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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

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Academic year: 2023

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA, ROMANISTICA, ANTICHISTICA, ARTI E SPETTACOLO

Corso di Laurea Magistrale in Letterature Moderne e Spettacolo

Tesi di Laurea

La storia riscritta attraverso il cinema

Il caso Moro sul grande schermo come riattivatore della memoria collettiva

Relatore: prof. Gabriele Rigola Correlatore: prof. Luca Malavasi

Candidato: Simone Sciutteri

Anno Accademico 2021-22

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3 Indice:

CAP. I – Cinema, storia e memoria collettiva. Il caso Moro sul grande schermo

1.1 La memoria tra consolidamento e riattivazione ... 5

1.2 Cinema e storia, cinema e memoria: interazione reciproca tra testo e contesto ... 6

1.3 Una proposta di indagine: il cinema che riscrive la storia del caso Moro ... 11

1.4 Il caso Moro, una tragedia italiana ... 13

1.5 La rielaborazione della memoria attraverso i personaggi dei brigatisti ... 18

CAP. II – Il caso Moro di Giuseppe Ferrara: la prigionia di un nonno di Stato 2.1 Il contesto produttivo ... 21

2.2 La figura di Aldo Moro ... 26

2.3 Le figure dei brigatisti …... 43

CAP. III – Buongiorno, notte: Marco Bellocchio, l’occhio della brigatista e il sogno di una sorte diversa 3.1 Il contesto produttivo ... 63

3.2 La figura di Aldo Moro ... 70

3.3 Le figure dei brigatisti ... 94

CAP. IV – Se sarà luce, sarà bellissimo: Aurelio Grimaldi e la fatica di raccontare “un’altra storia” 4.1 Il contesto produttivo ... 113

4.2 La figura di Aldo Moro ... 118

4.3 Le figure dei brigatisti ... 129

CAP. V – Todo Modo: “l’altro Moro”, espulso dal cinema e dalla memoria ... 141

Conclusioni – Bellocchio e Moro, diciannove anni dopo: Esterno notte e una memoria da riscrivere ancora? ... 155

Riferimenti bibliografici ... 161

Sitografia ... 163

Filmografia ...167

Ringraziamenti ... 169

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CAP. I Cinema, storia e memoria collettiva. Il caso Moro sul grande schermo

1.1 La memoria tra consolidamento e riattivazione

Una delle metafore più fortunate riguardo alla memoria umana è quella che avvicina il funzionamento del nostro cervello a quello di un computer e l’immagazzinamento dei dati alla loro scrittura su un hard disk. Un altro punto fermo delle teorie della memoria è quello che divide la memoria a breve termine da quella a lungo termine e quest’ultima in memoria dichiarativa e memoria procedurale. Questi aspetti – non privi certamente di fondamento – hanno subito diverse modifiche negli ultimi anni, in seguito alle scoperte effettuate nel campo delle neuroscienze.

Si sono, dunque, affermate due teorie che danno conto del funzionamento dei processi mnemonici attraverso spiegazioni che modificano l’idea diffusa di una memoria a lungo termine consolidata e immodificabile. Innanzitutto, alcuni studiosi propongono di fare riferimento a un modello non cartesiano (inteso come flusso lineare di processi che si succedono in maniera ordinata e sequenziale) detto modello delle molteplici versioni e cioè, come spiega Stefano Fissi, del Centro Italiano di Psicologia Analitica,

«qualcosa che è abbastanza simile a un flusso o sequenza narrativa, anche se il groviglio dei contenuti è così variegato che è simile solo in parte a una narrazione, comunque soggetta a una continua revisione a opera dei molteplici processi distribuiti nel cervello.

In ogni momento ci sono versioni multiple di frammenti di narrazione, a vari livelli di elaborazione e sondare il flusso precipita vari tipi di resoconti, che sono singole versioni di una parte del flusso di coscienza1».

Allo stesso modo, quello che veniva presentato come un ricordo immutabile e richiamabile allo stato cosciente, rintracciandolo nella memoria, appare ora secondo le ultime teorie come un fenomeno completamente diverso, che ritraccia il ricordo stesso.

Come spiega in un saggio Nicola Russo, «questo rintracciare, l'anamnesi, è a sua volta un evento e una nuova tracciatura, è ritracciare: non si limita a rimettere insieme una traccia, o meglio, proprio il rimetterla insieme è in realtà ricomporla, riscriverla e rinarrarla. La

1 Stefano Fissi, Recenti teorie della coscienza e modelli psicanalitici, consultabile all’indirizzo https://www.academia.edu/23961136/RECENTI_TEORIE_DELLA_COSCIENZA_E_MODELLI_PSIC OANALITICI

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cosiddetta traccia mnemonica, insomma, più che un dato è come lo spunto di una nuova narrazione, di un nuovo racconto delle esperienze passate. E che possa esserlo è dovuto proprio al fatto che non è né completa, né immutabile. È come un simbolo vivente, abbreviato e stilizzato come l'immagine pittorica, ma più plastico: una potenzialità di collegamenti, sviluppi e riconfigurazioni, che ridiviene attuale nell'anamnesi2».

Premessa forse strana per una ricerca che vuole occuparsi di cinema e del suo ruolo nella memoria collettiva di una nazione, ma in realtà quanto mai opportuna. La nostra ricerca, infatti, cercherà di indagare i legami tra il cinema, storia e memoria proprio con l’intento di confrontare differenti narrazioni del medesimo argomento, illustrando come ogni nuova narrazione costituisca una riattivazione del ricordo nella coscienza della nazione, entrando in relazione con le altre testimonianze – cinematografiche e non – e partecipando alla sua riscrittura: sovrapponendosi o contribuendo, per la sua parte e in misura più o meno significativa a seconda di come la narrazione venga ricevuta nel suo contesto, a costituire parte delle molteplici versioni di quel ricordo collettivo.

1.2 Cinema e storia, cinema e memoria: interazione reciproca tra testo e contesto

Quello del cinema nella cultura del ventesimo secolo è un ruolo di primo piano.

La sua influenza culturale si è dimostrata via via più importante e la cinematografia ha interessato in misura sempre maggiore gli storici e i sociologi. Il rapporto tra cinema, storia, memoria e immaginario collettivo è divenuto uno dei temi centrali nello studio e nell'analisi del film.

Ci sono molti modi in cui il cinema e la storia di una nazione si intersecano. Il cinema può raccontare la storia, come nel caso di Noi credevamo di Mario Martone, pellicola del 2010 dedicata al Risorgimento. E ogni volta che un cineasta si confronta col passato sceglie un taglio che ci parla anche del suo presente. Ma i film possono anche essere un ritratto, più o meno fedele, della loro epoca e cristallizzare su celluloide aspetti e fatti che altri media non trasmettono allo storico. Si può capire molto dell'Italia del dopoguerra, ad esempio, guardando i film neorealisti, e molto degli anni Ottanta

2 N. Russo, Traccia e simbolo tra memoria e oblio, in Segni del presente. Filosofia della cultura e cultura del digitale, Esempi di architettura, 2019, pag. 75 e seguenti.

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guardando le pellicole dei Vanzina. Sono solo alcuni esempi tratti dal libro di recente pubblicazione Cinema Italia3, dello storico Giovanni De Luna.

Come osserva nel capitolo introduttivo del suo libro, mentre illustra il metodo di analisi attraverso alcuni esempi di film dichiaratamente storici come Terra e libertà (Land and Freedom, Loach, 1995) e Cabiria (Pastrone, 1914) – due film lontanissimi per anno di produzione, linguaggio, intento – ci troviamo di fronte a due modi differenti per declinare il rapporto tra cinema e storia, in un duplice viaggio nel tempo. Il primo è relativo al passato che il film racconta, il secondo è legato al presente in cui il film viene prodotto e proiettato nelle sale. Va da sé che una pellicola che lega – anche se solo in parte – la propria narrazione ad un evento realmente accaduto nel passato, più o meno recente rispetto alla data di uscita del film, crea una relazione, con la memoria di quell'evento e con l'immaginario collettivo che lo coinvolge, che acquista un significato duplice. Da un lato, come spiega De Luna, «nei confronti del passato, ci troviamo davanti a una narrazione nella quale è importante sottolineare l'ipotesi interpretativa a cui è ispirata, collocarla nel dibattito storiografico, verificarne la solidità dell'impianto archivistico e documentario». Dall'altro, «nei confronti del presente [della sua produzione] il film si caratterizza come una fonte per la conoscenza storica, diventando uno strumento prezioso per leggervi le tracce – anche quelle più nascoste – dello spirito del tempo4».

