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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

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Academic year: 2022

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA, ROMANISTICA, ANTICHISTICA, ARTI E SPETTACOLO,

Corso di Laurea Magistrale in Storia dell’Arte e Valorizzazione del Patrimonio

Tesi di Laurea

Arti figurative e musica nella Repubblica di Genova: committenze aristocratiche,

“hospitaggi”, temi iconografici

Relatore: Prof.ssa Laura Stagno

Correlatore: Prof. Raffaele Mellace

Candidato: Marta Lombardi

Anno Accademico 2020/2021

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Desidero ringraziare la Prof.ssa Laura Stagno e il Prof. Raffaele Mellace per avermi seguita, consigliata e aiutata durante i mesi di ricerca e la stesura di questo studio.

Ringrazio inoltre la Dott.ssa Sara Rulli per il prezioso supporto e per le fotografie

delle ville Spinola di San Pietro e Imperiale Scassi presenti nel Capitolo 2. Ringrazio

anche Susanna Gilardi per le fotografie della cappella Brignole Sale in Santa Maria

di Castello presenti al Capitolo 5. Infine, un ringraziamento speciale va ai miei

genitori per il loro continuo supporto, la loro fiducia e il loro immenso affetto.

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Indice

Introduzione p. 7 Capitolo 1. I Doria e la “rinascita” della Repubblica di Genova. Presupposti politici

di un secolo di arti p. 12

1.1. I presupposti dello sviluppo artistico e culturale a Genova: scelte politico-

economiche di una Repubblica aristocratica p. 12

1.2. Artisti e compositori al servizio dei Doria a Palazzo del Principe: da Perino

del Vaga a Domenico Piola, da Vincenzo Ruffo ad Alessandro Stradella p. 22

Capitolo 2. Le arti in villa: musica e arti figurative per le residenze fuori le mura p. 47 2.1. Il sistema abitativo dell’aristocrazia genovese tra palazzi, ville e giardini p. 47

2.2. Le visita del Duca di Mantova: delizie di villa p. 61 2.3. Fasti e glorie di una famiglia: arti e musica a Villa Spinola di San Pietro p. 73

2.4. Musica e giardini, artificio e natura nello Stato Rustico di Gio. Vincenzo

Imperiale e interessi musicali della famiglia p. 102

Capitolo 3. Genova e gli hospitaggi: feste, cerimonie ed emblemi del potere per gli

ospiti della Repubblica p. 123 3.1. Oneri e onori di una Repubblica al servizio dell’Impero.

I Libri dei Cerimoniali p. 123

3.2. Le visite di Carlo V: classicismo, apparati effimeri e intrattenimenti per

l’Imperatore p. 129

3.3. Archi trionfali e musicisti virtuosi per la visita del Principe Filippo

a Genova p. 149

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3.4. Hospitaggi dalla Spagna all’Europa centrale: le visite di Massimiliano

re di Boemia e della sua famiglia p. 166

3.5. Un hospitaggio al di fuori della famiglia Asburgo: la visita di

Cristina di Lorena p. 176

3.6. Rinnovamenti a Fassolo e meraviglie effimere: l’arrivo e il soggiorno di

Margherita d’Austria e dell’Arciduca Alberto p. 192

3.7. Gli hospitaggi di Maria d’Ungheria e del Cardinale Infante Ferdinando p. 218

Capitolo 4. Gli Spinola di San Pietro: committenti, mecenati e collezionisti per la

dimora dell’Acquasola tra Cinque e Settecento p. 245

4.1. Da Gasparo Fiorino a Giovanni Battista Carlone: dediche musicali e

committenza artistica nel palazzo Doria Spinola dell’Acquasola p. 245

4.2. Aurelia Spinola: vita di una dama “a passo di danza” fra Genova e

Monaco p. 265

4.3. Mecenati e collezionisti da Maria Brigida Franzone Spinola a

Francesco Maria Spinola p. 284

Capitolo 5. I Brignole Sale: collezionisti, mecenati e cultori di musica p. 306

5.1. Da Antonio a Gio. Francesco: committenze, collezioni e dimore dei

Brignole Sale prima di Palazzo Rosso p. 306

5.2. Una virtuosa e un poeta per i Brignole Sale: Francesca Caccini e

Gabriello Chiabrera nella villa di Albaro p. 331

5.3. Anton Giulio Brignole Sale: collezionista, letterato e cultore di musica p. 342

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5.4. I Brignole Sale a Palazzo Rosso: da Ridolfo Maria I ad Anton Giulio II p. 367

Bibliografia p. 397

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Introduzione

Il presente studio si propone di analizzare la committenza artistica e musicale nel contesto della Repubblica di Genova tra il XVI e il XVII secolo, con particolare interesse per eventi celebrativi privati e pubblici che si svolsero nell’arco di tempo preso in esame. Il sistema politico genovese stabilitosi all’indomani della svolta filo-asburgica di Andrea Doria e sancito dalla riforma della nobiltà del 1528, unitamente alla rete di rapporti economici da esso propiziata, consentì all’aristocrazia cittadina, sulla scorta dell’esempio dei Doria, di intraprendere uno stile di vita improntato da magnificenza e lusso. Proprio le ingenti ricchezze guadagnate dalle famiglie aristocratiche, in un primo momento attraverso i traffici commerciali e successivamente tramite le attività finanziarie di prestito a favore della Corona spagnola, rappresentarono le principali risorse a disposizione dei casati genovesi per sviluppare il collezionismo, il mecenatismo e il patrocinio delle arti al fine di arricchire le proprie dimore e al tempo stesso promuovere eventi mondani, trattenimenti e spettacoli in cui l’elemento musicale e quello artistico-figurativo si fecero strumenti complementari nell’ostentazione della magnificenza. Tali occasioni scandivano la vita della classe agiata a Genova, in modo non dissimile da quanto avveniva nelle corti d’Italia, ma con la differenza sostanziale di un governo repubblicano oligarchico. Le istituzioni governative genovesi, alle quali l’accesso era giuridicamente riservato alla sola élite aristocratica, prevedevano, oltre alla massima autorità del Doge (biennale dal 1528), diversi organi collegiali a cui esclusivamente coloro che risultavano ascritti alla nobiltà potevano prendere parte. La medesima aristocrazia era stata

“riformata” attraverso la creazione del sistema degli alberghi, ossia aggregati di famiglie, di origine privata ma ufficializzati a istituti pubblici, che raggruppavano clan nobiliari minori attorno a un casato principale, oppure univano fra loro diverse famiglie che adottavano un nuovo cognome comune.

In tale sistema, benché con alterne vicende, i Doria mantennero un indiscusso primato nella gestione della politica cittadina fino alla morte di Giovanni Andrea I, successore del grande

