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(2)L’aumentata rigidità vascolare determina una modificazione della morfologia dell’onda sfigmica arteriosa

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Capitolo 1.Principali fattori di rischio per malattia cerebrovascolare

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Capitolo 1. PRINCIPALI FATTORI DI RISCHIO PER MALATTIA CEREBROVASCOLARE

Oltre alla già citata ipertensione arteriosa altri fattori sono implicati nella genesi della malattia cerebrovascolare.

1.1 Invecchiamento vascolare e arterial stiffness

L’invecchiamento vascolare si caratterizza per le modificazioni strutturali delle pareti arteriose. Normalmente le pareti dei vasi centrali hanno un elevato contenuto di fibre elastiche che le rendono capaci di distendersi sotto la spinta esercitata da ventricolo sinistro. Tali arterie sono anche dette di conduttanza o di capacitanza; di queste la più importante è l’aorta che grazie alla sua elevata distensibilità è in grado di contenere il sangue emesso dal ventricolo durante la sistole (sistolyc run-off) e successivamente di spingerlo in periferia durante la diastole (diastolic run-off), completando la funzione di pompa cardiaca e garantendo in questo modo un flusso continuo ai tessuti.

Per contro le arterie periferiche, che sono vasi di resistenza, sono costituite prevalentemente da fibre di tipo collagene.

All’aumentare dell’età si assiste ad un incremento del deposito e del cross- linking del collagene e alla degenerazione delle fibre elastiche, con progressiva dilatazione ed aumento della rigidità vascolare (Nichols et al, 2005; Safar et el, 2006) (Fig. 3).

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L’aumentata rigidità vascolare determina una modificazione della morfologia dell’onda sfigmica arteriosa. Normalmente l’onda sfigmica incomincia all’inizio dell’eiezione ventricolare sinistra con l’apertura della valvola aortica. In fase proto sistolica la pressione aortica aumenta rapidamente poiché la gittata ventricolare sistolica sinistra entra nell’aorta più velocemente di quanto il sangue non vada in periferia. La componente di ascesa rapida dell’onda sfigmica arteriosa, chiamata branca anacrota, termina a livello del picco di flusso, in seguito al quale la pressione di flusso dell’aorta inizia a scendere sulla branca discendente dell’onda sfigmica (branca catacrota), contemporaneamente al rallentamento dell’eiezione ventricolare.

Lungo la branca discendente è presente un’incisura (incisura dicrota) dovuta ad una transitoria inversione di flusso dalle arterie centrali verso il ventricolo.

In seguito, nella fase diastolica la pressione aortica si riduce con l’ulteriore deflusso ematico nel circolo periferico (Fig. 4).

Fig.3 Alterazioni della struttura vascolare

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9 Fig. 4 Morfologia dell’onda di polso

In condizioni di rigidità vascolare aumenta la velocità con la quale viene raggiunto il picco pressorio sistolico, poichè la distensibilità dei vasi di conduttanza è ridotta e non è più in grado di attutire la forza di espulsione del ventricolo. (Fig.5)

Fig.5 Confronto tra arterie elastiche (giovane) e non (anziano)

Per questo motivo si genera un ritorno precoce dell’onda sfigmica verso il cuore, nella fase di tele-sistole, prima ancora che sia stato raggiunto il picco pressorio, causando un ulteriore aumento della pressione di picco ed

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ostacolando pertanto la gittata cardiaca. Oltre ad un incremento della pressione sistolica si assiste ad un decremento della diastolica dovuta alla riduzione della forza di spinta della pareti dei vasi arteriosi di conduttanza che hanno perso l’elasticità, causando di conseguenza una riduzione della quantità di sangue che raggiunge la periferia (Fig. 6). Ne deriva quindi un incremento della pressione differenziale che rappresenta pertanto un marker di compromissione del sistema arterioso di conduttanza.

Fig. 6 Modificazione dell’onda sfigmica

Il microcircolo è rappresentato da vasi di resistenza che sono le piccole arterie, le arteriole e i capillari. Normalmente il loro compito è quello di convertire la componente pulsatile del flusso in componente continua, assorbendo le pulsazioni provenienti dalle grandi arterie.

