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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO PRIMO

PROFILI EPISTEMOLOGICI DELLA PROVA IN GENERALE. LA VERITA' GIUDIZIALE E LA CONCEZIONE DIALETTICA DELLA PROVA.

SOMMARIO: 1. Tante verità, altrettanti processi – 1.1 La

verità “materiale” e “giudiziale”, la concezione «dimostrativa» e «argomentativa» della prova, l'ordine «asimmetrico» e «isonomico» del processo. – 1.2 La «concezione dialettica della prova» come sintesi delle concezioni dimostrativa e argomentativa. – 2. Anzi, una sola

verità. – 3. Modelli di conoscenza e modelli processuali. – 4. Verso un aggiornamento della contrapposizione tra modelli processuali.

1. Tante verità, altrettanti processi.

L'elemento teleologico della ricerca della verità costituisce da sempre un punto centrale del dibattito sugli scopi istituzionali del processo. Come afferma Michele Taruffo, «la verità è il Nord, ossia il punto di riferimento che orienta la direzione del viaggio»1; quindi la verità rappresenta la bussola che il percorso del processo deve seguire, non potendo dirsi “giusto” un processo improntato sulla menzogna2. E tuttavia, nel corso della nostra analisi vedremo come la bussola, ad un certo punto della nostra storia processuale, cominciò a indicare una direzione sbagliata: lo scopo della ricerca della verità, invece di guidare il processo verso una ricostruzione completa e attendibile, lo ingannò 1 M. Taruffo, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell'oltre ogni ragionevole

dubbio), Criminalia, 2009, p. 317.

2 Come nota G. Ubertis: «Il giudizio di verità, concernente la ricostruzione del fatto costituente il “caso giudiziario”, infatti, emerge in ambito processuale quale fondamento indefettibile per l'emanazione di una decisione giusta», Profili di Epistemologia Giudiziaria, in G. Ubertis (diretta da), Collana di Epistemologia Giudiziaria, Milano, Giuffrè, 2015, p.4. Vedi, inoltre, le notazioni circa il ruolo della verità all'interno del processo svolte da M. Taruffo in Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio), Criminalia, 2009, pp. 313 ss.

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conducendolo verso l'errore1. Lo stesso legislatore del 1989, avvedutosi della pericolosità insita a tale concetto, ha evitato di inserire «una norma analoga a quelle contenute nell'art. 299 del codice del 1930, nell'art. 190 comma 1del codice del 1913 e dell'art. 84 comma 2 del codice del 1865, che invitavano il giudice a compiere tutti gli atti necessari all'accertamento della verità»2. Quindi, il nuovo codice ha spesso preferito riferirsi, piuttosto che all'accertamento di una “verità scomoda”, all'accertamento dei fatti3.

Si tratta principalmente di chiedersi a quale verità il processo dovrebbe ambire.

1.1 La verità “materiale” e “giudiziale”, la concezione «dimostrativa» e «argomentativa» della prova, l'ordine «asimmetrico» e «isonomico» del processo.

Possiamo individuare una macro distinzione tra due concezioni di verità: quella “materiale” e quella “giudiziale”.

La “verità materiale” rappresenta una entità «oggettiva, immutabile e precedente al processo»4; questa, in quanto elemento di conoscenza oggettivo, può essere al meglio ricostruita attraverso il cumulo dei poteri in capo a un unico soggetto: all'indagatore cui viene attribuito il ruolo di ridisegnare un dato materiale, vengono attribuiti tutti i poteri che gli consentano di pervenire a tale risultato, a discapito di qualunque altra esigenza e di qualsiasi ostacolo.

A tale tipo di verità, dunque, fa capo una «concezione dimostrativa della prova e un ordine asimmetrico del processo»5, alla quale si contrappone la «concezione argomentativa della prova» e «l'ordine isonomico del

1 V. infra, Cap. II, Parte I, par. III.

2 F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2013, vol. 1, p. 608.

3 Così, tra gli altri, l'art.189 c.p.p.

4 G. Fiandaca, G. Di Chiara Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente garantita, Napoli, Jovene, 2003, p. 337.

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processo»1. Attraverso queste categorie della prova e del sistema processuale – che andremo subito ad approfondire – Alessandro Giuliani ha definito la contrapposizione tra retorica e logica della prova.

In primo luogo, nella storia dei modelli processuali viene individuato l'ordine cosiddetto isonomico, il cui archetipo è riconosciuto nell'ordo

iudiciarius medievale2. All'interno di questo sistema vale la concezione della «prova come argomentum»3 e quindi basata sulla retorica e sulla persuasione, e il contraddittorio è l'unico strumento di ricerca della conoscenza. Il giudice in tale sistema è «neutrale ma non passivo»4: «al giudice non è consentita alcuna supplenza nella ricostruzione del fatto»5, tuttavia egli svolge il ruolo di garantire l'eguaglianza delle parti che partecipano al contraddittorio, la quale costituisce a sua volta una

conditio sine qua non affinché la conoscenza venga ottenuta

correttamente6.

La concezione argomentativa della prova, legata alla concezione della «conoscenza probabile»7 di stampo medievale, «riconosceva al giudizio sull'agire umano un ineludibile riferimento alle categorie della verosimiglianza, dell'opinabilità, dell'ipoteticità»8; infatti, all'indagine scientifica sugli elementi empirici si preferisce una ricerca della verità basata sullo scontro dialettico delle posizioni processuali, di sorta che 1 A. Giuliani, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: «nuova retorica» e teoria del processo, Sociologia del Diritto, 1986, pp. 81-90; Id., Prova in generale: a) Filosofia del diritto, in Enciclopedia del Diritto, XXXVII, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 518 e ss.

2 A. Giuliani, Prova in generale, cit., p. 521. V anche A Bargi: «la procedura o meglio l'ordo iudiciarius, quale strumento operativo del giudice, nasce dal confronto tra avvocati e giudici connotato dal carattere argomentativo e giustificativo»; Id. Cultura del processo e concezione della prova, in La prova penale, A. Gaito (a cura di), Wolters Kluver Italia, 2008, p. 25.

3 A. Giuliani, Prova in generale, cit., p. 525. 4 A. Giuliani, Ordine isonomico, cit., p. 86.

5 A. Bargi, Cultura del processo e concezione della prova, cit., p. 26.

6 «L'automaticità della contrapposizione delle tesi non garantisce in nessun caso la ricerca della verità: bisogna correggere le ineguaglianze sostanziali nel contraddittorio»; così A. Giuliani, Prova in generale, cit., p. 524.

7 A. Giuliani, Problemi metodologici nello studio del diritto processuale comparato, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1962, p. 652.

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l'unica verità ottenibile è una verità probabile: come afferma Alessandro Giuliani «la verità – ricercata nella situazione agonistica e competitiva del processo – è una verità probabile, concepita in opposizione alla verità necessaria, propria delle scienze esatte»1. La ricerca della verità probabile si affida alla «socievolezza della ragione», ovvero «l'intuizione che – nel dominio del probabile – allo sforzo combinato delle prospettive, dei 'punti di vista' non si può sostituire una ragione individuale. La contraddittorietà è un elemento costitutivo della ricerca nel dominio del probabile»2.

L'oggetto dell'accertamento giudiziale riguarda la probabilità di un fatto concreto, calato nella realtà umana: il fatto non viene ricercato nella sua datità materiale e oggettiva all'interno di categorie di fatti simili, ma viene individuato in base ai suoi «elementi circostanziali»3; in altre parole, esso viene contestualizzato, individuato nella sua dimensione locale e temporale al fine di applicare ad esso la fattispecie legislativa. Dunque «il fatto, come evento storico individuato nel tempo e nello spazio, assume piuttosto l'aspetto di una “ipotesi argomentativa”, di una

questione controversa»4.