La prospettiva storiografica relativa non solo ai contenuti, ma anche alla produzione dei film, sembra riprendere quella che, nella definizione di Francesco Cassetti5 è una «storia integrata del cinema», che tenda cioè a definire un contesto: un macrosistema di riferimento, una rete composita di discorsi entro cui il testo cinematografico si colloca; si intende, oltre al contesto produttivo, promozionale ed alle scelte autoriali in relazione all'epoca di realizzazione, soprattutto il suo relazionarsi con la catena di discorsi sociali che ne accompagnano la lavorazione e l'uscita e, in parte, le determinano. Se poi aggiungiamo a questo la definizione di contesto come

3 G. De Luna, Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani, UTET, 2021.

4 G. De Luna, Cinema Italia, cit., pag. 7-16.

5 F. Cassetti, Teorie del cinema. Dal dopoguerra agli anni Sessanta, in G. P. Brunetta (a cura di), Storie del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memorie, vol. V, Einaudi, 2001, pag. 537.

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«microsistema», secondo quanto osserva Federica Villa6, «vengono alla luce non tanto gli elementi pragmatici propri della situazione comunicativa, non solo i fattori socio- storici del periodo, ma anche il mondo di vita dello spettatore: l'universo sociale e culturale in cui opera».

Il terzo percorso che parte dal binomio cinema-storia è quello che De Luna pone al centro del suo libro: il cinema come «agente di storia». Secondo lo storico, il cinema, grazie alla sua capacità di incidere sui comportamenti e sulle abitudini di un pubblico che ad esso si affida e si ispira, può costruire la storia. Questa azione si prospetta non solo nel trasmettere, amplificare od imporre stili e modi di comportamento o modelli che entrano a far parte di un immaginario collettivo, ma anche nel proporsi «con forza inusitata come uno dei grandi costruttori di identità e di memoria, giovandosi della sua capacità di rispecchiamento, della sua “rappresentatività” […] rispetto all'insieme di una società».

Nello specifico della situazione italiana, in riferimento ai cosiddetti anni di piombo, De Luna si spinge ad affermare che «l'assenza di verità e di giustizia che circonda ancora oggi il ruolo ricoperto dallo stato italiano nelle vicende più cruente e oscure della strategia della tensione degli anni settanta, a lungo ha lasciato solo al cinema la possibilità di ricostruire uno scenario comune, in cui mettere a confronto le memorie della vittime e quelle dei carnefici, sollecitandolo a sostituirsi alle istituzioni nell'aiutare quel passato a passare7».

Riguardo a quest'ultima affermazione non possiamo non fare alcune osservazioni, che in parte concordano con quanto afferma lo storico ed in parte ampliano la sua osservazione. Se è vero che nella storia del cinema italiano troviamo diverse pellicole che intendono contribuire, con la loro narrazione, alla «pacificazione» della memoria, aiutando – come dice De Luna – «quel passato a passare», ce ne sono altre che invece si inseriscono nel dibattito storico e ideologico con l'intento opposto e cioè con l'obiettivo – più o meno dichiarato – di riportare in auge la memoria di un fatto storico per riscriverla, aggiungendo, sottraendo, modificando. Infine, a volte il cinema si fa carico del racconto

6 Per una trattazione completa del concetto di contesto come “macrosistema” e come “microsistema” si veda F. Villa, Oltre la semiotica. Testo e contesto, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Laterza, 2006, cap. II, par. 3 e 4.

7 G. De Luna, Cinema Italia, cit., pag. 9.

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storico per mantenere viva la memoria di una vicenda, spesso in un contesto produttivo nel quale l'autore ritiene opportuno – politicamente o socialmente – farlo.

Per quanto riguarda il primo caso possiamo citare, a titolo esemplificativo, un film di Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù. Il film, uscito nel 2003, racconta 37 anni di storia italiana, dal 1966 al 2003, attraverso le vicende alle quali partecipano o assistono i membri di una famiglia romana e piccolo borghese, i Carati. In particolare, le vicende riguardano la vita dei due fratelli, Matteo e Nicola, che si ritroveranno – negli anni caldi della contestazione – sui due lati opposti della barricata. Oltre ai due protagonisti, assume un ruolo rilevante nel racconto la figura di Giulia, la compagna di Nicola che si unirà, esattamente un anno prima del sequestro Moro, alle BR capitoline, abbandonando la famiglia8. Il film ha ottenuto un successo di critica e pubblico, ottenendo il premio nella categoria Un certain regard al Festival del cinema di Cannes e venendo riproposto più volte, in prima serata, sulle reti Rai.

Sempre Marco Tullio Giordana porterà sugli schermi, nel 2012, Romanzo di una strage. Il film ricostruisce le vicende che portarono alla strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969, nella quale persero la vita 17 persone ed altre 88 rimasero gravemente ferite. Il film riprende le tesi riportate nel libro Il segreto di Piazza Fontana, di Paolo Cucchiarelli, che ricostruisce la vicenda andando oltre le verità storicamente accertate.

L'uscita del film provocò immediatamente reazioni da parte di diverse personalità coinvolte in qualche misura dalla narrazione. Ad esempio, Adriano Sofri, uno degli ex leader della formazione della sinistra extraparlamentare Lotta Continua, pubblicò un istant-book9 nel quale – riprendendo materiali e documenti pubblici – contestò ampiamente le tesi del film. Una linea sulla quale si schierarono anche alcuni giornali, come La Repubblica, secondo la quale «il film di Marco Tullio Giordana (“Romanzo di una strage”) e soprattutto il libro al quale si è “liberamente ispirato” per la sceneggiatura, tentano di rimettere in discussione questa verità storica con un'operazione di revisione

8 A proposito de La meglio gioventù, Alan O'Leary (Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, trad. di L. A. Salaris, 2007, Angelica ed., pag. 22), dopo aver fatto alcune osservazioni a proposito delle differenze che intercorrono tra un'opera ideata e realizzata per il cinema ed una, come quella di Giordana, pensata per la televisione, rileva questo intento “pacificatore” osservando: «Qualcosa del genere accade con La meglio gioventù, che ritrae la deviazione nella clandestinità terroristica di una madre per poter celebrare nel finale il rituale (ancora incompleto) del suo recupero all’interno della famiglia. Il film sta “elaborando” il trauma del terrorismo per conto dell’elettorato di sinistra a cui è rivolto».

9 Il libro, liberamente scaricabile da internet in formato PDF, si intitola 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film.

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pericolosa per la memoria, e dunque per il presente, del Paese10». Anche Mario Calabresi, figlio del Commissario Luigi Calabresi, che secondo la campagna di Lotta Continua era il responsabile della morte dell'anarchico Pinelli, espresse alcune perplessità in merito al film, pur definendolo coraggioso11.

Non sfugga, nel giudizio riportato, l'espressione relativa alla “pericolosità” del revisionismo per il “presente” dell'uscita del film. Il clima politico e sociale inevitabilmente condiziona la ricezione di una pellicola. La meglio gioventù uscì negli anni della prima fase dell'alternanza e del bipolarismo, in un clima di contrapposizione e di confronto politico – benché aspro e polemico; Romanzo di una strage arrivò nelle sale alla fine del periodo del cosiddetto “berlusconismo”, i cui ultimi anni prefiguravano il tramonto del bipolarismo in un'atmosfera da cupio dissolvi. Uno scenario evocato da un film uscito alcuni anni prima, Il caimano (2006) di Nanni Moretti, che dialogava con il presente interrogando il passato dell'ascesa politica di Silvio Berlusconi, tra la ricostruzione storica e la caricatura grottesca, e prefigurandone un cupo futuro.