Nell’invecchiamento il flusso sanguigno viaggia in “tubi” più rigidi che non sono più in grado di assorbire le pulsazioni tramite vasodilatazione;

pertanto nell’anziano il flusso in periferia si mantiene pulsatile (Fig. 7).

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I circoli che per primi risentono della rigidità arteriosa sono quelli ad elevata resistenza, come il circolo renale e quelle cerebrale. Nel microcircolo cerebrale si osservano lesioni vascolari severe, caratterizzate sia dal danno endoteliale con trombosi, che dal danno a carico della media con edema, emorragia ed infiammazione (Greenberg, 2006; Pantoni et al, 1997; Culle net al, 2005), generando la cosidetta “pulse wave encephalopathy” (Henry Fuegeas et al, 2005). Questi fenomeni hanno aperto molti spunti di ricerca nell’ambito della patologia cerebrovascolare come fattore di rischio di deterioramento cognitivo e di demenza, sia di tipo vascolare che di tipo Alzheimer.

Numerosi studi anatomo-patologici in pazienti con demenza hanno mostrato un’elevata prevalenza di ischemia vascolare sottocorticale, che sembra essere direttamente correlata alla malattia dei piccoli vasi cerebrali, la

“small-vessel-disease” (Burn, 1994).

Fig.7 Modello del sistema arterioso, dal cuore (sinistra) alla circolazione periferica (destra), nel giovane (in alto) e nell’anziano (in basso).

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I circoli che per primi risentono della rigidità arteriosa sono quelli ad elevata resistenza, come il circolo renale e quelle cerebrale. Nel microcircolo cerebrale si osservano lesioni vascolari severe, caratterizzate sia dal danno endoteliale con trombosi, che dal danno a carico della media con edema, emorragia ed infiammazione (Greenberg, 2006; Pantoni et al, 1997; Culle net al, 2005), generando la cosidetta “pulse wave encephalopathy” (Henry Fuegeas et al, 2005). Questi fenomeni hanno aperto molti spunti di ricerca nell’ambito della patologia cerebrovascolare come fattore di rischio di deterioramento cognitivo e di demenza, sia di tipo vascolare che di tipo Alzheimer.

Numerosi studi anatomo-patologici in pazienti con demenza hanno mostrato un’elevata prevalenza di ischemia vascolare sottocorticale, che sembra essere direttamente correlata alla malattia dei piccoli vasi cerebrali, la

“small-vessel-disease” (Burn, 1994).

Fig.7 Modello del sistema arterioso, dal cuore (sinistra) alla circolazione periferica (destra), nel giovane (in alto) e nell’anziano (in basso).

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I circoli che per primi risentono della rigidità arteriosa sono quelli ad elevata resistenza, come il circolo renale e quelle cerebrale. Nel microcircolo cerebrale si osservano lesioni vascolari severe, caratterizzate sia dal danno endoteliale con trombosi, che dal danno a carico della media con edema, emorragia ed infiammazione (Greenberg, 2006; Pantoni et al, 1997; Culle net al, 2005), generando la cosidetta “pulse wave encephalopathy” (Henry Fuegeas et al, 2005). Questi fenomeni hanno aperto molti spunti di ricerca nell’ambito della patologia cerebrovascolare come fattore di rischio di deterioramento cognitivo e di demenza, sia di tipo vascolare che di tipo Alzheimer.

Numerosi studi anatomo-patologici in pazienti con demenza hanno mostrato un’elevata prevalenza di ischemia vascolare sottocorticale, che sembra essere direttamente correlata alla malattia dei piccoli vasi cerebrali, la

“small-vessel-disease” (Burn, 1994).

Fig.7 Modello del sistema arterioso, dal cuore (sinistra) alla circolazione periferica (destra), nel giovane (in alto) e nell’anziano (in basso).

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1.2 Invecchiamento ed ipoperfusione cerebrale.

De la Torre nel 2000 ha formulato l'ipotesi secondo cui l'invecchiamento porta ad una progressiva riduzione del flusso cerebrale raggiungendo una soglia critica di ipoperfusione (CATCH, Critically Attained Threshold of Cerebral Hypoperfusion) che favorirebbe i processi di neurodegenerazione e morte cellulare che portano alla malattia di Alzheimer, tramite prima una disfunzione mitocondriale, seguita da una ridotta ossidazione di glucosio e sintesi di ATP all'interno della cellula, con aumentata processazione della APP, un'aumentata fosforilazione della proteina tau ed una maggior formazione di radicali liberi (Figura 8).

