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Libertà di manifestazione del pensiero ed Hate Speech

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Politiche delle Pubbliche Amministrazioni

LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO

ED HATE SPEECH

Relatore:

Chiar.mo Prof. Saulle Panizza

Tesi di Laurea Magistrale di Damiano LANDI

Matricola n. 470569

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Indice

Introduzione ... 5

1. La libertà di manifestazione del pensiero: definizione, fondamento democratico e limitazioni legislative ... 7

1.1. Libertà di pensiero e libertà di parola ... 7

1.2. Cenni storici ... 9

1.3. I limiti alla manifestazione del pensiero ... 12

2. I reati di opinione in Europa: Hate Speech e Revisionismo ... 17

2.1. Il negazionismo in Italia ... 25

2.2. Il dibattito sul negazionismo ... 28

3. La libertà di manifestazione del pensiero negli USA ... 31

4. Internet e libertà di espressione ... 39

5. I limiti alla libera manifestazione del pensiero in Italia ... 44

5.1. Il buon costume ... 44

5.2. La legge Mancino e il “principio del bilanciamento costituzionale” ... 46

5.3. L’omofobia ... 51

6. Il reato di opinione “politica” ... 54

6.1. Il reato di opinione “politica” in Europa ... 54

6.2. Il reato di opinione “politica” in Italia (ovvero l’apologia del fascismo) .. 58

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Introduzione

Il dibattito alimentato dalla recente proposta di legge “Fiano” sull’inasprimento del reato di apologia del fascismo ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico il tema della libertà di espressione del pensiero e i suoi limiti. Le leggi pongono dei divieti e delle restrizioni per tutelare alcuni beni giuridici ed evitare che qualsiasi attore subisca danni ingiusti a causa di un altro.

Il presente lavoro intende affrontare il tema della libertà di espressione del pensiero e dei suoi limiti nella legislazione europea ed in Italia, non tralasciando sia l’accenno e il confronto con l’ordinamento statunitense, sia le problematiche che le nuove tecnologie di comunicazione hanno introdotto, soffermandosi sulle motivazioni e le giustificazioni che spingono i legislatori europei a comprimere tale libertà. Non saranno invece oggetto di questa trattazione tutti quei reati di parola che non riguardano la manifestazione del pensiero (violazioni copyright, segreti industriali o di stato, istigazioni a delinquere e via dicendo) essendo il bene giuridico tutelato e i possibili danni emergenti correlati evidenti.

Nel primo capitolo verrà introdotto il tema centrale della tesi, ossia la libertà di manifestazione del pensiero, attraverso un percorso sintetico sulle sue radici storiche nel diciottesimo secolo, e sulle tutele moderne di questo diritto, in ambito internazionale, europeo e nazionale.

Nel secondo capitolo sarà introdotto il tema dell’hate speech e reati di opinione che sono ad esso collegati poichè da qui sorgono le principali problematiche alla libera manifestazione del pensiero.

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Nel terzo capitolo verrà fatta una breve comparazione con gli Stati Uniti d’America, per evidenziare come questi abbiano maturato un approccio diametralmente opposto a quello del vecchio continente.

Nel quarto capitolo verrà brevemente osservato come e in quale misura l’avvento di Internet, delle nuove tecnologie ad esso legate e dei social network abbia influito sulla regolamentazione della libertà di espressione e quali misure sono state prese al riguardo.

Infine il quinto capitolo approfondirà in particolare i limiti alla libert à di manifestazione del pensiero in Italia e il contributo che la giurisprudenza ha dato in questo ambito.

L’ultimo capitolo è dedicato al reato di opinione “politica”, sia all’estero che dentro i confini nazionali. Tale capitolo condurrà infine alle conclusioni e alla riflessione che deriva da questo scritto.

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1. La libertà di manifestazione del pensiero:

definizione, fondamento democratico e

limitazioni legislative

1.1. Libertà di pensiero e libertà di parola

La libertà di manifestazione del pensiero non è solo un diritto fondamentale che garantisce la libertà dell’individuo, ma è storicamente connessa allo sviluppo della razionalità dell’uomo, della scienza e del progresso, al consolidamento della democrazia nonché alla sfida della società contro il potere arbitrario dello Stato.

Per definire chiaramente la libertà di manifestazione del pensiero è necessario comprendere come essa si pone rispetto alla libertà di pensiero e alla libertà di parola

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Per libertà di pensiero si intende il diritto di un individuo di avere un proprio processo autonomo nella formazione di idee, concetti, desideri, giudizio, credenze e raffigurazione del mondo. Tale diritto viene ad esempio riconosciuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) all’articolo 18, che recita: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo (…)”. Poiché il pensiero, se non è espresso, non è conosciuto se non da chi ne è l’artefice, non può essere limitato dalla legislazione: molto banalmente si immagini la situazione di una persona che pensa di uccidere un'altra persona, il mero pensare di commettere un reato, senza che poi esso venga eseguito e senza che tale pensiero sia manifestato esternamente ad altri, non ha nessuna implicazione e non può essere in nessun modo limitato, anche volendo, dal legislatore.

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Per libertà di parola si intende invece il diritto di parlare, scrivere, comunicare con qualsiasi forma e qualsiasi mezzo in modo libero ed indipendente. Questa libertà è considerata un concetto basilare nelle democrazie liberali, ma diversamente dalla libertà di pensiero, poiché ciò che viene detto, scritto o comunicato può essere conosciuto dal legislatore, tale diritto può anche essere limitato e, negli ordinamenti democratici, tale libertà può essere ristretta. Nel diritto internazionale la limitazione si applica a patto che vi siano tre condizioni: (a) le limitazioni devono essere specificate dalla legge, (b) devono perseguire uno scopo riconosciuto come legittimo e (c) essere necessarie (ovvero proporzionate) al raggiungimento di quello scopo.

La giustificazione alla limitazione della libertà di parola anche negli ordinamenti democratici è data dal potenziale danno che la libertà di parola può avere su terzi o sulla società1 si pensi infatti ad aspetti che possono costituire fattispecie di reati come la diffamazione, le ingiurie, le oscenità, la pornografia, l’istigazione [a delinquere], la sedizione, la divulgazione di informazioni classificate, le violazioni del copyright, dei segreti industriali, di accordi di non divulgazione, del diritto alla privacy, del diritto all’oblio, la falsa testimonianza e le questioni di pubblica sicurezza

.

La libertà di manifestazione del pensiero è quindi un sottoinsieme della libertà di parola. E’ perfettamente possibile infatti esprimere il proprio pensiero senza commettere reati di parola come i sopracitati. La manifestazione del pensiero è da intendersi come espressione delle proprie idee e convinzioni (vale a dire quelle religiose, politiche, sociali

1 A tal proposito John Stuart Mill nel suo scritto “On Liberty”, suggeriva che: "the only purpose for which power can be rightfully exercised over any member of a civilized community, against his will, is to prevent harm to others."