Nell'ambito della terza modalità di interazione tra cinema, storia e memoria, ancora Marco Tullio Giordana ci offre un esempio con il suo I cento passi (2000). Il film, accolto da critiche pressoché unanimemente positive – sia per quel che concerne la sua realizzazione che per i suoi contenuti – narra le vicende di Peppino Impastato, giornalista e attivista impegnato nella lotta alla mafia, che proprio da Cosa Nostra venne assassinato.

L'omicidio, avvenuto lo stesso giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, passò – sovrastato dalla vicenda che riguardava il segretario della DC – passò sostanzialmente inosservata. Rimase sostanzialmente ignota al grande pubblico fino a quando non venne raccontata dal film di Giordana. Da allora, si può affermare che sia entrata a far parte della memoria storica del paese e viene ricordata ogni qualvolta si affronta il discorso della lotta alla mafia.

10Confronta:

https://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/31/news/piazza_fontana_la_verit_di_sofri-

32515232/?ref=HREC2-4 e https://www.corriere.it/cultura/12_marzo_31/sofri-libro-strage_cca811e2- 7b15-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml

11 Calabresi e il film su Piazza Fontana «Sparita la campagna contro papà», uscito a firma di A. Cazzullo sul Corriere della sera, il 15 marzo 2015 e consultabile all’indrizzo:

https://www.corriere.it/cronache/12_marzo_25/calabresi-cazzullo_3e597db2-764d-11e1-a3d3- 9215de971286.shtml

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Potremmo citare, a titolo esemplificativo, numerose altre pellicole che dialogano con la storia del nostro paese, fornendo allo storico e al critico cinematografico – secondo i percorsi individuati da De Luna e le modalità di analisi proposte da Bertetto – elementi utili per raccontare gli eventi e le epoche narrate, sia indizi per indagare il presente della lavorazione delle pellicole, sia, infine, per ritrovare le tracce di quelle pellicole nel nostro presente attraverso il linguaggio, il costume, la memoria. Questo accade sicuramente per i film storici, che dichiaratamente entrano in dialogo con eventi realmente accaduti, ma anche – e spesso in misura maggiore per quanto riguarda l'immaginario del pubblico – per film che appartengono a un cinema di intrattenimento. Da Amarcord (F. Fellini, 1943) alla saga di Fantozzi (Fantozzi, L. Salce, 1975 e sequel), dal neorealismo ai cinepanettoni dei Vanzina, ogni film – se opportunamente interrogato, al pari di ogni fonte storica – può raccontare molto più di quello che mostra sullo schermo.

1.3 Una proposta di indagine: il cinema che riscrive la storia del “caso Moro”

Nell'indagine che ci accingiamo a fare, cercheremo di indagare, con queste premesse, l'interazione reciproca che avviene tra tre pellicole e il contesto storico-socio- culturale nel quale si muovono. Attraverso l'analisi di alcune sequenze e con l'apporto di materiali critici e interpretativi, tenteremo di individuare alcuni elementi esemplificativi della relazione che intercorre tra cinema e memoria di una nazione. Quali sono, cioè, i fattori che influenzano e condizionano – quando a volte non determinano, addirittura – la produzione e la ricezione di un film e, reciprocamente, la memoria collettiva che si conserva dell'evento narrato. Di fatto, riscontreremo come la narrazione cinematografica di un evento storico è inevitabilmente condizionata dalla prospettiva storiografica che sceglie di seguire – che sia quella “ufficiale” o che tenti di riscriverla – e come questo, inevitabilmente, ne condizioni sia il percorso produttivo, che l'esito. D'altra parte, la capacità di un film di inserirsi nel circuito cinematografico del paese, essendo visto da un pubblico vasto, riproposto e analizzato o successivamente preso a modello, farà sì che questa stessa pellicola contribuisca a riscrivere la storia degli eventi che narra.

I legami tra rappresentazione cinematografica e memoria sono un topos ricorrente nei cinema studies e, nel caso degli anni di piombo in Italia, questa relazione è ancora più intrecciata se si pensa che la stessa denominazione storica del periodo deriva dalla traduzione italiana di un famoso film della regista tedesca Margarethe von Trotta, Die

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bleierne Zeit (1981), letteralmente “il tempo di piombo”, rilasciato sul mercato italiano appunto col titolo di Anni di piombo12. Come riconosce anche lo storico De Luna, nel nostro «l’assenza di verità e giustizia, che circonda ancora oggi il ruolo ricoperto dallo stato italiano nelle vicende più cruente e oscure della strategia della tensione degli anni Settanta, a lungo ha lasciato solo al cinema la possibilità di ricostruire uno scenario comune13». Le pellicole dedicate a quegli anni possono perciò aiutarci, più di molte altre, a mettere in risalto l’intreccio tra storia e memoria dal punto di vista della loro riscrittura attraverso lo strumento cinematografico.

Quanto affermato da De Luna è ribadito anche da Guido Panvini. Secondo quest’ultimo, in merito agli anni di piombo l’interesse dello storico e del critico cinematografico per i film che li raccontano è ulteriormente giustificato dalla difficoltà di accesso alle fonti primarie (la secretazione degli atti processuali, ad esempio), dal persistere di zone d’ombra che danno luogo a ricostruzioni complottiste e dalla contrapposizione ideologica che impedisce una ricostruzione storica univocamente accettata. Non solo: come osservato precedentemente, le fonti cinematografiche ci permettono di mettere a fuoco il contesto produttivo che fa da sfondo e influenza la scrittura, la produzione, la critica e la ricezione del film. Come osserva nel suo saggio

«L’opera cinematografica diventa, allora, una fonte primaria perché, oltre a contenere importanti elementi di ricostruzione del passato, riflette una mentalità, una pluralità di punti di vista […] che può dire molto sulle modalità con cui la società italiana si è rapportata alla sua storia recente. Una documentazione che, in assenza di altre ricostruzioni e narrazioni, rappresenta uno dei pochi squarci in cui guardare14». Il limite di questo sguardo è, sempre secondo Panvini, il fatto che – in assenza di una produzione cinematografica da parte dei terroristi – possiamo riferirci alle fonti filmiche alla ricerca di «una riflessione sul fenomeno e all’immagine che su di esso si è diffusa nella società italiana15» e non per la ricerca di una presunta verità fattuale. Ma quanto suggerito da

12 L'impatto sul linguaggio del titolo della Von Trotta è legato sicuramente alla notorietà della pellicola, che vinse il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1981: da allora la stampa italiana cominciò a usare l’espressione “anni di piombo” per tutto il periodo caratterizzato dalle stragi e dagli atti di terrorismo interno politico.

13 De Luna, Cinema Italia (cit., pag. 10)

14 G. Panvini, Il senso perduto. Il cinema come fonte dello studio per il terrorismo, in C. Uva (a cura di), Schermi di piombo. Il terrorismo italiano nel cinema, Rubbettino, 2007, pag. 113.

15 Panvini, cit., pag. 108.

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Panvini è esattamente il cuore della nostra ricerca, tesa ad indagare lo stratificarsi della memoria collettiva attraverso la sua scrittura e riscrittura da parte dei registi.

Per fare questo abbiamo scelto tre pellicole (più una), che mettono in scena uno degli eventi più noti della recente storia della nostra nazione: il rapimento dell'allora segretario della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse, la sua detenzione e, infine, la sua uccisione. I tre film, Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, Se sarà luce, sarà bellissimo di Aurelio Grimaldi, mettono al centro lo stesso episodio, scegliendo fonti e prospettive differenti per narrarlo.

