaggi del Manifesto del Partito Comunista, per evidenziare quanto la posizione di Marx e Engels sulla storia fosse inconcepibile per una mente come quella di Hardy. “In regionalism, after all, nothing is lost – all is displaced”,63 e continua:

What the Victorians called “the country,” “the land,” or simply “Merrie England” was not only the metaphor of a resistance against a nationalism often perceived as the destruction of old local privileges, or the supplement for the disappointment caused by a bleak industrialization centered on the new industrial city. This commonplace was, also, a coeval alternative to a Marxist sense of history centered on the very notion of class conflict. The chronological coincidence of Marxism and regionalism – and, in this sense, also their geographical coincidence in the Victorian England of the Industrial Revolution – suggests only that they were both attempts to answer the same crisis of the bourgeois state. Their answers, however, were not only different: they were antithetical.

The kind of modern society inaugurated by the British Industrial Revolution is one that cannot maintain a sense of wholesome identity. England, in the 1840s, is fractured and divided. Orthodoxies fall apart. Marxism tries somehow to accelerate this historical process of decadence, and to radicalize class antagonism into the warfare of revolution. As Matthew Arnold puts it, the very idea of class tears England apart: “Well, then, what if we tries to rise above the idea of class to the idea of the whole community?”64

La città diventa l’immagine capovolta, distorta, sbagliata, della countryside. Tuttavia, Hardy non cade in questa tentazione, e si augura che la società lentamente e gradualmente acquisisca un grado di

60 L. Björk, Psychological Vision and Social Criticism in the Novels Thomas Hardy, Stockholm, Acta Universitatis Stockholmiensis, 1987, p. 104.

61 Dainotto, op. cit., p. 30. 62 Ibidem, p. 29.

63 Ibidem, p. 15. 64 Ibidem, pp. 28-29.

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osservazione della storia e dell’umanità, come “The Will” di The Dynasts – quest’entità che prende coscienza della sua identità verso la fine dell’opera. Inoltre Hardy sperava in un’acquisizione cosciente e migliorata della “Life-alloy”, di cui i rustics erano ancora i capisaldi, in quanto detentori delle “life-loyalties”.

A proposito di Far From the Madding Crowd, nella lettera agli editori, Hardy scrive:

With regard to the illustrations perhaps I may be allowed to express a hope that the rustics, although quaint, may be made to appear intelligent, & not boorish at all.65

Nel saggio “Unity and Diversity: The Region”, T. S. Eliot scrive:

The unity with which I am concerned must be largely unconscious, and therefore can perhaps be best approached through a consideration of the useful diversities. […] It is important that a man should feel himself to be, not merely a citizen of a particolar nation, but a citizen of a particular part of his country, with local loyalties.66

Eliot riflette sull’importanza del regionalismo in quanto fonte inesauribile di “local loyalties”, ricordandoci molto da vicino le “life-loyalties” della poesia hardiana “In a Wood”. Inoltre, la sua considerazione verte sul lato “inconscio” dell’appartenenza ad una regione, ad un gruppo di locals: accomunati dalle medesime espressioni culturali, tradizionali e religiose. Nelle pagine precedenti del testo a cui facciamo riferimento, T. S. Eliot chiariva che per analizzare e definire una cultura “regionale” bisogna tenere conto delle “local cultures”. Ma il concetto di cultura locale è insolubilmente legato alla geografia, così come ironicamente concepita in “Geographical Knowledge”, o nella mappa del Wessex stesso.

Inoltre non va sottovalutato la relazione fra cultura individuale e cultura della società a cui l’individuo appartiene. Questa relazione comporta un equilibrio che Hardy non voleva soffocare, bensì valorizzare nella memoria.

Nel 1826 un cartografo francese, Charles Dupin, presentò una mappa “concettuale” della Francia, dove evidenziava il livello di educazione e il benessere delle regioni, trascurando ogni aspetto morfologico, tipico delle mappe geografiche:

Maps ceased to be understood primarily as inert records of morphological landscapes or passive reflections of the world objects, but are regarded as refracted

65 The Collected Letters of Thomas Hardy (Vol. One 1840- 1892), cit., p. 25.

66 T. S. Eliot, Notes Towards the Definition of Culture (1948) London, Faber and Faber, 1962, pp. 51-52.

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images contributing to dialogue in a socially constructed world. […] Both in the selectivity of their content and in their signs and styles of representation, maps are a way of conceiving, articulating and structuring the human world.67