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ammiraglio Andrea: già questi aveva provveduto alla costruzione e alla preziosa decorazione del fastoso palazzo di Fassolo, arricchito degli affreschi di Perin del Vaga, e degli splendidi giardini che vennero ulteriormente ampliati dal suo successore Giovanni Andrea, a cui si deve anche l’edificazione della celebre Galleria Aurea. E a Fassolo vennero ospitati, nel corso del Cinquecento fino alla prima metà del secolo successivo, alcuni fra i più insigni personaggi della casata d’Asburgo, dall’Imperatore Carlo V a suo figlio Don Felipe, poi salito al trono di Spagna come Filippo II; quindi Massimiliano I, gli Arciduchi Alberto e Isabella, Margherita d’Austria-Stiria e infine Maria d’Ungheria e suo fratello il Cardinale Infante Don Ferdinando. Considerati infatti i rapporti privilegiati che Genova (mantenendo la propria sovranità) aveva instaurato con la Corona spagnola, la città era divenuta ben presto una tappa fondamentale nel corso dei frequenti viaggi intrapresi dai membri della famiglia Asburgo per visitare le terre dell’Impero. Si era così consolidata tra XVI e XVII secolo la pratica degli hospitaggi, con cui appunto la Repubblica di Genova designava le prestigiose occasioni di soggiorno dei reali nel proprio territorio, periodi durante i quali alle arti e agli artisti veniva richiesto di realizzare apparati decorativi di grandioso impatto scenografico che avrebbero trasformato la città nel teatro delle glorie asburgiche. Gli archi di trionfo progettati da Perin Del Vaga per la prima visita di Carlo V nel 1529 rappresentarono un modello non solo per i successivi hospitaggi genovesi, durante i quali numerosi apparati sorsero lungo le maggiori vie della città, ma anche per altri centri in Italia e in Europa, da Bologna ad Anversa. Un aspetto che questo studio intende analizzare è inoltre l’accompagnamento musicale sempre presente durante tali occasioni: benché un tratto comune delle fonti coeve sia una certa mancanza di dettagli nella descrizione piuttosto sommaria della musica che arricchiva gli eventi, gli studiosi sono riusciti a ricavare informazioni sufficienti a ricostruire, se non un quadro completo, almeno alcuni momenti di suggestiva impressione quali le messe nella cattedrale di San Lorenzo, o i conviti, le veglie, gli spettacoli pirotecnici accompagnati da strumenti a fiato che scandivano i soggiorni genovesi degli Asburgo.

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Com’è facile immaginare, la musica e le arti figurative rappresentarono, lungo tutto l’arco di tempo preso in analisi, elementi fondamentali della vita delle famiglie aristocratiche: le ville suburbane costituivano il luogo d’elezione per prendere parte agli svaghi più brillanti e piacevoli, dai trattenimenti nei giardini, dove grande importanza rivestivano gli ambienti metamorfici delle grotte artificiali, ai barcheggi marini organizzati tanto in occasione di feste pubbliche quanto per celebrare eventi privati, quali i matrimoni, come nel celebre caso dell’Invenzione per un Barcheggio commissionata da Ridolfo Maria Brignole Sale ad Alessandro Stradella per festeggiare le nozze della figlia Paola con Carlo Spinola nel 1681. Prendendo in esame i casi di alcune famiglie di grande spicco nella Genova tra Cinque e Seicento, questo studio propone inoltre esempi delle modalità di patrocinio delle arti, di mecenatismo e collezionismo privato, non senza accennare a personalità che si fecero interpreti in prima persona della produzione artistica e letteraria del proprio tempo.

Per ottenere un’analisi piuttosto circostanziata delle diverse tipologie di occasioni di committenza artistica e musicale, la presente ricerca è stata suddivisa in cinque capitoli dedicati alle varie declinazioni del tema di partenza. Dopo una sintetica trattazione delle vicende politiche che hanno condotto la famiglia Doria a reggere le sorti della Repubblica di Genova a partire dal grande asiento a favore di Carlo V, il primo capitolo analizza i principali protagonisti legati agli interessi artistici e musicali di Andrea e Giovanni Andrea Doria, per poi focalizzarsi su una particolare occasione di committenza in onore delle nozze di Giovanni Andrea Doria III con Anna Pamphilj (1671), per cui lavorarono personalità di spicco del panorama artistico genovese come Domenico Piola e Filippo Parodi, così come il già citato musicista bolognese Alessandro Stradella. Il secondo capitolo è dedicato invece ai luoghi di villeggiatura, con particolare attenzione al sobborgo di Sampierdarena, nelle cui residenze l’aristocrazia genovese non solo eternò la propria gloria attraverso grandiosi cicli di affreschi (come quello di Villa Spinola di San Pietro dedicato agli eroi del casato) ma organizzò anche piacevoli intrattenimenti e spettacoli (spesso per illustri ospiti, come il Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga) in cui musica e arti figurative concorrevano a rendere l’atmosfera ricca di

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suggestive sorprese, in un connubio di artificio e natura quale fu vividamente descritto da Gio.

Vincenzo Imperiale nei versi del suo Stato Rustico. Mentre il terzo capitolo raccoglie le vicende dei numerosi hospitaggi, che rappresentano il lato pubblico e politico dell’impiego delle arti nella Repubblica di Genova, il quarto e il quinto capitolo tornano nell’ambito privato, pur riconoscendo il labile confine fra i due aspetti della vita mondana della nobiltà del Seicento. I due capitoli finali sono infatti dedicati all’analisi dei fenomeni di collezionismo e patrocinio delle arti da parte delle famiglie Spinola e Brignole Sale, di cui si discutono le dimore, l’evoluzione delle collezioni di dipinti tramite gli acquisti effettuati nel corso dei decenni e si ripercorrono gli interessi culturali specifici di alcuni membri delle casate, fra arti figurative, musica e letteratura.

Pur senza la pretesa di fornire un quadro completo del mecenatismo della classe dirigente genovese nel corso dei secoli che maggiormente videro risplendere le arti nella Repubblica, questa ricerca intende dunque proporre alcuni casi di studio che possano mostrare la vivacità, la brillantezza e la molteplicità di occasioni, motivate ora da necessità politiche, ora da volontà celebrative familiari, in cui musica, letteratura, pittura, scultura e plastica si sono intrecciate al fine di costruire un vero e proprio teatro di delizie per una committenza di gusto raffinato e connotata da una profonda conoscenza delle arti.

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Capitolo 1. I Doria e la “rinascita” della Repubblica di Genova. Presupposti politici di un secolo di arti.

1.1. I presupposti dello sviluppo artistico e culturale a Genova: scelte politico-economiche di una Repubblica aristocratica

La storiografia che si è dedicata agli studi sulla Repubblica di Genova nell’età moderna ha fissato nel 1528 l’anno d’inizio di un florido periodo per la città sotto molteplici punti di vista:

economicamente ricca, politicamente riformata, colta e amante delle arti, Genova sembra risorgere dal precedente momento di dominazione francese grazie alla nuova alleanza politico-militare sancita da Andrea Doria con l’Imperatore Carlo V1. Comincia così quel “secolo dei genovesi”, definizione che si imporrà nella storiografia per identificare il

lungo periodo di predominio dei banchieri genovesi nella finanza europea che segue alla breve egemonia dei Fugger e che, partendo grosso modo dalla metà del Cinquecento, giunse fino agli anni quaranta-cinquanta del secolo successivo.2

Per lungo tempo la storiografia ha attribuito ad Andrea Doria il ruolo di principale (se non unico) artefice di tale cambiamento di rotta3: senza dubbio, mostrando lungimiranza e grande abilità strategica, non disgiunte da una buona dose di spregiudicatezza, egli seppe ricondurre la Repubblica a una posizione centrale nel Mediterraneo così come nel sistema di alleanze europee, concludendo un vantaggioso contratto di asiento4 con l’Imperatore Carlo V e al contempo promuovendo una riforma amministrativa sui criteri di accessibilità alle cariche pubbliche. Non è dunque fuori luogo,

1 Cfr. A. Pacini, I presupposti politici del “secolo dei genovesi”: la riforma del 1528, Genova, Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. XXX, 1990, pp. 16-17.

2 Ivi, p. 8.

3 Cfr. E. Poleggi, P. Cevini, Genova, Bari, Laterza, 1981, pp. 87-88. Cfr. inoltre E. Grendi, Andrea Doria, uomo del rinascimento, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, n.s. XIX, 1979, pp. 93-94. Nella ricostruzione della personalità politica di Andrea Doria l’autore rompe con la tradizione storiografica precedente che vedeva in lui il “padre della patria”, osservandone i lati di spregiudicatezza e opportunismo, fino a definirlo un vero e proprio “corsaro” che non si fa scrupolo di firmare contratti con sovrani nemici fra di loro.

