UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE
DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA, ROMANISTICA, ANTICHISTICA, ARTI E
SPETTACOLO,
Corso di Laurea Magistrale in Storia dell’arte e valorizzazione del patrimonio artistico
Tesi di Laurea
La chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie a Verzi: il patrimonio archivistico e artistico
Relatore: Prof. Daniele Sanguineti Correlatore: Prof.ssa Laura Stagno
Candidato: Irene Casasola
Anno Accademico 2020/2021
1 Indice
Introduzione ………2
Capitolo 1: Per una narrazione documentaria della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Verzi ……….... 4
Capitolo 2 ………16
2.1 La Madonna del Rosario: un’opera della bottega De Rossi ……….. 16
2.2 Una tela di Domenico Bocciardo ……….. 29
2.3 La Natività di Maria: una difficile indagine artistica ………. 39
2.4 Sospesi tra fede e sentimento: il San Pietro apostolo ………. 46
2.5 La crocifissione tra i Santi Giacomo e Filippo e la Madonna dei sette Dolori………. 55
2.6 Quattro tele per quattro Evangelisti ………... 62
Regesto ……….... 69
Conclusioni ……….. 86
Bibliografia ………. 88
Ringraziamenti ………. 95
2 Introduzione
La scelta di considerare una ricostruzione archivistica e storico artistica, relativa specificatamente al patrimonio pittorico, della chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie di Verzi nasce dal lavoro di tirocinio svolto presso l’Archivio diocesano di Albenga-Imperia. L’attività di schedatura cartacea del fondo parrocchiale ha restituito ai registri e ai documenti, dimenticati da anni tra gli scaffali, una nuova vita e la possibilità di consegnare alla memoria contemporanea ricordi legati alla fede e alla devozione collettiva. Nonostante il fondo archivistico verzino non sia esiguo, le notizie relative all’amministrazione della chiesa parrocchiale, e alla conseguente contabilità, risultano rare e scarne, non approfondite e di difficile interpretazione. Per questo motivo nel primo capitolo, la restituzione narrativa delle informazioni desunte dai documenti si focalizza sulla scelta di ciò che maggiormente si attiene al discorso storico artistico, tralasciando, per ovvie ragioni, tutte le indicazioni che in questo caso risultano secondarie. Nello specifico, l’attività di analisi e ricerca documentaria evidenzia la totale mancanza di notizie relative all’ambito artistico, vengono talvolta citati interventi di conservazione e restauro, alcuni pagamenti a figure non precisate e dettagli di compere effettuate per tele, colori, stoffe o legname. La somma di queste notizie non permette una ricostruzione accurata e particolareggiata dell’inestimabile senso religioso tradotto in arte della comunità verzina. Rivolgendo l’attenzione al patrimonio pittorico ancora conservato nella suddetta chiesa, è emersa la conseguente necessità di basarsi sull’analisi stilistico-formale delle opere per poterle inserire coerentemente in un ambito di produzione, cercando di dar voce a quei silenzi lasciati dai documenti. L’attenzione si sposta quindi, nel secondo capitolo, dai documenti alle realizzazioni pittoriche della chiesa, con lo scopo di risalire, attraverso le tele e le pale d’altare, alla storia progettuale e ai pennelli che hanno contribuito attivamente alla resa di quel sentimento religioso che, dal Cinquecento ad oggi, ispira un profondo senso di coinvolgimento nella fede.
Attraverso un’attenta attività di confronto con opere di artisti attivi in Liguria tra il Cinquecento e il Settecento, e stilisticamente affini alle opere verzine, è stato possibile ricostruire un interesse prettamente provinciale verso le grandi
3 realizzazioni dei capisaldi delle botteghe genovesi e il conseguente confluire di opere nel piccolo contesto parrocchiale di Verzi.
4 Capitolo 1
Per una narrazione documentaria della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Verzi
Lo spoglio documentario non è mai impresa semplice e la difficoltà aumenta se l’oggetto d’indagine è la piccola chiesa parrocchiale di una frazione1, è quindi importante delineare preliminarmente i confini di questa indagine documentaria. Lo studio che segue prende in considerazione i documenti conservati all’interno dell’Archivio diocesano di Albenga, con informazioni utilizzate per restituire un percorso storico-artistico. Si tratta, quindi, di quello che fino ad ora non è stato detto o sufficientemente indagato, di documenti impolverati, rovinati, incompleti, ma che giunti fino a noi parlano di persone, oggetti e devozione.
Incastonata tra due valli, la chiesa parrocchiale di Verzi si erge silenziosa e modesta, affacciata sulla sua piazza volge uno sguardo al mare ed uno alla montagna, sospesa nell’attesa di qualcuno che racconti la sua storia. “…volsero firmar la prima pietra con drizzare l’anno 1471. à 13. di Luglio Chiesa Parochiale sopra ampla pianura à guisa di Poggio con spatiosa Piazza in vista dilettevol del Mare, e circondante campagna…”2, così, Giovanni Ambrogio Paneri, nel 1624, incominciava il suo resoconto sulla chiesa di Verzi, tramandando la data esatta dell’avvio del cantiere architettonico. Sappiamo inoltre, sempre grazie al Paneri, che la chiesa venne conclusa il 25 agosto 1528, titolata alla Natività di Nostra signora sotto il nome della Madonna delle Grazie, e che esattamente un secolo dopo, nel luglio 1571, venne accolta la richiesta presentata “dalli agenti per l’università di Verzi”3, di separarsi dalla parrocchia di San Lorenzo di Giustenice per fondare la propria4. L’edificio, a navata unica con il coro rivolto a ponente, era decorato in
1 Geograficamente collocata nel primo entroterra, Verzi è l’unica frazione del comune rivierasco di Loano. Sviluppandosi territorialmente tra diverse colline, essa confina a nord con il comune di Bardineto, ad ovest con quello di Boissano e ad est con il comune di Giustenice.
2 Paneri 1624, pagine prive di numerazione.
3Ibidem.
4 Ibidem.
5 facciata con l’immagine “depinta della Madre di Dio col bambino in braccio”5. Le informazioni riportateci dal Paneri sono le fondamenta di questa restituzione documentaria, una storia che parte delle origini e che racconta di una comunità legata non solo dal territorio e dal comune destino contadino, ma anche da un forte senso civile e religioso.
I registri amministrativi, i libri contabili e le carte sciolte raccolte nel faldone diocesano consentono di avviare la narrazione dal 1597, anno riportato nel primo documento contenente una visita pastorale6, effettuata dall’allora Vescovo della diocesi di Albenga, Luca Fieschi. Tra le varie prescrizioni del visitatore apostolico, non tutte decifrabili correttamente, si evidenzia la necessità di dotare l’altare del Santissimo Sacramento di una lampada, si sollecitano i massari della chiesa a dotarsi di una pisside d’argento, di una candela, di una cornice di noce dorata e ben fabbricata e di una struttura in legno nella quale scolpire o dipingere l’immagine del Santissimo o della Madonna7. È bene notare come, sul finire del Cinquecento,