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e via dicendo) agli altri (siano esse scritte, simboliche o verbali), che permette lo scambio di opinioni, l’alimentazione dei dibattiti, il progresso scientifico e culturale e lo sviluppo della società libera.

Proprio per questo motivo la libertà di manifestazione del pensiero si rivela colonna portante della democrazia e non è un caso che la sua soppressione storicamente coincide con regimi totalitari e oppressivi, tanto che oggi si può ritrovare formalmente espressa nelle leggi fondamentali e nelle costituzioni di tutti i paesi democratici moderni

.

1.2. Cenni storici

Le prime tutele alla libertà di parola e di espressione del pensiero, furono affermate con le due grandi rivoluzioni della fine del diciottesimo secolo. Pietra miliare è infatti la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen frutto della rivoluzione francese, estremamente influenzata dalle idee illuministe, che recitava all’art. 11 “la libre communication des pensées et des opinions est une droits les plus précieux de l’homme”, anche se subito dopo puntualizzava “sauf à repondre de l’abus de cette liberté dans les cas déterminés par la loi”2

Nel Primo Emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, anch’esso influenzato dalla tradizione dell’Illuminismo, si afferma che libertà di espressione è centrale per lo sviluppo delle libere idee tra gli individui e che nessuna limitazione può essere imposta a questo diritto

:

Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging

2 “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti fondamentali dell’uomo (…) salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”.

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the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the government for a redress of grievances.

In Italia il primo accenno alla libertà di manifestazione del pensiero compare per la prima volta solo dopo sessant’ anni dalle succitate rivoluzioni e si ritrova all’art. 28 dello Statuto Albertino, il quale, da un lato riconosceva che “la stampa sarà libera”, e dall’altro subordinava tale libertà ad una “legge che ne reprimerà gli abusi”. Ciò tuttavia non comportava un diritto reale, in quanto, come si denota dai testi sulla pubblica sicurezza dell’epoca (ad esempio: n. 3720/1859 e n. 2248/1865), persisteva un rigido sistema di censura. Si dovrà aspettare quindi la fine della monarchia e successivamente del fascismo per godere della libertà di manifestazione del pensiero grazie all’articolo 21 della nostra attuale Costituzione.

In ogni caso, a partire dalla Dichiarazione francese e dalla Costituzione americana, tutti i successivi stati di diritto e gli stati democratici contemporanei, nel corso del tempo, hanno tutelato la libertà di espressione del pensiero come un diritto fondamentale. Tale diritto trova la sua massima consacrazione nel suo riconoscimento di diritto inviolabile di ogni persona proprio all’interno della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, il cui art. 19 recita:

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione ed espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere

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informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Sempre a livello internazionale, occorre ricordare la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, (meglio nota come Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici), il trattato delle Nazioni Unite, adottato nel 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976, che codifica i principi riconosciuti dai singoli Stati e che all’art. 19 riconoscendo il diritto in esame, ne ammonisce la possibilità di restrizioni stabilite dalla legge e necessarie “al rispetto dei diritti e della reputazione altrui, alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche”.

In ambito europeo citiamo l’articolo 10 della CEDU (convenzione europea dei diritti dell’uomo) a Roma nel 1950 che recita rispettivamente al comma 1 e comma 2:

1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale

diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive

2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e

responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui,

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per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario

La libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, alla luce di tutto quanto detto risulta essenziale per la realizzazione personale dell’individuo e per la sua effettiva partecipazione alla vita sociale: da una parte, in quanto tutela la persona nella sua formazione, nel suo sviluppo e nella sua manifestazione, e dall’altra, grazie ad essa si alimenta , al contempo, il confronto di opinioni e la vita intellettuale della comunità che permette il corretto funzionamento dell’ordinamento democratico nonché la circolazione delle idee e delle pubblicazioni che possono alimentare dibattiti scientifici o culturali. La libera manifestazione del pensiero favorisce il cosiddetto “marketplace of ideas” concetto radicato in particolar modo negli Stati Uniti dove addirittura viene citato in diversi pareri della Corte Suprema degli Stati Uniti e formulato chiaramente nel saggio fondamentale di John Stuart Mill del 1859, "On Liberty" “secondo i quali la concorrenza delle idee, così come la concorrenza del mercato, determina il meglio. Poiché tutte le verità sono verità parziali e non esistono verità assolute, dal confronto delle verità parziali viene fuori il progresso dell'umanità."

1.3. I limiti alla manifestazione del pensiero

La libera manifestazione del pensiero, nonostante la sua indiscussa sacralità, incontra tuttavia delle restrizioni, spesso previste già costituzionalmente e talvolta rimandate per alcuni aspetti alla legislazione ordinaria.

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Tali limiti alla libertà di espressione, come abbiamo visto, si trovano non solo nelle carte o negli statuti di due secoli fa, ma tutt’oggi sono presenti, nella costituzione Italiana, nell’art 10 della CEDU e in moltissimi altri ordinamenti costituzionali democratici. Sono i casi di molte costituzioni europee come quella francese del 1958 che recita all’art.11

La libera manifestazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’Uomo; ogni Cittadino può pertanto parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di detta libertà nei casi previsti dalla Legge.

oppure il caso della Germania dove ad esempio nella Grundgesetz, la Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania, all’articolo 5 comma 1 troviamo garantita la libertà di espressione:

Ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni con parole, scritti e immagini, e di informarsi senza impedimento da fonti accessibili a tutti. Sono garantite le libertà di stampa e d'informazione mediante la radio e il cinema. Non si può stabilire alcuna censura.

mentre al secondo comma sono immediatamente stabiliti dove saranno posti i limiti a questo diritto: “Questi diritti trovano i loro limiti nelle disposizioni delle leggi generali, nelle norme legislative concernenti la protezione della gioventù e nel diritto al rispetto dell’onore della persona.”

Se il danno emergente da una libertà di parola senza freni appare chiaro se non altro per l’evidenza di molti reati che possono insorgere, ben più complicato è comprendere perché la manifestazione del pensiero debba conoscere dei limiti.

In una dittatura o in un regime totalitario, dove c’è un partito unico o vi è un tentativo di unificare il pensiero dei cittadini non sorprende che la

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libera espressione del pensiero, laddove non sia conforme ai canoni imposti dal regime, sia soppressa. In una democrazia invece, dove il libero pensiero è terreno fertile per lo scambio di idee e opinioni che alimentano il dibattito democratico, perché limitare questo diritto? Può la libera manifestazione del pensiero causare un danno (ad esempio manifestare opinioni basate su pregiudizi raziali etnici o sessisti)? Come quantificarlo eventualmente?