Del resto, anche la brughiera di The Return of the Native, Egdon Heath, può essere considerata, su un piano letterario e metaforico, una mappa concettuale, dove i personaggi del romanzo possono muoversi sulla rappresentazione grafica circoscritta, come se fossero degli attori su un palcoscenico. Hillis Miller scrive:

Consciousness is a homogeneous inner realm. The critical essay moves from place to place within that inner space on a journey of exploration which has an intrinsic beginning and ending. There is an inn in the morning and another inn at night where the knight-errant of criticism may rest. Moreover, the critic remains “at home” within a homogeneous space, however multifarious may be the thematic elements he encounters in a given writer, Time becomes spatialized or a category of space, an aspect of the unified consciousness of the author.68

Dainotto sbaglia nel vedere The Return of the Native come un’esaltazione del regionalismo.69 Alla base delle intenzioni di Hardy vi era quello che dice Hillis Miller: “inner space on a journey of exploration which has an intrinsic beginning and ending”.

Egdon Heath è infatti simile all’arena romana di Casterbridge, vale a dire un luogo dove il passato e il presente si mescolano sotto lo sguardo e attraverso la percezione dei passanti. Un luogo dove la memoria non può perdersi, o ammutolirsi, ma solo essere percepita e rievocata ciclicamente.

L’esempio più significativo è nel seguente passo di The Mayor of Casterbridge:

The Ring at Casterbridge was merely the local name of one of the finest Roman Amphitheatres, if not the very finest, remaining in Britain. Casterbridge announced old Rome in every street, alley, and precinct. It looked Roman, bespoke the art of Rome, concealed dead men of Rome. It was impossible to dig more than a foot or two deep about the town fields and gardens without coming upon some tall soldier or other of the Empire, who had lain there in his silent unobtrusive rest for a space of fifteen hundred years. He was mostly found lying on his side, in an oval scoop in the chalk, like a chicken in its shell; his knees drawn up to his chest; sometimes with the remains of his spear against his arm, a fibula or brooch of bronze on his breast or forehead, an urn at his knees, a jar at his throat, a bottle at his mouth; and mystified conjecture pouring down upon him from the eyes of Casterbridge street

67 J. B. Harley, “Maps, Knowledge, and Power”, in The Iconography of Landscape: Essays on the

Symbolic Representation, Design and Use of Past Environments, eds. Dennis Cosgrove and Stephen

Daniels, Cambridge, Cambridge UP, 1988, p. 278.

68 J. Hillis Miller, prefazione all’edizione del 1975 di The Disappearance of God (1963), Urbana and Chicago: University of Illinois Press, 2000, p. xvi.

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boys and men, who had turned a moment to gaze at the familiar spectacle as they passed by.70

Hardy ha bisogno di questi spazi attraversati dai secoli, e dai grandi e piccoli eventi per dare vita alle sue storie, perché i luoghi condizionano e non viceversa, i luoghi sono ciò che resta della storia da guardare e ricordare, e i luoghi sono prima di ogni altra cosa, rappresentazioni della memoria. Come dice Pinion:

Hardy achieves a considerable degree of universality through his use of literature. The major actions of The Return of the Native and The Major of

Casterbridge are imagined within short distances from his birthplace. The perennial

conflict between hedonistic selfishness and altruistic zeal in the former is adapted from Arnold and Pater, and heightened by Hardy’s sense of natural defect in a Darwinian world.71

Il paesaggio delle poesie di Hardy – anche in “At the Royal Academy” (CP 585), una poesia evidentemente legata alla sua visita alla Royal Academy of Arts di Londra72 – si presta alla rappresentazione psicologica dello stato d’animo dello spettatore, creando un abisso fra la realtà personale dell’individuo e quella generale e indifferente del cosmo. Questa voragine temporale e spaziale, che fa dell’uomo “an insignificant entity”,73 ci riporta all’importanza della memoria.

These summer landscapes – clump, and copse, and croft – Woodland and meadowland – here hung aloft,

Gay with limp grass and leafery new and soft, Seem caught from the immediate season’s yield I saw last noonday shining over the field, By rapid snatch, while still are uncongealed The saps that in their live originals climb; […]

But this young foils so fresh upon each tree, Soft verdures spread in sprouting novelty, Are not this summer’s though they feign to be.