Questi tre film escono rispettivamente nel 1986, nel 2003 e nel 2004; a distanza, cioè, di otto, ventidue e ventitré anni dai fatti narrati. Si collocano perciò, consapevolmente, in una prospettiva storica inevitabilmente differente in quanto a interpretazioni storiografiche e a fonti disponibili. E si pongono, altrettanto consapevolmente, in relazione ad una memoria collettiva già ampiamente sedimentata, con il dichiarato scopo di riaprire un capitolo della storia d'Italia. I “macrosistemi” con il quale si pongono in relazione saranno composti quindi non solo da diverse modalità di produzione, tendenze, gusti degli autori, mezzi a disposizione; ma anche dalla rete di interpretazioni storiche e dai contesti sociopolitici con i quali entrano in comunicazione o in contrasto: essendone influenzati e tentando di influenzarli. In un'operazione che possiamo certamente definire di riscrittura della memoria collettiva del caso Moro.

Gli aspetti sui quali ci concentreremo saranno fondamentalmente tre: il contesto storico e produttivo del film; la figura di Moro; i personaggi dei terroristi. Al termine del nostro percorso, faremo un bilancio di quanto siamo riusciti a ricostruire in relazione al rapporto di interazione tra questi film e la memoria nazionale di quell'evento drammatico.

Prima però è necessario aprire una breve parentesi su quanto accadde all'epoca e come questi avvenimenti vennero narrati.

1.4 Il caso Moro, una tragedia italiana

Quando il 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana – allora il principale partito italiano – uccidendo i cinque uomini della scorta, iniziano i 55 giorni forse più seguiti e narrati nella storia della Repubblica. I titoli dedicati al fatto occupano le prime pagine di tutti i giornali e tutti gli eventi successivi – le ricerche, le lettere dalla prigionia, le reazioni politiche –

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continueranno a quasi monopolizzare la cronaca fino al 9 maggio. In quella data il cadavere di Moro viene fatto ritrovare al centro di Roma, in via Caetani, nel portabagagli di una Renault 4, parcheggiata emblematicamente a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI. Moro era stato infatti il principale promotore della politica di apertura al Partito Comunista – il cosiddetto “compromesso storico” – un progetto che incontrava resistenze sia in parte della DC, che in settori del PCI, ma che avrebbe dovuto trovare la sua realizzazione proprio nel giorno del rapimento, con il voto di fiducia al primo governo a guida DC appoggiato anche dal PCI. Questa è la hybris che viene indicata come principale causa della tragedia che lo porta alla morte. Si può parlare di hybris perché sin da quel 9 maggio, la narrazione dei fatti ricostruirà l'accaduto intorno ai modelli della tragedia classica e cristiana. D'altra parte, gli elementi tipici sono tutti presenti: il conflitto tra libertà e necessità; la caduta dell'uomo di potere; l'inevitabilità della fine tragica e l'impossibilità per tutti gli attori coinvolti nella vicenda di ritornare sui propri passi una volta dato il via alla sequenza di reazioni causa-effetto. I giornali sfruttano un linguaggio adatto alla circostanza sin dall'indomani del ritrovamento del cadavere.

«È morto perché questa Repubblica viva» titola l'editoriale del Corriere della Sera, «Il martirio di Moro» è il titolo scelto da Il Tempo. La metafora tragica e cristologica diventa la chiave di lettura principale di tutta la vicenda e si innesta sull'onda del grande impatto emotivo che ha sull'opinione pubblica.

Se commenti a caldo, ricostruzioni giornalistiche e approfondimenti abbondano sin da subito, il cinema si occuperà della vicenda solo anni più tardi. Inchieste ancora in corso, dolore dei parenti ancora troppo vivo, pudore, necessità di affrontare un fatto così importante soltanto dopo un'accurata riflessione: sono probabilmente solo alcuni dei

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motivi che tengono cineasti e produttori lontani dalla vicenda. Un altro aspetto sul quale vale la pena di soffermarsi, seppur brevemente, riguarda la narrazione per immagini della vicenda16. Il rapimento e la strage degli uomini della scorta vengono raccontati attraverso testimonianze – fotografie e video – che fanno il giro del mondo e resteranno, a lungo e fino ad oggi, nella memoria di coloro che le hanno viste, allora e in seguito. Il filmato dell'inviato del TG1 Paolo Frajese, che in via Fani commenta le immagini della strage, soffermandosi sui corpi senza vita degli uomini della scorta, caduti scompostamente sul selciato o ancora prigionieri delle automobili crivellate di colpi; le polaroid scattate al prigioniero nella sua prigione, con la bandiera delle Brigate Rosse sullo sfondo; il corpo senza vita di Moro dentro al bagagliaio dell'auto abbandonata in via Caetani. La forza di quelle immagini si fissa nella memoria degli italiani e diventa, dunque, un cardine attorno al quale il cinema deve costruire la sua narrazione: mostrando anche altro. Le immagini dei lutti e della violenza, gli audio del dolore, le foto della prigione ci sono e verranno utilizzate dai cineasti come materiale per conferire il valore di testimonianza storica alle pellicole; ma compito del cinema sarà quello di mostrare ciò che gli italiani non hanno visto17. E la chiave di lettura tragica data alla vicenda sin dalle prime ricostruzioni, indirizzerà l'attenzione su un determinato non-visto, piuttosto che su di un altro.

Dopo i fiumi di inchiostro versati in quegli anni sulla ricostruzione giuridica e politica della vicenda, agli italiani mancava ancora di “vedere e sentire” per elaborare il lutto18. Di questo compito se ne fece carico il cinema, concentrando la sua attenzione su ciò che gli italiani non avevano visto e sentito. Ma, nello scegliere su quale degli elementi

16 In merito alla copertura giornalistica del sequestro e delle sue narrazioni successive, O'Leary commenta:

«Quest’informazione posava su un paradosso: la vittima, centro dell’attenzione, era invisibile – Moro era un’assenza al centro della speculazione, e poteva essere visto solo dai suoi carcerieri fin quando fu trovato morto nel portabagagli di una macchina in via Caetani cinquantaquattro giorni dopo. Una delle funzioni dei film su Moro […] è dunque quella di riportare Moro all’interno dell’immagine: di visualizzare l’incarcerazione che era stata così intensamente immaginata dalla stampa e dal pubblico del tempo» (cit., pag. 71).

17 Sia Grimaldi che Bellocchio utilizzeranno nelle loro pellicole – solo l'audio il primo, audio e video il secondo – il servizio del TG1 di Frajese; le registrazioni delle telefonate, quella del brigatista Moretti alla moglie di Moro e quella del brigatista Morucci che informa il collaboratore di Moro, Franco Titto, dell'avvenuta esecuzione sono invece riprodotte nel film di Ferrara.

18 Sull'impatto che la vicenda Moro ebbe ed ha nella società italiana, Armenia Balducci (A. Balducci, G.

Ferrara, R. Katz, Il caso Moro: sceneggiatura e materiali sul film, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, pag. 17) scrisse che «la vicenda è di quelle, poche, pochissime, ancora annidate nell'inconscio e nella memoria collettiva». Anche M. Gotor, curatore delle lettere di A. Moro ritiene che «il 9 maggio 1978 costituì un trauma nello sviluppo politico e civile della comunità nazionale ... Una ferita mal rimarginata che contribuisce, trent'anni dopo, a condizionare la completa maturazione della democrazia italiana» (Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, XXIII-XIV, Torino, Einaudi, 2008).

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non mostrati della vicenda concentrarsi la prospettiva dei cineasti e dei produttori viene inevitabilmente indirizzata dalla lettura tragica dell'assassino di Moro. Avviene cioè che l'attenzione non venga indirizzata più che sulle ipotesi e sulle ricostruzioni più o meno politicamente tendenziose o sulle reazioni dei politici al rapimento e agli eventi successivi, sui non detti della politica o sulle indagini della polizia. Il cinema cerca, innanzitutto, di mostrare ciò che nessuno – tranne i carcerieri – aveva visto: la prigionia di Aldo Moro. E il modo in cui sceglie di farlo elabora la vicenda e i suoi personaggi all'interno di quella cornice da tragedia che era stato costruito dall'indomani del ritrovamento del corpo del segretario della DC19. La lettura tragica che fa di Moro un martire politico farà breccia nella memoria collettiva, anche attraverso il cinema, riscrivendone – di fatto – la figura, il ruolo e la carriera, nell'immaginario collettivo degli italiani.

