4 Antieconomicità
Quando un comportamento imprenditoriale è antieconomico e pertanto può costituire per l’Ufficio un segnale di pericolo di evasione? E ancora, quali sono i fatti presunti antieconomici e quindi ritenuti idonei a far azionare il meccanismo presuntivo?
La giurisprudenza e la dottrina negli ultimi anni si sono trovate molto spesso ad affrontare il tema dell’antieconomicità delle scelte imprenditoriali e dei correlati effetti in ambito accertativo.
Non sempre è chiaro il ragionamento con il quale l’Amministrazione finanziaria, in sede istruttoria, considera alcune condotte imprenditoriali antieconomiche come presunzione per addivenire alla ripresa di costi o alla rilevazione dei ricavi ritenuti omessi. In realtà, alcuni comportamenti apparentemente antieconomici, non sono altro che il frutto della libera autonomia dell’attività d’impresa. Preme sottolineare, al riguardo, che è insito nella libertà imprenditoriale decidere se un atto possiede il requisito dell’economicità o meno e se il suo comportamento sia in linea con il perseguimento dell’interesse economico proprio dell’impresa anche se esso, singolarmente considerato, possa apparire antieconomico. Infatti, ciascun singolo atto compiuto dall’imprenditore deve essere giudicato non astraendolo dalla realtà economica in cui opera l’impresa, ma all’interno di essa: solo in questo modo si può pervenire ad una valutazione equilibrata ed oggettiva.
Ad oggi non esiste disposizione normativa che regoli e definisca con precisione quali sono i fatti in contrasto con le regole economiche del profitto; c’è solo una innumerevole casistica giurisprudenziale ma questo non basta per puntare il dito contro una libera scelta imprenditoriale.
Come accennato, è indubbio che l’Ufficio prima di sentirsi legittimato ad accertare presuntivamente il reddito ponga in essere un’approfondita attività istruttoria, ovvero considerare le motivazioni che hanno originato la scelta all’interno della cornice più ampia dell’attività dell’impresa. Solo in questo modo si può addivenire ad una valutazione equilibrata ed oggettiva del comportamento posto in essere.
E ciò è ovvio, ma sembra di capire che per l’Amministrazione finanziaria non sempre è così naturale. In termini pratici, una operazione che può essere ammantata di antieconomicità, se valutata all’interno della cornice più ampia dell’attività d’impresa, potrebbe acquisire il requisito di economicità.
Si pensi, ad esempio, al sostenimento in un particolare esercizio di costi di sponsorizzazione da parte di una società. Può essere vero, da un punto di vista temporale, che i suddetti costi, sostenuti in un particolare esercizio, o riferiti a una particolare operazione di vendita, siano considerati
“sproporzionati”, rispetto ai relativi ricavi: essi debbono, comunque, essere valutati anche in una prospettiva futura secondo la quale, ad esempio, il sostenimento di maggiori costi oggi è giustificato dal tentativo di costruire, in futuro, una posizione di forza sul mercato nazionale ed internazionale che porterà al conseguimento di un maggior volume di affari, o da altre motivazioni analoghe di carattere aziendale.
La stessa Amministrazione finanziaria in alcune sue pronunce sull’inerenza (C.M. n. 30 del 7 luglio 1983) ha sostenuto la logica e corretta tesi di “considerare deducibili anche costi ed oneri in proiezione futura”, quali le spese promozionali, le spese di pubblicità indiretta e, comunque, tutte quelle dalle quali potrebbero derivare ricavi anche solo nel tempo e non immediatamente.
Ecco dunque che la palla rimbalza al contribuente che, oramai schiavo del meccanismo presuntivo, non può far altro che attrezzarsi a fornire valide giustificazioni della propria scelta mettendo in risalto la sua logicità ed economicità. Come visto per le indagini finanziarie, il potere di sindacabilità dell’Ufficio implica l’inversione dell’onere della prova; prova che per il contribuente potrebbe, anche in questo caso, essere diabolica, in quanto non è sempre facile giustificare le scelte economiche poste alla base della operazione contestata.
L’interpretazione giurisprudenziale in materia di antieconomicità è varia e sembra avallare le presunzioni così come prospettate dall’Amministrazione finanziaria.
Le più rilevanti sentenze sul tema se analizzate attentamente richiamano il concetto di valore normale di mercato di cui all’art. 9, comma 3 del Testo Unico come parametro per sindacare i corrispettivi dichiarati, oppure riguardano i costi “sproporzionati” ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass. sez. V, n. 11240 del 30 luglio 2002), o anche i ricavi irrisori, i costi abnormi o i ricavi “miseri” pattuiti tra parti correlate con l’intento di porre in essere arbitraggi fiscali, o ancora il riporto delle perdite su un diverso criterio di imputazione temporale, la congruità dei compensi degli amministratori rispetto al volume di affari della società, ecc.
Esempio – Antieconomicità delle spese di sponsorizzazione e promozione Presunzione
costi per spese di sponsorizzazione e promozione sono antieconomici in quanto sproporzionati in valore assoluto e in misura percentuale rispetto al fatturato conseguito e agli altri costi sostenuti per la gestione della società
Sillogismo
abnorme sproporzione delle spese sostenute per la sponsorizzazione rispetto al fatturato conseguito e agli altri costi sostenuti = comportamento antieconomico e dunque i costi sono indeducibili Le mosse per un’efficace prova contraria ai fini della deducibilità
a) dimostrare la certezza nell’esistenza e l’oggettiva determinabilità nell’ammontare, (ex art. 109, Tuir): ad esempio esibire il contratto di sponsorizzazione; la prova di pagamento del contratto, ecc.
b) dimostrare la competenza (art. 109, Tuir);
c) dimostrare che l’iniziativa economica è inerente (inerenza quantitativa) all’attività di impresa e congrua in base agli obiettivi aziendali: attraverso la presentazione della strategia aziendale presente e futura.
Fonte: Italia Oggi7 del 17 settembre 2012, “Le presunzioni, la prova contraria e la confisca” di Giuseppe Ripa, Simona Canzonetta, Pamela Pennesi