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INTRODUZIONE
Grande sertão: veredas è un’opera che nasce per diventare un classico. Appena pubblicato, nel 1956, è già canone: il successo commerciale è straordinario, a solo un anno dalla pubblicazione è premiato nelle due maggiori città del paese (Prêmio Carmem Dolores Barbosa, di São Paulo e Prêmio Paula Brito, di Rio de Janeiro) e nel 1961 ottiene anche il prestigiosissimo Prêmio Machado de Assis, dell’Instituto Nacional do Livro. È, dunque, un libro che brucia tutte le tappe e assicura immediatamente al suo autore un posto irrevocabile nella lista dei maggiori scrittori della cosiddetta terceira geração modernista (insieme a Clarice Linspector e João Cabral de Melo Neto) e uno ben più importante nel novero dei più grandi esponenti della letteratura brasiliana tout court.
Di quest’opera immensa per mole e per complessità (in quanto contiene in sé una quantità eccezionale di personaggi, storie, informazioni geografiche ed etnografiche, linguaggi) è stato detto tanto e le cose più disparate; la sua chiave di lettura è stata cercata nella storia politica del Brasile, nel pensiero esoterico, nell’estetismo del gioco linguistico fine a se stesso
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Al di là della maggiore o minore pertinenza generale di tali angoli interpretativi, il dato che ne risulta è una straordinaria permeabilità del libro agli sguardi critici
1 I due filoni principali della critica a Grande sertão: veredas sono la lettura esoterico-metafisica e quella che considera il romanzo una trascrizione (simbolica) della realtà storico-politica brasiliana.
Nel primo filone ricordiamo KATHRIN ROSENFIELD, Descaminhos do demo. Tradição e ruptura no Grande sertão: veredas, Rio de Janeiro, Imago; São Paulo, Edusp, 1993; FRANCIS UTÉZA, João Guimarães Rosa: Metafísica do Grande sertão, São Paulo, Edusp, 1994 e HELOÍSA VILHENA DE ARAÚJO, O roteiro de Deus. Dois estudos sobre Guimarães Rosa, São Paulo, Mandarim, 1996. Per il secondo filone, che ha i suoi pionieri in Antônio Cândido (Tese e antítese, São Paulo Cia. Ed.
Nacional, 1964) e Walnice Nogueira Galvão (As formas do falso. Um estudo sobre a ambiguidade no Grande sertão: veredas, São Paulo, Perspectiva, 1972), si rinvia alla bibliografia in fondo al
presente lavoro. Per quanto concerne il terzo filone, l’interpretazione sopra definita un po’
impropriamente “estetista”, si vedano i critici-poeti del Concretismo e, in particolare, AUGUSTO DE CAMPOS, Um lance de ‘dês’ do Grande Sertão; EDUARDO FARIA COUTINHO (Org.), Guimarães Rosa, Rio de Janeiro, INL/Civilização Brasileira, 1983 (Coleção Fortuna Crítica, 6), pp. 321-349.
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più disparati, la sua capacità di adattamento alle più opposte strutture di pensiero.
Di Grande sertão: veredas si può dire tutto e lo si può fare perché il libro stesso ha l’ambizione di dire tutto, di essere un’immensa enciclopedia: un’enciclopedia del sertão senza dubbio, ma, a un livello più ampio, del Brasile intero e, a uno ancora più ampio, del mondo.
Quest’asse sertão-Brasile-mondo non va inteso tanto come un percorso di progressivo allargamento della visuale (una diminuizione dello zoom dalla parte al tutto), quanto piuttosto come un sistema di scatole cinesi in cui la più piccola contiene in sé tutti gli elementi della più grande, di cui non è una parte bensì una riproduzione in scala; in altre parole, lo spazio del romanzo non evade mai i limiti del sertão, eppure dal sertão si vede il Brasile; dal sertão, e nel sertão, si vede il mondo.
Come è possibile che dal luogo prediletto del regionalismo brasiliano, dal luogo
“peculiare” per eccellenza, si veda il mondo? In che termini la periferia più isolata, l’ “eccezione” più imbarazzante per il Brasile del desenvolvimentismo e della retorica dell’Ordem e Progresso, può essere eletta a riproduzione in scala non solo del Brasile, ma del mondo intero?