Questi versi fanno pensare al quadro di Samuel Palmer (1805-1881), “The Harvest Moon”, nel quale uomini e donne falciano il grano sotto la luce della luna. È un dipinto molto hardiano; nella raffigurazione sono presenti i rustics, il lavoro, la natura e il cielo diviso da una luna gigante (sproporzionata rispetto alle figure umane e alla vegetazione) e

70 T. Hardy, The Mayor of Casterbridge, London, Macmillan, 1978, p. 302. 71 F. B. Pinion, “The Ranging Vision”, in cit., p. 6.

72 Life, p. 235.

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da grandi stelle luccicanti che risplendono nell’atmosfera donandole una sottile religiosità. Questo dipinto fa parlare la natura muta, e i suoi segnali emanano un misticismo pagano, antico, sorpassato nel tempo, ma sempre presente.

“At the Royal Academy”, in sostanza, tratta del sentimento dell’osservatore, che scruta la tela e contemporaneamente non cessa di chiedersi cosa resta di vero e duraturo nella realtà del ciclo naturale; ecco perché la poesia termina con l’amara sensazione di essere al mondo solo di passaggio, stabilendo un vincolo fra la sua tristezza umana, e le “young foils” che “no more know they sight of any sun”.

Lo stesso sentimento di compartecipazione fra vista e stato d’animo si avverte nella poesia “Sacred to the Memory” (CP 633), dedicata alla sorella Mary. Le parole non sono che mera convenzionalità, e non sanno oltrepassare il confine tra la vita e la morte, che solo la memoria conosce.

They know not and will never know That my full script is not confined To that stone space, but stands deep lined Upon the landscape high and low

Wherein she made such worthy show.

L’unica vera fonte di uguaglianza giace nella memoria, e con essa l’universalità e l’autonomia, che come abbiamo visto grazie a Bersgon è la grande capacità della rimembranza.

Nei Literary Notes, si legge una citazione presa da Leopardi a proposito del mondo come rappresentazione cerebrale, e questa stessa considerazione viene ripresa e modulata dall’autore quando scrive “the world is only a psychological phenomenon”.74 Come vedremo, l’unione

di queste due strade, percezione soggettiva e conservazione della memoria, esigono chiaramente una forte coerenza.

Walter Pater nel suo scritto sul Rinascimento, aveva sottolineato l’esistenza di un vuoto temporale nel quale l’uomo deve insediare la sua coscienza: “we have an interval, and then our place knows us no more. […] For our chance is in expanding that interval, in getting as many pulsations as possible into the given time”.75 Pater sembra parlare della

stessa passione che fu necessaria a Hardy per nutrire la sua personale “multiplied consciousness”.76 Pur limitandosi a descrivere e vivere in una realtà circoscritta e limitata a sei contee immaginarie nate da una conoscenza geografica molto reale, il nostro poeta ebbe il dono di saperla

74 T. Hardy, Tess of the d’Urbervilles, cit., p. 906.

75 W. Pater, ‘Conclusion to “The Renaissance”’, in Selected Works, ed. Richard Aldington, Melbourne, London, Toronto, William Heinemann, 1948, p. 86.

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espandere con un ritmo vitale che ancora adesso esulta e sorprende nei suoi versi.

One can have local attachments without having a provincial outlook. Hardy discovered in Italy that he had taken ‘Dorchester and Wessex life’ with him. At Fiesole the sight of an ancient coin reminded him of Roman remains unearthed in his grounds at Max Gate. In Venice he noticed that the bell of St Mark’s campanile had ‘exactly that tin-tray timbre given out by the bells of Longpuddle and Weatherbury, showing that they are of precisely the same-proportioned alloy’. His historical sense was assisted by his architectural knowledge. After a few days in Rome, ‘its measureless layers of history’ seemed ‘to lie upon him like a physical weight’.77

Non solo Pinion è entusiasta del provincialismo hardiano. Anche Samuel Hynes nel suo saggio “The Hardy tradition in Modern Poetry”,78 ne parla come parte essenziale del suo bagaglio culturale. Infatti, Hardy fu sempre profondamente ancorato alla tradizione, il cui senso, come abbiamo visto, appariva ancora indispensabile affinché si creasse una certa continuità, rispetto alla lingua e alle origini intellettuali.