Quella di Moro statista, uomo mite e affabile, martire di Stato non è certo l'unica narrazione, ma risulterà essere quella prevalente. Tra le voci dissonanti – che troviamo soprattutto durante la prigionia e poco dopo la conclusione delle vicenda – ci furono, ad esempio, quelle autorevoli di Indro Montanelli20 e di Sandro Pertini21. Anche Giorgio Bocca, autore di quello che possiamo chiamare un istant-book uscito a pochi mesi di distanza dalla conclusione della vicenda, di Moro scrisse che «non ha avuto né i toni né il rigore dell'eroe, ma non è mai facile fare l'eroe quando non si ha alle spalle nessuna causa che lo meriti22». D'altra parte, il titolo di questo suo libro già fa riecheggiare il parallelo tra il caso Moro e la tragedia, inserendosi, di fatto, nel filone che trasformerà il

19 Nell'omelia funebre papa Paolo VI, che di Moro era amico personale, pronunciò le parole: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il De profundis, il grido cioè ed il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce... E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica perla incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico...». Le scene del funerale di Moro saranno inserite da Marco Bellocchio nella sequenza finale di Buongiorno, notte, con le note dei Pink Floyd in sottofondo.

20 A proposto delle lettere scritte dal carcere, Montanelli commentò: «Quelle lettere erano tutte farina del sacco di Moro. E questa farina non è molto encomiabile. (...) Tutti gli uomini hanno diritto ad avere paura, tutti; però quando un uomo sceglie la politica, e nella politica emerge a uomo di Stato, a uomo rappresentativo dello Stato, non perde il diritto ad avere paura, ma perde il diritto a mostrarla» (La storia d'Italia di Montanelli, https://www.youtube.com/watch?v=0xHQ5quw8Aw )

21 Secondo quanto riporta G. Pansa (La Repubblica di Barbapapà. Storia irriverente di un potere invisibile, Rizzoli, 2013) l'ex Presidente della Repubblica aveva giudicato indegne le suppliche di Moro dalla prigionia, quando lui, invece, nelle carceri fasciste, aveva rifiutato sdegnosamente la grazia concessa su richiesta della madre.

22 Giorgio Bocca, Moro. Una tragedia italiana. Le lettere, i documenti, le polemiche, Milano, Bompiani, 1978.

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protagonista della vicenda in eroe tragico. A tal proposito, si possono citare, a titolo di esempio, anche il libro di Robert Katz – fonte primaria per il film di Ferrara – intitolato I giorni dell'ira23, che rimanda all'orazione funebre della liturgia cristiana, il dies irae;

similmente, lo studioso e membro della Commissione d'inchiesta sul caso Enzo Flamigni intitolerà uno dei suoi saggi sull'argomento Le idi di marzo24. Della consulenza di Flamigni si avvarrà Renzo Martinelli, autore di un altro film sul caso Moro: Piazza delle cinque lune, uscito nel 2003. Il film ipotizza una ricostruzione dei fatti che coinvolge parti politiche e i servizi segreti, all'interno di una vicenda di fantasia; riceverà giudizi mediamente negativi sulla stampa25 e otterrà un risultato deludente al botteghino, dimostrando come gli italiani restavano meno interessati alla ricostruzione e più al personaggio Moro. Ancora: Ferdinando Imposimato, il giudice istruttore del processo per i fatti di via Fani, sceglierà di introdurre diversi capitoli del suo libro inchiesta – intitolato Doveva morire – con citazioni in esergo tratte dalle tragedie scespiriane Giulio Cesare e Amleto. Ma, se volessimo individuare il capostipite di questa linea, dovremmo inevitabilmente fare riferimento a Sciascia – curiosamente autore di un romanzo uscito poco tempo prima, Todo Modo26, che dipingeva in maniera accusatoria e dissacrante il segretario della DC – e al suo libro, uscito nell'ottobre 1978, L'affaire Moro27. Come sottolinea Alessio Piras nel suo saggio28, facendo riferimento a quanto osservato in precedenza da Belpoliti, «quella di Sciascia (…) non è una semplice cronaca e la struttura d'intreccio secondo cui l'autore dispone i fatti è quella della tragedia. L'implicazione di questo procedimento è quella, immediata, di trasformare Moro in un eroe tragico».

23 R. Katz, I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure, Adn Kronos, 1982.

24 S. Flamigni, Le idi di Marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, 2006.

25 Su La Repubblica, 10 maggio 2003, Paolo D'Agostini scrive che il film «a caldo, non può non dare i brividi l'assunto sostanziale: la sorte di Moro fu decisa dalla CIA perché nel 1978 era inaccettabile l'ingresso nel governo del più grande partito comunista del mondo occidentale, e Mario Moretti era uno strumento di questo disegno. Ma, subito dopo, viene un'altra reazione. A) Se tutto questo è la verità vogliamo che ce la dica la sentenza di un tribunale. B) Se nessuno può o vuole dircela e dimostrarcela, stiamo perdendo tempo in chiacchiere. E non è bello che qualcosa di così enorme e terribile sia, alla fine dei conti, il pretesto per imbastire un rebus. Anzi, come schiamazzano i manifesti, un "thriller" (e stendiamo un velo pietoso sul colpo di scena finale)». Ancora più tranchant il giudizio su Il Morandini: il film «fa ancora buio sulla verità di questo tragico evento. Approvato dalla famiglia Moro il film accumula indizi, contraddizioni, ipotesi e molte domande, tra cui la più inquietante: perché i brigatisti del commando mentirono e continuarono a mentire? Il nucleo del discorso è incontrovertibile, ma l'accumulo di dietrologia strabiliante di cui è impastato fa poca luce su quel buio».

26 L. Sciascia, Todo Modo, Einaudi, 1974.

27 L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, 1978.

28 A. Piras, Oltre la cronaca: «L'affaire Moro» tra storia e letteratura, Leo Olshki Editore, 2012. In Todomodo, rivista internazionale di studi sciasciani, anno II, 215 e seguenti.

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L'insistenza di Sciascia nell'indicare Moro come il «meno implicato» nelle oscure trame del potere legato alla DC finirà per condizionare la successiva narrazione della vicenda.

Un processo di statistizzazione quando non addirittura di santificazione29 che coinvolgerà anche, come vedremo, il mondo del cinema30.

1.5 La rielaborazione della memoria attraverso i personaggi dei brigatisti

Come osserva R. Scalia «La rappresentazione degli uomini e donne delle Brigate Rosse è un elemento di particolare interesse per la costruzione della tragedia Moro. Se Sciascia rimproverava alla stampa di aver dato una “amplificazione quasi mitica” alle azioni delle Brigate Rosse31, si può invece dire che il cinema, in parallelo con la

“beatificazione” del politico democristiano, e forse anche per farne emergere maggiormente la statura, tenda a una banalizzazione, e talora persino a una ridicolizzazione dei suoi carcerieri e delle loro istanze32».

D’altronde, un cineasta interessato a raccontare il “vero” ha la necessità di affidarsi alle fonti a sua disposizione, scegliendo fra queste a seconda del racconto che vuole fare. Dopo il rimbrotto siasciano, i mezzi di informazione – e l’opinione pubblica – virarono i loro giudizi sulle BR, ulteriormente esacerbati dal controverso omicidio del sindacalista Guido Rossa. Le fonti che problematizzavano il fenomeno del terrorismo scarseggiavano; i giornalisti che si occupavano del caso Moro si indirizzarono lungo il filone complottista33, tralasciando i motivi della lotta terroristica. La voce delle BR non era ammessa – e non lo sarà a lungo – al dibattito; i terroristi venivano vesti come

29 Il processo di beatificazione di Aldo Moro è effettivamente iniziato nel 2012, con la sua proclamazione quale «servo di Dio», ma attualmente – come riportato su Il Messaggero il 15 aprile 2021 – risulta ferma per difficoltà procedurali che hanno causato anche alcune polemiche.