4 «Gli asientos erano operazioni di prestito in cui spesso i ricchi genovesi riuscivano a coinvolgere soci minori che contribuivano a sostenere le lunghe e onerose guerre imperiali diminuendo notevolmente il loro rischio. Una forma particolare di asiento era l’istituzione mercenaria che metteva al servizio dei grandi Stati moderne flotte di privati contro un importo forfettario su cui gravava il costo dell’armamento e il rischio della perdita in cambio di altissimi margini di guadagno.». Citazione tratta da Poleggi, Cevini, 1981, p. 88.

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come ha osservato Carlo Bitossi, definire l’arco di tempo che va dal 1528 al 1576 come “età di Andrea Doria”,

a patto di ricordare che il ruolo dell’ammiraglio fu quello, al più, di un primus inter pares, capace di imporsi abilmente per un trentennio come interfaccia tra il ceto dirigente genovese e il sistema imperiale ispano-asburgico, ma che non fu per nulla né un principe né un signore di fatto.5

Tuttavia, non è esclusivamente all’operato di Andrea Doria e ai soli avvenimenti del 1528 che dobbiamo guardare, per capire come Genova sia divenuta quella ricchissima e colta repubblica il cui ruolo fu fondamentale per l’Impero di Carlo V:

Il rivolgimento operato da Andrea Doria aveva dunque un vasto retroterra. Lo stesso Andrea Doria, a detta dei cronisti, lo volle sottolineare nella sua prima comparsa in pubblico dopo la conquista della città, quando, richiamando l’antica alleanza della sua famiglia con i Fregoso e specialmente la sua milizia al servizio di Ottaviano, riconobbe la propria discendenza ideale da quell’«ottimo cittadino».6 Benché nel tempo si sia dunque acquisita la data del 1528 come momento simbolico della rinascita genovese, occorre non mitizzarla al fine di evitare letture semplicistiche dei processi lunghi e complessi che condussero la città a riguadagnare una posizione di prestigio sulla scena europea così come una maggiore stabilità interna7. Quest’ultima, inoltre, venne ripristinata a scapito della fazione dei popolari, con una potente virata in senso conservatore che rese le cariche pubbliche appannaggio esclusivo della nobiltà8. Le divisioni interne fra fazioni avevano animato e scosso la vita politica genovese fin dal Medioevo, senza peraltro poter individuare due granitici fronti: si trattava bensì di schieramenti diversi e fluidi, molteplici “binomi” contemporaneamente attivi, e che spesso davano adito a ulteriori suddivisioni all’interno di un medesimo gruppo9. Il conflitto più

5 Cfr. C. Bitossi, L’età di Andrea Doria, in G. Assereto, M. Doria (a cura di) Storia della Liguria, Roma, Laterza, 2007, p. 61.

6 C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, Utet, 1978, p. 15. Cenni alle posizioni antifrancesi dei Fregoso e in particolare di Ottaviano si trovano in Grendi, 1979, pp. 98-99.

7 Cfr. Pacini, 1990, p. 17. L’autore cita importanti fattori precedenti a tale data che permisero ai mercanti e ai banchieri genovesi di accumulare grandi ricchezze, come l’istituto del cambio più volte sfruttato nelle fiere di Besançon e l’abilità di costoro, ancor prima che Genova entrasse ufficialmente nell’orbita asburgica, di infiltrarsi nell’economia spagnola sul duplice livello commerciale e finanziario. Più avanti nel testo inoltre, Pacini ricorda una precedente riforma amministrativa del 1525, fallita, ma che già conteneva in nuce alcuni dei principi della successiva.

8 Cfr. Grendi, 1979, p. 94.

9 Cfr. Pacini, 1990, pp. 18-23. Cfr. anche C. Bitossi, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, EGIC, 1990, pp. 32-33. Sulle lotte di fazione a Genova, cfr. inoltre Bitossi, 2007, pp. 62-63.

L’autore, nel medesimo testo, nota inoltre che, sebbene i conflitti fra fazioni abbiano rappresentato quasi il simbolo della situazione politica genovese prima del 1528, la realtà era ben diversa, e un’attitudine consociativa così come la

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evidente restava quello fra nobili e popolari (questi ultimi ulteriormente articolati in mercanti e artefici) entrambi impegnati a far tornare a proprio vantaggio la legislazione atta a regolare l’accesso alle cariche di governo10. I successi riscossi dalla fazione popolare, a partire dall’acclamazione di Simone Boccanegra come doge (1339) fino alla rivolta antinobiliare del 1506- 07, vennero soppressi dalla presa di potere di Luigi XII e del tutto eliminati con la riforma del 152811. Questa infatti stabiliva un unicus ordo della nobiltà, ascritta a un Liber civilitatis (poi Liber nobilitatis dagli anni Ottanta del Cinquecento) raggruppava i membri dell’élite dirigente attraverso l’istituto degli alberghi12, un sistema che avrebbe dovuto porre fine alle lotte di fazione13.

La riforma istituzionale imponeva la durata massima del dogato a due anni, al fine di soddisfare il maggior numero possibile di aspirazioni delle diverse famiglie aristocratiche con una frequente rotazione; prevedeva la creazione di un Collegio chiamato Senato, col compito di amministrare la giustizia e gli affari interni, i cui otto membri al termine del secondo anno di mandato si trasferivano come procuratori per un altro biennio a un altro Collegio, la Camera, addetto alla gestione delle finanze pubbliche; i due Collegi e il Doge formavano la Signoria14. Da questi organi venivano proposte le leggi e sottoposte al vaglio del Minor Consiglio (o Consiglietto) formato da cento membri estratti a sorte dai quattrocento del Maggior Consiglio, a sua volta costituito

«dall’insieme dei nobili maschi adulti che ne avevano diritto, in quanto di condizione laicale e non falliti»15.

«spartizione dei posti di comando» avevano connotato il governo del Banco di San Giorgio nel corso del Quattrocento.

Cfr. Bitossi, 2007, p. 68.

10 Cfr. Pacini, 1990, p. 24.

11 Ivi, pp. 24-26.

12 Come ricorda Bitossi, gli alberghi costituirono il cardine del riordino della nobiltà cittadina: nati come consorzi privati, essi vennero ufficializzati come istituti pubblici. «L’albergo poteva raggruppare un certo numero di famiglie minori attorno a una principale della quale prendevano il cognome […] oppure famiglie disparate sotto un comune cognome coniato appositamente […]. A differenza dei clan gentilizi, l’albergo poteva sciogliersi e scomparire di comune accordo così come si era formato […].». Citazione tratta da Bitossi, 2007, p. 65. Cfr. inoltre la definizione di

“alberghi” di Grendi contenuta in Pacini, 1990, p. 32. Con la riforma del 1528 gli alberghi, sorti come consorterie private di famiglie, divennero un vero e proprio istituto politico sulla cui base furono di volta in volta ripartiti i cittadini al governo.

13 Pacini, 1990, pp. 26-27. A una dettagliata analisi della riforma del 1528 sono dedicati parte del Capitolo II e l’intero Capitolo III del medesimo testo.

14 Cfr. Bitossi, 2007, p. 66.

15 Ivi, p. 67.

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L’unità su cui tanto si insisteva come concetto di base della rifondazione era stata ottenuta (almeno formalmente) a scapito dei popolari attraverso una riforma delle istituzioni in senso oligarchico.