La verità cui tale sistema processuale ambisce è una verità diversa da quella “materiale”, e viene individuata nella verità cosiddetta “giudiziale”5. La verità “giudiziale” è caratterizzata da una struttura 1 A. Giuliani, Problemi metodologici nello studio del diritto processuale comparato,

cit., p. 657.

2 A. Giuliani, Problemi metodologici nello studio del diritto processuale comparato, cit., p. 660.

3 A. Giuliani, Problemi metodologici nello studio del diritto processuale comparato, cit., p. 654.

4 Ibidem.

5 Cfr P. Rivello, il quale vede la verità giudiziale come «(necessariamente modellata nel rispetto dei diversi sistemi processuali ai quali viene riferita, e delle differenti regole giuridiche ivi delineate) e dunque alla verità ottenuta non “ a qualsiasi costo”, a prescindere da ogni valutazione di carattere etico, (inglobando in tal modo tutte le possibili informazioni disponibili), ma nel rispetto delle regole poste al riguardo dal legislatore», P. Rivello, Il processo penale di fronte alle problematiche dell'età contemporanea. Logiche processuali e paradigmi scientifici, p.9 in A. M. Gambino (diretto da) Collana dell'Università Europea di Roma, Torino, Giappichelli, 2010. L'autore rinvia allo scritto di F. Carnelutti, La prova civile. Parte

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pratica e argomentativa1: essa si crea attraverso lo scontro, puntualmente regolato, di parti poste in posizione paritaria e portatrici di interessi contrastanti.

L'ordine asimmetrico del processo – il cui referente storico viene ricondotto alla legislazione prussiana del XVIII secolo – presuppone invece che il giudice o una delle parti abbia una posizione privilegiata, e «pretende di garantire rapidamente, e in ogni caso, la decisione del fatto incerto: il contraddittorio appare un ingombrante ostacolo alla ricerca della verità»2; infatti, la concezione dimostrativa della prova consente la ricostruzione certa della verità empirica, «una come la logica»3, attraverso l'uso del ragionamento del giudice, rigidamente impostato dal legislatore; non vi è spazio per il dubbio o per l'approssimazione, quella che si ambisce a ricostruire nel processo non è una verità probabile ma una verità materiale.

Il passaggio da un ordine isonomico e retorico del processo a uno asimmetrico e logico viene storicamente individuato a cavallo del XIII secolo, in concomitanza con la fase del declino della retorica e dell'affermazione della logica nel processo: «il diritto probatorio risente dei nuovi orientamenti, che determinano il passaggio da una concezione argomentativa ad una concezione dimostrativa della prova»4. Quello che si afferma a partire da quel momento è un processo in cui il ragionamento del giudice viene assimilato a quello dello scienziato, fondandosi su un «rigoroso meccanismo logico, basato essenzialmente sugli atti scritti»5, il cui valore è predeterminato dal legislatore. La ricostruzione giudiziale si fonda, dunque, sugli apporti documentali, facilitando un «atteggiamento tecnico, meccanico, formalistico»; inoltre,

generale (Il concetto giuridico della prova), Roma, 1915. p. 10. 1 G. Fiandaca, G Di Chiara, Una introduzione, cit., p. 338. 2 A. Giuliani, Prova in generale, cit., p. 526.

3 A. Giuliani, Ordine isonomico e ordine asimmetrico, cit., p. 87. 4 A. Giuliani, Prova in generale, cit., p. 537

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il documento permette una «fisicizzazione, una materializzazione del fatto, il quale si presenta nella sua 'totalità' come qualcosa di dato, di esterno al lavoro di ricerca»1. Il fatto viene quindi decontestualizzato per essere ricondotto in categorie di fatti, «pertanto la sua probatorietà è basata sulla idea del normale e del probabile dal punto di vista statistico»2; allora, alla probabilità soggettiva, legata allo specifico caso concreto e alle sue caratteristiche, si sostituisce una probabilità oggettiva, relativa all'osservazione statistica degli eventi propria delle leggi di natura, «offuscandosi l'unicità di esso»3.

Anche il probandum cambia: esso «era inteso alla stregua non più di una questione controversa, ma di un “fatto”, riconducibile all'interno di una determinata classe e dotato di “una esistenza reale”»4. Dunque, alla ricerca di una “verità giudiziale”, probabile e fondata sulla fiducia nella ragione, si sostituisce la ricerca di una “verità materiale” ovvero «riconducibile ad un fatto empirico»5 e ricostruita dal giudice, «secondo criteri logico-scientifici»6. Infine, la nuova epistemologia esclude il coinvolgimento dialettico delle parti nell'accertamento probatorio, in quanto «il monismo della verità e la fiducia in una verità oggettiva, assoluta e precostituita, trovano nel giudice e nella sua razionalità soggettiva, formale e calcolante il modo più sicuro di venire alla luce in un'ottica scientifica e matematica»7; inoltre, l'equiparazione della ricerca del giudice a quella dello scienziato «comporta la legittimazione della

1 A. Giuliani, Problemi metodologici nello studio del diritto processuale comparato, cit., p. 654.

2 Ibidem.

3 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 11.

4 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 11. Alla verità materiale si affianca, ma non si contrappone, una «verità formale» la quale non nega

l'asimmetria del processo ma nega piuttosto l'utilità del fine dell'accertamento della verità assoluta; il processo, se si intende portare a compimento i valori del sistema asimmetrico della certezza e celerità, dovrebbe “accontentarsi” di dirimere la lite che lo riguarda. Cfr A. Giuiliani, Ordine isonomico ed ordine asimmetrico, cit., p. 89; Id, Prova in generale, cit., p.526-527.

5 A. Bargi, Cultura del processo e concezione della prova, cit., p. 28. 6 Ibidem.

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teoria della prova scientifica mediante l'equiparazione della scienza giuridica alle scienze naturali»1.

Come vedremo2, anche nel processo moderno, l'impiego di strumenti e conoscenze scientifiche e la fiducia nella unicità e infallibilità della scienza ha determinato la convinzione di poter assimilare la conoscenza processuale alla ricostruzione della verità materiale, del fatto inteso come evento scientificamente inquadrabile. Tuttavia, il falsificazionismo popperiano consentirà di abbandonare l'ottica di una ricerca della verità oggettiva e incontrovertibile in campo scientifico, determinando un maggiore scetticismo anche in campo processuale circa la possibilità di pervenire ad una verità materiale attraverso le elucubrazioni del giudice. 1.2 La «concezione dialettica della prova» come sintesi delle concezioni dimostrativa e argomentativa.

La concezione dialettica della prova rappresenta, secondo Giulio Ubertis, una sintesi moderna delle concezioni argomentativa e dimostrativa sopra esposte. Secondo l'Autore, infatti, la scienza giuridico-processuale attuale è chiamata a conciliare «l'utilità derivante in ambito giudiziario dallo sviluppo scientifico senza disconoscere l'ineliminabilità metodologica della controversia argomentativa»3.

La “concezione dialettica della prova” consente di rivalutare il momento «argomentativo retorico»4 del processo, messo in disparte dalla ricerca scientifica di elementi ricostruttivi di un dato fattuale, oggettivo. Questa impostazione, infatti, mette in evidenza come «di un fatto non possa essere compiuto un “accertamento” immediato nella sua “datità”. Di esso, piuttosto, viene ottenuta una definitiva ricostruzione (...) attraverso la verifica delle contrapposte tesi patrocinate dalle parti»5; perciò, questa impostazione valorizza l'influenza degli apporti di tutti i soggetti

1 A. Bargi, Cultura del processo e concezione della prova, cit., p. 37. 2 V. infra, Capitolo II, Parte I, par. 1 e 2.

3 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 12. 4 G. Fiandaca, G. DI Chiara, Una introduzione, cit., p. 59. 5 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 56.