30 Secondo M. B. Urban, in Dal politico Moro all’uomo «stanchissimo e rassegnato». La narrazione del caso Moro ne Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, incluso in Il caso Moro: memorie e narrazioni, a cura di A. Cedola, U. Perolino, L. Casalino, Transeuropa, Massa, 2016, quello di Sciascia è «probabilmente il testo più influente dedicato alla tragica fine del politico democristiano, tanto da poter essere considerato, come ricorda Rachele Tardi, un vero e proprio archetipo, soprattutto per quanto riguarda una delle intuizioni in esso contenute, e cioè la trasformazione del “personaggio” Moro nell’immaginario collettivo che lo scrittore vide realizzarsi già nei giorni del sequestro: da “politicante” scaltro, che detiene saldamente il potere, alla sua sublimazione nel ruolo tragico e definitivo della vittima sacrificale».

31 L. Sciascia, L'affaire Moro, cit., p. 79.

32 R. Scalia, Il caso Moro e il cinema: l'elaborazione collettiva di una tragedia nazionale, in Rivista Luci e ombre, n. 2, anno VII, 2019.

33 Afferma Panvini: «L‘investigazione del passato si è tradotta, quindi, nella ricerca delle verità fattuali in relazione alle tante zone d‘ombra che la storia dell‘Italia repubblicana sembra ancora oggi mantenere» (Il senso perduto. Il cinema come fonte dello studio per il terrorismo, cit., pag. 106).

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un’anomalia, un’eccezione: la sinistra – soprattutto – cercava di delegittimarli anche per sconfessarne la filiazione. Solo Rossana Rossanda, de Il Manifesto, sosteneva una tesi diversa, attirando per questo numerose critiche34. Questo tema, come detto in precedenza, viene affrontato solo diversi anni dopo e, ancora, senza alcun approfondimento ideologico, ma solo con intenti pacificatori: i terroristi, figliol prodighi, potevano – dopo tutti quegli anni – essere riaccolti in famiglia, purché pentiti35.

D’altra parte, almeno inizialmente, le fonti di matrice interna al terrorismo a disposizione dei registi erano poche. E quando, nel corso degli anni, iniziano ad essere maggiormente disponibili, come afferma Panvini «La sovrapposizione tra la memoria e la autorappresentazione degli eredi di quella stagione complica ulteriormente un quadro concettuale già di per sé estremamente frastagliato36».

Le prime voci alle quali attingere erano quelle processuali, vale a dire le risposte parziali o reticenti dei prigionieri. Quindi – e il primo regista a occuparsi del caso Moro ne farà uso – ci furono gli interrogatori condotti dal giudice Imposimato con i brigatisti dissociati Morucci e Faranda37; queste testimonianze ebbero un duplice risultato. Da un lato ammisero la possibilità di ascolto di una voce proveniente dagli ambienti brigatisti – ma solo in quanto dissociata. Dall’altro presentarono a chi si avvicinava al caso Moro e al fenomeno del terrorismo, la figura del terrorista pentito: che non voleva compiere quei delitti, che non voleva uccidere Moro, che quando ha capito la piega degli eventi si è distaccato; un terrorista buono, ingenuo.

Diversa la sorte riservata alle confessioni di Mario Moretti, intervistato nel 1993 dalle giornaliste C. Mosca e R. Rossanda38. Moretti non è un pentito, ritorna sui fatti di quegli anni, riconosce a Moro l’onore delle armi e tutta la sua dignità umana, ammette errori di strategia politica delle BR, ma non sconfessa le scelte fatte, né, tantomeno, rinnega il suo passato e il valore della lotta armata. Ad oggi, nessun cineasta cita il suo

34 Gli articoli sono due; il primo, datato 28 marzo 1978 si intitolava Discorso sulla DC e si può rileggere al seguente indirizzo: https://ilmanifesto.it/br-e-album-di-famiglia?fbclid=IwAR3OcAsot- wZu1Tw33bKQlxgkZGoERICZ8esvW02lhmTgz8ZhWuAh5aazrs

Il secondo, uscito il 2 aprile 1978 e intitolato Album di famiglia è consultabile all’indirizzo:

https://ilmanifesto.it/il-veterocomunismo-della-lotta-armata

35 Vedi nota 8, in merito alle osservazioni di O’Leary su un film come La meglio gioventù.

36 G. Panvini, Il senso perduto. Il cinema come fonte dello studio per il terrorismo, cit., pag. 103.

37 Sono inseriti negli atti processuali del Moro-bis, arrivato a sentenza nel 1983.

38 M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda, Mario Moretti. Brigate Rosse. Una storia italiana, Baldini &

Castoldi, 1998.

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libro tra le fonti ufficiali della sua opera e il personaggio di Moretti è, come vedremo, ritratto quale il più spietato, nonché tra i responsabili della decisione di uccidere il presidente della DC.

Sceglierà invece, come fonte primaria, proprio il libro di una brigatista39, il regista Marco Bellocchio per il suo Buongiorno, notte. Forse perché una figura femminile si prestava maggiormente a mostrare – secondo canoni tradizionali – un’interiorità inquieta e contrastata, che trova la forza per ribellarsi solo a parole o in sogno40 – ma anche una più lucida e meno indottrinata visione dei fatti – Bellocchio sceglie di partire dalle sue memorie per raccontare una storia diversa in merito al caso Moro. Una fonte che il regista adatta, chiaramente, alle sue esigenze narrative, ma che non mancherà di suscitare qualche polemica.

Ferrara, Bellocchio e Grimaldi faranno scelte diverse, con motivazioni artistiche e politiche differenti: certamente, possiamo affermare che – come vedremo – le fonti testimoniali dirette dei brigatisti, inizialmente quasi inammissibili, entreranno a pieno titolo a far parte delle voci che contribuiscono al racconto di quegli anni. Seppure sempre, per così dire, trattate con una certa diffidenza, saranno una componente importante del contesto in cui si muoveranno gli artisti dei film che esamineremo insieme.

39 A. L. Braghetti e P. Tavella, Il prigioniero, Mondadori, 1998.

40 In merito alle figure femminili nelle rappresentazioni cinematografiche della lotta armata, si veda il saggio di Sciltan Gastaldi, Fra Erinni ed Estia: rappresentazioni della donna brigatista nei film Il caso Moro (1986), La seconda volta (1995), La meglio gioventù (2003) e Buongiorno, notte (2003), in L.

Casalino, A. Cedola, U. Perolino, Il caso Moro: memorie e narrazioni, cit., pag. 115.

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CAP. II – Il caso Moro di Giuseppe Ferrara: la prigionia di un nonno di Stato

2.1 Il contesto produttivo

La prima pellicola che porta sul grande schermo il sequestro e l'assassinio del segretario della DC è Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, del 1986. La scelta del regista e co-sceneggiatore (gli altri due sceneggiatori sono Armenia Balducci e Robert Katz, scrittore e giornalista statunitense, autore del libro-inchiesta I giorni dell'ira. Il caso Moro senza censure, cit., che costituisce il soggetto della sceneggiatura stessa).

La verità sulla vicenda, quantomeno a livello processuale, è stata scritta da poco:

è su quella che il film di Ferrara si va ad innestare. Gli arresti, iniziati pochi giorni dopo l'epilogo della vicenda, si erano susseguiti nel periodo successivo e avevano portato alla celebrazione di due processi, Moro-uno e Moro-bis; questi avevano portato a una sentenza che infliggeva ai 63 imputati 32 ergastoli e 316 anni di carcere complessivi. Il 14 marzo 1985 era arrivata anche la sentenza d'appello, che riduceva la pena ad alcuni imputati.