Delle risposte in tal senso provengono dalla Critical Race Theory, (teoria critica della razza)3 sviluppata dagli anni ottanta in poi in america da un movimento di giuristi dapprima solo afro-americani, poi provenienti dalle più disparate minoranze razziali presenti nel territorio statunitense. Secondo tale teoria, nella costruzione di rapporti di subordinazione sociale quali quelli che di fatto, in certi contesti, intercorrono tra gruppi connotati in senso razziale non giocano un ruolo soltanto elementi materiali come la distribuzione della ricchezza, o di certi posti di lavoro, o di certi incarichi pubblici ma il mondo sociale è costruito anche attraverso rapporti di interazione simbolica e ,da questo punto di vista, il discorso razzista ha una valenza propriamente costitutiva e strutturante nei confronti dell’ordine sociale4.

Per quanto concerne la questione relativa alla quantificazione del danno che può essere arrecato con la libera manifestazione del pensiero, la problematica è abbastanza complessa. In effetti, oltre ai danni eventualmente diretti che sono più facili da identificare (come l’istigazione alla violenza che sfocia in un aggressione o discorsi di odio

3 Per approfondimento si veda: K. Thomas, G. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005

4 G. Pino, Discorso razzista e libertà di manifestazione del Pensiero [in «Politica del diritto», XXXIX, 2, 2008, pp. 287-305]

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che provocano una reazione fisica della vittima), si deve tener conto anche degli effetti indiretti. Nel caso di manifestazione di pregiudizio razziale o di odio in generale, secondo la Critical Race Theory, produce oltre ai danni individuali sulle vittime o bersagli di offese razziali anche danni su una scala più ampia che potremmo chiamare “danni sociali”. Infatti il discorso razzista è atto a creare un terreno aspro e stigmatizzante che produce prima di tutto una lesione della dignità umana della vittima che subisce il pregiudizio con tutte le sue implicazioni (ad esempio forme di depressione, disistima di se, reticenza nel frequentare determinati luoghi o ad interagire con gli altri, danneggiamento dell’integrità psicofisica ecc...), ma in secondo luogo può produrre anche effetti su larga scala specialmente nel caso in cui esso abbia un effetto propagandistico poiché la diffusione di tali idee può influenzare la società legittimando un ordine gerarchico su base razziale5.

Al giorno d’oggi la manifestazione di idee basate su pregiudizi razziali non è detto che implichi direttamente un ritorno a leggi razziali o alla schiavitù, ma può influenzare, seppur indirettamente e a livello inconscio, l’opinione della società. Si pensi ad esempio all’influenza su larga scala che possono esercitare la televisione ed i mass media attraverso la diffusione di notizie che veicolano pregiudizi razziali o all’influenza che può avere un attore o un cantante sui molti fans se manifesta queste idee, o anche a un comune cittadino che diffonda tali idee in un luogo pubblico frequentato, o ancora più semplicemente su un qualsiasi social network.

5 Cfr. M. Matsuda, Public Response to Racist Speech: Considering the Victim’s Story, in Words That Wound, pp. 17-51

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Tutti questi casi mostrano come sia possibile diffondere o instillare un pregiudizio razziale nelle persone, anche a livello inconscio in chi dichiara apertamente di non essere razzista.

Quindi come conseguenza nell’opinione di molte persone una persona di colore può essere ritenuta più adatta ad un lavoro manuale, o ritenere che non sia affidabile più soggetti a compiere atti criminali.

Ecco quindi il danno sociale cioè come un pregiudizio istigato da un discorso razziale (ma è applicabile anche al discorso sessista, religioso, etnico ecc…) possa limitare la piena realizzazione di un individuo sulla base dei suoi meriti personali, un valore fondamentale che è anch’esso tutelato dalla nostra costituzione.6

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2. I reati di opinione in Europa: Hate Speech e

Revisionismo

Per capire meglio come l’Europa sta recentemente affrontando le questioni sui limiti della libertà di espressione, introduciamo innanzitutto il tema dell’Hate Speech (o incitamento all’odio come comunemente demominato in Italia).

Negli Stati Uniti l’Hate Speech è una specifica categoria della giurisprudenza che individua parole e frasi che hanno lo scopo di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo (razziale, etnico, religioso, di genere, orientamento sessuale o che abbiano per oggetto forme di disabilità).7 L’incitamento all’odio può essere verbale, gestuale, simbolico o scritto, tuttavia lo scopo del messaggio ed il contesto nel quale quale esso ha luogo rivestono grande importanza ai fini della comprensione e del riconoscimento di un discorso d’odio, infatti sono normalmente esclusi dalla fattispecie dell’hate speech tutti i discorsi che rientrano nella categoria della satira, quindi le commedie, le parodie etc, nonostante possano talvolta avere contenuti razzisti o discriminatori di altro genere.

Nella legislazione dell’Unione Europea, sebbene non vi sia in giurisprudenza una definizione univoca di hate speech e soprattutto delle sue forme, possiamo rifarci alla definizione presente nella Raccomandazione 20 redatta nel 1997 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che interpreta l’hate speech come “ogni forma di espressione che diffonda, inciti, promuova o giustifichi l’odio razziale, la

7 Nockleby, John T. (2000), “Hate Speech” in Encyclopedia of the American Constitution, ed. Leonard W. Levy and Kenneth L. Karst, vol. 3. (2nd ed.), Detroit: Macmillan Reference US, pp. 1277–79.

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xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate su intolleranza di differente matrice”.

Similmente il concetto si ritrova anche nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che in alcune sentenze fa riferimento a “all forms of expression which spread, incite, promote or justify hatred based on intolerance (including religious intolerance).”8 A tal proposito è importante sottolineare che la Corte non è vincolata dalle definizioni di hate speech presenti nei singoli ordinamenti degli Stati Membri e delle loro interpretazioni/definizioni: spesso è accaduto infatti che siano state rifiutate alcune classificazioni9 o che, al contrario, la Corte stessa abbia adottato classificazioni che gli Stati a loro volta avevano rifiutato10. Tuttavia la Corte EDU inserisce l’hate speech nel più ampio contesto della discriminazione dove invece la legislazione comunitaria abbonda11, Di particolare importanza le direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE: la prima proibisce ogni forma di discriminazione per ragioni di razza od origine etnica, perpetrate in qualsiasi contesto, sia pubblico sia privato mentre la seconda, sulla base della precedente, amplia il divieto di discriminazione, anche a motivi legati alla religione, all’età, all’orientamento sessuale e alle convinzioni personali. Proprio nella direttiva 2000/78/CE, all’articolo due, troviamo la definizione di discriminazione:

(a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;

8 Si veda ad esempio la sentenza Corte EDU Gündüz v. Turkey, 4 dicembre 2003,3.

9 Sentenza Corte EDU Sürek v. Turkey 8 luglio 1999,.

10 Sentenza Corte EDU Gündüz v. Turkey, 4 dicembre 2003,.

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(b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone (…)

(c) Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per uno dei motivi di cui all'articolo 1 avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto, il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazionali degli Stati membri.