5 Ibidem.
6 Negli anni che seguirono il Concilio di Trento l’attività di supervisione attraverso le visite pastorali divenne molto più serrata e stringente, e uno degli esempi più eclatanti, è relativo alla visita pastorale effettuata a Genova nel 1582 da monsignor Bossio. La visita a Genova si inseriva nel vasto programma di visite apostoliche di cui Carlo Borromeo si era fatto promotore, e il Bossio svolse il suo compito con estremo rigore. Non vi fu chiesa, sul territorio della diocesi genovese, che sfuggì all’occhio severo del visitatore, il quale annotava difetti su difetti, e prescriveva l’eliminazione di questi con opere di radicale rifacimento. I decreti redatti dal Bossio affrontavano tematiche relative alla difesa del culto, ai Sacramenti, ai costumi del clero, e si estendevano a tutte le istituzioni ecclesiastiche, dagli ospedali alle confraternite. Il documento forse più significativo, per quanto riguarda le attività e i comportamenti scorretti, osservati dal visitatore apostolico, risulta però essere quello relativo alla gestione economico-finanziaria della città e della classe dirigente. Nello specifico si sottolineava come, le attività economiche della Repubblica, gli scambi commerciali con alcuni paesi ormai protestanti, e la generale tolleranza di queste occupazioni finanziarie, potessero portare ad un avvicinamento nei confronti dell’eresia. A ciò si legava anche un’altra osservazione del Bossio, il quale metteva a confronto la strabordante ricchezza delle famiglie genovesi e la bellezza delle loro abitazioni, con la povertà decorativa delle loro chiese. Essendo la chiesa la casa del Signore, il visitatore apostolico, evidenziava la necessità di dotarla di immagini, opere e decorazioni, e sollecitava le ricche famiglie a modificare la loro logia finanziaria per investire attivamente nei luoghi sacri, anche con lo scopo di fugare ogni possibile accusa di eresia. (Magnani, in 1983-1985, pp. 137-142).
7 Cfr. Regesto 1597.
6 le notizie rintracciabili nei documenti conservati non permettono di identificare opere e oggetti tuttora presenti nella chiesa.
All’inizio del Seicento le notizie a nostra disposizione aumentano, restituendo elementi, talvolta molto interessanti, per procedere con la nostra ricognizione. Nella visita pastorale del 1612, oltre alle prescrizioni per migliorare il decoro e la decenza della struttura ecclesiastica e i riti sacri, il visitatore apostolico elenca le disposizioni già messe in atto dai massari della chiesa conformemente ai Sacri Canoni8. Quindi, precedentemente alla suddetta visita pastorale, i massari si erano adoperati per dotarsi di una nuova pianeta con stola per presiedere la celebrazione eucaristica; avevano portato avanti la sistemazione dell’ancona dell’altare maggiore e del fonte battesimale, il quale, secondo le parole del visitatore apostolico, si presentava in “forme ignominose”. Inoltre, realizzarono un parasole, per portare il Santissimo Sacramento agli infermi nei luoghi dove il baldacchino risultava essere troppo ingombrante, eressero una croce nel vicino cimitero e costruirono il nuovo confessionale. La notizia sicuramente più importante ed interessante è relativa all’ottenimento, precedentemente al 1612, della licenza per la fondazione della Compagnia del Rosario e l’erezione del proprio altare, titolato al Santissimo Rosario. Il visitatore apostolico descrive il suddetto altare come ben ornato, adibito a conservare il Santissimo Sacramento durante la Settimana Santa, e dotato dell’icona della Madonna del Rosario con i suoi quindici misteri9. Quest’ultima informazione, se letta in relazione al contesto delle opere tuttora esistenti all’interno della chiesa, ci restituisce la possibile data ante quem di realizzazione della pala d’altare del Rosario. Tale opera, che sarà analizzata più approfonditamente nel secondo capitolo, può certamente accostarsi, dal punto di vista formale e compositivo, all’ambito pittorico della bottega De Rossi, famiglia di artisti di origine toscana, trapiantata nella Liguria di ponente e attiva sul territorio
8 Nel 1577 San Carlo Borromeo, a seguito delle nuove normative stabilite dal Concilio di Trento, redasse la sua dettagliata normativa sulla suppellettile sacra, rimasta in vigore fino agli inizi del Novecento. Nel testo si impartivano disposizioni precise sulla struttura e sui materiali di ogni elemento liturgico, legandolo esclusivamente alla sua specifica funzionalità. Gli stessi elenchi di suppellettili redatti dal Borromeo, non si presentano suddivisi per materie o tecniche, bensì secondo le esigenze di culto. (Franchini Guelfi, in 1986, p. 9).
9 Cfr. Regesto 1612.
7 regionale dal 1510 circa fino al 1626, data di morte di Orazio De Rossi, ultimo esponente della famiglia10. Considerando cronologicamente il primo quarto del Seicento è necessario riferire di un’altra opera presente ad oggi all’interno della chiesa, e non citata dalle fonti. La tela, posizionata sulla parete di fondo dell’abside, non facilmente visibile poiché frontalmente coperta dall’altare maggiore, rappresenta la Natività di Maria. Il tema, molto sentito fin dalle origini, considerando l’intitolazione della chiesa parrocchiale alla Vergine Maria, è tuttora molto caro alla collettività verzina che l’8 settembre di ogni anno, per le vie del paese, porta in processione la statua della Vergine festeggiando la sua nascita.
All’opera, come per le precedenti già citate, verrà dato ampio spazio nel secondo capitolo, tenendo anche conto che, in questo specifico caso, oltre alla mancanza di documenti si somma un pessimo restauro, avvenuto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, che ha reso impossibile un efficace lettura stilistica della tela.
Sebbene le notizie relative al Seicento siano maggiori per numero rispetto a quelle Cinquecentesche, non siamo in grado di restituire una continuità cronologica che dal 1612 possa procedere in direzione del 1652, anno in cui venne redatto un interessante inventario dei beni posseduti dalla chiesa. L’elenco, stilato il 7 marzo, non cita esplicitamente nessuna opera di ambito pittorico o scultoreo a cui fare riferimento, ma si sofferma sugli oggetti sacri e sulle vesti. È quindi interessante sottolineare la numerosa presenza di stoffe, paramenti e abiti sacri di diversi colori, alcuni dei quali realizzati per essere indossati da un manichino mariano11. Possiamo dedurre, da quest’ultima informazione, che all’interno della chiesa fosse conservata una statua della Vergine, quasi certamente una statua lignea, e che per tradizione la sua figura venisse vestita con abiti e stole. Questo dettaglio potrebbe essere ancor più interessante se legato alla tradizione ligure, in particolare finalese, dei manichini sacri vestiti12, ma vista la mancanza di notizie specifiche sulla statua verzina, non possiamo con alcuna certezza affermare tale riferimento.
10 Casamurata 2018-2019, p. 5.
11 Cfr. Regesto 1652, 7 marzo.
12 Il finalese, probabilmente a causa del suo legame con l’impero spagnolo, sembra aver avuto un numero particolarmente altro, rispetto ad altre località liguri, di statue vestite. Sono tutt’ora dotate degli antichi corredi le statue della Madonna del Rosario e della Madonna del Carmine, conservate all’interno della Collegiata di San Biagio a Finalborgo. Nella chiesa di San Giovanni Battista è conservata la famosa Madonna dell’Immacolata e la Madonna della Cintura. (Collu, Cataldi Gallo, Granero, Oliva, Sommariva 1999, pag. 57-72).
8 Le informazioni relative alla seconda metà del Seicento, arrivando fino all’ultimo decennio del Settecento, vengono a noi tramandate solamente dal registro amministrativo della Compagnia del Rosario. È logico pensare, che i documenti e i registri contabili dei massari della chiesa parrocchiale siano andati perduti, lasciando cadere nell’oblio il ricordo di persone, oggetti, opere e forse anche artisti.