Giacomo Leopardi ci è nuovamente utile per comprendere quanto il legame fra il linguaggio popolare e lo scrittore sia stato da sempre un fecondo rapporto:

Il linguaggio popolare è ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma propriamente allo scrittore. Vale a dire, bisogna che questo nell’attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non dissuonino, né dissomiglino dalle altre che l’arte ha introdotto nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso ed elegante. […] Ciò che io dico che il linguaggio poplare è una gran fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l’adattarla al bisogno, non già solamente trasportarla di netto, o adoperala come la trova. (10 luglio 1821)79

Per Hardy, il linguaggio popolare, insieme al suo local habitation, furono una parte della sua tradizione e gran parte della sua vita; inoltre, fu la testimonianza che il poeta provenisse da un cammino intellettuale il cui maggiore fondamento era stato da sempre l’intreccio delle idee con la vita. Parlando dei suoi rustics, il poeta inglese dice:

I have tried to avoid turning the rude personages of, say, the fifth century into respectable Victorians, as was done by Tennyson, Swinburne, Arnold etc. On the other hand it would have been impossible to present them as they really were, with their barbaric manners and surroundings.80

77 F. B. Pinion, “The Ranging Vision”, in cit., pp. 9- 10.

78 S. Hynes , “The Hardy tradition in Modern Poetry”, in The Writer and His Background, cit., pp. 173-181.

79 G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 302 [1304-1305]. 80 Life, p. 423.

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Williams dice “A class can indeed be seen as a region: a social area inhabited by people of a certain kind, living in certain ways” e che si è giunti al punto da riconoscere al regionalismo anche un’altra peculiarità: “it carries the inescapable and finally constitutive sense of class as a formation of social relationships within a whole social order, and thus of alternative and typically conflicting (in any case inevitably relating) formations”.81

Per questa ragione è chiaro che grazie a Charles Darwin, l’inizio di attenzione verso l’individualismo è uno dei temi cocenti in Hardy, e non è un tema meramente geografico, ma di classe.

La capacità di concentrarsi nel localism fu uno dei punti di maggiore forza del carattere artistico di Hardy, il quale meditò a lungo su questo concetto ritorcendolo fino a farlo divenire “regionalismo sacro”. Hardy raccolse nel suo diario una frase di Arthur Symons a proposito di Byron: “His [Byron’s] mind was never to him a kingdom”.82 Forse si può dire che al contrario, il nostro poeta riuscì a rendere giustizia all’immagine di un regno, seppur in una bistrattata campagna inglese.

La sua volontà era quella di dipingere un mondo già estinto, avanzando secondo le linee di un darwinismo sociale più efficace e sincero di quello di Herbert Spencer. Una volta dimostrato quanto le passioni umane possano evolversi così come i caratteri ereditari e produrre risultati altrettanto variabili ma comunque “continuativi” e mai interrotti (il tentativo di evoluzione dell’essenza e dell’istinto è anche in “The Will” in The Dynasts), Hardy è passato a osservare la natura nelle sue poesie, come quando si concedeva quelle divagazioni infinite nei suoi romanzi, deviazioni narrative che a volte andavano a finire nelle poesie stesse, come testimoniano le ricorrenti figure della brughiera, della fanciulla di campagna, degli uccelli e degli alberi.

Lo stesso Stephen parlava di “scientific view” come chiave di comprensione della realtà e della storia dell’uomo:

Accepting the scientific view, and therefore interrogating experience for what men have actually done, instead of interrogating our inner consciousness to find out what they should consistently do, we inevitably accept the conclusion that the virtuous instincts are the foundation, not the outgrowth, of the belief, and may therefore be expected to survive its destruction or transformation.83

Parlando del libro di Ford Madox Ford, The Spirit of the People, Peter Ackroyd nota lo stesso rapporto di continuità che univa Hardy ai

81 R. Williams, “Region and Class in the Novel”, Writing in Society, London, Verso, 1983, p. 234. 82 The Personal Notebooks of Thomas Hardy, ed. Richard H. Taylor, cit., p. 80.

83 L. Stephen, “Darwinism and Divinity”, Essays on Freethinking and Plainspeaking, London, Longmans, 1873, p. 107.

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suoi luoghi. Questo senso d’appartenza scalzava il concetto di razza, e al suo posto Madox Ford

invoked the spirit of territory with his belief that ‘It is not – the whole of Anglo-Saxondom – a matter of race but one, quite simply, of place – of place and of spirit, the spirit being born of the environment’. Ford Madox Ford’s account that tradition is in some sense transmitted or communicated by the territory.84

Nella poesia “Where Three Roads Joined”, Hardy delinea un paesaggio in movimento, nel quale l’io lirico trova una posizione fissa, nella memoria del momento, e nell’istante stesso:

Where three roads joined it was green and fair, And over a gate was the sun-glazed sea, And life laughed sweet when I halted there; Yet there I never again would be.