Ed è proprio sul terzo comma, nel contesto della molestia, che si può chiaramente inserire l’hate speech: un discorso che esprime odio o intolleranza verso un gruppo (tra quelli indicati nella presente direttiva e nella 2000/43/CE) che, sebbene non provochi un effetto diretto o indiretto di discriminazione, viola la dignità di una persona e crea un “clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”. L’impegno dell’Unione Europea non finisce qui: nella già citata raccomandazione n. 20 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa del 30 ottobre 1997, viene anche richiesto a tutti gli stati membri di prendere misure appropriate contro l’hate speech, specificando che tale termine copre tutte le forme di incitamento o giustificazione dell'odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati sorrette da un etnocentrismo o un nazionalismo aggressivo.

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Sullo stesso piano si inserisce l'adozione della decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro alcune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale: gli Stati membri devono garantire che siano punibili i discorsi di incitamento all'odio, intenzionali e diretti contro un gruppo di persone o un particolare individuo in riferimento alla razza al colore alla religione o all'etnia, l'istigazione pubblica alla violenza o all'odio, anche mediante la diffusione di scritti, immagini o altro materiale, l'apologia o la negazione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra e, infine i comportamenti atti a turbare l'ordine pubblico o minacciosi, offensivi e ingiuriosi.

Un aspetto da sottolineare è come la Corte EDU abbia escluso dalla libertà di parola le offese o le ingiurie: non sono mancati, infatti, i ricorsi alla Corte (sempre respinti), al fine di sostenere che le particolari offese o ingiurie fossero solo una libera espressione del pensiero attraverso la parola in linea con l’articolo 10 della CEDU. Ne è una prova la sentenza del caso Rujak v. Croatia del 2 ottobre 2012 la Corte specifica che:

the concept of “expression” in Article 10 concerns mainly the expression of opinion and receiving and imparting information and ideas, including critical remarks and observations (…) certain classes of speech, such as lewd and obscene speech have no essential role in the expression of ideas. An offensive statement may fall outside the protection of freedom of expression where the sole intent of the offensive statement is to insult. The Court also established that the freedom of expression guaranteed under Article 10 of the Convention may not be invoked in a sense contrary to Article 17 of the Convention.

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L’articolo 17 della Convenzione12 introduce il concetto di abuso del diritto, ossia vieta l’interpretazione di qualsiasi disposizione nella Convenzione, ovvero l’utilizzo di qualsiasi diritto da essa concesso, al fine di annullare, limitare o distruggere gli altri diritti e le altre libertà garantite dalla Convenzione. In questo modo la Corte EDU non solo sottolinea un limite all’articolo 10 della CEDU nella stessa carta, ossia che la libertà di espressione non può essere usata per attaccare o denigrare un altro diritto garantito (in questo caso la dignità di una persona e la non discriminazione), ma al contempo sembra anche dare una definizione del concetto di “espressione” delimitando la libertà di parola in base al contenuto del discorso. La Corte esclude così le ingiurie (che per altro sono un reato) dalla libertà di espressione, semplicemente attribuendo al termine “espressione” un significato che estromette le volgarità o le offese che hanno il solo scopo di insultare senza veicolare alcun concetto. Il ricorso all’articolo 17 consente invece di gestire quei discorsi che, pur non contenendo insulti, risultano lesivi per gli altri diritti garantiti dalla Convenzione.

Inoltre, il ricorso all’articolo 17 viene utilizzato anche per quella tipologia di reati che riguarda il revisionismo, la minimizzazione, l’apologia o il negazionismo di crimini di genocidio o di crimini contro l’umanità. La Corte sostiene che i discorsi negazionisti o revisionisti sono esclusi dalla protezione dell’articolo 10.

Ne troviamo una prova molto chiara nella sentenza del caso Lehideux e Isorni contro la Francia del 23 settembre 1998, dove ad essere sotto

12Art. 17 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, un gruppo o un

individuo di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni più ampie di quelle previste in detta Convenzione.”.

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accusa era un articolo in favore del Maresciallo Philippe Pétain, ritenuto dall’accusa un’apologia del collaborazionismo francese e quindi un’apologia dei crimini di genocidio perpetrati dai nazisti. La sentenza, che si concluse con un’assoluzione, è interessante perché, per la prima volta, mostra come la Corte consideri il negazionismo o il revisionismo esclusi dalla protezione dell’articolo 10 della CEDU proprio in base all’articolo 17. Nella sentenza si legge che il caso in questione "does not belong to the category of clearly established historical facts – such as the Holocaust – whose negation or revision would be removed from the protection of Article 10 by Article 17"13.

Per quanto riguarda i casi di negazionismo dell’Olocausto, la corte ha sempre applicato l’art 17 della CEDU in sulla considerazione del fatto che il negazionismo o il revisionismo della Shoah offendano la dignità delle vittime e delle famiglie delle vittime, oltre ad essere spesso connessi ad un incitamento all’odio razziale14.

Tale applicazione sistematica non è stata fatta tuttavia su altri casi, come ad esempio sullo sterminio del popolo armeno da parte dell’Impero Ottomano nel 1915, come ci dimostra la sentenza del caso Perinçek contro la Svizzera del 17 dicembre 2013. Il suddetto caso riguardava Doğu Perinçek, storico e presidente del partito turco dei lavoratori che, in alcune conferenze tenutesi in Svizzera tra maggio e settembre 2005, contestò la qualifica/riconoscimento giuridica di genocidio sui fatti avvenuti nel 1915, definendo “menzogna internazionale” lo sterminio degli armeni, ridimensionandolo come repressione militare dovuta ad esigenze belliche. Tali affermazioni costarono a Perinçek una condanna

13 Lehideux and Isorni v. France, 23 settembre 1998 (Para. 47)

14 Si vedano, ad esempio sentenze Corte EDU di Otto Remer c. Germania del 6 settembre 1995 o della

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da parte del tribunale svizzero in applicazione dell’art. 261 bis, alinea 4, che punisce “chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità”. Nel ricorso presentato alla Corte per violazione dell’Art 10 Perinçek ebbe la meglio, in quanto venne riconosciuto che le sue parole non erano atte ad incitare all’odio e che le dichiarazioni rese dal ricorrente dovevano essere considerate come inserite all'interno di un dibattito di natura storica che, seppur controverso, non si presta a delle conclusioni definitive o a delle verità oggettive ed assolute.

Similmente, nella sentenza Chauvy and Others contro la Francia del 29 giugno 2004, riguardante la revisione storica di fatti relativi alla resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, la Corte ha affermato che “Non rientra tra i ruoli della Corte arbitrare e definire questioni storiche che sono oggetto di un dibattito aperto tra storici sui fatti storici e sulle loro interpretazioni”15.