Fig. 8 The Catch Hypothesis

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1.3 Mutazioni del gene per l’Apolipoproteina E, Alzheimer e cerebrovasculopatia.

L’Apolipoproteina E rappresenta uno dei 5 tipi principali di apolipoproteine (componenti proteiche delle lipoproteine plasmatiche) e ha un ruolo critico nella formazione di VLDL e dei chilomicroni, nella interazione con specifici recettori delle lipoproteine e nel mantenimento del trofismo del tessuto nervoso.

Il gene codificante la Apo E è polimorfo con tre alleli; E2, E3 (il più comune, considerato il “normale”) ed E4, ai quali corrispondono 3 isoforme delle proteina, Apo E2, Apo E3 ed Apo E4, la cui struttura e funzione risultano significativamente diverse.

Determinare il genotipo della Apo E significa determinare la combinazione allelica di un individuo; le combinazioni possibili in ordine di frequenza sono:

3/3, 4/3, 3/2, 4/4, 4/2 e 2/2.

Determinare il genotipo della Apolipoproteina E può aiutare nella diagnosi delle forme sporadiche di Alzheimer ad insorgenza tardiva.

L’allele E4 aumenta il rischio individuale di sviluppare demenza di Alzheimer (AD): l’effetto è additivo perché chi ha due copie di E4 ha un rischio ancora maggiore. Inoltre sono state descritte numerose associazioni fra il polimorfismo della Apo E e patologie cardiovascolari:

- In generale l’allele E4 si associa a più elevati livelli di colesterolo e l’allele E2 a livelli più bassi.

- I portatori dell’allele E4 hanno una miglior risposta (in termini di riduzione di LDL-colesterolo) ad una dieta povera di grassi; viceversa i portatori di E2 sono più responsivi ai farmaci ipolipemizzanti.

-L’allele E4 si associa ad un maggior rischio di aterosclerosi.

-L’omozigosi per l’allele E2 può comportare una ridotta clearance

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dei lipidi alimentari e un maggior rischio di malattia cardiovascolare precoce.

Il genotipo Apo E si determina con tecniche di biologia molecolare basate sulla PCR (Polymerase Chain Reaction) ed analisi di restrizione. Anche se il coinvolgimento dell’Apo E 4 nei processi neuropatologici, compresa la AD, è ben documentato ed Apo E 4 è il principale fattore genetico di rischio per AD in molte popolazioni, tuttavia il genotipo dell’ Apolipoproteina E è interpretabile solo nell’ambito della diagnostica predittiva. Il riscontro di allele E4 in un paziente con demenza aumenta la probabilità che la demenza sia dovuta ad AD.

E’ importante notare che non tutte le persone con AD hanno l’allele E4, né tutti coloro che hanno l’allele E4 svilupperanno AD.

1.4 Mutazioni del gene per la metilen-tetraidrofolatoreduttasi

La metilen-tetraidrofolato reduttasi (MTHFR) è un enzima coinvolto nella trasformazione del 5-10 metilen-tetraidrofolato (THF) in 5 metil-THF, la più abbondante forma circolante di acido folico, che serve come donatore di metili per la rimetilazione della omocisteina a metionina, reazione per cui è necessaria la vitamina B12.

Rare mutazioni del gene MTHFR (trasmesse con modalità autosomica recessiva) possono determinare un grave deficit dell’attività di MTHFR correlato a iperomocisteinemia ed elevatissima incidenza (70%) di complicazioni tromboemboliche.

Molto più frequentemente si riscontra una forma più lieve di deficit dell’attività di MTHFR, associata a lieve-moderata elevazione dell’omocisteina ed a termolabilità dell’enzima.

La termolabilità di MTHFR è legata ad una mutazione puntiforme da

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citosina (C) a timina (T) in posizione 677 (C677T), che dà origine ad una sostituzione aminoacidica alanina (A)-valina (V) al residuo 223.