Tenteremo di rispondere a queste domande. Per farlo cercheremo di inquadrare il capolavoro rosiano nel contesto delle principali autonarrazioni brasiliane, in particolare il lusotropicalismo di Gilberto Freyre. La tesi di fondo che muove questo lavoro è infatti che Grande sertão: veredas sia una geniale traduzione di queste stesse autonarrazioni su un piano contenutistico e formale. Traduzione che – come ogni traduzione che si rispetti – mantiene un certo grado di “infedeltà”, nella misura in cui non si limita a trascrivere un dibattito già esistente, ma lo integra o, per meglio dire, lo problematizza, aggiungendovi nuovi gradi di complessità.
In particolare, analizzeremo la descrizione che Guimarães Rosa dà del sertão
come luogo, parafrasando Mário de Andrade, “senza nessun carattere”, ovvero
luogo ibrido per ecccellenza, difficilmente definibile sia dal punto di vista
geografico (i suoi confini non sono chiari), sia dal punto di vista della fisionomia
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fisico-climatica (il paesaggio passa dal deserto alle veredas più rigogliose), sia dal punto di vista della relazione tra lo spazio stesso e le forme di vita che vi stabiliscono le persone che lo abitano (nomadismo, forme di potere diffuse, conflitto aperto e senza sintesi tra norma ed eccezione, arcaismo e modernità, sfera pubblica e sfera privata). Vedremo come questa descrizione si sposi con il quadro tradizionale di autorappresentazione del Brasile, alla luce degli ormai abusati concetti di transculturalità e meticciato culturale, ma al tempo stesso li decostruisca, ne mostri i lati oscuri e problematici, fornendo un ‘ritratto del Brasile’ che supera la rappresentazione edenica di Gilberto Freyre e gli ottimismi non sempre in buona fede della politica ufficiale.
Il lavoro si articolerà in quattro parti.
Nella prima enunceremo i presupposti teorici che ci muoveranno nel corso delle successive argomentazioni. In particolare, ci serviremo del concetto di semiperiferia, coniato da Immanuel Wallerstein e rielaborato, in ambito lusitanista, da Boaventura Sousa Santos, che lo utilizza per dare ragione del peculiare statuto del colonialismo portoghese e delle relazioni centro/periferia da esso strutturate. Metteremo in rapporto tale concetto con quello già citato di
‘lusotropicalismo’ e ci serviremo di entrambi per enucleare alcuni elementi fondanti dell’autonanarrazione brasiliana e del suo rapporto con un’altra autonarrazione di cui quella del moderno Brasile è senza dubbio l’erede più prossima: quella dell’Impero portoghese, espressione di un colonialismo sui generis, sorretto da un progetto “civilizzatore” improntato su un immmaginario di transcultarilità e permeabilità delle identità nazionali e razziali.
Nella seconda parte analizzeremo la rappresentazione del sertão che emerge dal
romanzo rosiano, alla luce delle teorie illustrate nella prima. Passeremo in
rassegna alcune delle caratteristiche dello spazio fisico in cui si svolge il romanzo
e che lo individuano come spazio semiperiferico. Sul piano strettamente
geografico, ci soffermeremo sulla labilità dei confini del sertão e sulla
compresenza di ambienti e climi differenti, che rendono difficile tracciare una
cartografia dello spazio. Su un piano temporale, analizzeremo l’intreccio tra il
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tempo lineare e progressivo della modernização e un tempo più ciclico e ricorsivo, soffermandoci sui brani che mostrano l’emergere di un conflitto mai risolto tra questi due poli. Infine, studieremo la rappresentazione del potere in Grande sertão, sottolineando gli aspetti che mostrano la permeabilità di confini tra legalità e illegalità, norma ed eccezione, pubblico e privato, istituzioni e criminalità. Analizzeremo, quindi, la descrizione rosiana del sistema jagunço, soffermandoci sulla funzione del personaggio di Zé Bebelo, figura emblematica di tale permeabilità.