Il motivo per cui la Corte si è mossa diversamente rispetto a precedenti sentenze che riguardano i crimini commessi contro il popolo ebraico è perché s Il ricorrente non ha mai contestato che siano avvenuti dei massacri e delle deportazioni, ma semplicemente la qualificazione giuridica di questi eventi come genocidio. Ed è proprio su questo punto che si colloca la differenza con il negazionismo dell'Olocausto: secondo la Corte i negazionisti del genocidio del popolo ebraico non contestano

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semplicemente la qualifica giuridica di un determinato crimine, quanto piuttosto l'avvenimento di precisi fatti storici comprovati, come ad esempio l’esistenza delle camere a gas. La differenza è supportata anche dalla presenza di una base giuridica specifica per la condanna dei negazionisti dell'Olocausto (che è rappresentata dall'art. 3, lettera C dello Statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga) e dall’accertamento dei fatti storici dell’Olocausto compiuto in via giudiziale da parte di una giurisdizione internazionale. La distinzione che la CEDU applica tra “fatti storici chiaramente stabiliti” e “fatti che sono ancora soggetti ad interpretazione” consente la ri-espansione della garanzia della libertà di espressione con riferimento alla negazione o revisione di alcuni eventi storici.

L’Unione Europea, alla lettera B e C dell’articolo 1 della già succitata decisione quadro 2008/931/GAI raccomanda agli stati membri l’adozione di misure affinché siano resi punibili ”l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale” e “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945”. Ben 11 paesi che hanno leggi nel proprio ordinamento che puniscono questo reato di

opinione: Germania, Francia, Svizzera, Belgio, Portogallo,

Lussemburgo, Polonia, Romania, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.

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2.1. Il negazionismo in Italia

L’inserimento del reato di opinione di negazionismo dell’Olocausto è stato tentato più volte anche in Italia a partire da un disegno di legge del 2007 avanzato dall’ On. Clemente Mastella, in seguito similmente riproposto nel 2012 dalla senatrice On. Silvana Amati prevedendo anche l’arresto e la detenzione per chi neghi la Shoah. Tali proposte tuttavia, sono state ampiamente criticate, infatti contro la proposta del 2007 si è espressa la Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, tramite un comunicato, firmato da 28 accademici, al quale aderirono altri 112 storici appartenenti a diverse università italiane adducendo i seguenti motivi:

the 1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente

2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale (l'“antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale

3) si accentua l'idea, assai discussa anche tra gli storici, della “unicità della Shoah”, non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.

Similmente, i motivi per il quale la legge sull’introduzione del reato di negazionismo trova ampi margini di disaccordo, sono ben riassunti nelle

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parole scritte in un articolo del 2010 sul quotidiano “La Repubblica” dallo storico e giornalista italiano Adriano Prosperi:

Il principio della libertà intellettuale e l'inviolabile diritto di ciascuno a non essere punito per legge per le proprie convinzioni sono il frutto di secoli di lotte contro l'intolleranza e la censura di poteri religiosi o politici. Sarebbe una vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un'immane conflitto mondiale se nella nostra repubblica democratica si dovesse ricorrere alla barriera del codice penale per difendere dalle deformazioni e dagli errori la verità storica16.

L’accademico e saggista italiano Stefano Levi Della Torre esprime un ulteriore punto di vista sui motivi del dissenso sul reato di negazionismo nell’articolo “6 ragioni per non punire il negazionismo”17 dove in particolare afferma:

In primo luogo penso sia aberrante colpire per legge reati di opinione, anche perché ciò propone indirettamente che esista una verità ufficiale sancita per legge. La falsità per legge presuppone una verità per legge, e questo è un’idea familiare alle inquisizioni e ai totalitarismi, e ostica per la democrazia e per la ricerca scientifica. Colpire per legge anche una menzogna malintenzionata apre nel campo dei diritti costituzionali una breccia che non si sa dove vada a finire. Le opinioni e le teorie aberranti e malintenzionate vanno combattute sul terreno delle battaglie culturali, attivamente. (…) La capacità di persuasione dei negazionisti non si fonda su fatti o su fonti storiche, ma sulle suggestioni psicologiche che fanno presa su chi ha interesse ideologico a negare la Shoà. Il perseguirli per legge ne favorisce il vittimismo, regala loro il vanto del martirio, la figura di chi si batte per la libertà di pensiero, contro il conformismo istituzionale e oppressivo.

Per adeguarsi alla decisione quadro 2008/931/GAI, dopo nove anni di discussioni in Italia è stata approvata la legge n.115 del 16 giugno 2016

16 “Se le bugie negazioniste diventeranno un reato”, articolo pubblicato su “La Repubblica”, da Adriano Prosperi il 10 ottobre 2010

17“6 ragioni per non punire il negazionismo”, Articolo pubblicato su kolot.it da S. Levi della Torre il 21/01/2011

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che aggiunge alla legge n.654 del 13 ottobre 1975 (legge Reale), il comma 3-bis, il quale recita:

Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232.

Il legislatore ha optato quindi per una scelta moderata di incriminazione, prevedendo che tali affermazioni costituiscono non un autonomo fatto di reato, bensì una circostanza aggravante dei delitti di propaganda razzista, e di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi razza. Si osservi che i delitti cui può applicarsi l’aggravante in parola sono quelli che si estrinsecano in una forma di manifestazione del pensiero in cui la propaganda di idee razziste, l’istigazione o l’incitamento alla discriminazione “si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”.

Alla luce di ciò, è da ritenersi che sia penalmente apprezzabile non qualsiasi discorso negazionista, ma solo quello che “si innesta” su di una comunicazione che già manifesti i tratti caratterizzanti dell’hate speech. È questo, peraltro, un criterio interpretativo che può desumersi dalla stessa sentenza Perinçek della Corte EDU che richiama la giurisprudenza consolidata di Strasburgo sui limiti tollerabili alla libertà del pensiero in caso di “discorso d’odio” (art. 10 CEDU).

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2.2. Il dibattito sul negazionismo

Il tema del negazionismo offre tuttavia la possibilità di uno spunto riflessivo ben diverso rispetto ai temi della discriminazione razziale, etnica, religiosa o sessuale. Infatti, diversamente dai suddetti temi, è molto meno evidente la parte “dell’incitamento all’odio” o “dell’incompatibilità con il rispetto della dignità umana” che giustifica secondo i vari ordinamenti democratici le limitazioni alla manifestazione del pensiero, relativamente al negazionismo o al revisionismo storico, specialmente se all’interno di una ricerca scientifica e storiografica (o pseudoscientifica/pseudostoriografica).18

A tal proposito sarebbe altresì logico pensare che le tesi negazioniste che sono esposte alla critica scientifica dovrebbero essere gestibili per una società democratica senza ricorrere alla scure del diritto19. Vi sono diverse argomentazioni “pragmatiche” che contrastano la repressione giuridica del negazionismo. In primo luogo, nulla garantisce che la repressione giuridica da parte dei tribunali non finisca per fagocitare anche altro, provocando la censura o l’auto-censura anche di serie ricerche storiche, oppure fornendo idonea copertura per la repressione di forme di dissenso politico. Inoltre, la repressione giuridica di alcuni discorsi o idee potrebbe instillare il dubbio che la verità ufficiale protetta contro il negazionismo non sia poi così vera (altrimenti, che bisogno ci sarebbe di proteggerla per legge?). Infine, in un paradossale gioco di