I documenti superstiti della suddetta Compagnia ci permettono di leggere, in maniera trasversale, le numerose attività svolte per il mantenimento del decoro e l’abbellimento dell’altare del Rosario, e in alcuni casi, anche la collaborazione con i massari della chiesa per attività conservative che coinvolgevano la collettività dei fedeli. Partendo dalle prime informazioni riportate, relative al 1652, incontriamo fin da subito i cognomi Burastero e Rubado, famiglie il cui cognome risuona tuttora per le vie del paese. In questo caso, Nicolao Burastero, Giorgio e Gio Rubado si erano impegnati a pagare il nuovo tabernacolo marmoreo, per un totale di 87 lire13. Rimangono a noi sconosciute le forme del tabernacolo e il nome, o i nomi, di chi venne incaricato per la sua realizzazione, non è quindi possibile avviare un confronto con l’attuale tabernacolo marmoreo che, nel corso del tempo, può aver subito rimaneggiamenti o rifacimenti. Nel corso del 1660 vennero probabilmente portati avanti dei lavori di ristrutturazione riguardanti l’altare del Rosario, in quest’occasione vennero comprati cento mattoni e venne pagato “mastro Andrea Lavagna”14 per quattordici giornate lavorative. Notizie di minore importanza si susseguono tra le pagine del registro, portandoci all’anno 1662, dove i documenti ci restituiscono il nome del pittore Giovanni Battista Rodi. In quell’occasione, i massari della Compagnia del Rosario, fecero saldare il debito di Simone Rubado nei confronti di Giacomo Dell’isola pagando il Rodi per dipingere la cassa della Madonna15. Lo stesso pittore viene nuovamente nominato nel 1668, a seguito del pagamento di lire 6 per il restauro del crocifisso della chiesa16. Purtroppo, anche in questo caso, non abbiamo alcun elemento che ci fornisca un’identificazione certa e
13Cfr. Regesto 1652.
14 Cfr. Regesto 1660.
15 Cfr. Regesto 1662.
16 Cfr. Regesto 1668.
9 plausibile di queste due opere. Allo stesso modo, sulla figura dell’artista, definito come “pittore in Loano”17, manca uno studio che permetta di ricostruirne la storia e la produzione, forse localmente importante, soprattutto se si pensa che il cognome Rodi non è del tutto sconosciuto nell’ambito artistico della diocesi di Albenga, in particolare con la figura di Giacomo Rodi. Quest’ultimo, originario di Montalto Ligure, attivo dal secondo decennio del Seicento per oltre quarant’anni, ha lasciato sul territorio diocesano un’abbondante produzione artistica a carattere sacro. Non è possibile, ad oggi, legare queste due personalità per mancanza di informazioni, ma sarebbe comunque sbagliato non evidenziare questa peculiarità anagrafica che lega le due figure di artisti. Nel breve arco cronologico che va dal 1667 al 1668, si possono trovare, sempre all’interno del registro amministrativo della Compagnia, alcune annotazioni circa la collaborazione tra i massari del Rosario e quelli della chiesa, nello specifico venne pagato Bernardo Burastero per occuparsi di imbiancare la chiesa18. Procedendo verso la fine del Seicento i documenti ci riportano informazioni di minor rilevanza storico-artistica. Nel 1670 venne comprata della calce per accomodare la cappella19, nove anni dopo le spese si concentrano nella realizzazione di un buffetto per portare la figura della Madonna in processione, e nella creazione di un padiglione e un di fanale per il tabernacolo20. Tra il 1685 e il 1694 le maggiori uscite economiche dei massari della Compagnia sono relative alla compera di lampade e candelieri21, ma soprattutto per la fattura di un palio di damasco bianco guarnito di seta22. Nel più generale contesto della chiesa parrocchiale, avremmo dovuto incontrare della documentazione relativa ad un dipinto su tela, raffigurante Gesù Cristo crocifisso, la Madonna addolorata, Santi e Anime del purgatorio. L’opera, che verrà analizzata nel seguente capitolo, è stilisticamente collocabile in un lasso di tempo che va dal 1650 c.a. e il 1675 c.a.
Allo stesso modo, la carenza di informazioni documentarie caratterizza una seconda
17Ibidem.
18Cfr. Regesto 1667.
19 Cfr. Regesto 1670.
20 Cfr. Regesto 1679.
21 Cfr. Regesto 1693.
22 Cfr. Regesto 1694.
10 opera, una tela raffigurante San Pietro apostolo, conservata all’interno della canonica della chiesa e vicina alla produzione di Giovanni Battista Merano. La realizzazione di quest’ultima, indagata attraverso confronti stilistici di opere attribuite con certezza alla mano del Merano, è posta cronologicamente tra gli anni Ottanta e Novanta del Seicento. La mancanza di documenti, inerenti all’amministrazione della chiesa, e i lunghi silenzi di alcuni registri sulle attività svolte al suo interno, non facilitano il lavoro di ricostruzione storico-artistica delle opere e di conseguenza una loro collocazione temporale precisa. Nel prossimo capitolo, tenendo in considerazione sia le lacune documentarie che le informazioni sopradette, le tele verranno indagate da un punto di vista prettamente formale e stilistico, con lo scopo di ricondurle ad un ambito realizzativo più preciso.
Nella prima metà del Settecento, il registro amministrativo redatto dalla Compagnia del Rosario, tramanda un maggior numero di informazioni relative alla collaborazione, sia economica che pratica, tra i massari della suddetta Compagnia e quelli della chiesa parrocchiale. Nel corso del 1705 vennero spese 35 lire per il pagamento delle maestranze, e per la compera di mattoni e calce ad uso della chiesa23; solamente un anno dopo, vennero spese 6 lire per argentare i candelieri ed altre 47 lire per la fabbrica della chiesa24. Nel contesto delle opere che ad oggi si possono ancora ammirare nella chiesa di Verzi, è di particolare interesse una serie di quattro dipinti su tela raffiguranti gli Evangelisti, San Matteo, San Marco, San Luca e San Giovanni. Le opere, posizionate sulle pareti laterali dell’abside della chiesa, sono stilisticamente collocabili intorno al secondo decennio del Settecento e, anche in questo caso, non abbiamo indicazioni documentarie di alcun genere su di esse. Una lacuna probabilmente lasciata dalla perdita dei documenti relativi all’amministrazione ordinaria della chiesa. Nel 1725 l’attività di imbiancatura esterna della chiesa costò alla Compagnia del Rosario 6 lire25, mentre nel 1727 le spese più ingenti riguardano la realizzazione di un nuovo battistero26. Nonostante la mancanza di una fonte documentaria diretta, relativa alle attività svolte dai
23Cfr. Regesto 1705.
24 Cfr. Regesto 1706.
25 Cfr. Regesto 1725.
26 Cfr. Regesto 1727.
11 massari della chiesa in questo torno di anni, possiamo comunque dedurre che, nel primo quarto del nuovo secolo, gli sforzi maggiori si siano concentrati in un risanamento della struttura dell’edificio e dei suoi interni. Oltre alle citate spese, i massari del Rosario, si occuparono di rendere onore e decenza al proprio altare concentrandosi soprattutto sull’effige della Madonna. Nel 1724 venne realizzata una copertina per l’ancona27, mentre l’anno seguente sborsarono 7 lire per la manifattura di drappi, ferro e occhi per le tendine28. Tuttavia, le spese maggiori si concentrarono nel lasso di tempo di una decina d’anni, tra il 1738 e il 1748 vennero spese in tutto 207 lire, le attività svolte riguardarono la realizzazione di un baldacchino, di alcune aste foderate29, il restauro dell’ancona del Ss. Rosario e il
“ristoramento del suddetto altare fra maestranza, chiappe, calcina e lavoranti”30. Anche in questo caso, la narrazione documentaria non ci permette alcun riconoscimento o identificazione di opere e artisti ma, nonostante la diffusa mancanza di informazioni scritte, possediamo alcune testimonianze artistiche tuttora esistenti, che si collocano entro la prima metà del XVIII secolo. Nello specifico la tela raffigurante la Madonna del Rosario con il Bambino e i suoi quindici misteri, datata entro il 1748, e stilisticamente collocabile all’interno della produzione del pittore finalese Domenico Bocciardo31. Nella precedente disamina dei documenti relativi al primo cinquantennio del Settecento, non è stata volutamente citata un’informazione, nel 1719 la Compagnia del Rosario sborsò lire 5 e soldi 10 per comperare una tela e una cornice32. È quindi possibile che l’opera, considerando il soggetto rappresentato e la posizione che tuttora detiene sull’altare del Santissimo Rosario, sia stata commissionata in quegli anni dalla Compagnia, prima dei lavori di ristrutturazione della chiesa.