La frequenza degli eterozigoti per questa mutazione in Europa è pari al 30- 40%, mentre gli omozigoti sono il 10-15%. Solo negli omozigoti per MTHFR C677T, in cui l’attività enzimatica è pari al 40-60%, si riscontra una elevazione clinicamente significativa dell’omocisteinemia ed un aumentato rischio di trombosi in presenza di bassi livelli di folati. Un supplemento dietetico di folati ed altre vitamine (B6 e B12, cofattori nel metabolismo della metionina) sembra potere prevenire l’iperomocisteinemia e le possibili complicanze vascolari.

L’eterozigosi per MTHFR C677T, associata ad una attività enzimatica pari al 70% circa, non è correlata ad un aumento significativo del rischio trombotico. In soggetti con altre condizioni predisponenti, tra cui eterozigosi per il fattore V Leiden o la variante PT20210 della protrombina, può aumentare il rischio relativo per tromboembolismo venoso.

1.5 Iperomocisteinemia

L’ iperomocisteinemia è un fattore di rischio accertato di malattia aterosclerotica cardiovascolare, di ictus, di patologia occlusiva arteriosa e di trombosi. Molto probabilmente l’iperomocisteinemia è coinvolta anche nel morbo di Alzheimer e nelle demenze vascolari.

Nell'ottica di un alterazione del metabolismo della metionina, le cause di iperomocisteinemia possono essere diverse: innanzitutto su base genetica (carenze enzimatiche), ma anche su base nutrizionale, endocrina, farmacologica o essere presenti in particolari stati patologici.

Da un punto di vista epidemiologico, quelle nutrizionali, cioè le carenze vitaminiche, sono le più frequenti.

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L'induzione del processo aterogenetico derivante da iperomocisteinemia è determinato dall'alterazione dell'endotelio e delle fibrocellule muscolari lisce, quindi un aumento dell'adesione endoteliale porterà ad un incremento della deposizione di LDL nella parete vasale, con formazione di cellule schiumose.

Inoltre elevati livelli di omocisteina interferiscono con la coagulazione, con effetti protrombotici.

C'è inoltre una iperomocisteinemia età correlata con deficit vitaminico (vit.

B12).

L'espressione del danno da iperomocisteina si espleta in alcuni passaggi consequenziali:

- addensamento dell'intima

- aumento del turnover piastrinico e dell'attivazione piastrinica - disfunzione endoteliale

- attivazione dei leucociti - ossidazione dell'LDL

- aumento della formazione di cellule schiumose per deposizione lipidica nella parete vasale

- proliferazione delle fibrocellule muscolari lisce.

L'omocisteina forma aggregati con le LDL che, catturati dai macrofagi nella parete vasale, li trasformano in cellule schiumose, le quali a loro volta generano radicali liberi. Questi ultimi promuovono l'ossidazione dell'LDL, l'aggregazione piastrinica e l'adesione dei monociti all'endotelio. La proliferazione delle fibrocellule muscolari lisce invece è direttamente collegata con la diapedesi e la chemiotassi di neutrofili e monociti. Inoltre l'omocisteina agisce anche sulla reazione da protrombina a trombina e quindi sulla formazione di fibrina, favorendo lo status coagulante.

Negli ultimi anni si vanno accumulando sempre maggiori evidenze scientifiche su come livelli clinicamente aumentati di omocisteina

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rappresentino un nuovo fattore indipendente di rischio cardiovascolare che si può affiancare agli altri fattori di rischio tradizionali o che può potenziarne gli effetti deleteri sulla parete arteriosa.

L’omocisteina sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione di acido nitrico da parte dell’endotelio, determinando iperplasia delle cellule muscolari lisce e aumentando la produzione di radicali liberi con conseguente danno ossidativo e perossidazione lipidica, nonché interferendo con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla trombosi.

L’iperomocisteinemia è un’anomalia metabolica presente in un individuo su settanta. Inoltre più di un terzo dei pazienti con lesioni aterosclerotiche presenta un eccesso di omocisteina nel plasma.

La prevalenza di iperomocisteinemia in pazienti con stroke varia dal 19 al 42%. Tutto ciò rende sempre più necessario raggiungere una prova certa sul fatto che la correzione del difetto metabolico con la supplementazione vitaminica sia di reale necessità nella prevenzione dell’aterosclerosi.