Nasceva così la moderna nobiltà genovese col suo «Libro d’oro», una nobiltà caratteristicamente

«politica», proclamata classe con diritto esclusivo alle cariche repubblicane. […] La soluzione istituzionale seguiva una logica appropriata: incremento delle strutture rappresentative (i Consigli) con funzioni elettive, consultive e talora anche deliberative; collegializzazione del potere del doge fatto pari ai senatori, l’antico collegio degli anziani, affiancati dai procuratori, i Serenissimi Collegi;

istituzione di una suprema magistratura di controllo, i Supremi Sindacatori, il cui sindacato era a sua volta giudicato dal Consiglio Minore.16

Il fatto che l’unità si fosse raggiunta davvero fu smentito dal perseverare delle divisioni interne alla classe dirigente, che si ripresentarono presto con i nomi di nobili “vecchi” e nobili “nuovi” a seconda che l’ascrizione all’aristocrazia delle famiglie fosse stata più antica o più recente17. Fiorirono a partire dai primi decenni del Seicento testi polemici che additavano la rapidità della scalata sociale di gruppi nati non nobili, “casate senza passato” che si erano facilmente impadronite della scena politica: gli anonimi Dialoghi di uno scrittore dei primi anni Venti del XVII secolo parlano di Balbi, Durazzo, Moneglia e Saluzzo (a cui possiamo aggiungere i Brignole) come delle famiglie emergenti18. E ancora prima, nel 1610, Andrea Spinola denunciava gli eccessi di potere e di influenza dei Collegi e del Doge a scapito dei Consigli e degli organi di controllo (Supremi Sindacatori e Conservatori delle Leggi) 19.

Vediamo quindi una città le cui istituzioni repubblicane erano indebolite e messe a rischio dalla sua stessa classe dirigente, un’aristocrazia disunita e ricca di rivalità che permasero anche nei decenni successivi alla riforma del 1528: la congiura ordita da Gian Luigi Fieschi (1547) ai danni dell’assetto filospagnolo doriano ne fu una delle più evidenti dimostrazioni20. La riforma del Garibetto emanata nello stesso anno al fine di porre al riparo le istituzioni genovesi da eventuali colpi di mano, si situava in un clima più delicato di vent’anni prima, con la posizione di Andrea

16 Grendi, 1979, pp. 102-103.

17 Riguardo il contrasto non sanato fra fazioni nobiliari, cfr. Costantini, 1978, pp. 44-46. Un accenno anche in Bitossi, 2007, pp. 67-68.

18 Bitossi, 1990, pp. 33-35.

19 Ivi, p. 35.

20 Per una trattazione approfondita dell’evento, cfr. Costantini, 1978, pp. 37-43 e Bitossi, 2007, pp. 70-72.

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Fig. 1

Lazzaro Tavarone, Andrea Doria arringa i nobili in piazza S. Matteo, affresco staccato, Genova, Palazzo Ducale, inizio XVII sec.

Doria ormai consolidata come “arbitro insindacabile” e non più come semplice e non unico promotore21. La riforma era stata adottata al fine di scongiurare la costruzione di una nuova fortezza in città, guarnita di soldati spagnoli pronti a intervenire nel caso si fossero ripetuti eventi simili alla congiura appena sventata: attraverso l’operato diplomatico accorto del Doria e di Adamo Centurione, l’idea della fortificazione, che avrebbe significato la presenza fisica del potere spagnolo sul territorio genovese, venne abbandonata a favore della revisione dell’ordinamento repubblicano22. La riforma prevedeva infatti alcune modifiche sostanziali a quanto stabilito nel 1528, come la sostituzione del meccanismo elettivo a quello del sorteggio per la scelta dei membri dei Consigli, procedimento per altro ristretto a un corpo elettorale molto elitario, ossia i più alti magistrati in carica, conducendo così a un’ulteriore stretta in senso oligarchico23.

Un tentativo ulteriore di rinsaldare il quadro istituzionale avvenne poi nel 1576, all’indomani dell’ennesima insurrezione frutto del conflitto fra parti. In questa occasione le Leges novae, sancite dal re di Spagna, dal Pontefice e dall’Imperatore, ridefinirono l’assetto amministrativo della

21 Costantini, 1978, p. 44.

22 Cfr. Bitossi, 2007, p. 72.

23 Cfr. Costantini, 1978, p. 47.

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Repubblica e riconobbero ufficialmente la presenza dei due schieramenti di vecchi e nuovi, esistenti di fatto fin dal 152824.

Per quanto riguarda le scelte in ambito di politica estera, il cambio di alleanze dalla Francia alla Spagna (e poi all’Impero) fu preparato dagli avvenimenti intercorsi a partire almeno dal 1519: fatti che, con particolare riferimento al quinquennio 1522-1527 posero le basi per l’azione tempestiva di Andrea Doria nel settembre del 1528, quando convocò i nobili nella piazza di San Matteo, curia dei Doria25 (fig. 1).

Un dato di fatto era la posizione geografica di Genova, strategica tanto per la Corona Francese, che ne avrebbe voluto mantenere il dominio al fine di evitare il completo accerchiamento asburgico, quanto per la Spagna, che guardava al territorio della Repubblica come un ponte di collegamento fra i domini mediterranei e quelli nord-europei26. Benchè le alterne vicende delle fazioni influenzassero anche le scelte di alleanza con le potenze europee, facendo pendere la città ora per la Francia, ora per la Spagna, il rapporto di collaborazione fra Genova e la Spagna risaliva al 1493, quando venne firmata la pace con i re cattolici che garantì numerosi vantaggi economici e favorevoli condizioni giudiziarie per i genovesi, tanto che Agostino Giustiniani, nei suoi Annali, definì tali patti

“honorevoli et utili per la Republica”27. Con la capitulatio del 1519 la pace del 1493 veniva riconfermata con alcune aggiunte (additones), e la sua validità si estendeva “a tutti i domini dei nuovi re cattolici, anche quindi ai territori oltreoceano della corona di Castiglia e a quelli nord e centro europei ereditati dagli Asburgo.”28 Nel 1519 era stato chiamato a svolgere l’importante e delicato incarico di mediatore fra le due parti il mercante e banchiere Martino Centurione, con il compito di portare all’attenzione dei sovrani spagnoli le necessità della Repubblica di Genova e, in particolare, di ottenere i decreti regi che avrebbero garantito l’applicazione e il rispetto delle clausole contenute nella capitulatio. Le additiones della capitulatio del 1519 erano relative a

24 Ivi, pp. 102-122. Cfr. anche Bitossi, 1990, pp. 17-20.

25 Cfr. Pacini, 1990, p. 115. Per la “conquista” di Genova da parte di Andrea Doria, cfr. Costantini, 1978, pp. 14-18.

26 Cfr. Pacini, 1990, pp. 49-50.

27 Ivi, pp. 101-102.

28 Ivi, p. 102.

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controversie di tipo commerciale che avevano condotto precedentemente all’attrito nei rapporti fra Genova e la Spagna: in particolare, con tali clausole si intendeva stabilire un regime di reciprocità fra i due stati per il quale i tribunali competenti nel dirimere le controversie sarebbero stati quelli del luogo in cui tali incidenti si fossero verificati, sottoponendo così i cittadini genovesi su suolo spagnolo alla legge castigliana e, viceversa, i sudditi iberici nel territorio genovese alla legislazione della Repubblica. Inoltre, la capitulatio prevedeva modalità di risoluzione delle controversie che ponessero fine a rappresaglie attraverso accordi e soluzioni specifiche. Un ultimo ostacolo alla completa pacificazione dei rapporti con la Spagna era poi rappresentato dalla cosiddetta

“premmatica de la nave”, una prassi di tipo protezionistico che affermava che nei porti della Castiglia le navi castigliane avrebbero avuto la precedenza nel trasporto delle merci da caricare29: tuttavia, a causa dell’ostilità dei ministri castigliani, la prammatica non venne risolta e furono necessari altri anni di trattative per trovare una soluzione30.

Martino Centurione fu poi protagonista di una seconda missione diplomatica presso il Regio Consiglio spagnolo avvenuta nel corso del 1523, quando Genova, attraverso il dogato del filoasburgico Antoniotto Adorno, si era già chiaramente spostata verso l’asse di alleanza spagnolo31. Il Centurione aveva nuovamente presentato alla Corona spagnola una richiesta d’aiuto per sanare i problemi della Repubblica. Questi si presentavano di due entità: politico-istituzionale ed economico. Per quanto riguarda il primo caso, il Doge Adorno si trovava in difficoltà a seguito della morte del fratello Geronimo, avvenuta durante un’ambasceria a Venezia per conto dell’Impero32.