27Cfr. Regesto 1724.
28 Cfr. Regesto 1725.
29 Cfr. Regesto 1738.
30 Cfr. Regesto 1748. È bene evidenziare come le attività di manutenzione e conservazione dell’ancona del Rosario non siano state concentrate solamente nel 1748, il confronto con il regesto deve estendersi anche agli anni 1738 e 1746.
31 Bartoletti, in Cervini e Spantigati (a cura di) 2001, pag. 153.
32 Cfr. Regesto, 1719.
12 Per il secondo Settecento dobbiamo quindi nuovamente affidarci alle informazioni tramandate dal registro della Compagnia del Rosario, il quale si presenta più “taciturno” rispetto agli anni precedenti. Le notizie di maggiore interesse, annotate tra il 1774 e il 1790, riguardano le spese inerenti ad alcuni colori comprati l’anno precedente; l’attività di imbiancatura della chiesa; la retribuzione di maestro Gandolfo a seguito della decorazione dell’altare e della cappella del Rosario, e il pagamento delle maestranze che si occuparono di dipingere la statua di Maria Santissima33. Nel 1784 l’investimento economico più cospicuo interessò la nuova campana del campanile34, mentre tre anni dopo vennero spese 25 lire per una statua della Madonna35.
Seguendo la scia di piccoli indizi e annotazioni tramandate dai nostri registri, arriviamo finalmente all’Ottocento, ultimo secolo preso in considerazione in questa indagine documentaria. La possibilità di ricostruire interamente un discorso storico-artistico della chiesa di Verzi, basandosi sulle fonti conservate, è stata ampiamente smontata dalla mancanza di continuità e varietà di documenti. Ad ulteriore riprova di questa impossibilità possiamo evidenziare la totale mancanza di informazioni36 dal 1790 al 1846. È bene anche sottolineare che, se per i secoli precedenti il nostro racconto si basava solamente sulle testimonianze lasciate dal registro della Compagnia del Rosario, per quanto riguarda il XIV secolo dobbiamo affidarci a due registri amministrativi redatti dai massari della chiesa parrocchiale.
Ritornano, come protagonisti sulla scena, alcuni dei cognomi più diffusi del paese;
nel 1846 Nicolò Robado (Rubado) si occupò della sistemazione delle porte della chiesa, Domenico Perasso procurò la biacca per verniciarle, mentre il 15 novembre venne pagato Giovanni di Dio Borra per la pittura del nuovo gonfalone37. Nel 1848 troviamo citate per la prima volta, nei nostri documenti, delle prioresse, pagate tra
33 Cfr. Regesto 1774.
34 Cfr. Regesto 1784.
35Cfr. Regesto 1787.
36 È bene precisare che la mancanza di informazioni documentarie sia relativa solo all’ambito amministrativo e gestionale della chiesa, nello specifico di ambito storico- artistico.
37 Cfr. Regesto 1846.
13 marzo e aprile per aver comprato dei purificatoi, alcuni camici e dei tessuti violacei per la realizzazione di veli38. Due anni dopo, il già citato Domenico Perasso, si occupò di ristorare il Bambino della Madonna, ma i documenti purtroppo non ci dicono se l’attività fosse stata svolta su un quadro o su una statua39. Il 1° febbraio 1851 venne pagato Nicolò Dell’isola per la realizzazione di due cavalletti che avevano lo scopo di sorreggere la cassa della Madonna40. Il mese di marzo del 1857 venne probabilmente interamente occupato dai lavori alla pavimentazione della chiesa, essendo stato pagato un maestro finalese per le sue ventiquattro giornate lavorative41, le attività di manutenzione del suolo procedettero fino al settembre dello stesso anno. L’impossibilità documentaria di identificazione di alcune opere, basandosi sui documenti, continua nonostante le maggiori informazioni riportate in questo registro. Sappiamo infatti che, nel gennaio 1858, venne acquistata un’immagine di Maria Santissima, ma anche in questo caso non abbiamo alcuna indicazione relativa al suo materiale42. Dal 1860 al 1877 le annotazioni si susseguono con un ritmo abbastanza serrato, e riportano notizie di carattere vario:
attività di indoratura di calici, acconto per il pagamento del piano, spese relative alla compera di una tovaglia, delle tele e dei corporali, il pagamento di Filippo Marengo per la sistemazione dei banchi della chiesa e, nel febbraio 1864, si procedette con il restauro del tetto della chiesa e della sagrestia43. Nei mesi di giugno e luglio del 1870 vennero realizzate delle vetrate nuove, e venne pagato il falegname per la sistemazione di alcune panche, del coro e di un armadio della sagrestia44. Il lasso di tempo per la realizzazione del pavimento doveva essersi, nel corso degli anni, di molto dilatato essendo che nel mese di agosto del 1872 vennero spese 500 lire per comprare marmi e lavagne, e il 20 ottobre dello stesso anno
38 Cfr. Regesto 1848.
39 Cfr. Regesto 1850.
40Cfr. Regesto 1851, 1° febbraio.
41 Cfr. Regesto 1857, marzo.
42 Cfr. Regesto 1858.
43 Cfr. Regesto 1864, febbraio.
44 Cfr. Regesto 1870, giugno, luglio.
14 vennero pagate ventitré giornate lavorative per la pavimentazione, non comprensive della mano d’opera effettuata dal popolo45. L’ultimo ventennio del XIV secolo venne caratterizzato dalla costruzione della nuova orchestra, a cui presero parte alcuni membri delle famiglie Dell’isola, Puppo e Pisano46, e dalla realizzazione dell’organo, la cui progettazione venne affidata ai fratelli Bussetti, organisti savonesi47. A conclusione del secolo è necessario citare un’ultima annotazione scritta, datata 8 ottobre 1899. In quell’occasione i fabbricieri si radunarono in seduta ordinaria ed il reverendo presentò la richiesta di Maria Morra Marchegiani di poter acquistare una sedia “di stile antico” conservata in sagrestia; inoltre, il reverendo venne incaricato della vendita di un quadro di grandi dimensioni, sempre conservato nella suddetta48.
Con la fine dell’Ottocento concludiamo quindi la nostra rassegna documentaria, con la consapevolezza che una ricostruzione completa e ben definita della storia della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Verzi è difficilmente praticabile. Sono state evidenziate spesso le carenze, le lacune e le mancanze che non permettono una continuità cronologica e una ricostruzione effettiva degli eventi, tanto che, gli stessi fabbricieri della chiesa sottolinearono, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, questo elemento:
“3 febbraio 1888 Memorie da leggersi. L’anno del Signore 1888, alli 3 di febbraio, morto il Reverendo Arciprete Nicolò Ramella parroco di questa parrocchia , la fabbriceria, non trovando i seguito conti più recenti di suesposti e non sapendo dare ragione di nulla, dice che di tutto era incaricato il sovranominato Arciprete Ramella; che tanto la Chiesa, come le cappelle ed altre opere erano amministrate dallo stesso; che alla di lui morte non trovarono che questo libro depositate all’offizio postale di Loano per riscuoterne i frutti. E questo per schiarimento.49”
45 Cfr. Regesto 1872, 17 agosto, 20 ottobre.
46 Cfr. Regesto 1891.
47Cfr. Regesto 1895.