Sentenza poi sostanzialmente confermata poco dopo dalla Cassazione. Quel che era avvenuto tra le prime inchieste e la sentenza del 1985 e che comportava lo svelamento di nuovi elementi della vicenda era l'inizio della collaborazione di Adriana Faranda e Valerio Morucci, che si erano dissociati dalle BR a partire dal 1979 e avevano iniziato a raccontare la loro versione dei fatti al giudice Imposimato. Restavano alcuni punti oscuri, che riguardavano – ad esempio – i tempi con i quali la polizia era arrivata a individuare l'appartamento di via Montalcini come sede della “prigione del popolo” nella quale era stato tenuto Moro. Mancava il nome del quarto brigatista che frequentò per quei 55 giorni l'appartamento: “l'ingegner Altobelli”, che con la Braghetti aveva composto la coppia fittizia che aveva acquistato l'appartamento un anno prima. Venivano invece alla luce i dissidi interni alle BR, i contrasti tra la colonna romana e il direttivo a proposito dell'esecuzione del segretario della DC. Contrasti deflagrati in seguito all'omicidio del sindacalista Guido Rossa e che portò Morucci e la Faranda a dissociarsi. Degli elementi emersi, che non cambiavano la sostanza giudiziaria, ma sicuramente aggiungevano particolari importanti alla ricostruzione storica del sequestro, tenne conto certamente Ferrara. Gli scontri verbali tra Moretti da una parte e Morucci e Faranda dall'altra, vengono enfatizzati più volte, avvalorando il racconto di due anime diverse all'intero delle

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BR: una più violenta e intransigente, l'altra più politica e dubbiosa. Una tesi che Ferrara avvalora non solo nella messa in scena, ma anche riservando un “canale privilegiato” alle rivelazioni dei due dissociati, rispetto ad altre ricostruzioni. Ad esempio, nella sequenza dell'agguato di via Fani, il tamponamento dell'auto della scorta a quella guidata da Moretti risponde alla ricostruzione di Morucci, non a quella di Moretti41.

Il film suscitò reazioni da più parti, sia per quanto riguarda la politica, che da parte dei critici cinematografici, sia nell'immediato che nelle analisi che coinvolgono la pellicola all'interno di un più ampio dibattito sul sequestro Moro e la sua mediaticità. Il punto di vista generale è quello di una pellicola ispirata allo stile dei docu-film degli anni '70, quasi un instant film uscito nelle sale otto anni dopo. In realtà, gli sceneggiatori si sono basati non solo sul libro di Katz, ma anche su una serie di documenti e sulla già vasta letteratura che si era sovrapposta creando una stratificazione di interpretazioni e letture. Come detto, la linea interpretativa che aveva avuto maggior fortuna era quella di Sciascia e del suo pamphlet L'affaire Moro. Per la verità, il dibattito critico intorno alla pellicola di Ferrara non porta a giudizi univoci. Per alcuni il film si inserisce proprio in quel filone “sacrificale” che ha il suo capostipite in Sciascia42. Per altri, invece, le scelte di Ferrara indirizzano la pellicola nel campo delle teorie del complotto43. A nostro parere, il film di Ferrara porta avanti entrambe le letture; anzi: è proprio nel suggerire alcuni elementi complottisti che influenzano la scelta del governo di perseguire la “linea della fermezza”, che l'isolamento del prigioniero si acuisce progressivamente – spostandone l'asse dal politico al privato – e la sua fine, inevitabile, assume i contorni della tragedia.

La riscrittura documentaristica insita nella scelta degli autori, che è stata criticata come scelta cinematografica poco efficace44, sprigiona proprio per questa sua scelta di

41 Confronta, a questo proposito, l'intervento dello storico Alessandro Barbero al “Festival della mente”

del 2017, ascoltabile qui:

https://open.spotify.com/episode/6aWWTmwkYYzDrnLWY9gXOs?si=0iJnAdC9QmWqvjA8lNlRBg

42 Alan O’Leary (Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, cit., pag. 18-19) descrive Il caso Moro come «un docu-drama» che «riporta indietro alla tradizione del film-inchiesta» sulla linea di Salvatore Giuliano e Il caso Mattei, entrambi di Francesco Rosi. Per O’Leary, però, Il caso Moro rifiuta l’ideologia e finirebbe per assomigliare più a una «tragedia umana» che a un documento d’accusa.

43 Lo sostengono, ad esempio, A. Cedola e U. Perolino nell'introduzione del volume Il caso Moro:

memorie e narrazioni, cit.

44 Ad esempio, Sciltan Gastaldi in Fra Erinni ed Estia: rappresentazioni della donna brigatista nei film Il caso Moro (1986), La seconda volta (1995), La meglio gioventù (2003) e Buongiorno, notte (2003), (in Caso Moro: memoria e narrazioni, cit., pag. 121) sostiene che il film di Ferrara «approda – fatta salva l’eccellente interpretazione di Volonté – a un realismo di maniera, a tratti bozzettistico, come quando indugia nella ricerca di attori sconosciuti ma sosia dei personaggi reali».

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“mostrare” i fatti – con una fiducia nel fatto che essi parlino da soli, ma nel cortocircuito che i fatti mostrati siano, di fatto, un lavoro di finzione – una forza più impattante che mai sulla memoria degli spettatori, che si ritrovarono ad assistere ad «un tele-giornale vecchio di otto anni, ma riesumato misteriosamente dalla cineteca della memoria morale e collettiva45».

In un'intervista rilasciata poco prima dell'uscita del film nelle sale46, il regista e sceneggiatore Ferrara, si dimostra ovviamente consapevole della relazione tra l'opera che aveva realizzato e il contesto che la circondava; nonché, ancor più chiaramente, del ruolo che la pellicola avrebbe svolto nella narrazione del caso Moro, riscrivendone alcuni aspetti nella memoria degli spettatori. Ne riportiamo alcuni stralci:

INTERVISTATORE

«Lei non ha paura ad affrontare un ginepraio così impressionate, un caso che non è ancora stato risolto?»

FERRARA

«Ci sono migliaia e migliaia di documenti su questo caso, sia nei tribunali – due processi – sia nella Commissione Moro – sono, mi pare, otto volumi grossissimi e direi che è l'ora che il cinema si occupi di quello di cui anche la letteratura si è già occupata –

mi pare si sia a dodici libri.

Anzi, sentir dire che questo caso è troppo fresco, come ho letto di recente su L'Espresso mi sembra un'enormità. Direi che, anzi, siamo in ritardo, perché bisogna prendere

coscienza di certi fatti misteriosi e ambigui, anche nella loro ambiguità»

INT.

«Com'è nato il progetto? Su quali documenti si è basato?»

FERR.

«Noi sceneggiatori – il principale è Robert Katz, autore de I giorni dell'ira al quale la sceneggiatura è ispirata – abbiamo attinto a tutta la documentazione esistente e,

45 Ferrara in A. Balducci, G. Ferrara, R. Katz, Il caso Moro: sceneggiatura e materiali sul film, cit., p. 185.

46 L'intervista è visionabile a questo indirizzo: https://patrimonio.archivioluce.com/luce- web/detail/ILC100000328/39/videointervista-giuseppe-ferrara-sul-film-caso-moro.html

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soprattutto la più recente: gli interrogatori che il giudice Imposimato ha svolto per mesi e mesi nei confronti dei dissociati Faranda e Morucci. Ma gli stessi processi hanno delle

“stupende” testimonianze e prove. Poi ci sono le interviste, a Bonisoli, a Morucci, al capo delle BR Moretti, fatta da Bocca, la testimonianza più esplosiva forse»

INT.

«Si è scritto addirittura che la sceneggiatura era stata fatta con la collaborazione o addirittura scritta da ex terroristi come la Faranda e Morucci. Mi pare che lei stia

negando questa ipotesi»

FERR.

«Assolutamente sì. C'è stato in un primo tempo, quando ancora non mi occupavo della cosa, un tentativo di questo tipo. Quando sono stato incaricato dal produttore Berardi ho

scartato questa idea, anche perché i documenti che avevamo in mano erano tali che non ce n'era proprio bisogno di andare a chiedere ulteriori consulenze. Non solo: io credo che la consulenza di parti in causa, come possono essere i brigatisti, non sia da prendere in esame. Noi dobbiamo fare un film che sia storico, con un'angolazione storica e quindi

al di sopra delle parti»

Fonti ufficiali e taglio storico; insieme a un approccio di inchiesta narrativa che si rifà al libro di Katz. Nessuno spazio per consulenze o documenti “di parte”: non è storico – e probabilmente nemmeno accettabile moralmente, per un paese uscito da poco dagli “anni di piombo” – basarsi sulle tesi dei terroristi che non sono state comprovate dai contesti processuali o giornalistici.