Nella terza e nella quarta parte passeremo da un piano strettamente contenutistico a un piano più propriamente formale, nell’intento di dimostrare che il libro Grande sertão: veredas – inteso come prodotto della combinazione di strategie retorico-stilistiche e linguistiche – è una traduzione sul piano estetico dei contenuti da esso stesso enunciati. Esso è, cioè, la traduzione sul piano estetico della realtà del sertão, nelle caratteristiche prima definite e che abbiamo raggruppato nel concetto di ‘semiperiferia’.
Nella terza parte esamineremo i personaggi principali del romanzo (Riobaldo e
Diadorim, cui aggiungeremo il personaggio-non personaggio del diavolo),
cercando di mostrarne la funzione di personificazioni dello spazio semiperiferico
(del sertão), in quanto figure dell’ambiguità. Di Riobaldo analizzeremo il
posizionamento sempre di frontiera: tra casa grande e senzala (in quanto figlio
illegittimo di un proprietario e di una donna povera), tra jaguncismo e proprietà
terriera, tra cultura sertaneja e cultura urbana. Ci soffermeremo, in particolare,
sulla rappresentazione della sua vita come un percorso che lo conduce dal tempo
ciclico, ricorsivo, senza direzione del sertão al tempo lineare, progressivo,
teleologico del Brasile ufficiale. Analizzeremo, poi, lo sdoppiamento del
personaggio in narratore e protagonista e la compresenza di più temporalità
all’interno del suo punto di vista, che oscilla tra quello di chi vive dall’interno la
realtà narrata e chi la guarda (o meglio, la tenta di guardare) dall’esterno, alla
ricerca di una visione razionalizzante. In seguito, ci soffermeremo sulla
caratterizzazione di una figura che non possiamo definire propriamente un
personaggio, anche se svolge un ruolo di presenza costante all’interno dell’opera:
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il diavolo. Prenderemo in esame la sua identità sfuggente, il suo statuto ontologico probelematico e il suo posizionarsi – come Riobaldo – sempre sulla frontiera, negli spazi intermedi tra essere e non essere, Bene e Male; analizzeremo l’atteggiamento ambivalente di Riobaldo nei confronti dell’entità così caratterizata, come ulteriore esempio del tentativo sempre frustato del protagonista di negare l’ambiguità, l’incertezza, il disordine, di “mettere in squadra” un mondo che eccede continuamente la misura che gli si vuole imporre.
Passeremo infine in rassegna il personaggio di Diadorim, mostrando come anche attorno ad esso si formi un campo semantico dell’ambiguità, dovuto non solo al suo genere “duplice”, ma alla funzione destabilizzatrice che la sua figura assume all’interno della vita e del racconto di Riobaldo. Diadorim è il grande incompreso della vita di Robaldo, la falla principale della sua storia, la contraddizione irrisolvibile che mina l’altrimenti lineare percorso di formazione del protagonista, con il quale questi acquista il suo posto all’interno della società.
Nella quarta parte, passeremo all’analisi della configurazione estetica (linguistica e stilistica) generale del romanzo. Studieremo la compresenza di generi, la disposizione anticronologica dell’intreccio e ci soffermeremo sulla tensione continua tra romanzo e estórias. Per fare questo, rileggeremo le opinioni espresse da Guimarães Rosa nella prima prefazione a Tutaméia (dal titolo Aletria e hermenêutica), a proposito del rapporto tra História e estórias, all’interno dell’orizzonte teorico tracciato da Dipesh Chakrabarty nel suo Provincializzare l’Europa
2. Ciò al fine di tentare di dar conto del complesso sistema di interruzioni del filone centrale della narrazione di Grande sertão: veredas, per ripetute interferenze da parte di narrazioni secondarie, aneddoti, leggende e mitologie radicate profondamente nella cultura materiale degli abitanti del sertão. Di Chakrabarthy consideremo la critica mossa allo storicismo della cultura occidentale e la denuncia della sua insufficienza nel dar conto di realtà esterne al contesto europeo. Ciò ci sarà utile per chiarire la funzione specifica svolta dalla tensione tra epica e romanzo di formazione che caratterizza il romanzo e che corre parallela al tentativo, sempre fallito (perché contnuamente interrotto), di ordinare
2 DIPESH CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2004.
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