18 Si vedano ad esempio le ricerche condotte dal saggista francese Robert Faurisson: R.Faurisson, Écrits révisionnistes, 1999 oppure R. Faurisson, Vérité historique ou vérité politique: le dossier de l’affaire Faurisson: la question des chambres à gaz, 1980

19 Secondo J. Feinberg, Filosofia sociale, p. 81, “il criterio dell’offesa non può mai essere applicato ai libri, perché la lettura di un libro non è mai un atto casuale: i libri non hanno captive audiences”

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specchi, potrebbe far passare i razzisti per vittime a loro volta e i soggetti tutelati dalle norme antirazziali come privilegiati e potrebbe oltretutto assicurare ai razzisti una buona dose di pubblicità quasi gratuita20. Più in generale, contro le leggi che criminalizzano l’espressione di opinioni relative a fatti storici si è espresso anche il Comitato dei Diritti dell’Uomo dell’Onu, affermando che esse “sono incompatibili con le obbligazioni che il Patto Internazionale sui diritti civili e politici impone agli Stati parte”21.

Sotto la stessa logica si è mosso il Tribunal Constitucional della Spagna che, con la sentenza n.235/2007, ha dichiarato l'incostituzionalità dell’art. 607, c. 2 del Codigo Penal. Tale che puniva anche la diffusione, con qualsiasi mezzo, di idee o dottrine che negassero un genocidio o crimine similare. A detta della Corte Costituzionale spagnola, la mera negazione dell’avvenimento di determinati fatti storici – seppur estremamente gravi – non costituisce “discurso del odio” in quanto difetta il requisito dell’incitamento diretto alla violenza contro determinati soggetti individuati per l’appartenenza a particolari minoranze razziali, religiose o etniche.

In conclusione, riflettendo sulla questione delle leggi che criminalizzano l’espressione di opinioni relative a fatti storici, risulta davvero tenue l’affermazione che ogni negazione di atti di genocidio sia volto a perseguire la creazione di un clima sociale di ostilità nei confronti di coloro che appartengono al gruppo che fu vittima del genocidio che si pretende negare.

20 G. Pino, Discorso razzista e libertà di manifestazione del Pensiero, in “Politica del diritto”, XXXIX, 2, 2008, pp. 287-305.

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3. La libertà di manifestazione del pensiero

negli USA

Se, come abbiamo visto, l’Europa possiede, sia a livello di ordinamento comunitario, sia a livello di ordinamenti nazionali, leggi che limitano la libertà di manifestazione del pensiero, ben diverso è il caso degli Stati Uniti d’America che, per molti versi, risulta avere una concezione molto diversa:

La libertà di parola non è infatti solo uno dei valori al quale il popolo americano è più affezionato, ma anche uno dei simboli culturali più radicati. L’importanza della libertà di parola deriva in primis da una generale maggiore considerazione del valore della libertà rispetto al valore di uguaglianza, da una forte dedizione all’individualismo ed da una giurisprudenza con tradizione lockiana: Per questi motivi il free speech negli Stati Uniti è considerato un diritto appartenente all’individuo e non allo Stato.

La protezione delle libertà civili, inclusa la libertà di parola, non è stata inserita nella Costituzione originale degli Stati Uniti del 1788, ma è stata aggiunta due anni dopo con la Carta dei Diritti. Il Primo Emendamento, ratificato il 15 dicembre 1791, ci dice:

Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances22 .

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Tra i motivi per cui in America si difende il free speech citiamo: • Evitare la tirannia della maggioranza;

• Difesa della visione meno popolare;

• Garantire che il popolo rimanga “open minded”;

• Garantire la protezione degli oppressi ed emarginati;

Ma è soltanto dal 1920 che la Corte Suprema americana ha il diritto di giurisdizione in merito alla tutela della libertà di parola e sul trattamanto giudiziario dei discorsi di incitamanto all’odio.

A tal proposito vi sono alcuni casi nella giurisprudenza americana che possiamo citare come esempio per sottolineare le differenze con la giurisprudenza europea.

Uno degli esempi più eclatanti è il c.d. caso “Skokie” alla fine degli anni ’7023. Tale caso nasce dalla richiesta di un gruppo di estremisti del Partito Nazional Socialista d’America di marciare vestiti in uniforme da SS, con tanto di svastiche, attraverso il quartiere ebraico Skokie di Chicago. Le autorità municipali locali tentarono di adottare misure per impedire la marcia, con l'adozione di una nuova legislazione. Sia il tribunale statale che quello federale invalidarono le misure previste in quanto violanti il diritto di libertà di parola dell’associazione.24 I dimostranti dichiararono che la scelta di Skokie come luogo per la marcia aveva lo scopo di attaccare ideologicamente ed emotivamente gli

23 Village of Skokie v. National Socialist Party of America, 373 U.S 21 (1978).

24 Vedi Smith v. Collin U.S 953 (1978); Nat’l Socialist Party of Am. v. Vill. of Sokie, 432 U.S 43 (1977).

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ebrei. La battaglia giuridica così si concentrò sul fatto che la marcia proposta a Skokie potesse equivalere ad un "incitamento alla violenza". Infatti, poiché il Primo Emendamento tutela la libertà di parola e di espressione del pensiero, negli Stati Uniti viene punito solamente quell’utilizzo della libertà di parola che porta alla violazione di una norma o di una legge, traducendosi quindi in una fattispecie delittuosa, come ad esempio le ingiurie, la violazione del copyright, la rivelazione di un segreto di stato o industriale, oppure l’incitamento alla violenza. Tuttavia la giurisprudenza ci mostra come, specialmente nei casi di hate speech, riuscire a distinguere se una manifestazione del pensiero di un discorso d’odio sfocia in un’istigazione alla violenza o meno, non è affatto semplice. Infatti, se da un alto, basandosi sulla testimonianza dei sopravvissuti all’Olocausto residenti a Skokie, che asserivano che l'esposizione della svastica nel loro quartiere fosse una provocazione atta ad incitarli alla violenza, una Corte di Stato inferiore decise che tale marcia doveva essere proibita, tale decisione fu poi annullata in appello dalla Corte Costituzionale, sulla base del fatto che il tribunale di grado inferiore aveva erroneamente concluso che la marcia proposta aveva soddisfatto il requisito di "incitamento alla violenza”. La Corte Suprema infatti, pur riconoscendo l'intensità dei sentimenti dei sopravvissuti all'Olocausto, stabilì che questi non fossero sufficienti a impedire la proposta di marcia.