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sull'esito del processo, di modo che la decisione giudiziale «scaturisce non da una una passiva recezione delle risultanze istruttorie da parte del giudice, ma da un'attività di partecipazione di tutti i soggetti processuali»1.

Tale concezione viene suddivisa dall'Autore in due profili, quello “esterno” e quello “interno”2: la dialettica esterna caratterizza la fenomenologia del procedimento probatorio, il quale deve avvenire garantendo la possibilità per le parti di intervenire, di agire, di formulare obiezioni alle azioni altrui. Il secondo profilo, invece, riguarda un procedimento dialogico che avviene all'interno della mente del giudice, «il quale determina il proprio convincimento finale attraverso un succedersi dialettico di decisioni intermedie»3. La dialettica probatoria, dunque, presuppone uno sviluppo della conoscenza giudiziale nelle varie fasi processuali, attraverso gli elementi probatori di volta in volta addotti dalle parti, ed elaborati dal giudice.

In altre parole, il processo come actus trius personarum costituisce il luogo di ricostruzione del fatto ma tale ricostruzione non è volta al fine di riassemblare il fatto storico in quanto tale, ma risulta strumentale al fine di «applicare la legge nel caso concreto»4 e viene ottenuta mediante la compartecipazione delle parti e del giudice.

La concezione dialettica della prova si concilia anche il momento più propriamente dimostrativo dell'utilizzo dei saperi scientifici e tecnologici; essa non esclude che possano essere utilizzate conoscenze scientifiche ed empiriche ai fini probatori, tuttavia queste devono essere collocate all'interno del «contesto selettivo-pragmatico-teleologico, giuridicamente orientato, in cui si svolge la vicenda processuale, perché l'”argomentazione” si trova sempre a dover prima guidare e poi vagliare

1 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 56. 2 Ibidem.

3 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 58. 4 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 2.

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l'empiria»1.

La conoscenza scientifica, insomma, può essere utilizzata in sede processuale al fine di giungere a una ricostruzione del fatto più attendibile possibile; ma per far ciò essa deve conformarsi allo statuto epistemologico del processo, ovvero alle sue regole di conoscenza e di giudizio. Dunque, le conoscenze scientifiche devono essere utilizzate in maniera conforme all'obiettivo della ricostruzione di una “verità giudiziale”, nella quale il fine del processo non è costituito dall'accertamento del fatto in quanto tale, ma in quanto ricostruito per mezzo dello scontro dialettico delle tesi addotte dalle parti.

2 Anzi, una sola verità.

Tuttavia, l'ambizione di una “verità giudiziale” minore rispetto a quella materiale, assoluta, pare ad alcuni riduttiva.

Molti autori ammettono la debolezza dell'accertamento giudiziario volto alla ricostruzione di una verità giudiziale, in quanto quello che si vuole ricostruire è un evento storico passato, che può essere ricostruito dal giudice solo attraverso un ragionamento induttivo-probabilistico il cui termine di verificazione risulta disperso nelle nebbie del tempo2. Aderendo ad una concezione cosiddetta corrispondentista della verità, Paolo Ferrua riconduce tale concetto a quello di corrispondenza delle enunciazioni probatorie e giudiziarie alla realtà dei fatti: la «verità dell'enunciato storico, in cui si esprime la componente fattuale della sentenza, implica, dunque, un rapporto di corrispondenza tra un'entità linguistica (l'enunciato stesso) e un'entità extralinguistica (il “fatto”

1 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 60.

2 «Egli (il giudice, n.d.r) procede “a ritroso” nel ricostruire e nell'asserire l'esistenza di un fatto storico appartenente al passato (“lost facts”), non più riproducibile nell'esperienza attuale, di cui segue le tracce mediante la verifica delle prove secondo procedure cognitive di tipo probabilistico». G. Canzio, La valutazione della prova scientifica fra verità processuale e ragionevole dubbio, Archivio Penale, 2012, n.3, p. 891.

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oggetto del giudizio”)»1. Ma la ricostruzione probatoria è necessariamente probabilistica in quanto «questa linea “referenziale” che congiunge le due entità – l'enunciato e ciò su cui esso verte – è, nel processo come nella storia, una linea inconoscibile, essendo ormai scomparso il referente stesso, vale a dire il fatto del passato che fu, ma oggi non è più, reale»2. Anche Michele Taruffo adotta una concezione corrispondentista della verità, cioè «un enunciato descrittivo è vero o non è vero se corrisponde o non corrisponde alla realtà che descrive»; e tuttavia, poco dopo ammette che «nel processo penale si può parlare solo di verità relative, fondate su informazioni che le prove hanno reso disponibili»3. Come visto, anche Ubertis ammette che il processo debba ambire non a una datità assoluta, «ciò che è senz'altro», ma ad una conoscenza giudiziaria che sia guidata dal legislatore. Tuttavia, arriva a queste conclusioni partendo da premesse del tutto opposte rispetto a quelle degli Autori appena citati. Secondo Giulio Ubertis la prova della verità si riferisce non ai fatti, ma agli enunciati4: l'attributo della verità non può essere applicato al fatto - del quale si può affermare piuttosto l'esistenza o l'inesistenza – ma a un asserto, e in particolare nel processo penale tale attributo deve essere riferito, attraverso la ricostruzione probatoria, agli «enunciati fattuali integranti il thema probandum»5. Alcune voci autorevoli hanno contestato questa ottica rassegnata della suddivisione tra una verità giudiziale necessariamente relativa, minore, e

1 P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria, cit., p. 8. 2 P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria, cit., p. 9.

3 M. Taruffo, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio), cit., 2009, p. 317.

4 G. Ubertis sostiene infatti che «anche per il processo tutto avviene all'interno di un universo linguistico, essendo necessario per la decisione riscontrare o no la coincidenza tra l'enunciato iniziale (affermante il referente “storico” cui si collega la domanda al giudice) e quello, reputato persuasivamente rappresentativo della realtà, inerente alla ricostruzione finale», G. Ubertis, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio), Criminalia, 2009, p.326. Ubertis aderisce alla concezione semantica della verità di Alfred Tarski, la quale fornisce una «definizione nominale (e non reale) di verità», G. Fiandaca, G. Di Chiara, Una introduzione, cit., p. 340.

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una verità storica assoluta e irraggiungibile. Vincenzo Garofoli afferma: «la verità è una e tale rimane anche quando deve essere ricostruita nell'ambito del processo penale: tutte le discrasie che possono rinvenirsi nel corso dell'istruttoria dibattimentale sono evenienze processuali cui rimediare con le regole decisorie proprie del processo penale. Se residuano dubbi sulla ricostruzione del fatto in termini di colpevolezza il soggetto imputato dovrà essere mandato assolto»1. Sulla stessa scia si pone anche Francesco Caprioli, nel recente scritto «Verità e

giustificazione nel processo penale»2: l'unica verità che il giudice è tenuto ad accertare è quella relativa alla condanna, mentre in caso di assoluzione «egli è autorizzato dalla legge ad argomentare ad ignorantiam, cioè, in definitiva, a mentire». Inoltre, i limiti cognitivi imposti al giudice dal sistema processuale non fanno sì che «la “sua” verità sia minore, formale, convenzionale, priva di valore logico-conoscitivo, non all'altezza di quella dello storico, del giornalista o dello scienziato». A sostenere la decisione del giudice vi è il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, introdotto nell'art 533 c.p.p dalla novella della l. 46/2006 ma non di certo sconosciuto nel processo penale precedente, nel quale tale regola veniva ascritta al principio dell'in dubio pro reo. Tale criterio impone al giudice di non adottare una sentenza di condanna laddove residui il ragionevole dubbio dell'innocenza e quindi il giudice è ammesso a condannare solo quando mancano dubbi ragionevoli circa la colpevolezza dell'imputato; dunque, quando emette sentenza di condanna, non possiamo che ritenere che il giudice stia dicendo la verità, posto che «non abbiamo ragioni per

sostenere il contrario»3. Infatti, se l'unico dubbio ammesso è quello ragionevole, ed esso deve essere escluso per giungere alla condanna, le ipotesi risultanti sono solo quelle prive di fondamenta e quindi tali da non

1 V. Garofoli, Verità storica e verità processuale: l'improponibile endiadi di un processo virtualmente accusatorio, in V. Garofoli, A Incampo (a cura di), Verità e processo penale, collana Unità del sapere giuridico, Milano, Giuffrè, 2012, p. 49. 2 F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, cit., pp. 608 e ss. 3 F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, cit., p.623.