Antoniotto Adorno governava saggiamente la città e dopo la morte del fratello i membri della fazione si erano stretti attorno a lui. Era necessario solo che l’imperatore esprimesse apertamente il suo appoggio. Il Doge avrebbe così acquistato prestigio e «reputatione, con la quale si governa più questo stato che con forze». Veniva così ribadita l’affermazione del Giustiniani secondo cui Genova doveva essere conquistata politicamente e non militarmente, con accordi cioè che rispettassero le

29 Le disposizioni qui sintetizzate sono diffusamente affrontate in Pacini, 1990, pp. 102-112.

30 Cfr. infra.

31 Cfr. Pacini, 1990, pp. 115-116.

32 Ivi, p. 116.

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regole della vita politica interna. I regimi, come i sistemi di alleanze, dovevano necessariamente poggiare sopra una larga base di consenso.33

C’era inoltre il problema della difesa del territorio genovese dalle mire francesi: facendo leva sulla posizione strategica di Genova, il Centurione riuscì a ottenere la protezione dell’Imperatore sul Doge, sulla sua famiglia e sull’intera città, a cui inoltre venivano confermati i privilegi e le immunità conferiti ad essa in quanto Camera Imperiale34.

Per quanto riguardava invece i problemi di natura economica, la guerra condotta al fianco della Spagna in territorio lombardo contro i francesi aveva dissanguato ulteriormente le risorse finanziare di Genova: sia Antoniotto che Geronimo avevano contratto debiti per supportare la campagna militare spagnola; il blocco del commercio verso la Lombardia e l’insicurezza dei traffici per mare avevano impoverito diversi mercanti; s’era poi aggiunto il disastroso sacco della città nel 1522 ad aggravare un’economia già prostrata35. Le trattative sotto il profilo economico, che da parte genovese vedevano l’espressa richiesta di sgravi nella contribuzione al mantenimento delle truppe, furono più lunghe e complesse. Dapprima si raggiunse una diminuzione a 3000 ducati della quota, ma la misura venne ritenuta insufficiente dal Centurione, che chiese per conto della propria città un’ulteriore sgravo: soltanto a seguito dell’invio, volontario e a proprie spese, di un contingente di 3000 uomini in soccorso delle truppe imperiali in Lombardia (dove Francesco I aveva dato inizio a una controffensiva) indusse Carlo V a sospendere temporaneamente l’esazione del tributo dei genovesi36.

Il protrarsi dell’occupazione francese di Milano per tutto l’autunno e l’inverno fra il 1523 e il 1524, costrinse la Repubblica a mantenere il proprio assetto difensivo e ciò indusse ancora una volta le autorità locali a richiedere l’esenzione dal pagamento delle quote.

Gli Anziani scrissero al Centurione che dopo la sua partenza le spese si erano triplicate; che la riduzione del contributo a 3000 ducati suonava come una beffa perché la città, tra stipendi di fanti e mantenimento di galere, era costretta a spendere 16000 ducati ogni mese; che i ministri cesarei,

33 Ivi, p. 118.

34 Ivi, pp. 118; 123-124.

35 Ivi, p. 120. Un accenno al sacco del 1522 è contenuto in Grendi, 1979, p. 98.

36 Cfr. Pacini, 1990, p. 124.

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nonostante tutto, continuavano a chiedere denaro. Le proteste dei genovesi indussero Carlo V a scrivere a Charles de Lannoy, viceré di Napoli, ribadendo che la Repubblica era tenuta a contribuire per soli tremila ducati e che da tale somma dovevano essere dedotte le spese straordinarie da essa fino ad allora sostenute per la propria difesa37

L’intera questione venne risolta soltanto una volta sconfitta del tutto la Francia (con la battaglia di Pavia del 1525 il re Francesco I era stato fatto prigioniero). I genovesi erano riusciti a dimostrare l’importanza fondamentale della propria posizione di alleati imperiali, ruolo che imponeva a Carlo V di venire in loro soccorso per mantenere lo status quo38.

Restava tuttavia ancora sospeso a questa data lo spinoso problema della premmatica de la nave:

punto di svolta nelle trattative fra l’Impero e la Repubblica di Genova fu indubbiamente l’elezione di Mercurino Arborio di Gattinara a Gran Cancelliere. Dimostrando grande lungimiranza, il Gattinara opponeva alla stretta visione protezionistica delle cortes castigliane un ideale di monarchia universale: soltanto attraverso l’abbandono dei propri privilegi individuali l’Impero, sorto da una compagine di territori caratterizzati da tradizioni e orientamenti politici diversissimi, avrebbe potuto raggiungere una salda unità politica39. Inoltre, una Genova ormai chiaramente filoasburgica aveva buon diritto a pretendere che le proprie navi non venissero penalizzate dalle politiche protezionistiche castigliane. Gattinara incoraggiò le proteste di Martino Centurione e lo sollecitò a minacciare ritorsioni di tipo economico; parallelamente promosse le istanze genovesi presso l’Imperatore, fino a che, dopo numerosi ostacoli opposti dalle cortes castigliane, Carlo V emanò e fece approvare un decreto (21 maggio 1524) che sanciva definitivamente l’esenzione delle navi genovesi dai divieti della prammatica40.

La sintetica trattazione degli eventi appena descritti ci mostra come l’intervento di Andrea Doria in

“salvataggio” della Repubblica fosse ben inserito all’interno di un processo più lungo che aveva tracciato i rapporti di Genova con la Spagna prima e con l’Impero poi. Alterne vicende avevano portato il Doria a servire diversi padroni, compreso proprio Francesco I, con il quale tuttavia i

37 Ivi, p. 125.

38 Ivi, pp. 126-127.

39 Ivi, pp. 130-138.

40 Ivi, pp. 137-141.

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rapporti si erano deteriorati a seguito di alcune mancate concessioni da parte del sovrano francese in relazione ai vantaggi che Andra avrebbe potuto trarre dalla guerra di corsa (come il riscatto dei prigionieri)41.

Fin dal 1525 Carlo V aveva cercato di stornare Andrea dall’alleanza anti-imperiale. In particolare il cancelliere Mercurino Gattinara fu un tenace e convincente assertore di questa esigenza politica e militare presso l’imperatore. Carlo V doveva coronare con un viaggio personale la sua politica italiana: Doria diventava elemento decisivo nel rapporto di forza militare nella penisola. Il mare in mano ai francesi rappresentava una situazione insostenibile per le necessità dei rifornimenti dalla Spagna. […] Spirato il tempo dell’accordo col re di Francia, nel luglio 1528 Andrea Doria si impegnava con Carlo V che il 26 agosto lo nominava capitano generale dell’armata marittima del Mediterraneo e dell'Adriatico, […]. Genova tornava all’impero.42

Genova tornava all’Impero, ma conservando la propria indipendenza: la mossa di Andrea Doria, che giungeva nel momento propizio dopo anni di trattative, consentì alla città di mantenere la sua sovranità, e anzi di estenderla anche ai territori di Savona. Inoltre, l’asiento favorì uno spostamento dell’economia genovese dal settore marittimo-mercantile a quello finanziario, stabilendo la base per l’accumulo dei capitali che permetteranno alle grandi famiglie aristocratiche di condurre quello stile di vita così caratteristico del secolo d’oro (benché politicamente travagliato) della Repubblica43. Comincia qui il percorso di patrocinio artistico, culturale, letterario e musicale della nobiltà genovese:

Appunto la dimora villereccia […] si apre per prima alle ragioni della cultura, che nei secoli precedenti era arrivata per le strade dei commerci da Lombardia e Provenza e aveva varcato solo le soglie delle chiese e dei conventi. È la trasformazione del mercante in finanziere a creare l’esigenza del fasto residenziale, e l’abitudine al commercio col denaro a dare il gusto dell’investimento anche nella cultura. Ed è ancora la gestione «segneurial» del palazzo doriano a Fassolo che si pone come esempio di gusto e di impresa e affretta la maturazione di un’intera generazione di magnifici committenti.44

41 Cfr. Grendi, 1979, p. 99.

42 Ivi, p. 100.

43 Cfr. Poleggi, Cevini, 1981, p. 88.

44 Ivi, p. 89.

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Fig. 2

Villa del Principe, Genova. Veduta d’insieme del palazzo dai giardini

1.2. Artisti e compositori al servizio dei Doria a Palazzo del Principe: da Perino del Vaga a Domenico Piola, da Vincenzo Ruffo ad Alessandro Stradella

Fra i più antichi casati dell’aristocrazia genovese, i Doria si distinsero per il patrocinio delle arti, e con il grande palazzo di Andrea Doria a Fassolo (fig. 2) ebbe inizio quel processo di rinnovamento artistico di Genova che coinvolse personalità di altissimo livello, restituendo alla città una centralità perduta nel corso del Quattrocento.