Nonostante ciò, la maggioranza degli esperti afferma che è sempre opportuno correggere l’iperomocisteinemia con la somministrazione di acido folico e vitamina B6 e B12, in quanto si tratta comunque di un trattamento innocuo e di bassissimo costo.

Elevati livelli di omocisteina nel sangue possono predire un rischio doppio rispetto al normale di sviluppare il morbo di Alzheimer; tuttavia per poter stabilire se gli elevati livelli di omocisteina precedono l'esordio di demenza o sono il risultato di deficienze nutrizionali e vitaminiche associate alla demenza, è necessario disporre di ulteriori studi (Seshadri et al, 2002).

1.6 Colesterolo

I dati riguardanti la relazione fra dislipidemia e funzioni cognitive sono invece contrastanti (Stampfer, 2006). L’ipercolesterolemia in età adulta è

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considerata un fattore di rischio per sviluppo di deterioramento cognitivo e demenza (Kivipelto et al, 2001), mentre il riscontro di elevati livelli di colesterolemia nella terza età sembrerebbe essere protettivo rispetto allo sviluppo di demenza (Mielke, 2005).

Anche l’associazione fra peso corporeo e demenza potrebbe essere “tempo- dipendente”: l’obesità in età adulta è stata chiaramente associata a demenza, mentre la relazione fra peso corporeo e demenza in soggetti anziani resta ancora da chiarire (White et al, 1998).

1.7 Glicemia

Il diabete è fattore di rischio sia per demenza vascolare sia per demenza di Alzheimer. Il principale meccanismo biologico sottostante è determinato dalla microangiopatia diabetica. Il diabete è stato associato a deterioramento delle funzioni cognitive sia in studi di tipo trasversale che in studi longitudinali (Xu et al, 2004) e tale associazione è supportata da studi che hanno investigato i meccanismi biologici sottostanti tale ipotesi (Biessels et al, 2006).

1.8 Valori sierici di IGF-1 e demenza di Alzheimer

L’Insuline-like Growth Factor-1 (IGF-1) o somatomedina è un ormone proteico con struttura molecolare simile all’insulina. Ha un ruolo fondamentale nei processi di accrescimento del bambino e mantiene effetti anabolici anche nell’adulto. E’ prodotto a livello epatico sotto stimolo del GH (somatotropina) ma anche nei condrociti, nei fibroblasti, e in molti altri tessuti ed è fattore di crescita per cellule muscolari,epatiche, renali, ossee, ematiche, e per neuroni. Promuove la differenziazione e la proliferazione cellulare e media l’azione del GH. Non è prodotto con ritmo circadiano ma a valori

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la pubertà per poi decrescere progressivamente nell’età adulta e nella terza età. E’ deficitario nelle epatopatie, nel diabete, in alcune forme congenite di nanismo (S. Larson).

Risultati di diversi studi sia sull’uomo sia in modelli animali hanno evidenziato che i valori sierici dell’ Insuline-like Growth Factor-1 (IGF-1) diminuiscono con l’avanzare dell’età e possono rappresentare un fattore di rischio età dipendente per lo sviluppo di demenza, in particolare di tipo Alzheimer. Alcune evidenze mostrano che IGF-1 è coinvolto nella regolazione dei livelli di fosforilazione della proteina tau (Quevedo et al, 2000), e che stimola la clearance della beta-amiloide, specialmente nell’ippocampo (Carro et al, 2002).

L’IGF-1 presenta inoltre un ruolo neurotrofico e di neuroprotezione attraverso diversi meccanismi: modula la crescita, la sopravvivenza e la plasticità delle cellule neuronali inducendo la sintesi del BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor) (Leibrok et al 1989) e stimola il rilascio di acetilcolina dall’ippocampo, risultando quindi coinvolto anche nei processi di immagazzinamento dei ricordi.

1.9 Fattori di rischio e protettivi legati alle condizioni ambientali e allo stile di vita.

E’ noto come l’età sia uno dei fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di demenza sia questa di tipo vascolare o di tipo Alzheimer. Inoltre come già sottolineato, l’età è un importante fattore di rischio per comorbilità ed in particolare per ipertensione, ipercolesterolemia, sviluppo di diabete.