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poter inficiare la veridicità della decisione giudiziaria. L'Autore, concludendo, afferma: «le sentenze di condanna conformi al canone decisorio dell'assenza di ragionevoli dubbi vengono emanate quando le ragioni per ritenere falsa l'accusa hanno carattere esclusivamente logico, cioè non sono che l'astratta possibilità di una ragione. Tanto basta per attribuire a simili verdetti – fedeli all'etimologia del vocabolo – la patente di affermazioni veritiere, senza ulteriori inutili specificazioni.»1

Infine, allora, le molteplici suddivisioni di significato di un unico concetto - quello di verità - non avrebbero senso di essere applicate, almeno al sistema penale: il metodo del contraddittorio nella formazione della prova e la regola della condanna oltre ogni ragionevole dubbio permettono di ottenere una sentenza – almeno - di condanna semplicemente vera in quanto non soggetta a valide smentite. Se è vero, come affermerà Karl Popper, che il metodo gnoseologico del contraddittorio, pur essendo il migliore, di per sé non garantisce una verità incontrovertibile nel tempo, anche la sentenza di condanna deve comunque reputarsi vera ma non certa in quanto - come ammette lo stesso Autore - essa resta appesa al filo del ragionamento induttivo del giudice. Comunque, questo non fa della verità processuale una verità minore: «questo non significa che la verità del processo penale sia una verità formale, convenzionale, relativa, né che sia un'entità inaccessibile, un inafferrabile miraggio»2.

Concludendo, se è vero che la verità è raggiungibile, non lo è la certezza della stessa; d'altronde, lo stesso legislatore del 2006 ha voluto introdurre un canone decisorio sì molto alto, ma non pari alla sicurezza della condanna, che avrebbe finito per bloccare ogni decisione da parte del giudice.

1 F. Caprioli, Verità e giustificazione, cit., p. 625. 2 F. Caprioli, Verità e giustificazione, cit., p. 623.

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3. Modelli di conoscenza e modelli processuali: il processo inquisitorio e quello accusatorio.

L'aspetto teleologico della ricostruzione della verità incide, come abbiamo visto, sull'individuazione del sistema processuale di riferimento, ove per sistema processuale si intende l'«articolazione delle attività giudiziarie e dei rapporti tra soggetti che vi intervengono»1. Legando la finalità che muove il processo alla contrapposizione tra i due sistemi processuali classici del processo, quello inquisitorio e quello accusatorio, possiamo affermare che la ricerca di una verità materiale e dimostrativa caratterizza prevalentemente sistemi processuali di stampo inquisitorio, che a loro volta costituiscono espressione tipica di sistemi politici autoritari.

Infatti, «il sistema processuale inquisitorio si basa sul principio di

autorità, secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più

potere è dato all'organo inquirente»2; di conseguenza al giudice istruttore spetta piena iniziativa ex officio, sia per quanto riguarda l'instaurazione del processo che per la raccolta delle prove, e alla sua attività di ricerca non possono essere posti limiti di ammissibilità delle prove: «quello che conta è il risultato da raggiungere, cioè la verità, e non il metodo con cui la si persegue. Pertanto ogni modalità di ricerca è ammessa; anche la tortura dell'imputato»3. Inoltre, il modello inquisitorio «postula l'istruzione di un processo scritto e contraddistinto da una segretezza esterna ed interna, nel senso che gli atti processuali – e, dunque, la raccolta delle prove – sono segreti, non solo ai soggetti estranei al processo ma anche allo stesso imputato»4. Insomma, i sistemi inquisitori affermatisi con il tempo, «dall'età comunale all'ancien régime» sono

1 La locuzione “sistema processuale” viene definita da G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 31.

2 Così P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 5 e ss. 3 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p.7.

4 M. Conte, M. Gemelli, F. Licata, Le prove penali, in M. Cendon (a cura di) collana Trattati, Milano, Giuffrè, 2011, p. 7.

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caratterizzati dal «monopolio pubblico dell'investigazione e della prova e insieme dell'accusa segreta e del processo segreto»1.

A queste vengono tradizionalmente contrapposte l'oralità e il contraddittorio come caratteristiche tipiche del sistema processuale accusatorio, al quale vengono ricondotti sistemi politici liberal-democratici, maggiormente attenti alle esigenze di difesa dell'imputato. Quest'ultimo modello processuale si basa sul principio opposto a quello di autorità, cioè sul principio dialettico: «si prende atto dei limiti della natura umana e si ritiene che nessuna persona sia depositaria del vero e del giusto; la verità si può accertare tanto meglio quanto più le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi antagonisti»2 Nel sistema accusatorio il giudice non ha alcun potere in ordine all'inizio del processo e all'accusa, le quali sono affidate «all'offeso dal reato e ai suoi congiunti ovvero anche al quivis de populo»3; inoltre, non ha alcun potere in ordine alla raccolta delle prove, in quanto spetta alle parti il diritto di ricercare gli elementi probatori, di valutare l'opportunità dell'introduzione nel processo delle informazioni raccolte e di vedere ammesse le prove richieste all'interno della dinamica processuale. Da tutto ciò si evince facilmente che i modelli accusatori non ricercano una “verità materiale”, ma ambiscono piuttosto ad una “verità giudiziale”, frutto della dialettica della prova.

Tuttavia oggigiorno alla dialettica probatoria esterna, e al principio del contraddittorio che ne consegue, viene riconosciuto un innegabile «valore euristico»: secondo l'epistemologia moderna, infatti, il contraddittorio costituisce il metodo migliore per giungere alla verità, ed esso «esula, cioè, dalla sterile polemica tra sostenitori del sistema accusatorio e fautori di quello inquisitorio (più o meno annacquato da

1 G. Frigo, Le nuove indagini difensive dal punto di vista del difensore, in AA.VV, Le indagini difensive. Legge 7 dicembre 2000 n. 397, Milano, Ipsoa, 2001, p. 58. 2 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 8.

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innesti garantistici) per venire a caratterizzare un metodo indipendente dalle scelte contingenti di politica processuale»1.

In questo senso, la contrapposizione tra un sistema inquisitorio che mira alla ricostruzione della verità ed uno accusatorio che invece guarda alla tutela dei diritti delle parti, mettendo in ombra il fine dell'accertamento, non ha senso di esistere: piuttosto, al fine della ricostruzione quanto più possibile veritiera si vuol giungere attraverso un metodo di accertamento più conforme sì alle esigenze garantistiche, ma anche a quelle conoscitive2. Come afferma Maiello, il contraddittorio «dà voce ad un modello epistemico “laico”, che rifiuta l'assunto assolutistico-confessionale che la verità possa essere disvelata dal soggetto “unto dall'illuminazione sapienziale”, ovvero che opera in un regime “monologante” e/o di conoscenza solipsistica, e sostiene l'opposta tesi che un risultato di sapere può dirsi affidabile (tale da legittimare in uno Stato democratico di diritto restrizioni dei beni supremi dell'individuo) alla condizione che esso filtri da un confronto dilemmatico di, due o più, modelli di interpretazione della realtà».3

4. Verso un aggiornamento della contrapposizione tra modelli processuali.

Oltre ad essere non attuale, in quanto non riflette le moderne teorie epistemologiche, la contrapposizione tra modello accusatorio e inquisitorio presenta altre lacune. Essa, infatti, non trova corrispondenza sul piano empirico, essendo costruita in maniera ideale attraverso la contrapposizione tra elementi effettivamente presenti nei sistemi

1 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 63, da cui anche la citazione precedente.