Numerosi artisti si affiancarono e succedettero nelle diverse fasi costruttive e decorative del palazzo. A Perino Del Vaga, allievo di Raffaello chiamato da Andrea Doria in persona nel 1528 per progettare l’intera fabbrica, si affiancarono altri importanti artisti quali Girolamo da Treviso, Pordenone, Beccafumi, dei cui interventi oggi non restano tracce visibili, e ancora Giovan Angelo Montorsoli, cui si devono la statua colossale dell’Ammiraglio in vesti di generale romano (oggi in stato frammentario), il gruppo scultoreo della fontana del Satiro e altre opere nei giardini45.

Con il passaggio della proprietà all’erede designato Giovanni Andrea Doria I si aggiunse l’ambiente della Galleria Aurea (fig. 3), un vano ampio e regale che avrebbe sostituito nel ruolo di

45 Cfr. L. Stagno, Palazzo del Principe. Villa di Andrea Doria. Genova, Genova, Sagep, 2005, pp. 6-9; 16-20; 46; 57;

108-111. Fra le opere commissionate da Andrea Doria al Montorsoli per i giardini va ricordata la statua in stucco di Nettuno (anni Quaranta del Cinquecento), andata precocemente perduta, a causa della deperibilità del materiale.

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Fig. 3

Villa del Principe, Galleria Aurea, Genova. Visibili sulla volta gli affreschi di Giulio Benso e gli stucchi di Marcello Sparzo

rappresentanza il salone dei Giganti dipinto da Perino nella prima fase di decorazione: i raffinati stucchi di Marcello Sparzo, uniti ai successivi affreschi di Giulio Benso costituiscono il parato decorativo di quel nuovo spazio “regale” che, sul modello delle residenze principesche francesi cominciò a diffondersi in Italia e a Genova tra Cinque e Seicento46.

I Doria che risiedettero nel palazzo di Fassolo non limitarono il loro interesse alle sole arti figurative, promuovendo un’importante attività musicale presso la propria dimora. Un documento dell’Archivio Doria-Pamphilj datato al 1545 riporta che, dal 14 novembre di quello stesso anno iniziò l’incarico di Vincenzo Ruffo al servizio di Andrea Doria come maestro di cappella del palazzo47: la sua attività per l’Ammiraglio dovette proseguire fino al gennaio 1546, data a cui risalgono le ultime notizie di pagamenti in favore del musicista48. Vincenzo Ruffo, originario di Verona, era attivo in Liguria già dal 1542, ricoprendo il ruolo di maestro di cappella presso la cattedrale di Savona. Successivamente, nel 1544 era passato a svolgere l’incarico di cantore e di

46 Ivi, pp. 55-58. Gli affreschi del Benso risalgono a un momento successivo, e, benché vi sia testimonianza, tramite alcune lettere, dei precisi soggetti che si supponeva di rappresentare nei riquadri incorniciati dagli stucchi, ciò che fu realizzato è di tono più generico. Cfr. Ivi, p. 59.

47 Cfr. M. R. Moretti, Musica e costume a Genova tra Cinquecento e Seicento, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1990, p. 50. Cfr. anche M. Tarrini, Contributo alla biografia di Vincenzo Ruffo, in “Note d’Archivio per la Storia Musicale”, nuova serie, IV (1986), pp. 109-110; p. 117 documento III.

48 Cfr. R. Tibaldi, Ruffo, Vincenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 89, 2017, ad vocem. Cfr. anche Tarrini, 1986, p. 110.

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magister della cantoria di San Lorenzo a Genova, con l’obbligo di insegnare musica a un puer49. Il contratto, di durata biennale, prevedeva tuttavia che il musicista fosse ordinato sacerdote, in ottemperamento agli ordinamenti della cantoria: questa clausola non sembrò essere in realtà rispettata da Ruffo, che all’epoca non solo aveva abbandonato lo stato clericale (acquisito alla scuola degli Accoliti a Verona in anni precedenti) ma era anche sposato e padre di due figli50. In maniera del tutto straordinaria (forse per la celebrità del musicista?) gli venne concessa l’alternativa di richiedere una dispensa necessaria al mantenimento del posto: non sappiamo se effettivamente il compositore riuscì a ottenerla. Come riporta Maria Rosa Moretti:

Il patrono della cantoria Stefano Fieschi e il magiscola Agostino de Pellatis, mentre da una parte non vorrebbero rinunciare all’importante contributo del Ruffo, dall’altra sono vincolati al rispetto delle Ordinationes. L’intervento del vicario Marco Cattaneo, che il 30 gennaio 1545 proroga i termini di attesa per altri tre mesi, risolve per il momento la situazione, e Vincenzo Ruffo sembra operare nella cattedrale genovese in attesa della conferma ufficiale e definitiva.51

Non sappiamo, per mancato riscontro documentario, se Ruffo abbia ottenuto la dispensa quando passò al servizio di Andrea Doria, presso la cui dimora di Fassolo, ipotizza sempre Moretti, potrebbero essere state eseguite alcune composizioni che vennero in seguito inserite nell’opera Li madrigali a quatro voce a notte negre… Libro primo, edita a stampa nello stesso 1545 a Venezia52 (fig. 4). I legami di Vincenzo Ruffo con Genova proseguirono anche oltre la permanenza del musicista presso la corte di Andrea Doria: sappiamo infatti di un suo successivo soggiorno nella Repubblica nel 156253, e la simpatia di cui dovette godere presso altri eminenti aristocratici genovesi è testimoniata da un certo numero di dediche.

49 Cfr. Moretti, 1990, p. 75 e p. 246, documento 37.

50 Ivi, p. 75.

51 Ibidem. Cfr. anche ivi, pp. 246-247 documento 38.

52 Cfr. M. Materassi, Introduzione, in V. Ruffo, 23 Capricci in musica a tre voci (1564), ed. a cura di M. Materassi, Treviso, Diastema, 1995, pp. IV-V.

53 Cfr. Tarrini, 1986, pp. 106; 114-115; 118. Si tratta di un contratto stipulato dal Ruffo per l’affitto di un ammezzato in contrada di San Siro concluso con Domenico Centurione, proprietario dell’immobile, per conto della nipote del compositore, Giorgetta, figlia del cognato Bartolomeo di Mezzano.

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Fig. 4

Frontespizio del Primo Libro De Madrigali a Notte Negre di Vincenzo Ruffo, Venezia, 1546.