Un altro caso emblematico degno di citazione è Snyder v. Phelps25, disputa legale avvenuta a seguito dell’evento che la Westboro Baptist Church (WBC) (ed in particolare da alcuni suoi attivisti, ossia, Fred Phelps e i suoi due figli, Rebekah Davis and Shirley

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Roper) aveva organizzato durante il funerale del caporale Lance Matthew Snyder: un picchetto per esprimere il dissenso verso il padre gay del defunto26. Le parole pronunciate dai protestanti erano cariche di odio e offensive come "God Hates Fags", "God hates you", "Fag troops" " Thank God for 9/11", "Thank God for Dead Soldiers". I manifestanti del WBC si distanti dagli ospiti della funzione religiosa ma per le loro parole Albert Snyder, padre di Matthew Snyder, che riferiva di aver provato “serious emotional and physical hardship … hindered his grieving process ", decise di citare in giudizio la Westboro Baptist Church e la famiglia Phelps per la sofferenza emotiva causatagli che, a suo dire, gli impediva di piangere suo figlio con raccoglimento. Nel discutere con la giuria, durante il processo, il giudice Richard D. Bennett della Corte Distrettuale del Maryland affermò che la difesa della libertà di parola, garantita dal primo emendamento, ha dei limiti che includono appunto offese, volgarità e ingiurie, e che i giurati avrebbero dovuto decidere se "The defendant's actions would be highly offensive to a reasonable person, whether they were extreme and outrageous and whether these actions were so offensive and shocking as to not be entitled to First Amendment protection". Ed infatti, il 31 ottobre 2007, il tribunale riconobbe Phelps e la WBC colpevoli e li costrinse ad un risarcimento di circa $ 11 milioni di danni per “…the intentional infliction of emotional distress on account of the respondent’s ‘outrageous’ speech "27. Tuttavia, famiglia Phelps decise di fare ricorso e tale decisione fu ribaltata due anni dopo, nel settembre 2009, dalla Corte d’Appello del Quarto Circuito che sostenne che la manifestazione era

26 “Supreme Court: Can Westboro Baptist Church protest military funerals?.” Articolo pubblicato su Christian Science Monitor da W. Richey il 06 ottobre 2010

27 I. Cram. “Coercing Communities or Promoting Civilised Discourse? Funeral Protests and Comparative Hate Speech Jurisprudence.” Human Rights Law Review ,2012 pp. 455-78

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invece una forma di espressione della libertà di pensiero tutelata dal Primo Emendamento, conseguentemente condannò Snyder a pagare tutte le spese legali e processuali. Con il ricorso, i Phelps riuscirono a dimostrare che durante la manifestazione stavano esercitando semplicemente il loro diritto costituzionale alla libertà di parola, nonostante il fatto che "The unthinkable act of protesting during a ceremony for the dead becomes even more pronounced at military funerals where sentiments of nationalistic pride and sacrifice resound "(Brouwer e Hess 79)28.

Gli Stati Uniti sono orgogliosi di essere la "The land of the free". Parte di quella libertà include il poter dire tutto ciò che si vuole, indipendentemente dal contenuto del messaggio. Nel caso Albert Snyder v. Fred Phelps, l'avvocato di Snyder, Summers, sosteneva che "The Phelpses’ freedom of speech should have ended where it conflicted with Mr. Snyder’s freedom to participate in his son’s funeral, which was intended to be a solemn religious gathering "29. Inoltre, negli USA, quando si conduce una protesta pacifica in un'area pubblica, si ha tutto il diritto di poter esprimere o manifestare il proprio pensiero anche se il messaggio può risultare per alcuni offensivo. Al fine di tentare di arginare lo stress emotivo o le tensioni che possono essere indotte da forme di hate speech senza limitare la libertà di parola, alcuni stati USA sono ricorsi a leggi domestiche per una più pacifica convivenza. A tal proposito citiamo l'ordinanza della "bubble zone" a Boulder, in Colorado, nel 1987, che cercò di dare una certa protezione dalle molestie

28 “Making Sense Of ‘God Hates Fags’ And ‘Thank God For 9/11′: A Thematic Analysis Of

Milbloggers’ Responses To Reverend Fred Phelps And The Westboro Baptist Church.” Articolo pubblicato su Western Journal Of Communication da DanielC. Brouwerand e Aaron Hess il 23 marzo2015.

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ai pazienti che entravano e uscivano dalle cliniche per aborti30. Questa nuova legge ha costretto i manifestanti a stare ad almeno 100 piedi di distanza dall'ingresso di qualsiasi struttura medica ed a mantenere almeno otto metri di distanza da qualsiasi persona che entri o esca dall'edificio. Nonostante quindi l’ordinanza permettesse ai manifestanti di proseguire le loro proteste, la distanza imposta era tale da consentire ai pazienti di non vedere i messaggi dei manifestanti.

Una legge simile denominata "Fred Phelps bill" è stata emanata in più Stati ed ha stabilito dei limiti su “…the proximity of protesters to the funeral site and the timing of funeral protests"31. Sebbene queste disposizioni possano apparire molto blande, esse sono le uniche possibili. Infatti laddove le leggi statali o le ordinanze locali hanno tentato di limitare la libertà di manifestazione del pensiero dei cittadini, addirittura su cose abbastanza eclatanti come il vilipendio della bandiera nazionale32 o il tentativo di vietare discorsi od espressioni che suscitano rabbia, allarme o risentimento in altri sulla base di razza, colore, credo, religione o gender33 sono sempre state stroncate dalla Corte Suprema in virtù della tutela del Primo Emendamento.

Sebbene la libertà di espressione negli Stati Uniti sia molto più tutelata rispetto che nei paesi europei, essa non è illimitata: nella sentenza Chaplinsky v. New Hampshire, 315 U.S. 568 (1942) la Corte Suprema affermò: “There are certain well-defined and narrowly limited classes of speech, the prevention and punishment of which have never been thought to raise any constitutional problem. These include the lewd and

30 “Too Close for Comfort: Protesting outside Medical Facilities.”Vol. 101, No. 8 (1988) , pp. 1856-1875

31 Vedi nota 28:

32Street v. New York, 394 U.S. 576 (1969) e a seguire Texas v. Johnson, 491 U.S. 397 (1989), riaffermato anche in in U.S. v. Eichman, 496 U.S. 310 (1990)

33 "…arouses anger, alarm or resentment in others on the basis of race, color, creed, religion or gender" R.A.V. v. City of St. Paul, 505 U.S. 377 (1992)

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obscene, the profane, the libelous, and the insulting or "fighting words" those that by their very utterance inflict injury or tend to incite an immediate breach of the peace. It has been well observed that such utterances are no essential part of any exposition of ideas, and are of such slight social value as a step to truth that any benefit that may be derived from them is clearly outweighed by the social interest in order and morality”.

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4. Internet e libertà di espressione.

Nerlla società odierna, le nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso ad un pubblico più vasto di esporre il proprio pensiero in modo più immediato (basti pensare a siti internet, pubblicità, banner o più semplicemente all’utilizzo di piattaforme social come Twitter, Facebook, Istagram o Youtube). Conseguentemente è sorto il problema da una parte di come tutelare il diritto di parola su piattaforme virtuali e di come reprimerne gli abusi dall’altra.