2 P. Rivello mette in guardia dalla contrapposizione tra modelli inquisitori e accusatori fondata sulla ricerca della verità, in quanto può condurre ad affermare una assimilazione della ricerca della verità al solo sistema inquisitorio. Vedi, P. Rivello, Il processo penale di fronte alle problematiche dell'età contemporanea, cit., p. 5. 3 Vedi Maiello, Il contraddittorio nella Costituzione: una riforma tra politica, diritto

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processuali reali, ma che nella prassi si trovano mischiati nell'uno e nell'altro sistema, «tanto da esibire delle vere e proprie forme di ibridazione»1.

Un aggiornamento della distinzione tra processi sembra possibile nella prospettiva dell'evoluzione scientifica del processo; negli ultimi decenni quest'ultimo ha accolto sempre di più strumenti tecnologici che possono aiutare l'amministrazione della giustizia nella ricostruzione del fatto delittuoso e nell'individuazione del soggetto colpevole, ma che possono altresì essere utilizzati in maniera scorretta o strumentale a esigenze estranee alle dinamiche del “giusto processo”. Nel suo saggio Prova

penale scientifica e “giusto processo”, Luca D'Auria individua un

rischio attuale per il processo penale italiano non tanto nella «involuzione da sistemi di rito dialettici verso ipotesi autoritative (…) quanto piuttosto nella deriva dei criteri valutativi e di libero convincimento che, per aderire ad esigenze di ristoro sociale e di “crime

control”, trattino le vicende tecnologiche e probatorie attribuendo le

responsabilità in ragione di metodologie valutative funzionali ad un libero convincimento arbitrario, volto a ricercare ad ogni costo un colpevole»2. In altre parole, l'Autore afferma che mentre il principio del contraddittorio si è ormai consolidato come «criterio gnoseologico cardine del processo penale»3, esiste un effettivo pericolo nella applicazione distorta dei criteri valutativi e del libero convincimento da parte del giudice nell'applicazione della prova scientifica; la valutazione del giudice e il suo libero convincimento, infatti, possono essere utilizzati in maniera strumentale ad esigenze di politica criminale di

1 E. Amodio, Verso una storia della giustizia penale in età moderna e contemporanea, Criminalia, 2010, p. 17. L'Autore tuttavia avverte che il fatto che si possano rinvenire «forme di ibridazione» non deve comportare l'abbandono della summa divisio.

2 L. D'Auria, Prova penale scientifica e “giusto processo”, La giustizia penale, 2004, pp. 31-32.

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carattere «risarcitorio-giustizialista»1. L'Autore pone l'attenzione su un tema importante, quello dell'utilizzo del sapere scientifico-tecnologico nei processi nei quali è il progresso ad essere alla sbarra, ossia quei casi che riguardano i danni che lo stesso può comportare a beni giuridici fondamentali quali la salute e l'ambiente. Proprio qui non si deve cedere alla tentazione di soddisfare le esigenze di sicurezza dell'opinione pubblica, ma occorre invece riaffermare con forza i principi del “giusto processo”; di conseguenza, deve essere applicato il principio di giudizio della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio dell'imputato, non potendo essere applicate come criteri valutativi della responsabilità penale quelle conoscenze scientifiche che individuano standard cautelari, le quali costituiscono «conoscenze idonee per l'emanazione di regole cautelari a tutela della vita e della salute in osservanza del principio di precauzione»2, ma che d'altra parte «non possono certo fondare un giudizio di certezza e verità (come richiede il processo)»3.

Prendendo spunto dalle parole dell'Autore possiamo immaginare un'evoluzione dei modelli processuali che distingua tra sistemi che applichino correttamente il sapere scientifico o meno: dai principi dell'oralità e del contraddittorio a parametri diversi quali il rispetto del criterio valutativo dell'oltre ogni ragionevole dubbio, dell'applicazione di conoscenze tecniche e scientifiche affidabili, del principio della presunzione di innocenza. In ultima analisi, la moderna dicotomia insiste soprattutto tra sistemi processuali rispettosi del principio del “giusto processo” nell'applicazione del sapere scientifico e sistemi processuali che, al contrario, utilizzano le conoscenze scientifiche in una prospettiva lesiva delle garanzie processuali.4 L'antica dicotomia tra principio 1 Ibidem.

2 L. D'Auria, Prova penale scientifica, cit., p. 32. 3 Ibidem.

4 Secondo D'Auria: “l'utilizzo di concetti scientifici (o tecnici) nel processo penale, affinché non costituisca un sistema di moderna prova legale, necessita di un rigoroso rispetto del principio di innocenza, dell'onere probatorio in capo all'accusa, della effettiva validità delle teorie tecnico scientifiche presupposte al tipo di

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dialettico e principio autoritativo viene superata in maniera del tutto analoga anche da Giulio Ubertis, il quale mette in luce come né a livello internazionale (l'Autore richiama la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) né a livello nazionale (nella Costituzione italiana) viene stabilita una preferenza per il sistema accusatorio piuttosto che per quello inquisitorio; tutti questi testi, invece, affermano «l'esigenza imprescindibile che la disciplina processuale penale, non importa come classificata dalla dottrina, corrisponda a quello che viene denominato giusto processo1».

Tuttavia, principio cardine di un processo giusto è proprio quella dialetticità che connota i sistemi accusatori rispetto ai sistemi inquisitori, e tale principio ha avuto un percorso di affermazione lento e tortuoso nel nostro sistema processuale; come vedremo, per altro, tale percorso non può dirsi definitivamente concluso, rimando tutt'ora in fieri2. Nel

prosieguo del mio lavoro, cercherò di ricostruire le tappe evolutive (e, talvolta, involutive) della dialetticità probatoria del sistema processuale italiano, in una linea del tempo che trova come inizio il sistema di stampo inquisitorio del codice Rocco, per proseguire verso il modello accusatorio del nuovo codice del 1988; infine, applicando la suddivisione sopra citata, verificheremo se il nostro ordinamento può essere ricondotto tra quelli virtuosi, che riescono nell'intento di conciliare l'adozione del sapere scientifico con il “giusto processo”, considerando però sempre che «un processo giusto non può prescindere da un costante contraddittorio tra le parti»3.

accertamento,del ragionevole dubbio come criterio di valutazione della colpevolezza; tutto ciò riconoscendo il metodo del contraddittorio come scelta gnoseologica migliore per ottemperare ai predetti principi del giusto processo”. L. D'Auria, Prova penale scientifica, cit., p. 23.

1 G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 45 2 V. Capitolo II, Parte I, paragrafo 6.

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CAPITOLO SECONDO

LA DIALETTICA PROBATORIA A CONFRONTO CON LA PROVA SCIENTIFICA.