Il nobile genovese Agostino Di Negro Groppallo, promotore della pubblicazione del libro di Madrigali a sei, a sette et a otto voce (1554) firma la dedica agli Accademici Filarmonici di Verona e definisce il compositore come una sorta di padre adottivo:

ALLI ILLUSTRISSIMI SIGNORI ACADEMICI PHILARMONICI DI VERONA […]

Onde havend’io doppo una longa fatica liberati e presenti componimenti d’il mio eletto n padre, messer Vincentio Ruffo, dalla servitù ove erano di certi particolari, et fattili imprimere come ne questi libri si mostrano, li consacro insieme con l’animo mio tutto himile al chiarissimo nome di ostre signorie honoratissime et a cui poteva io dedicarli […]54

Ricordiamo ancora la dedica di Vincenzo Ruffo a Luca Grimaldi di due libri di musica, una raccolta di madrigali a cinque voci, 1554, e una di mottetti a sei, 1555: per la prima opera, fu lo stesso compositore a scrivere:

Di Vincenzio Ruffo nobile veronese et degnissimo maestro della capella del domo di Verona, li madrigali a cinque voci, dedicati al magnifico signor Lucha Grimaldi, scielta seconda da li suoi proprii exemplari fatta, novamente con somma diligentia corretti et post’in luce.55

Per la seconda raccolta fu nuovamente il Groppallo a scrivere la dedicatoria, nominando ancora una volta con grandissimo affetto il compositore:

54 Ivi, p. 112. Agostino Di Negro Groppallo viene definito da Tarrini come “l’editore-finanziatore” della raccolta di madrigali.

55 Ivi, p. 113.

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AL MOLTO MAGNIFICO SIGNOR IL SIGNOR LUCA GRIMALDI PADRONE MIO SEMPRE OSSERVANDISSIMO

[…]

Et questo è che havendo con non mia pocha faticha et industria, i motteti a sei voci del mio più che padre, a vostra signoria affetionatissimo, m. Vincentio Ruffo, insieme raccolt, gli ho dati agli impressori consacrandoli al felicissimo nome di quella, giudicando non esser persona a chi più degnamente questa oblatione dalle man nostre sì convenisse […].56

Infine, a Cesare Romeo direttamente il Ruffo dedicò il Terzo libro de madregali a quatro voci (1560):

AL MOLTO MAGNIFICO MESSER CESARE ROMEO NOBILE GENOVESE SGNOR SUO OSSERVANDISSIMO

Ho sempre havuto (molto magnifico signor mio) infinito desiderio de dimostrare a vostra signoria con qualche segno esteriore ch'io l'amo et osservo […], né sin'al presente l'ho fatto, non havendo havuto cosa che mi sia parsa degna di comparerli dinanzi a fare questo uffitio. Hora, havendo date alla stampa certe compositioni da me ridotte in armonia musicale, ho giudicato a proposito non tardar più. Gliele mando e son certo che le piaceranno parte come cose mie, poi perché si diletta di canto, ma molto più dovranno esserle care, quanto che per lor mezzo sodisfaccio a me stesso et al mio debito, denotandoli la servitù mia. Stia sana e mi raccomandi al molto magnifico messer Francesco suo padre.

Di vostra signoria Vincentio Ruffo57

Come nota ancora Maurizio Tarrini, l’ultimo madrigale della raccolta appare concepito proprio come un omaggio a Genova, essendo intitolato Alla Zenoese e dedicato alla bellezza delle donne della città58.

La cappella musicale doriana, che per altro comprendeva anche la cantoria di San Matteo, non venne dismessa dall’erede di Andrea, Giovanni Andrea I, tuttavia le notizie relative alla sua attività sono piuttosto scarse. Maria Rosa Moretti riporta alcuni pagamenti per “un acordo di flauti, o siano piferi, per le galee”, per altri strumenti a fiato (trombette, clarini, cornetti, un trombone) e per alcuni libri di musica, oltre che di una grande quantità di stoffa necessaria a realizzare le divise dei

56 Ibidem.

57 Ivi, p. 114.

58 Ibidem. Cfr. anche Moretti, 1990, p. 50.

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Fig. 5

Villa Centurione-Doria, Genova-Pegli

musici59. Nel 1585 è documentato a corte l’organista e compositore Giuseppe (o Gioseffo) Guami, di origine lucchese e attivo, dopo il soggiorno ligure, a Venezia per la basilica di San Marco60. Nella città lagunare era già stato dato alle stampe il suo Primo Libro di madrigali a cinque voci (1565)61.

Nel suo testo sugli intrattenimenti festivi dell’aristocrazia genovese, Luigi Tommaso Belgrano accenna poi a un importante ricevimento dato dai Doria nella villa di Pegli (fig. 5)62: fatta costruire da Adamo Centurione a attorno alla metà del secolo, la villa era poi divenuta proprietà di Giovanni Andrea Doria nel 158463. In occasione della nascita di un bambino della famiglia, il 14 luglio del 1596 venne data una gran festa che ebbe per teatro gli splendidi giardini della villa: si mise in scena una commedia, con numerosi interventi musicali, per i quali, riporta Belgrano, possediamo i documenti che testimoniano i pagamenti avvenuti.

59 Cfr. Moretti, 1990, p. 51

60 Ibidem.

61 Cfr. R. Pelagalli, Guami, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 60, 2003, ad vocem.

62 Cfr. L. T. Belgrano, Delle feste e dei giuochi dei genovesi. Dissertazione seconda, in «Archivio Storico Italiano», 1872, vol. 15, No. 69, 1872, p. 423.

63 Il Centurione, che “accumulò un’immensa fortuna nei traffici finanziari con la Spagna” (Pacini, 1990, p. 31) era in origine un mercante molto attivo nel settore della seta, con importanti contatti a Lione. Fu molto probabilmente fra i primi finanziatori di Carlo V. Amico di Andrea Doria, s’era imparentato con la famiglia di quest’ultimo attraverso il matrimonio nella figlia Ginetta con Giannettino Doria, nipote ed erede designato di Andrea, poi rimasto ucciso durante la congiura di Gian Luigi Fieschi nel 1547. In tale drammatica circostanza l’intervento di Adamo Centurione era stato fondamentale per consentire ad Andrea Doria di lasciare Genova incolume. Più avanti il figlio di Ginetta a Giannettino, Gio. Andrea Doria, venne proprio affidato alle sue cure. Cfr. G. Nuti, Centurione, Adamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23, 1979, ad vocem. Cfr. inoltre Grendi, 1979. Per il passaggio di proprietà della villa di Pegli, cfr.

Stagno, 2005, p. 6 e Moretti, 1990, p. 52.

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28 Fig. 6

Villa Centurione-Doria in un disegno del sec.

XVIII, Roma, Archivio Doria-Pamphilj

Fig. 7

Villa Centurione-Doria, Genova-Pegli, il lago e l'isolotto artificiale progettato da Galeazzo Alessi

Nella nota spese trascritta dall’autore si specificano anche le somme spese per i cavalli e per l’imbarcazione (un “laudo”) che servirono a trasportare musicisti e attori fino a Pegli.64 La villa rappresenta uno degli edifici residenziali precedenti all’innesto sul territorio genovese dei modelli alessiani (cfr. § 2.1) e il suo aspetto antico è testimoniato da un disegno dell’Archivio Doria- Pamphilj risalente al XVIII secolo (fig. 6)65.

Galeazzo Alessi intervenne successivamente nell’organizzazione del parco della proprietà, quando ancora essa apparteneva ad Adamo Centurione, e per lui progettò, attorno al 1550, l’isolotto al centro del lago (fig. 7), elemento che dovette destare grande stupore all’epoca, ed esempio evidente di quella moda per grotte e altri elementi naturali ricostruiti artificialmente all’interno dei giardini (cfr. 2.1) 66:sulla sommità dell’isolotto, di forma ovoidale, “si alzava una montagna-anfratto a grossi

64 Cfr. Belgrano, 1872, p. 423. Alla nota 2 è riportato il testo della nota spese.

65 Per una più precisa descrizione della struttura della villa, cfr. L. Magnani, Il Tempio di Venere. Giardino e villa nella cultura genovese, Genova, Sagep, 1987, pp. 49-52.

66 Cfr. S. Hanke, The splendour of bankers and merchants: Genoese garden grottoes of the sixteenth century, in «Urban History», 37,3, 2010, p. 415. Un accenno all’isola artificiale progettata dall’Alessi si trova anche nelle Vite di Vasari:

«Già non tacerò che ha fatto il lago et isola del signor Adamo Centurioni, copiosissimo d'acque e fontane, fatte in diversi modi belli e capricciosi». Cfr. G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti ed. a cura di M.