Esaurito il discorso sulle fonti del film, l'intervistatore cita il film San Babila ore 20: un delitto inutile di Carlo Lizzani, uscito nel 1976. La pellicola racconta una vicenda di cronaca avvenuta nel 1975: l'omicidio di Alberto Brasili, un giovane milanese simpatizzante di sinistra, ma non militante, che venne assassinato da quattro neofascisti.

L'uscita nelle sale, racconta l'intervistatore, venne funestata da minacce, telefonate anonime che annunciavano bombe nei cinema; dal punto di vista commerciale, questi fatti segnarono il naufragio del film nelle sale. Chiede dunque al regista se non teme che qualcosa di simile possa succedere a Il caso Moro.

FERRARA

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«No, non credo, anche perché il nostro film arriva in un momento non più d'emergenza.

[…] E quindi penso che tutti vogliano riflettere su quello che è successo.

[…] Credo che ci sia un grande desiderio da parte del pubblico di conoscere ciò che gli è stato praticamente oscurato. Noi cerchiamo di fare chiarezza: questo è il nostro

compito»

[…]

INTERVISTATORE

«Vorrei farle qualche domanda sulla sua interpretazione dei fatti, su come voi avete ricostruito questa vicenda incredibile. Per esempio, i giornali pubblicarono delle lettere

che, secondo alcuni, erano le lettere di un uomo plagiato. La stampa, in buona parte, disconosceva queste lettere-confessione di Moro. Nella vostra ricostruzione, Moro è un

uomo plagiato o un uomo che si difende fino in fondo e crede in quello che scrive?»

FERR.

«È evidente che Moro […] scriveva in una costrizione terribile e quindi non era nella condizione di sempre. Tuttavia, io ho letto e riletto le più di quaranta lettere che sono pervenute (perché alcune sono sicuramente state nascoste o distrutte) e sono di un uomo

lucidissimo, di un uomo che si difende fino all'ultimo per salvare la sua vita e in modo dignitosissimo. Non è vero che Moro aveva abbandonato la guardia, aveva tradito […]

Moro ha compiuto fino in fondo il suo dovere di uomo politico e di statista e il film lo rappresenta nella sua nudità e nella sua verità»

INT.

«È stato detto che Moro è stato condannato dalla politica, che in qualche modo ci si volesse liberare di un uomo diventato scomodo. Nel film esiste questa tesi?»

FERR.

«Il film si muove su linee molto caute in certi momenti perché certe affermazioni ovviamente non possono essere provate da nulla. Tuttavia, che Moro fosse d'inciampo –

e la stessa signora Moro lo afferma in Commissione – mi sembra inevitabile che venga fuori. E nel film viene fuori»

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L'intervista viene registrata all'interno della “prigione del popolo”. Dietro a Ferrara campeggia la bandiera rossa delle BR (che, affiancata dal simbolo in stile fascista dell'Istituto Luce posto in sovra impressione, crea una dicotomia quasi grottesca). Lì, in una certa misura, Ferrara diventa alter ego di Moro stesso. Di un Moro pre-prigionia, in giacca e cravatta, perfettamente padrone di sé e della sua oratoria. Così, Ferrara può rispondere alle domande dell'intervista-interrogatorio disegnando la figura di un Moro lucido, combattivo, profondamente umano e statista fino all'ultimo momento della sua esistenza; un Moro vittima, almeno in parte, non solo delle BR, ma anche della politica e dei segreti che ancora serpeggiano nei corridoi del potere dello Stato. Una tesi che il film sposa e presenta in maniera piuttosto evidente. Non è l'unica narrazione possibile, ma è quella prevalente ed è una narrazione che Ferrara suffraga e contribuisce, con il suo film, a rafforzare. Lo fa anche attraverso le scelte registiche messe in atto in alcune scene che andremo ad analizzare.

2.2 La figura di Aldo Moro

“Nonno” è il primo appellativo con cui viene chiamato Aldo Moro. È il momento centrale della sequenza iniziale: la telecamera segue il nipotino Luca, che a bordo di un triciclo entra nello studio di Moro. L'inquadratura passa, con un raccordo di sguardo, al punto di vista di Luca e si incarica di mostrarci, per la prima volta, il volto del presidente della DC con gli occhi del bambino, dal basso47.

47 Come osserva O'Leary (Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, cit., pag. 90)

«Nonostante la politica, Il caso Moro è di fatto principalmente una storia “umana” – la storia di un uomo e della sua famiglia che soffre. (La prima apparizione di Moro non è in un contesto governativo e nemmeno pubblico, ma nel suo ruolo di pater familias, mentre parla piano nella sua casa al suo nipotino Luca.)»

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La prima immagine di Aldo Moro nel film di Ferrara, visto dal basso, con gli occhi del nipote Luca

La primissima scena è girata in via Fani e segue un cartello iniziale che riporta la data e il contesto: quella mattina Moro si sarebbe recato in Parlamento per il voto di fiducia del primo governo con l'appoggio del PCI: un governo di unità nazionale del quale lui stesso era stato il grande promotore e tessitore. La macchina da presa inquadra il cartello con il nome della via; quindi, si abbassa e accoglie l'arrivo di due brigatisti a bordo di una rumorosa motocicletta: si fermano allo stop, frontali davanti all'obiettivo;

con un rapido sguardo compiono il sopralluogo e ripartono. Di lì a poco quello stesso incrocio sarà il teatro dell'agguato. Appare il titolo, mentre in sottofondo stacca una musica inquietante. La scena successiva ci porta in casa Moro. L'inquadratura è una zoomata sul panorama dalla finestra del salotto: al centro c'è la cupola di San Pietro, in Vaticano. Quindi l'inquadratura si allontana ed entra nel salotto, per riprendere il nipotino Luca che gira intorno al tavolo sul triciclo. Chiesa e famiglia. Moro pio e nonno. Luca ed esce dal salotto. La macchina da presa lo segue, registrando il cigolio dei pedali, in corridoio. È un'immagine che sinistramente sembra citare il famosissimo piano-sequenza di Shining.

La prima parte della sequenza è tutta in interni: si alternano i preparativi delle BR, quelli della scorta e quelli dello stesso Moro, sempre in compagnia del nipotino. È un Aldo Moro paterno, che guarda il nipote con affetto e condiscendenza e lo interroga sulla

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favola del cacciatore e dei lupi. Mentre lo stesso Moro ripete la parola “lupi”, il montaggio stacca sull'appartamento di Moretti, che si prepara all'agguato indossando un giubbotto antiproiettili, mentre in sottofondo incalza una musica thriller. Il Moro politico, quello che «è riuscito a metterli d'accordo tutti» arriva solo dopo, fuori dall'appartamento, nelle parole degli uomini della scorta già a bordo dell'automobile. È il momento di massima distanza tra il presidente e i suoi rapitori. Una distanza che si assottiglierà progressivamente, in modo inversamente proporzionale dal solco che si scaverà tra Moro e il suo partito.

Dopo la sequenza dell'agguato, i cinquantacinque giorni del sequestro hanno inizio con l'ingresso del commando e del prigioniero in quella che sarà l'ultima dimora del presidente della DC. Nell'appartamento di via Montalcini, le BR alternano riguardo e distacco nei confronti di Moro. Lo chiamano “presidente” e gli chiedono se si è fatto male. «Si appoggi a me, presidente» gli dice la Braghetti. Qui la sceneggiatura inclina ulteriormente verso un Moro sensibile. Infatti, nel dibattito che infuriava nel paese durante i giorni della prigionia, uno degli aspetti più controversi riguardava le lettere che Moro invierà dalla “prigione del popolo”; in esse, si nota l'assenza di ogni riferimento alla sorte degli uomini della scorta (l'unica occasione in cui ne scrive è per rimproverare il Ministero di avergli fornito una scorta inadeguata rispetto ai rischi che correva). Ecco che allora, nel film, la sceneggiatura prende posizione, sia rispetto alla questione delle lettere, che – nello specifico – rispetto a quella dell'interesse di Moro per la scorta.

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