48 Cfr. Regesto 1899, 8 ottobre.
49 Cfr. Regesto 1888, 3 febbraio.
15 Tuttavia, le premesse da cui questa narrazione è partita, non avevano la presunzione di definirsi complete o definite. L’intento è sempre stato quello di riportare alla luce informazioni rimaste sepolte in archivio per anni, e cercare, nonostante le difficoltà, di ricostruire piccoli pezzi di storia che uniti, potessero formare un quadro generale, anche se sfocato. Sarebbe inutile però continuare a rimarcare questa defezione documentaria e la sua conseguente difficoltà, senza tener conto del fatto che effettivamente esistono delle testimonianze, e per quanto queste ultime possano sembrare banali o inutili ci parlano di un religioso sentire, di una condivisione di intenti, e della voglia di perdurare nel tempo, nonostante tutto.
16 Capitolo 2
Nel precedente capitolo è stato evidenziato il carattere prevalentemente lacunoso dei documenti, nello specifico quelli relativi all’amministrazione e alla contabilità della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Verzi, e la conseguente difficoltà di una ricostruzione storico-artistica. Il reiterato silenzio delle pagine dei registri non permette nemmeno un sicuro lavoro di attribuzione e di posizionamento cronologico delle opere pittoriche, conservate all’interno dell’edificio sacro. Per questo motivo, nelle pagine che seguono, le suddette verranno analizzate singolarmente, proponendo confronti stilistici e formali, con lo scopo di ricondurle ad un ambito di produzione. La scelta di trattare solo i manufatti a carattere pittorico, tralasciando quindi le statue, le vesti e gli argenti, è dettata dalla possibilità di portare alla luce il religioso sentire della comunità verzina che, nel corso dei secoli, andò a riflettersi nei pennelli di alcune botteghe e artisti. È comunque bene evidenziare che non si possiede alcuna certezza relativa alla committenza di queste opere, non si può quindi escludere che esse siano state comprate successivamente dai massari della chiesa o delle compagnie in essa presenti. Tuttavia, queste difficoltà non vanno ad inficiare il valore che queste rappresentazioni sacre hanno avuto, e tutt’ora possiedono, nell’ispirare convincimento e devozione nello spirito del fedele.
2.1 La Madonna del Rosario: un’opera della bottega De Rossi.
All’interno della chiesa dedicata alla Vergine, a pochi passi dal portone d’ingresso, spicca sulla parete in alto a sinistra una pala d’altare in legno policromo.
L’opera, raffigurante la Madonna del Rosario con Santi e Dio Padre (fig. 1), svela un profondo attaccamento della comunità dei fedeli nei confronti del culto mariano.
Nello specifico la Vergine è rappresentata assisa in trono, tiene il bambino con il braccio destro mentre nell’altra mano, con lo sguardo rivolto verso sinistra, porge un mazzolino di fiori ed un rosario. Alla sua destra è rappresentato San Domenico di Guzman (fig. 1a), riconoscibile, oltre che dall’abito tipico dell’ordine domenicano, dal giglio che tiene nella mano destra; nel lato opposto, speculare alla posizione del Santo, è rappresentata Santa Caterina da Siena (fig. 1b), anche lei veste l’abito domenicano ed entrambe le mani, la sinistra appoggiata al petto e la destra, che regge nuovamente un fiore di giglio, mostrano le stimmate. Nella parte
17 inferiore della pala, il trono mariano divide la schiera dei fedeli in due parti: a destra è rappresentato il gruppo delle donne, dove in primo piano troviamo nuovamente una santa domenicana; mentre a sinistra quello degli uomini, dove primeggia la figura di San Pietro in abiti liturgici con la tiara posata ai suoi piedi. I personaggi sono incorniciati dalla rappresentazione dei quindici Misteri del Rosario e coronati, nella cimasa, dalla figura di Dio Padre che regge tra le mani una corona. Dal punto di vista stilistico la pala mostra un linguaggio non aggiornato, tipico dei piccoli borghi di provincia dove le novità artistiche dei centri maggiori tardano ad arrivare, e dove il gusto della committenza è ancora legato a modelli del passato. L’opera è da ricondurre, alla produzione artistica della bottega De Rossi50, all’interno della quale sono state riconosciute più figure di artisti appartenenti ad una stessa famiglia, il capostipite Raffaello, Giulio suo figlio, ed infine il nipote Orazio51. La pala d’altare verzina è, sia dal punto di vista formale che compositivo, accostabile più alla tarda attività di Giulio, o a quella di suo figlio Orazio, stanco epigono della maniera paterna ed è cronologicamente collocabile tra l’ultimo decennio del Cinquecento e il primo decennio del secolo successivo.
È doveroso, a questo punto, introdurre brevemente la storia della bottega, in modo tale da poter proporre esempi e confronti che possano avvalorare l’ipotesi attribuzionistica. L’Alizeri, nel terzo volume delle sue Notizie dei Professori del disegno in Liguria dalle origini al secolo XVI del 1874, è il primo a ricordare della presenza sul territorio genovese, dal 1518 al 1520, di “quel Raffaello Fiorentino che presso al Sacchi viene sessantesimo sesto nella matricola”52, riportando anche il cognome da lui trovato in un documento, De Rossi53. Dalle informazioni desunte dall’Alizeri sappiamo quindi che Raffaello giunse sul territorio ligure da Firenze,
50 Nel corso degli anni è stato possibile ricondurre alla famiglia De Rossi una numerosa produzione di bottega, riunita inizialmente da Castelnovi sotto il nome di “Pancalino”, il quale era stato erroneamente desunto da un’iscrizione posta nello scomparto centrale del polittico di Deglio Faraldi (1577), che si è poi scoperto contenere in realtà i nomi dei committenti del lavoro (Bartoletti in 1999, p. 392).
(Per ulteriori approfondimenti sulla bottega e sulla questione del “Pancalino” cfr Fedozzi 1991, De Moro, Romero 1992).
51 Casamurata 2018-2019, p. 5.
52 Alizeri 1874, p. 208.
53 Ibidem.
18 in data non precisata, però sicuramente prima del 1510, anno in cui il pittore lavorò alla pala raffigurante l’Apparizione della Vergine e San Bernardo, oggi conservata al Museo statale di Puškin (Mosca) ma proveniente dal convento di Santa Caterina a Finalborgo54. Negli stessi anni eseguì anche lo smembrato polittico della collegiata di San Biagio55, sempre a Finalborgo, di cui si possono ancora osservare, sull’altare di testata della navata laterale destra, la pala centrale, la predella e la cimasa56. La presenza di Raffaello a Genova è attestata tra il 1514 e il 1521, impegnato nella realizzazione di opere per alcune delle famiglie e delle istituzioni ecclesiastiche più importanti della città57. Dall’inizio degli anni Venti l’attività artistica del pittore si sposta geograficamente verso la Riviera di ponente, dove la sua presenza è testimoniata dalle numerose opere realizzate. Uno dei lavori di maggior impegno e rilevanza di questo periodo, modello per le successive opere di bottega, è il polittico dell’Incontro con la Veronica per la chiesa dei Santi Nazario e Celso a Borgomaro, realizzato già con la partecipazione del figlio Giulio58 (fig.