Marini, Roma, Grandi Tascabili Economici, 1997, p. 2858. (Versione ebook).

Più avanti Raffaele Soprani ne darà una descrizione nella sua opera: «l'isoletta sparsa di capricciose grottesche, sulla quale, dopo breve giro per barchetta, si lascian discendere i poco accorti; e quivi fono da chi vuol fare la graziosa burla abbandonati in balia delle acque; mentre queste, apertevi le chiavi, per sotterranei canali passando, sgorgano con molti zampilli, e bagnano i ridotti in essa isoletta, che indarno cercano di ripararsi.» Cfr. R. Soprani, C. G. Ratti, Vite de’

pittori, scultori ed architetti genovesi. In questa seconda edizione rivedute, accresciute ed arricchite di note da Carlo Giuseppe Ratti, Genova, 1768-69, p. 401.

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blocchi di pietra e stalattiti davanti alla quale, tra i giochi d’acqua, prendevano vita statue di satiri e ninfe.”67

Della villa, e del suo magnifico parco, era stata già data una attenta descrizione poetica da Luca Martini, che aveva visitato la proprietà nel 1554, quando ancora apparteneva al banchiere Centurione68. Contenuta all’interno della raccolta Secondo Libro delle Opere Burlesche di M.

Francesco Berni, la descrizione in versi elenca giardini, uccelliere, fontane, sculture e decorazioni;

Martini accenna al palazzo «dipinto di storie grottesche» e quindi si sofferma sul suono dell’acqua che zampilla dalle fonti, prima di passare a descrivere l’isolotto artificiale:

Li frutti, i prati, il parco et ogni via, Le fonti, l’uccelliere, e l’altre cose son poste a sesta e con Geometria, Nel Palaggio vi son meravigliose, E commode le stanze, oltra misura, E mica non sognò, chi ve lo pose.

Che vi si vede buona architettura, Et è dipinto di storie grottesche, E vi son pietre, e marmi di scultura.

L’acque vive lucenti, dolci e fresche, Ch’escon di fonti, e di scogli e di sassi E che fanno vivai, e altre pesche.

Nel riguardarle, e nel sentirle huom stassi Lieto, e smarrito tanto dolcemente,

Ch’e’ non s’avvede e ferma gl’occhi, e’ passi.

E tanti bei concetti ne’ la mente,

Gli vengon d’hora in hor, di punto in punto, Ch’al ciel transumanar tutto si sente.

Quand’io fui sopra il pian d’un lago giunto, E visto un’Isolotto gittar acque,

Con dolce melodia di contrapunto, Maraviglia e dolcezza al cor mi nacque, Talch’io dissi per lui, come il Petrarca, Non al suo amante più Diana piacque,

67 Cfr. Magnani, 1987, p. 63.

68 Ivi, p. 61.

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30 Fig. 8

Organo del XIX sec. Genova, Chiesa di San Benedetto

Fig.9

Benedetto Brandimarte, Portelle per l’organo della Chiesa di San Benedetto, Genova, metà XVI sec.

E vi si và di dentro con la barca, E per terra si gira tutto fuore,

Piacer ch’ogni dolor dal cuor discarca.69

Possiamo ancora citare, come testimonianza del duplice interesse di Giovanni Andrea Doria per le arti figurative e la musica, l’organo fatto costruire per la chiesa di San Benedetto adiacente al palazzo di Fassolo. Lo strumento venne commissionato nel 1590 all’organaro cremonese Lorenzo Stanga, che lo portò a termine due anni più tardi70: perduto l’originale (ad oggi la chiesa possiede un organo del XIX secolo, fig. 8) si sono conservate le portelle dipinte da Benedetto Brandimarte (fig.

9), citate anche da Soprani e Ratti71.

Tanto con Andrea Doria quanto con il suo successore Giovanni Andrea, il palazzo di Fassolo rappresentò in diverse occasioni l’alloggio di prestigio per gli ospiti asburgici, a partire dall’Imperatore Carlo V in persona: in tali circostanze il cerimoniale di corte prevedeva

69 Secondo Libro Dell'opere Burlesche, di M. Francesco Berni. Del Molza, di M. Bino, di M. Lodovico Martelli. Di Mattio Francesi, dell'Aretino, Et di diversi Autori, Firenze, 1555, pp. 131-132. Da notare la comparazione del suono dell’acqua al contrappunto. Riferimenti e indizi di cultura musicale di questo genere, proposti in comparazione con l’acqua delle fontane, sono diffusi anche nel poema di Gio. Vincenzo Imperiale, Lo Stato Rustico (cfr. § 2.4).

70 Sull’attività di Lorenzo Stagna per la famiglia Doria, cfr. M. Tarrini, Organari del Rinascimento in Liguria: IV.

Lorenzo Stagna da Cremona, in “L’organo. Rivista di cultura organaria e organistica”, XLVI (2014), pp. 71-96.

71 Soprani, Ratti, 1768-69, p. 467.

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regolarmente sontuosi festeggiamenti che al fasto delle arti figurative accompagnavano la piacevolezza dell’intrattenimento musicale. A una diffusa trattazione di queste occasioni è riservato il capitolo 3 del presente lavoro.

Non possiamo concludere l’excursus delle manifestazioni artistiche e musicali a Palazzo del Principe senza menzionare i grandiosi festeggiamenti in onore del matrimonio fra Giovanni Andrea Doria III e Anna Pamphilj (1671), protrattisi per un mese abbondante, fino alla fine di novembre, in coincidenza con la festa di Sant’Andrea. Occasione estremamente prestigiosa, il matrimonio richiese l’impegno degli artisti di maggior fama nella Repubblica di Genova, da Filippo e Domenico Parodi a Domenico Piola, autori a cui vennero commissionati dipinti, sculture, oggetti d’arredo e perfino la sontuosa carrozza che avrebbe condotto la sposa presso la sua nuova dimora72. Le nozze avvennero per procura nella cappella del palazzo romano di Via del Corso, il 25 ottobre del 1671: a fare le veci del nobile genovese fu il Marchese di Astorga, ambasciatore di Spagna, il cui intervento venne assicurato grazie alle trattative svolte dalla madre di Giovanni Andrea, Violante Doria, con la Corona spagnola73. Successivamente la giovane sposa, accompagnata dal suo seguito, venne condotta fino a Livorno, dove si sarebbe imbarcata sulla capitana della flotta di galee disposta per il viaggio fino a Genova74. Proprio per commemorare la partenza da Roma di Anna Pamphilj venne commissionata al celebre compositore Alessandro Stradella la cantata dal titolo Lamento del Tebro e due ninfe (fig. 10), il cui testo, di autore rimasto ignoto, esprime il dolore del Tevere per la notizia a lui giunta dell’imminente viaggio della giovane principessa, che avrebbe così lasciato orfana della sua presenza la città natale75. Nel testo c’è però anche spazio per il

72 Cfr. Stagno, Committenze artistiche per il matrimonio di Anna Pamphilj e Giovanni Andrea III Doria Landi (1671), in S. C. Leone (a cura di) The Pamphilj and the arts. Patronage and Consumption in Baroque Rome, Boston, Boston College Museum of Art, 2011, pp. 55-75.

Cfr. anche L. Stagno, L’attività di Filippo e Domenico Parodi per i Doria Principi di Melfi, in “Rivista d’Arte”, serie quinta – vol. II, 2012, pp. 353-356 (d’ora in avanti “Stagno, 2012 a”)

73 Cfr. Stagno, 2011, p. 60.

74 Ivi, p. 62.

75 Cfr. C. Gianturco, Notes on Alessandro Stradella, L’avviso al Tebro Giunto, in Leone, 2011, p. 77.

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