SOMMARIO: Parte prima. Evoluzione del pensiero scientifico e del metodo probatorio: due binari che si intersecano. – 1. Scienza positivista e conseguenze sul piano della prova penale: il ruolo del giudice e degli esperti nella disciplina ante 1988. – 2. L'affermazione del falsificazionismo e della dialettica probatoria. – 3. Un passo avanti e uno indietro. – 4. Le lacune nella disciplina della raccolta delle prove nel codice del 1988 e i pericoli involutivi. – 5. Costituzionalizzazione dei principi del “giusto processo” e del metodo del contraddittorio; Segue. La legge 397/2000. – 6. Un percorso in fieri: ostacoli all'applicazione del metodo del contraddittorio sulla prova scientifica. Parte seconda: Il procedimento probatorio nella prospettiva dialettica della prova scientifica. – 1. L'ammissione della prova scientifica. – 2. L'assunzione della prova scientifica. – 3. La valutazione della prova scientifica attraverso le sentenze di legittimità. Le sentenze Franzese, Quaglierini, Cozzini, Cantore. – a. La sentenza Franzese riconduce la prova scientifica all'interno dell'epistemologia giudiziaria; la “probabilità logica” come canone epistemologico giudiario; – b. La sentenza Quaglierini: il giudice “utilizzatore” delle leggi scientifiche. – c. La sentenza Cozzini: il giudice “custode del sapere scientifico”. – d. La sentenza Cantore e la compartecipazione dei giudici e dei tecnici nella determinazione della teoria scientifica idonea a spiegare il caso concreto. – 4. Una verifica della posizione del nostro

processo nella distinzione tra sistemi processuali aggiornata.

Parte prima. Evoluzione del pensiero scientifico e del metodo probatorio: due binari che si intersecano.

Come vedremo, sia nell'ambito del sapere scientifico, sia in quello processuale, con il progredire della storia si è andato affermando un modello dialettico di costruzione della conoscenza. Ripercorreremo le

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tappe del percorso che, su due binari, ha condotto l'epistemologia scientifica e quella processuale alla medesima destinazione, ovvero all'adozione del contraddittorio come metodo gnoseologico principe per addivenire a conoscenze il più possibile attendibili. Peraltro, ritengo sempre utile uno sguardo indietro, a come il nostro processo penale «al traguardo di una marcia durata più di centoventi anni, si è spogliato dell'eredità inquisitoria di stampo francese per approdare ad un modello accusatorio sensibile alle suggestioni della tradizione americana»1 poiché, sempre prendendo in prestito le parole cristalline di Ennio Amodio, «abituati come siamo a lavorar di bulino sul codice, ad infilarci nei meandri della giurisprudenza e a cercare di scoprire le divaricazioni tra norme e pratica giudiziaria rischiamo ad ogni passo di dimenticarci che coloro che ci stanno di fronte (…) non sono gli interpreti di un copione tutto scritto nelle norme processuali, ma recitano un ruolo che viene da una cultura secolare in cui le garanzie sono un orpello o un intralcio al cammino verso la solenne riaffermazione della pretesa punitiva»2. Insomma, ricostruire l'evoluzione del sistema in senso dialettico risulta sempre utile per capire l'importanza delle garanzie processuali ottenute, e in questo modo proteggerle dai pericoli di posizioni reazionarie.

Preliminarmente, occorre definire che cosa si intende per prova scientifica. Secondo Paolo Tonini, «si definisce scientifica quella prova che, partendo da un fatto dimostrato, utilizza una legge scientifica per accertare l'esistenza di un ulteriore fatto da provare».3 Dunque, la prova scientifica è una prova indiziaria che utilizza come “regola ponte” una legge scientifica per dimostrare un fatto ignoto. A questo punto, occorre definire cosa si intende per legge scientifica. Sempre secondo Paolo

1 E. Amodio, Verso una storia della giustizia penale in età moderna e contemporanea, cit., p. 12

2 Ibidem.

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Tonini «per leggi scientifiche si intendono quelle leggi che esprimono una relazione certa o statisticamente significativa tra due fatti della natura» e che presentano determinate caratteristiche, ovvero quelle «della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità».1 Dunque la legge scientifica è quella legge che si ottiene mediante un metodo scientifico che la rende più solida della regola di comune esperienza, e di conseguenza l'applicazione di una legge scientifica rende la prova indiziaria più sicura rispetto al caso in cui il ragionamento inferenziale si basi sulle conoscenze empiriche dell'uomo medio2.

1. Scienza positivista e conseguenze sul piano della prova penale: il ruolo del giudice e degli esperti nella disciplina ante 1988.

Fino alla metà del secolo scorso la filosofia della scienza accoglieva una concezione cosiddetta “positivistica”, in virtù della quale la scienza era considerata illimitata, completa e infallibile. «Era illimitata perché si riteneva che ogni singola legge scientifica avesse un valore generale e assoluto. Era completa nel senso che la singola legge era idonea a spiegare interamente l'andamento di un fenomeno. La scienza era

infallibile perché era unica e non poteva sbagliare; se mai, potevano

sbagliare gli scienziati.»3 Questo approccio affermava la certezza degli 1 «Sono sperimentabili perché il fenomeno scientifico deve essere riconducibile ad esperimenti misurabili quantitativamente: gli esperimenti sono ripetibili dagli scienziati mediante procedure che verificano la misura dei fenomeni e la validità della legge. Da ciò deriva che, in linea di tendenza, le leggi scientifiche sono generali, in quanto non ammettono eccezioni o, comunque, il margine di errore è esattamente conosciuto (…). Se si verificano eccezioni alla legge scientifica, questa viene modificata o abbandonata. Infine, le leggi scientifiche sono controllabili perché la loro formulazione è sottoposta alla critica della comunità degli esperti.» P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 221.

2 Secondo Focardi, la prova scientifica è «la prova raggiunta mediante il metodo scientifico, e più in particolare mediante quel procedimento probatorio che dalla conoscenza del fatto noto risale alla conoscenza del fatto ignoto attraverso la applicazione di una regola di esperienza ricavata con il metodo scientifico (anziché mediante l'esperienza dell'uomo comune)». F. Focardi, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, in A. Giarda, G. Spangher, P. Tonini (a cura di), Problemi attuali della giustizia penale, Padova, Cedam, 2003, p.14.

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enunciati scientifici in base al principio di verificazione, cioè una legge scientifica veniva ritenuta certa quando questa risultava «costantemente confermata dall'esperienza mediante il ripetersi costante delle sue verifiche»1.

Contestualmente, il sistema processuale italiano disegnato dal codice Rocco presentava caratteristiche tipicamente inquisitorie, specie per quanto riguarda la fase della raccolta delle prove. Nel codice di procedura penale del 1930 gli organi inquirenti (pubblico ministero o giudice istruttore) conducevano la fase istruttoria (sommaria o formale) in segreto, senza che il difensore dell'imputato potesse intervenire e quindi senza un contraddittorio. Ai sensi dell'art. 299 del vecchio codice, il giudice istruttore aveva il dovere di «compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione appaiono necessari per l’accertamento della verità»: si trattava dunque di un codice che disegnava un sistema processuale asimmetrico, nel quale l'autorità giudiziaria procedeva in solitudine alla ricostruzione di una verità materiale e dimostrativa. Come afferma Bargi, «la formula è emblematica della scelta culturale del legislatore fascista in ordine alla funzione giurisdizionale, declinata in rapporto all'esigenza di tutela degli interessi dell'autorità più che dell'individuo. Ne è conseguenza l'attribuzione di compiti investigativi per la fantomatica ricerca della verità materiale, sul presupposto del mutato statuto epistemologico affrancato dai presunti limiti del metodo dialettico di formazione della prova»2.

La struttura processuale presentava temperamenti di carattere dialettico, contemplando una fase dibattimentale; tuttavia questa si concentrava sugli elementi probatori raccolti in sede istruttoria e transitati alla fase successiva attraverso l'unico fascicolo che veniva sottoposto al giudice

1 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 253.