2). Con la fine degli anni Trenta il borgo di Diano Catello diventa residenza stabile di Raffaello e della sua bottega, iniziando a collaborare assiduamente con il figlio nella produzione artistica; mentre, già intorno al 1550, il raggio d’azione della famiglia si restringe alle Valli Dianesi e le maggiori responsabilità realizzative passano nelle mani del figlio Giulio, nonostante il sodalizio tra i due proceda fino agli anni Settanta del secolo59. L’inizio del percorso artistico autonomo di quest’ultimo è riconducibile al polittico della Madonna con Bambino e Santi di Bassanico (fig. 3), datato 1551, totalmente autografo, che mostra però una sostanziale povertà d’esecuzione rispetto alle realizzazioni paterne60. Risale però al 1571 il primo contratto di committenza, voluto dai massari della chiesa di Rollo, in
54 Caldera, Fiore 2018-2019, p.28.
55 Gentile 1949, pp. 54-55.
56 Casamurata 2018-2019, p. 22.
57 Ibidem.
58 Casamurata 2018-2019, p. 25.
59 Casamurata 2018-2019, pp. 28-29.
60 Casamurata 2018-2019, pp. 57-58.
19 cui il destinatario risulta essere il solo Giulio. L’opera anche in questo caso si distanzia dal fare pittorico di Raffaello, e dimostra un’ingenua semplicità esecutiva tipica dello stile del figlio che comunque, nei territori ponentini, incontrerà il favore della confraternite locali portando avanti la bottega61. Dagli anni Ottanta vediamo emergere la figura di Orazio, figlio di Giulio, il quale non sembra essersi interessato da subito alla pratica pittorica, forse per la carenza di doti artistiche, visti gli scarsi risultati raggiunti dal suo pennello62 (fig. 4). L’esperienza della bottega De Rossi venne portata a compimento intorno alla seconda metà del primo decennio del Seicento, con la difficile situazione politica che investì la Riviera, ed Orazio, stanco epigono dei modelli impostati dai suoi predecessori, concluse la parentesi artistica iniziata quasi un secolo prima da Raffaello63.
È possibile, a questo punto, evidenziare le tangenze che intercorrono tra la tarda produzione della bottega derossiana e la pala conservata nella chiesa di Verzi.
Le attinenze maggiori sono riscontrabili soprattutto dal punto di vista tipologico e compositivo. Lo schema della Madonna col Bambino (fig. 1c) echeggia, ad esempio, alcune composizioni attribuibili alla tarda attività di Giulio, a volte realizzate probabilmente già in concorso col figlio Orazio, quali il polittico di Vasia o la Pala di Pornassio (fig. 6-7). Le schiere di personaggi inginocchiati in preghiera ai lati del trono, scalati in maniera un po' schematica, ricordano, ad esempio, quelle dispiegate da Giulio nella pala di Borgomaro, in questo caso riservando però la sinistra al parterre maschile e la destra a quello femminile, invertendo la composizione. Inoltre, la figura di San Pietro (fig. 1d) in primo piano ricalca approssimativamente, nella tipologia del volto e delle vesti, lo stesso santo rappresentato nel pannello laterale sinistro della pala di Leca (fig. 8). Rispetto alle scenette con la rappresentazione dei Misteri del Rosario, un parallelismo si potrebbe forse instaurare con quelli realizzati da Orazio De Rossi per una pala destinata alla chiesa di Pairola, a cui si può accostare anche per la carpenteria della cornice. Anche la figura del Dio Padre nella cimasa (fig. 1e) ripropone prototipi già sperimentati dalla bottega. Alcuni elementi risultano invece stilisticamente meno convincenti e
61 Casamurata 2018-2019, pp.69-70.
62 Casamurata 2018-2019, p. 78.
63 Casamurata 2018-2019, p. 80-83.
20 forse dovuti a ridipinture successive, ad esempio, nella schiera di devote troviamo una testa “fluttuante” nel vuoto (fig. 1f) e le altre schematicamente impostante.
Anche nel caso della soluzione del tendaggio verde alle spalle della Madonna, utilizzato come sfondo, il quale non ricorre in altre opere della bottega. Tuttavia, nonostante le connessioni evidenziate con l’attività artistica della famiglia De Rossi, in particolare con la tarda produzione di Giulio, non è possibile avanzare un’attribuzione tout court, considerando anche che molte dovevano essere le personalità gravitanti attorno alla figura del capo bottega.
21 1. Bottega dei De Rossi, Madonna con Bambino e Santi 1590-1610 ca., Verzi, Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
22 1a. Bottega dei De Rossi, San Domenico di Guzman,
particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
1b. Bottega dei De Rossi, Santa Caterina da Siena, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
23 2. Raffaello e Giulio De Rossi, Incontro con la Veronica e Santi 1549-1551, Borgomaro, chiesa dei Santi Nazario e Celso
24 3. Giulio De Rossi, Madonna col Bambino e Santi 1551-1555 ca., Bassanico, parrocchiale di San Giovanni Battista.
25 4. Orazio De Rossi, Madonna col Bambino e Santi 1606-1608 ca., Rollo, oratorio di S.
Giovanni Battista.
26 6. Giulio De Rossi, Madonna in trono col Bambino, particolare, 1582-1583, Vasia, parrocchiale di S.
Antonio Abate.
7. Giulio De Rossi (Orazio De Rossi), Madonna in trono col Bambino, particolare, 1589-1591 ca.
Pornassio, Chiesa di S. Dalmazzo.
1c. Bottega dei De Rossi, Madonna in trono col Bambino, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
27 8. Raffaello e Giulio De Rossi, San Pietro,
dettaglio, 1563 ca., Leca, chiesa di Nostra Signora Assunta.
1d. Bottega dei De Rossi, San Pietro, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
28 1e. Bottega dei De Rossi, cimasa con Dio Padre, particolare, Verzi, chiesa
di Santa Maria delle Grazie.
1f. Bottega dei De Rossi, teste dei fedeli, dettaglio, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
29 2.2 Una tela di Domenico Bocciardo.
Procedendo verso l’altare maggiore, volgendo lo sguardo sulla parete destra, s’incontra l’altare del SS. Rosario, voluto dai massari dell’omonima compagnia precedentemente al 161264. La titolazione del suddetto altare è riconoscibile, e visivamente espressa, dalla grande tela posizionata sopra di esso, raffigurante la Madonna del Rosario con il Bambino e i suoi Quindici Misteri (fig. 9). L’opera, attribuibile al pennello del pittore finalese Domenico Bocciardo65, esprime perfettamente quel sentimento di grazia devozionale e favorisce l’intensificazione del trasporto meditativo del fedele nei confronti del culto della Vergine. La Madonna, illuminata da un radioso fascio di luce, è seduta su evanescente “trono”
di nubi e viene sospinta verso il cielo da alcuni angeli, tiene con il braccio sinistro il Bambino mentre nella mano destra stinge un rosario. Al di sopra della sua figura piccole teste sbucano tra le nuvole, due piccoli putti alati tendono le braccia quasi a volerla toccare, mentre due angeli la incoronano reggendo, con le mani ancora libere, una collana di medaglioni uniti tra di loro da una serie di fiocchi di stoffa e raffiguranti i Quindici misteri del Rosario. Nella parte inferiore della tela lo sfondo paesaggistico riporta alla mente un bucolico panorama di campagna, con alberi, colline e montagne in lontananza; la parte superiore è invece caratterizzata dal grigiore delle nubi, spezzato solamente dalla luce divina che scende per illuminare le figure predilette della Vergine e del Bambino. La luce è una delle caratteristiche principali all’interno delle opere del Bocciardo, il quale, attraverso una distribuzione luministica studiata, riesce a rendere la scena unitaria e profondamente accogliente. Anche la scelta e la stesura dei colori diafani e pallidi, con l’unica eccezione del manto blu della Vergine, sono elementi stilisticamente riconoscibili dell’artista66, che mostrano un’attenzione peculiare nella resa di sentimenti puri, con l’intento di ispirare un sincero amore per la fede. Un elemento iconograficamente interessante è relativo alla scelta degli stessi colori utilizzati per le vesti della Vergine e del Cristo, rappresentato nei clipei con i Misteri, che
64 Cfr regesto 1612.
65 Bartoletti in Cervini, Spantigati (a cura di) 2001, p. 153.
(Per approfondire la figura di Domenico Bocciardo cfr Dufour Bozzo vol. II, 1987; Briganti 1990; Gavazza, Magnani 2000).