Se sull’invecchiamento ancora poco si può agire, è invece possibile fare molto sullo stile di vita. Infatti abitudini di vita scorrette favoriscono l’insorgenza di malattie degenerative e vascolari. In particolare il fumo, una

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bassa scolarità, fattori socio-economici sfavorevoli, l’obesità, una ridotta socializzazione, un pensionamento precoce,una vita sedentaria sono fattori di rischio per demenza di Alzheimer e vascolare (Fratiglioni et al, 2004).

Infine un ruolo protettivo sullo sviluppo di demenza è attribuito all’attività fisica (Moonen et al, 2008)

Poiché nella pratica clinica i fattori di rischio vascolare tendono a presentarsi insieme, è emerso negli ultimi anni un crescente interesse sul potenziale ruolo dell’aggregazione di questi ultimi nei confronti del deterioramento cognitivo. Infatti, in studi epidemiologici di tipo longitudinale è stato descritto un effetto additivo di obesità, ipertensione, ipercolesterolemia sul rischio di demenza, ed è stato ipotizzato che la loro presenza concomitante potesse rivestire un ruolo di interesse nella patogenesi della neurodegenerazione e della demenza (Skoog, 2003; Budge et al, 2002). Gli studi effettuati dimostrano chiaramente che il rischio totale di entrare in una condizione di demenza non è dato dalla semplice somma dei fattori di rischio ma piuttosto da una complessa interazione tra questi fattori, e che alcuni di questi fattori possono entrare in azione solo in presenza di altri.

1.10 Ipertensione, invecchiamento ed equilibrio

Come è noto, il deterioramento dell’equilibrio è legato all’età ed è un fattore di rischio di caduta. Le cadute accidentali nella popolazione anziana non solo causano deficit e peggioramento della mobilità della persona, ma complicano la gestione sanitaria geriatrica e ne accrescono i costi.

Instabilità, vertigini e capogiri sono sintomi che ricorrono più frequentemente nella popolazione anziana ipertesa rispetto ai pazienti non

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ipertesi e correlano positivamente con il genere femminile, l’età e i valori di pressione sistolica (Bulpitt et al, 1999). Negli ipertesi vertigini e instabilità comportano un rischio aumentato di caduta.

L’ipertensione arteriosa ha effetto negativo sull’equilibrio a causa della lesione anatomica a carico dei piccoli vasi nelle specifiche aree funzionali legate al mantenimento dell’equilibrio. A ciò si aggiunge l’effetto della terapia antipertensiva che può causare repentine riduzioni del flusso sanguigno che comportano una disregolazione del controllo posturale: molti autori hanno mostrato, infatti, che le crisi ipotensive danneggiano il sistema cocleo-vestibolare con conseguente tinnito, vertigini e perdita dell’udito (Borghi et al, 2006; Pirodda et al 2004).

Dal punto di vista anatomico il sistema extrapiramidale è centrale nel controllo posturale.

I riflessi posturali che stanno alla base del mantenimento della stazione eretta sono attività motorie più complesse rispetto a quelle legate alla pura attività dei circuiti spinali: non sono, infatti, presenti alla nascita e richiedono un’integrazione continua con le fonti sensoriali. La possibilità di rimanere in stazione eretta si sviluppa intorno all’anno di vita ed il controllo migliora nel tempo fino ad un massimo tra i 15 ed i 50 anni per poi peggiorare gradualmente.

Per il controllo posturale sono di rilievo diverse aree corticali, in particolare il lobo frontale, la regione prefrontale e la regione precentrale che comprende l’area motoria primaria (area 4 della mappa di Brodmann), che ha il ruolo di iniziare il movimento ma non di programmarlo, e l’area motoria secondaria, situata in corrispondenza degli opercoli frontale e parietale, a livello dell’area delle aree somestesiche primaria e secondaria, la cui stimolazione determina il “desiderio” di compiere un determinato movimento.

L’area premotoria (aree 6 e 8), situata a livello delle porzioni posteriori delle circonvoluzioni frontali superiore e media ha un ruolo preminente nella

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preparazione dei muscoli posturali per l’inizio del movimento e nell’orientamento del corpo e del braccio verso una specifica direzione, proietta alle regioni del tronco dell’encefalo e del midollo spinale, attivando gruppi muscolari e articolazioni, controlla quindi i muscoli prossimali e assiali, ad es. del tronco e delle spalle e riceve dalla corteccia parietale informazioni rilevanti sull’orientamento spaziale .