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dibattimentale. Dunque la difesa si inseriva in una fase avanzata del processo, quando le prove erano già state raccolte in segreto, e poteva consistere solo in «argomentazioni controdeduttive rispetto agli elementi accusatori raccolti nella fase investigativa».1

Il giudice, dominus delle prove, poteva altresì disporre una perizia in segreto: data l'opzione filosofica positivista preponderante in quel momento storico, il giudice doveva semplicemente nominare un perito e imporgli un obbligo di verità per ottenere gli elementi scientifici certi e affidabili necessari per la decisione. Perciò il giudice procedeva a disporre la perizia, nominava il perito e formulava i quesiti senza confrontarsi con alcuno; dal canto suo, «il perito individuava la legge scientifica, unica e infallibile, la applicava al caso concreto e forniva la valutazione del dato probatorio»2. Il giudice poteva aderire alla valutazione fornita dal perito, e basare su di essa la propria decisione, oppure poteva discostarsene senza dover comunque motivare sul punto. La parte privata aveva facoltà di nominare un consulente tecnico peritale3, il quale poteva consegnare direttamente al giudice una memoria contenente una valutazione tecnica autonoma e distinta dalla perizia4. Questo, però, non garantiva un contraddittorio sulla perizia. Infatti, le valutazioni dei consulenti venivano tenute scarsamente in considerazione, poiché l'attività del consulente veniva considerata alla stregua di un mero supporto all'attività difensiva; dunque, le valutazioni dei consulenti erano viziate ab originem dalla loro provenienza parziale,

1 A. Giarda, Un cammino appena iniziato, in AA.VV, Le indagini difensive. Legge 7 dicembre 2000 n. 397, Milano, Ipsoa, 2001, p. 5.

2 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 321.

3 Non altrettanto la parte pubblica: ai sensi dell'art. 391, c.2 c.p.p. il Procuratore della Repubblica poteva nominare lui stesso il perito in sede di istruzione sommaria soltanto laddove ritenesse necessaria la sua assistenza, ma solo se si trattasse di “indagine facile e breve”; in caso contrario, ai sensi dell'art 391, c.3 c.p.p. il pubblico ministero doveva trasmettere gli atti al giudice, il quale proseguiva il procedimento con istruzione formale. P. Rivello, La perizia, in La prova penale, P. Ferrua, E. Marzaduri, G. Spangher (a curi di), Torino, Giappichelli, 2013, p. 402. 4 F. Focardi, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, cit., p.3.

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e ciò comportava che non avessero alcun valore probatorio autonomo. Inoltre, la contrapposizione dialettica sull'attività peritale era comunque monca, mancando delle valutazioni di una delle parti della controversia, ossia l'accusa.1

Un contraddittorio sulla scienza risultava, peraltro, ancora prematuro: l'adozione di una accezione della scienza come unica e infallibile non ammetteva la «prospettazione al giudice di più soluzioni tutte scientificamente corrette ma divergenti»2, dunque i consulenti tecnici non potevano che rilevare l'eventuale errore del perito nell'applicazione della legge scientifica, la quale era invece incontestabile.

Infine, il giudice non aveva alcun obbligo di disporre la perizia: ai sensi dell'art 314 c.p.p., egli aveva una mera “facoltà” di avvalersi dell'aiuto di un tecnico, potendo invece basarsi su conoscenze proprie laddove lo ritenesse maggiormente opportuno. Questo perché l'introduzione del sapere tecnico-scientifico in ambito giudiziario era guardato con diffidenza, mentre il giudice peritus peritorum sembrava poter disporre di tutte le risorse necessarie per dirimere anche i casi più complessi attraverso la sua conoscenza privata3. La circostanza che solo al giudice fosse consentito l'innesto delle conoscenze scientifiche in ambito processuale, se e quando lo ritenesse necessario, rappresenta una ulteriore dimostrazione del carattere asimmetrico del processo inquadrato dal codice Rocco, nonché della concezione dimostrativa della prova dallo stesso fatta propria4.

1 La stessa dottrina dell'epoca criticò aspramente questa impostazione: «Attualmente si assiste all'ibrida, inarmonica contrapposizione di un perito del giudice, consulente dell'ufficio di decisione, ad un perito delle parti private, mentre l'accusa non ha possibilità di utilizzare un proprio consulente, ma deve far capo a quello che assiste il giudice.» Lo stesso Autore auspicò un coraggioso superamento di questa impostazione, che collocasse perito e consulenti di tutte le parti in posizione di parità, vedi C.U. Del Pozzo, voce Consulente Tecnico, B) Diritto Processuale Penale, in Enciclopedia del diritto, vol. IX, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 540- 543. 2 F. Focardi, La consulenza tecnica extraperitale, cit., p. 7.

3 P. Rivello, La perizia, cit., p. 403.

4 Vedi B. Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2008, n.3, p. 947.

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La l. 14 giugno 1955, n. 517 (cosiddetta legge De Pietro) intervenne su questo assetto legislativo rafforzando il quadro delle garanzie di difesa dell'imputato, anche in virtù dell'introduzione del diritto di difesa come “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” nella più alta delle fonti dello Stato, la Costituzione (art 24, c. 2 Cost).

In primo luogo, la legge 517/1955 limitò la facoltà del giudice di ignorare le memorie o le istanze presentate dalle parti e dai loro difensori ai sensi dell'art. 145 c.p.p.; questo articolo consentiva alle parti di sottoporre al giudice memorie o istanze scritte “in ogni stato e grado del procedimento”, ma il successivo art. 305 c.p.p. prevedeva poi che ad esse non dovesse necessariamente corrispondere un provvedimento del giudice. La legge 517/1995 intervenne sull'art. 305 c.p.p. vincolando il giudice – al quale fossero presentati gli atti ai sensi dell'art. 145 c.p.p. – a provvedere immediatamente con ordinanza. Con questo ed altri interventi, sarebbe cominciata la trasformazione della posizione delle parti «da oggetti della potestà giurisdizionale in soggetti della dialettica del contraddittorio»1. La legge, in effetti, prevedeva altresì la possibilità del difensore di partecipare ad alcuni atti istruttori, pur mantenendone l'esclusione dall'interrogatorio dell'imputato.2

In secondo luogo, come affermato nei lavori preparatori della legge 517, «le facoltà del consulente tecnico sono notevolmente ampliate»3. La legge De Pietro estendeva la possibilità di nominare consulenti privati anche prima del deposito della relazione di perizia, potendo in tal caso il consulente non soltanto parteciparvi ma anche «proporre al giudice che

1 A. Giarda, Un cammino appena iniziato, cit., p. 8.

2 I difensori delle parti private e il pubblico ministero dovevano essere avvertiti a cura della cancelleria dello svolgimento di esperimenti giudiziari, perizie, perquisizioni domiciliari e ricognizioni, «e affinché l'intervento possa avvenire effettivamente, è prescritto (a pena di nullità) un termine non inferiore a ventiquattro ore», Relazione al d.d.l presso la Camera dei Deputati, all'interno degli Atti Parlamentari della Camera dei Deputati, Legislatura II, Documenti, Disegni di legge e Relazioni, atto n.1121, p. 20, su http://www.normattiva.it/.

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al perito siano posti determinati quesiti»1. Laddove il consulente fosse nominato successivamente all'espletamento delle operazioni peritali, veniva consentito di chiedere l'esame della persona o della cosa sottoposta a perizia. Tuttavia, il consulente non poteva apportare nuovo materiale probatorio al procedimento2, restando tale potere in mano al giudice e al perito, suo ausiliario.

Infine, la l. 517/1955 intervenne sull'art. 314, comma 1, in modo da rendere meno libera la decisione del giudice sull'opportunità di disporre una perizia o meno; il novellato articolo prevedeva perentoriamente che il giudice disponesse la perizia laddove «si renda necessaria una indagine che richieda particolari cognizioni di determinate scienze o arti». Dunque, in presenza del requisito della necessarietà di indagini di tal specie, il giudice doveva procedere a disporre la perizia; ciò ci fa intuire come anche il pregiudizio verso l'utilizzo di saperi nuovi e diversi stesse progressivamente venendo meno.