66 Longage 1935, II, pp. 173-174.
30 sottolineano visivamente lo stretto legame di filiazione, un assonanza coloristica utile a sostegno del culto nei confronti della Vergine67.
Dal punto di vista iconografico la rappresentazione della Vergine del Rosario venne inizialmente caratterizzata da numerose varianti e specificità territoriali, favorite dalle prolifiche attività confraternali nella diffusione del culto, soprattutto dai domenicani. Tuttavia, a seguito delle disposizioni tridentine relative alle immagini sacre e al loro ruolo nell’ispirare fede e devozione, si andò codificando una rigida impostazione costruttiva della pala d’altare e un rigorismo iconografico68. La rappresentazione della figura mariana, connessa al culto del rosario, si sviluppò contaminandosi con altri modelli iconografici già conosciuti come nel caso della Donna dell’Apocalisse e, successivamente, con l’interpretazione in chiave antiottamana a seguito della vittoria, nella battaglia di Lepanto, della Lega Santa69. Sebbene queste rappresentazioni siano molto frequenti nei grandi centri come Genova, Venezia, Milano e Roma, nei piccoli contesti, soprattutto domenicani, l’iconografia vincente mostra Maria seduta con il Bambino mentre dona il rosario a San Domenico o alla mistica dell’ordine, Santa Caterina da Siena, le figure sono contornate dall’illustrazione dei quindici Misteri divisi tra gioiosi (fig. 9a), dolorosi (fig. 9c-d) e gloriosi (fig. 9b)70 . Anche la raffigurazione dei quindici Misteri acquisì, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, un’importanza fondamentale nella veicolazione dei significati religiosi più profondi. La loro posizione all’interno della narrazione artistica del culto poteva prevedere una doppia modalità: inseriti con uno sviluppo tabellare intorno alla pala o affrancati da essa e posizionati entro la struttura d’altare71. La seconda modalità, nuova, più complessa e maggiormente affascinante, troverà nel corso del Seicento grande sviluppo, mentre le rappresentazioni dei Misteri entro la cornice della pala
67 Per approfondire il tema relativo al culto della Vergine e al suo rapporto con il protestantesimo, cfr Mâle 1984, pp. 45-53.
68Sanguineti in Lecci, Valenti (a cura di) 2018, p. 181.
69 Sulla questione della rappresentazione in chiave antimussulmana e antiottomana della Madonna del Rosario cfr Capeta, Capriotti 2017, pp. 175-180.
70 Stagno 2017-2018, pp. 63-66.
71 Sanguineti in Lecci, Valenti (a cura di) 2018, p.182.
31 continueranno a cercare vie innovative per non cadere nella stanca ripetizione di forme già codificate72.
L’attribuzione dell’opera conservata nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Verzi alla mano del Bocciardo, già proposta da Massimo Bartoletti73, è evidente se messa in relazione con altre opere del pittore dove si possono riconoscere gli stessi caratteri stilistici e compositivi. I volti e i gesti delicati, i colori porcellanosi e le luci ovattate sono identificabili nella produzione a carattere sacro che l’artista ha lasciato nei borghi e nelle città del ponente come, ad esempio, nella tela della Madonna del Rosario con Bambino e Santi della Chiesa di San Lorenzo a Varigotti74 (fig. 10). In questo caso la figura della Vergine e quella del bambino sono totalmente accostabili a quelle verzine, con l’unica differenza che lo sguardo di Maria nella tela di Varigotti è rivolto verso destra. Anche nella rappresentazione dei Misteri, nonostante la differente disposizione e la sostituzione di alcuni episodi con altri, troviamo delle strettissime associazioni: alcuni di essi sono identici, come nel caso dell’Annunciazione, l’Incontro tra Maria ed Elisabetta (fig. 10a), la Crocifissione, l’Incoronazione di Maria Vergine (fig. 10b), mentre in alcuni cambiano solamente le posizioni dei personaggi. In entrambe le opere si può notare l’ineccepibile educazione artistica romana, acquisita dal Bocciardo nella Città Eterna durante l’apprendistato presso Giovanni Maria Morandi, suo maestro, che proseguì fino al 1717, anno della morte di quest’ultimo75. Il Ratti, nel secondo volume delle sue Vite, ricorda il suo ritorno presso la città natale, Finale Ligure, e successivamente la notevole attività di ritrattista svolta dal pittore finalese per importanti famiglie genovesi come Canevaro e Mari, mentre sottolinea la scarsa presenza di opere a carattere sacro lasciate nelle chiese del territorio della Repubblica. Tuttavia, lo storico, menziona un interessante gruppo di opere raffiguranti temi sacri realizzate dall’artista, conservate nelle chiese dei borghi della
72 Sanguineti in Lecci, Valenti (a cura di) 2018, p. 183.
73 Bartoletti in Cervini, Spantigati (a cura di) 2001, p. 153.
74 Ibidem.
75 Ghio, in Gavazza, Magnani (a cura di) 2000, p. 373.
32 riviera di ponente, non solo per Finale Ligure e territori limitrofi, ma anche per alcuni centri come Vado Ligure, Porto Maurizio, Oneglia e Albenga76.
76 Ratti 1769, pp. 276-278.
33 9. Domenico Bocciardo, Madonna del Rosario con il Bambino e i suoi quindici Misteri 1717-1746 ca., Verzi, Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
34 9a. Domenico Bocciardo, Misteri Gioiosi: Annunciazione e Incontro tra Maria ed Elisabetta, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
35 9b. Domenico Bocciardo, Misteri Gloriosi: Incoronazione della Vergine e Assunzione in cielo, particolare, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
36 9c. Domenico Bocciardo, Misteri dolorosi: la
Flagellazione, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
9d. Domenico Bocciardo, Misteri dolorosi: la Crocifissione, particolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
37
10. Domenico Bocciardo, Madonna del Rosario con il Bambino e Santi 1717-1746 ca., Varigotti, chiesa di San Lorenzo.
10a. Domenico Bocciardo, Misteri gioiosi, 38 particolare, Varigotti, chiesa di San Lorenzo.
50b. Domenico Bocciardo, Misteri gloriosi, particolare, Varigotti, chiesa di San Lorenzo.
39 2.3 La Natività di Maria: una difficile indagine artistica.