Il poeta passa dall’osservazione geografica, attenendosi dunque alla realtà, e punta lo sguardo verso “the sun-glazed sea” come se ci mostrasse un quadro di Turner. Come egli stesso aveva dettato alla sua seconda moglie Florence Emily, nella sua autobiografia:

‘The “simply natural” is interesting no longer. The much decried, mad, late-Turner rendering is now necessary to create my interest. The exact truth as to material fact ceases to be of importance in art – it is a student’s style – the style of a period when the mind is serene and unawakened to the tragical mysteries of life; when it does not bring anything to the object that coalesces with and translates the qualities that are already there, – half hidden, it may be – and the two united are depicted as the All’.85

“The exact truth”, che Hardy dichiara non sufficiente per rendere giustizia ad un paesaggio, e alle vite che abitano in quel paesaggio, è, all’inizio del 1860, svelata nella sua cruda democratica e fallibile verità, grazie soprattutto a Darwin.

The energies of these conflicting narratives poured into Victorian responses. They set peculiar tasks for novelists where the writer’s prospecting eye is expected to take responsibility for the futures inscribed. Those futures, or fictional “events”, take place, moreover, within the multiple hypothesised futures the reader is encouraged to produce in the process of reading the story. 86

Per questa ragione, Hardy s’indignò molto per ciò che Matthew Arnold disse sul provincialismo nel saggio “The Literary Influence of

84 P. Ackroyd, Albion, The Origins of the English Imagination, London, Chatto and Windus, 2002, p. xxi.

85 Life, p. 185.

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Academies” (1864). Le parole di Arnold erano state: “I say that in the bulk of the intellectual work of a nation which has no centre, no intellectual metropolis like an academy, […] there is observable a note of provinciality”,87 questo discorso fu considerato da Hardy inaccettabile, sotto tutti i punti di vista. Nell’autobiografia, Hardy ci lascia testimonianza della sua invaluable difesa del provincialismo:

‘Arnold is wrong about provincialism, if he means anything more than a provincialism of style and manner in exposition. A certain provincialism of feeling is

invaluable. It is of the essence of individuality, and is largely made up of that crude

enthusiasm without which no great thoughts are thought, no great deeds done’.88

Come emerge dal brillante studio di DeLaura, lo statement di Arnold, fu, in realtà, il prodotto dei sermoni del Cardinale Newman. Per Arnold, le figure di riferimento, anche per partorire l’idea di “a centre of correct taste”, erano state precedentemente Sainte-Beuve e Renan, ma fu soprattutto il modello di “urbanity of style”,89 professata da Newman, che catturò in seguito il professore di poesia dell’università di Oxford. L’idea di “urbanity and civilty” risuona fino a T. S. Eliot, il quale portò avanti l’idea di Matthew Arnold, più di quanto cercasse di perfezionarla.90

Considerando la scena in cui il protagonista di Jude the Oscure (1894) brucia le opere di Newman nel famoso falò liberatorio, torna a fare capolino il sospetto che le due cose, provincialismo e stile, siano legate. Infatti, Jude, durante tutto l’arco del romanzo, soffre della sua condizione “periferica”, sia in senso geografico che sociale, rispetto alla città di Christminster. Hardy aveva giustamente individuato che il “dibattito” sul provincialismo era strettamente legato alla questione dello stile, della forma, ed era altrettanto correlato e indirizzato a diffondere un certo gusto artistico. Jude aspira a Christminster, con uno slancio sincero e desideroso di apprendere e vivere.

Hardy, come molte altre menti del suo tempo, fra cui Marx e Ruskin, vedeva nella città l’alienazione e la perdita del senso comune tipico del consorzio umano. Questo grado di valutazione della società appare molto chiaro per esempio in poesie come “The Wanderer”, o in passi presenti in The Dynasts. Tuttavia, Hardy non era un celebratore dell’innocenza della campagna, e anzi, era cosciente più di tanti altri suoi contemporanei.

Forse, da questo punto di vista la frequentazione con Leslie Stephen ebbe il suo peso, ed influì il consiglio, che quest’ultimo diede ad

87 Matthew Arnold, Lectures and Essays in Criticism (1862), in The Complete Prose Work of Matthew

Arnold, ed. R. H. Super, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1960, pp. 224-225.

88 Life, pp. 146-147 (corsivi miei).

89 David DeLaura, Hebrew and Hellene in Victorian England, Austin e London, University of Texas Press, 1969, p. 41.

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