L'introduzione di queste garanzie difensive all'interno dell'impianto autoritario del codice Rocco ha creato una stagione, quella tra il 1955 e il 1988, denominata “garantismo inquisitorio”; come esplicato dallo stesso inventore della formula, si tratta di un «ossimoro che, esaltando la contrapposizione tra le due ideologie, richiama l'attenzione su una convivenza singolare e a prima vista impossibile»3. Si trattava di una forma di processo ibrida, di una convivenza forzata tra due sistemi antitetici, dovuta ad una «politica processuale di transizione, che ridimensiona la logica repressiva del sistema vigente mediante l'innesto di garanzie difensive desunte da una tavola di valori che è già conquistata con l'avvento della Costituzione»4.

Con una peculiare contemporaneità rispetto alle aperture dialettiche

1 Relazione al d.d.l presso la Camera dei Deputati, cit., p.21.

2 Cfr F. Focardi, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, cit., p. 3, nota 6.

3 E. Amodio, Verso una storia della giustizia penale, cit., p.17. 4 Ibidem.

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apportate dalla l.517/1955, proprio nella seconda metà del secolo scorso si affermò anche in campo scientifico la «rivoluzione copernicana»1 operata da Karl Popper sulle linee dell'epistemologia scientifica positivista sopra delineate.

2. L'affermazione del falsificazionismo e della dialettica probatoria.

L'opera di Karl Popper ha determinato un cambiamento radicale della concezione della scienza, per come si era configurata nell'età positivista. Secondo Popper, la semplice verifica empirica costante delle ipotesi di lavoro non è sufficiente ad affermarne la veridicità; delle teorie scientifiche non devono essere cercate continue conferme ma, al contrario, continue smentite. I ricercatori debbono cercare di confutare ogni ipotesi scientifica attraverso molteplici obiezioni: se anche una di esse riesce nell'intento di smentirla, questa deve essere abbandonata; se invece l'ipotesi resiste, si consolida per ogni tentativo di smentita vinto. Tuttavia, anche se uscita indenne da tutti i tentativi di falsificazione, la teoria postulata non può mai dirsi certa, in quanto non si può escludere che in futuro possa essere presentata un'obiezione idonea a smentirla2. Dalla visione della scienza monolitica e statica imposta dalla posizione filosofica positivista, si passa a un'ottica di continua evoluzione, in cui il progresso della scienza è dato dal costante rinnovo e «rivoluzione»3 della stessa.

Ritornando alla nostra distinzione tra tipologie di verità, quella ricercata attraverso il metodo della falsificazione non è certo una verità oggettiva 1 G. Fiandaca, G. Di Chiara, Una introduzione, cit., p. 339.

2 G. Fiandaca, G. Di Chiara, Una introduzione, cit., p. 338.

3 «Del resto, sol che si guardi al passato, si nota immediatamente come la storia della ricerca scientifica sia un cimitero di errori, una serie di teorie abbracciate e poi abbandonate quando non hanno retto all'evidenza della realtà; in breve, quando sono state falsificate. Non a caso dunque si parla di “teorie” scientifiche, per significare che esse non sono altro che ipotesi, congetture, come tali fisiologicamente provvisorie e suscettibili di essere dimostrate erronee.» F. Focardi, op. cit., p.8. Per la teoria kuhniana delle rivoluzioni in campo scientifico, vedi T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), trad. it., Torino, 1969.

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e immutabile ma, al contrario, è una verità pratica, “allo stato”, continuamente sottoposta a critiche1. Effettuando un ulteriore parallelismo tra livello processuale e scientifico, possiamo ricordare quanto abbiamo visto dal primo capitolo di questo lavoro: come della verità raggiunta in sede processuale, anche di quella scientifica non si può predicare la certezza, ma solo la inesistenza di argomenti contrari idonei a smentirla2.

Dal lato processuale, l'apertura dialettica portata dalla l.157/1955 è sfociata nella creazione del nuovo codice. Questo, lasciata alle spalle l'esperienza di stampo inquisitorio, adotta una prospettiva accusatoria, facendo proprio lo scopo di pervenire a una verità che abbiamo definito “giudiziale”, ottenuta mediante la dialettica probatoria delle parti.

Motore dell'evoluzione processuale è stato, senza dubbio, il capovolgimento del regime politico e l'entrata in vigore della Carta Costituzionale Repubblicana: questa, pur non prendendo esplicitamente posizione sul modello processuale da adottare, stabilisce principi funzionali a un sistema processuale accusatorio, tra cui il diritto inviolabile di difesa in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell'art. 24, comma 2.

L'aver affermato una tale estensione del diritto di difesa comporta che il suo esercizio non possa essere circoscritto ad una fase successiva alle investigazioni degli organi inquirenti, ma al contrario, «proprio l'art. 24, c.2 Cost. implicava (…) la necessità che la persona sottoposta a procedimento penale potesse conoscere quanto prima l'esistenza di un procedimento a suo carico e la possibilità di compiere indagini probatorie mirate a svolgere una difesa autonoma rispetto a quella concretantesi nella semplice controdeduzione ai risultati probatori del pubblico ministero»3. Dunque, la norma costituzionale conteneva già in

1 G. Fiandaca, G. Di Chiara, Una introduzione, cit., p. 338. 2 V. supra, Cap. I, par. 4.

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sé quanto successivamente specificato dalla modifica dell'art. 111 Cost., sia quanto alla “condizione di parità” nella quale le parti devono operare - anche in fase di indagini - sia quanto al diritto dell'accusato di essere informato tempestivamente della pendenza di un procedimento nei suoi confronti: infatti questi diritti, che oggi trovano espresso riconoscimento nell'art. 111 Cost., si pongono come strumentali ad un esercizio del diritto di difesa attivo1 ed effettivo2.

Come anticipato, l'entrata in vigore del nuovo codice segna l'abbandono del sistema processuale improntato sulle regole autoritarie e l'adozione di una concezione dialettica del processo e della prova. In base al principio della divisione dei poteri, viene cancellata la figura del giudice istruttore e le inchieste vengono affidate al pubblico ministero, coadiuvato dalla polizia giudiziaria; i poteri del giudice e quelli del pubblico ministero vengono distinti in maniera netta: al pubblico ministero non spettano poteri coercitivi propri del giudice, né al giudice spettano poteri di indagine propri del p.m, come invece accadeva nel vecchio sistema. Inoltre, il nuovo art. 190 c.p.p. imprime una rivoluzione rispetto al sistema probatorio precedente, spogliando il giudice dei poteri probatori e aprendo invece un “diritto alla prova” delle parti che riguarda il diritto delle stesse all'ammissione della prova – che il giudice non può rifiutare se non laddove tali prove siano vietate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti – nonché alla «sua effettiva assunzione in contraddittorio» e infine «alla valutazione dei suoi esiti»3. Il giudice mantiene poteri istruttori esclusivamente integrativi delle conoscenze apportate dalle parti, andando a supplire ad eventuali mancanze nelle 1 Per la contrapposizione tra «difesa attiva» e «difesa reattiva» cfr. A. Giarda, Un

cammino appena iniziato, cit., p.7.

2 D'altra parte, anche a livello internazionale l'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata nel 1955, e l'art 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificato nel 1977, riconoscevano all'imputato il diritto di conoscere i procedimenti pendenti a suo carico e i loro contenuti. A tal fine, il legislatore istituì il cosiddetto avviso di procedimento con l. 5 dicembre 1969, n. 932.

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