Nella parete absidale della chiesa, leggermente nascosta alla vista dall’altare maggiore, è collocata la tela raffigurante la Natività di Maria (fig. 11). L’opera ha purtroppo subito un pesante e grossolano restauro verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, e ad oggi si presenta illeggibile stilisticamente. Il pessimo intervento conservativo è lampante in quasi ogni dettaglio della scena: i tendaggi informi che diventano macchie di colore scuro; lo sfondo che si mischia con i personaggi in primo piano; i volti poco aggraziati e “alieni” di Sant’Anna e della Vergine bambina; le gigantesche proporzioni dell’ancella in primo piano che entra sulla scena e l’impossibile torsione del collo del piccolo putto che si ruota per guardare l’evento. La scena mostra Anna, con la Vergine accoccolata tra le sue braccia, assistita da quattro ancelle: quella alla sua destra tiene tra le mani un rotolo di fasce, alla sua sinistra un’altra trasporta un cesto con della biancheria, mentre due ancelle sono accovacciate ai suoi piedi e indicano una specie di culla (fig. 11b). In secondo piano rispetto alle figure principali troviamo Gioacchino, con le braccia aperte e lo sguardo rivolto al cielo. Sopra di lui cinque putti (fig. 11a), alcuni dei quali alati, si tengono festosamente per mano, quello più vicino alla scena stringe nella mano destra un ramo fiorito, mentre alla sua sinistra un altro putto sembra reggere un tendaggio. Inoltre, nella parte destra del dipinto, in dimensioni minori, sembra essere rappresentata un’altra scena, un uomo appoggiato ad un inginocchiatoio e, dietro ad esso, un letto con un’informe figura sdraiata e un bambino accanto. La figura inginocchiata potrebbe forse essere identificabile con Gioacchino, padre della Vergine, che prega per la sua infertilità e per il mutamento di questa sua condizione. La presenza di un’opera raffigurante la Natività della Vergine Maria si ricollega, nel contesto verzino, alla forte devozione popolare e alla titolazione della chiesa a Santa Maria delle Grazie, la quale viene celebrata con una solenne festa l’8 settembre di ogni anno.
La vicende legate alla nascita e all’infanzia di Maria prima dell’Annunciazione, così come quelle relative ai genitori Anna e Gioacchino, vengono tramandate dai Vangeli apocrifi, nello specifico il protovangelo di Giacomo e il vangelo dello Pseudo Matteo. Da questi testi, in alcuni casi contraddittori, nel corso dei secoli vennero presi aneddoti e scelte storie relative alla figura della Vergine e della sua famiglia, soprattutto a sostegno della dibattuta
40 problematica della verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. L’
“invenzione” della famiglia di Maria, oltre ad essere legata alla necessità di conoscenza del contesto in cui essa era cresciuta e alla presentazione di Anna come modello materno da seguire, era necessaria per dirimere la questione relativa alla sua verginità e la conseguente genealogia. Nei versetti dei vangeli di Matteo e Luca si narra della discendenza di Giuseppe dalla stirpe davidica, il quale però non essendo padre nella carne di Gesù non poteva trasmettergli tale discendenza.
Tuttavia, nei testi canonici è chiara la discendenza di Cristo dalla stirpe di David, sorgeva a questo punto un problema. Venne così creata per Maria una famiglia, di cui non abbiamo cenno nei testi canonici, che ha come anelli fondamentali Anna e Gioacchino entrambi discendenti davidici. A questo punto, in un estremo atto di glorificazione della figura della Vergine, venne elaborata l’idea della concezione passiva e miracolosa di quest’ultima. Nonostante alcune incongruenze e differenze tra il protovangelo di Giacomo e il testo dello pseudo Matteo, la situazione descritta narrava l’impossibilità da parte di Anna e Gioacchino di avere della prole, la partenza per il romitaggio nel deserto di quest’ultimo ed infine l’annuncio dell’angelo, ad entrambi, della nascita di una figlia. La narrazione del miracoloso concepimento andò poi ad intrecciarsi con un ulteriore problematica relativa alla Vergine, ossia la sua esenzione dal peccato originale, una delle più grandi controversie affrontate dalla chiesa per secoli77.
Da un punto di vista generale e complessivo, a seguito dell’invasivo intervento di restauro e delle pessime condizioni conservative, l’opera non è con certezza ascrivibile alla mano di un singolo artista o alla produzione di una bottega.
Tuttavia, nelle figure che sono state sottoposte solamente ad una ridipintura superficiale, è possibile provare ad avanzare delle assonanze stilistiche e cercare, approssimativamente, di accostarle ad un ambito artistico produttivo. I volti di due delle ancelle, nello specifico quella alla destra di Sant’Anna che si presenta sulla scena con una cesta e la prima inchinata al cospetto della Vergine appena nata, ricordano, nei profili graziosi e nei lineamenti, le figure femminili realizzate dalla bottega del Paggi78 (fig. 12). La tela è quindi cronologicamente collocabile intorno
77 Stagno 2004, pp. 12-23.
78 Per approfondire la figura di Giovanni Battista Paggi e la sua produzione pittorica cfr.
Presenti 1986, pp.9-53.
41 al primo quarto del Seicento. Non è possibile purtroppo spingersi oltre e avvicinare il dipinto ad uno specifico pennello; del resto, nell’orbita di un pittore come Paggi gravitavano moltissime personalità che, ispirandosi al maestro e vedendo le sue opere, potevano realizzare tele come quella conservata a Verzi (al netto, naturalmente, delle ridipinture).
42 11. Anonimo pittore ligure, Natività di Maria 1625-1630 ca., Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
43 11a. Anonimo pittore ligure, putti alati, particolare, Vaerzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
11b. Anonimo pittore ligure, Sant’Anna, la Vergine bambina e ancelle, partciolare, Verzi, Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
44 11c. Anonimo pittore ligure, volti delle ancelle,
partciolare, Verzi, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
45 12. Giovanni Battista Paggi, Natività di Gesù, Chiavari, Chiesa di Nostra Signora del Carmine e Sant’Agnese.
46 2.4 Sospesi tra fede e sentimento: il San Pietro apostolo.
Nascosta alla vista dei fedeli e degli spettatori occasionali, la tela raffigurante l’immagine di San Pietro apostolo (fig. 13) è conservata all’interno della sagrestia della chiesa parrocchiale. L’opera raffigura il Santo patrono di Roma, riconoscibile dall’attributo iconografico delle grandi chiavi raffigurate in primo piano; egli è immerso nella preghiera, con gli occhi lucidi sono rivolti verso il cielo, le guance bagnate da sottili rivoli di lacrime e le mani giunte appoggiate su uno scoglio (figg. 13a-b). Un radioso fascio di luce squarcia le nubi in alto a sinistra ed illumina la figura del Santo creando drammatici effetti chiaroscurali che mettono in evidenza il corpo vigoroso segnato dagli anni; allo stesso modo anche largo manto marrone, che crea fascinose pieghe ondulate, rende immota ma allo stesso tempo fisicamente presente la sua figura. L’ambiente naturale in cui Pietro è inserito si lega iconograficamente al personaggio, un luogo ameno adatto al ritiro spirituale e alla preghiera.
Il dipinto conservato a Verzi pare riflettere i modi pittorici e realizzativi di Giovanni Battista Merano, artista genovese protagonista, assieme ad altri importanti artisti come Piola, della grande stagione pittorica vissuta dalla Superba.
Il maestro che ne avviò la carriera fu Giovanni Andrea De Ferrari79, allievo dello Strozzi ed esponente di punta del naturalismo genovese, il cui studio era stato precedentemente frequentato da artisti del calibro di Valerio Castello e il Castiglione. Durante il suo alunnato il Nostro imparò l’uso dei colori applicati con spessi strati di pittura, l’utilizzo del chiaro scuro e l’attenzione nella modellazione dei panneggi. Tuttavia, dopo pochi anni, il Merano decise di continuare il suo percorso di apprendimento presso Valerio Castello, giudicato probabilmente più innovativo rispetto all’anziano maestro. Nel 1651 intraprese il suo primo viaggio verso Parma, non solo a fini di studio ma come un’occasione per mettere in pratica le sue magistrali doti d’artista. Tornato a Genova, con la prematura scomparsa del Valerio, il suo nuovo mentore divenne Giulio Benso, e proprio grazie a quest’ultimo il Merano riuscì ad ottenere importanti commissioni. Durante gli anni Sessanta del Seicento l’artista si operò nella realizzazione di numerose opere, mantenendo vivi i contatti con Parma e Piacenza, ancor più utili dopo la morte del Benso (1668) e la
79Per approfondire la figura di Giovanni Andrea De Ferrari cfr Presenti 1986, pp. 307-369.