Le aree somestesiche associative (area 5-7 e parte della 40) situate a livello della circonvoluzione parietale superiore e parte di quella inferiore, consentono una rappresentazione dello schema corporeo, essendo in grado di elaborare in ogni momento la rappresentazione spaziale dei vari segmenti corporei. Elaborano inoltre i segnali sensitivi somatici e li integrano con quelli visivi e acustici.

Da questa breve descrizione delle strutture implicate nel mantenimento dell’equilibrio si evince la complessità di questa funzione influenzata anche dalle capacità cognitive. Una concezione ormai confermata è che con l’età si abbia una graduale riduzione dei riflessi e delle performance a causa di un calo dei mezzi di processazione che sono fondamentali per i processi cognitivi (Bashore, 1990; Salthouse, 1988). I mezzi di processazione cerebrale fanno capo ai paradigmi dell’attenzione-divisa, infatti si osserva che i soggetti anziani trovano maggiori difficoltà quando devono compiere due compiti simultaneamente (Greenwood et al, 1997).

Questa complessa organizzazione risente del danno cerebrovascolare determinato da ipertensione con conseguente sofferenza di arteriole intraparenchimali, leucoaraiosi, lesioni nei nuclei della base ed interruzione di questi circuiti.

Alcuni studi hanno esaminato le possibili relazioni tra le funzioni posturali e quelle cognitive (Holtzer et al, 2006). In altre parole il compito posturale, può influenzare la buona riuscita del compito cognitivo stesso, mentre un compito cognitivo può interferire sui parametri di efficienza del controllo

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posturale. Possibili mediatori di questi effetti sono: l’attenzione nei confronti dell’equilibrio, il tipo di stimolo e la scelta dei parametri usati per lo studio dell’equilibrio nonché la difficoltà del compito posturale.

Da una revisione del 2004 si evince come gli anziani affetti da AD mostrino una riduzione della velocità del cammino e della lunghezza del passo rispetto ai soggetti sani; questa riduzione diventa ancora più evidente nei pazienti affetti da demenza vascolare (Van Iersel et al, 2004).

I risultati di questi studi mostrano come l'inefficienza delle risorse centrali attentive nella demenza si rifletta sul controllo posturale dinamico.

Con l’età inoltre acuità visiva, contrasto, capacità d’accomodazione e la percezione della profondità, il controllo dell’equilibrio e l’abilità nell’evitare l’ostacolo peggiorano sensibilmente e comportano quindi un’errata interpretazione delle distanze e dello spazio.

Con l’aumentare dell’età si verifica anche una perdita di funzionalità dell’apparato vestibolare con conseguente difficoltà alla postura e alla deambulazione. Anche la massa muscolare diminuisce considerevolmente tra i 20 e gli 80 anni. L’anziano, quindi, rispetto all’adulto possiede un aumentato rischio di caduta o di lesione in senso generale, a causa della ridotta velocità e forza di contrazione muscolare. La capacità di reazione veloce e appropriata è inequivocabilmente importante per il mantenimento dell’equilibrio e per la prevenzione delle cadute. Si verifica un progressivo aumento del tempo di reazione dai 20 agli 80 anni, con un gap totale del 25% che cresce ulteriormente durante l’esecuzione di compiti cognitivi. (Fozard et al, 1994)

Nell’anziano, la somma di queste alterazioni anatomo-fisiologiche si concretizza con alterazioni dell’equilibrio e del passo: decresce, ovviamente, la capacità di mantenere la stazione eretta, con piccoli e costanti ondeggiamenti che spostano il soggetto dal centro di posizione di massa, definite nel complesso oscillazioni posturali. La quantificazione dell’oscillazione posturale dimostra che queste sono maggiori nell’anziano

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che ha alle spalle una storia di cadute frequenti, assumendo così il ruolo di fattore di rischio di caduta nell’anziano. Non solo l’equilibrio statico, ma anche la deambulazione subisce modifiche, tra cui una riduzione del 15%

della velocità di marcia, la presenza di stazione doppia che permette, una minor lunghezza del passo e una mobilità articolare alterata che si manifesta con riduzione della flessione plantare della caviglia.

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