In modo alquanto lungimirante, la Costituzione italiana garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21 Cost. comma primo). Questa enunciazione, dotata di così ampia flessibilità rispetto al mezzo di diffusione del pensiero, ha permesso l’integra sopravvivenza dell’articolo sopracitato nonoastante l’introduzione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa che, come Internet, non erano neppure ipotizzabili ai tempi della redazione della Carta. L’esperienza ha ormai dimostrato, che, non diversamente dagli altri mezzi di comunicazione, la rete può essere utilizzata per recare offesa sia valori ordinamentali collettivi, sia a interessi e diritti dei singoli. Risulta necessario capire se sia sufficiente adeguare le regole esistenti al nuovo sistema o se occorre introdurre regole nuove, che rispettino, in ogni caso, i principi costituzionali. Comunque è evidente che il mezzo di comunicazione in oggetto possiede una particolarità intrinseca di cui il legislatore non può non tenere conto: a chi attribuire la responsabilità dei contenuti immessi, considerando l’impossibilità, per chi fornisce le piattaforma social, di verificarli tutti, e la facoltà dell’anonimato? Oppure, come rendere valida

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una disciplina statale su un mezzo che non ha barriere nazionali o, all’inverso, come renderla efficace nel solo territorio statale senza limitare la sovranità delle altre nazioni?

Per cercare risposta a questi interrogativi, il Consiglio d’Europa ha redatto a Strasburgao, la Convenzione sul Cybercrime e il suo Protocollo addizionale, adottati tra il novembre del 2001 e il novembre 2002 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. La convezione, entrata in vigore il 1° luglio 2004 e ratificata dall’Italia con Legge 18 marzo 2008 n.48, cerca di armonizzare le leggi nazionali, migliorare le tecniche investigative ed aumentare la cooperazione tra gli Stati al fine di contrastare i crimini informatici, quali violazioni di network, di

sicurezza, frodi informatiche, violazioni del copyright e

pedopornografia. Il protocollo addizionale, entrato in vigore il primo marzo 2006, richiede agli Stati partecipanti di criminalizzare la diffusione di materiali o insulti razzisti e xenofobi attraverso l’utilizzo di internet e dei dispositivi telematici, e all’articolo 6, sezione 1, richiede inoltre che sia punito anche la negazione dell’Olocausto e degli altri genocidi riconosciuti dalle corti internazionali. In particolare, l’art. 1 recita:

The purpose of this Protocol is to supplement, as between the Parties to the Protocol, the provisions of the Convention on Cybercrime, opened for signature in Budapest on 23 November 2001 (hereinafter referred to as “the Convention”), as regards the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems

L’art. 2, al primo paragrafo, fornisce inoltre una definizione del termine hate speech:

“Racist and xenophobic material” means any written material, any image or any other representation of ideas or

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theories, which advocates, promotes or incites hatred, discrimination or violence, against any individual or group of individuals, based on race, colour, descent or national or ethnic origin, as well as religion if used as a pretext for any of these factors 34

Con riferimento alle “Measures to be taken at national level”, il protocollo addizionale prevede che:

Each Party shall adopt such legislative and other measures as may be necessary to establish as criminal offences under its domestic law, when committed intentionally and without right, the following conduct: distributing, or otherwise making available, racist and xenophobic material to the public through a computer system35

In generale, possiamo riassumere che il Protocollo punisce i seguenti crimini:

- minacciare, attraverso un sistema informatico ed attraverso la commissione di un reato grave secondo il proprio diritto interno, una persona o un gruppo di persone per motivi legati alla razza, al colore, alla discendenza, all’origine etnica o nazionale, alla religione;

- insultare pubblicamente, attraverso un sistema informatico, una persona o un gruppo di persone per ragioni legate alla razza, al colore, alla discendenza, all’origine etnica o nazionale, alla religione;

- distribuire, o rendere disponibile, attraverso un sistema informativo, materiale che nega, minimizza, approva o giustifica genocidi o altri crimini contro l’umanità, come definiti dalla legge internazionale e riconosciuti tali dal Tribunale Militare Internazionale, istituito

34 Additional Protocol to the Convention on Cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems, Articolo 2, Paragrafo 1.

35 Additional Protocol To The Convention On Cybercrime, Concerning The

Criminalisation Of Acts Of A Racist And Xenophobic Nature Committed Through Computer Systems, articolo 3, paragrafo 1.

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dall’Accordo di Londra l’8 agosto 1945, o da altri tribunali internazionali.

L’Italia ha espresso la sua volontà di aderire al suddetto Protocollo mediante la firma che ha avuto luogo il 9 novembre 2011. Tuttavia non ha ancora elaborato una legge atta a ratificare il documento del Consiglio d’Europa. L’amministrazione Americana ha sottoscritto la Convenzione, ma non il Protocollo aggiuntivo, perché contrario ai suoi dettami costituzionali di libertà di espressione, che proteggono anche le opinioni razziste o gli incitamenti all’odio. Questo mette in luce, ancora una volta, la diversità della scuola americana ed europea sulla libertà di espressione che abbiamo evidenziato già nel capitolo precedente.

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5. I limiti alla libera manifestazione del pensiero

in Italia

Il principio costituzionale della libertà di espressione del pensiero, sancito nell’articolo 21 della Costituzione è definita pietra angolare del nostro ordinamento democratico perfino dalla Corte Costituzionale36, permette a chiunque di esprimere le proprie opinioni soggettive, anche fortemente critiche o aspre nei confronti di chi lo circonda. Questo principio incontra altresì alcune restrizioni.

5.1. Il buon costume

Il limite del buon costume viene esplicitamente dichiarato nell’ultima parte del suddetto articolo: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”. La definizione di “buon costume” è aperta a varie interpretazioni e ampi dibattiti. In primis se questa debba essere interpretata sotto il profilo civilistico o penalistico.

Nel primo contesto si intende per buon costume l’insieme delle regole di relazione che, secondo l’opinione comune, in un determinato momento storico, sono conformi alla morale corrente. Tale concetto è sicuramente troppo ampio e indeterminabile, e potrebbe addirittura permettere al

36 C. cost. n. 84/1969 in Giur.Cost. 1969, p. 1175 ss.; per una definizione della libertà in questione come primaria nel nostro ordinamento si vedano anche sent. n. 9/1965, in Giur. Cost. 1965, p. 79 (“la libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione una di quelle…che meglio caratterizzano il regime vigente dello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale”) ; sent. n. 11/1968, in Giur. Cost. 1968, p. 351 e p. 356 (“la più eminente manifestazione” delle libertà democratiche e “diritto coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione” ); sent. n. 168/1971, in Giur. Cost. 1981, p. 18 (“cardine del regime di democrazia garantito dalla Costituzione”)

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