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La lettura condivisa come strumento per potenziare le funzioni esecutive in età prescolare: applicazione italiana di Quincey Quokka's Quest

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica,

Molecolare e dell’area Critica

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

La lettura condivisa come strumento per

potenziare le funzioni esecutive in età

prescolare: applicazione italiana di

Quincey Quokka’s Quest

Relatore

Dott.ssa Chiara Pecini

Candidato

Chiara Bertolozzi

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INDICE

Abstract……….1

Il disturbo di regolazione……….……….2

1.1 L’autoregolazione………...………2

1.2 La definizione del disturbo………...…………..4

1.2.1 Definizione del Disturbo secondo la Classificazione 0-3R………..9

1.3 Ipotesi eziopatogenetiche………..11

1.4 Evoluzione del disturbo di regolazione……….13

1.5 Trattamento………...14

Le funzioni esecutive………..17

2.1 Lo sviluppo delle funzioni esecutive in età prescolare……….22

L’autoregolazione e il rapporto con le funzioni esecutive………..27

3.1 Lo sviluppo dell’autoregolazione……….27

3.2 Le componenti dell’autoregolazione……….28

3.2.1 Regolazione emotiva………...28

3.2.2 Regolazione comportamentale………...………… 29

3.2.3 Regolazione cognitiva……….…30

3.3 Funzioni esecutive di base e autoregolazione………...31

3.3.1 Working memory e autoregolazione………...31

3.3.2 Controllo inibitorio e autoregolazione………32

3.3.3 Flessibilità cognitiva e autoregolazione………..33

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Presentazione della ricerca sperimentale………38 4.1 Metodologia………..38 4.1.1 Partecipanti……….38 4.1.2 Intervento………....42 4.1.3 Misure……….49 4.1.4 Analisi dati………..52 4.2 Risultati……….52

4.2.1 Valutazione delle funzioni esecutive………..58

4.2.2 Analisi dei profili individuali del campione………...61

4.3 Discussione………...70

Conclusioni……….76

Bibliografia……….…79

(4)

1

ABSTRACT

L’obiettivo di questo elaborato è la presentazione di una ricerca che ha come oggetto un intervento di potenziamento delle Funzioni Esecutive in età prescolare. L’evidenza dell’efficacia dell’utilizzo di training cognitivi nell’incentivare le Funzioni Esecutive, specialmente in età precoce, quando esse risultano più sensibili, è stato il punto di partenza per la strutturazione di tale intervento. Lo scopo del training è quello di verificare l’efficacia dell’utilizzo dell’attività di lettura condivisa come strumento per potenziare le funzioni esecutive in un campione di bambini con difficoltà di regolazione in età prescolare. “Quincey Quokka’s Quest” è il libro utilizzato nello studio, che richiede al bambino di aiutare il protagonista della storia a superare una serie di ostacoli, ognuno dei quali è un’attività in cui viene messa in gioco, in modo ecologico, una o più funzioni esecutive. L’esposizione del progetto è preceduta da un approfondimento teorico riguardante il disturbo di regolazione, le funzioni esecutive, l’autoregolazione e il rapporto reciproco tra queste ultime, facendo riferimento alla letteratura recente. Tra i risultati, si riporta anche un approfondimento sui profili individuali dei bambini, studiando per ognuno la relazione esistente tra la sua storia clinico-relazionale e l’andamento dell’intervento. Sebbene preliminari e su un piccolo campione, i risultati della ricerca suggeriscono che l’esercizio di Funzioni Esecutive in attività di lettura condivisa è un possibile strumento d’intervento per i bambini con difficoltà di regolazione.

Keywords: disturbo di regolazione, età prescolare, funzioni esecutive, autoregolazione, lettura condivisa.

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CAPITOLO 1

Il disturbo di regolazione

1.1 L’autoregolazione

Questo disturbo si può descrivere facendo riferimento al costrutto teorico fondamentale di “autoregolazione.” Sappiamo infatti che il bambino è immerso all’interno di un pool di stimoli sensoriali esterni, che contribuiscono alla maturazione del suo sistema nervoso e di cui gradualmente ne apprende la modulazione. Egli deve imparare a effettuare continui aggiustamenti e regolazioni sugli stati di sonno, la digestione, le risposte nei confronti degli stimoli sensoriali ed essere anche capace di emettere risposte appropriate agli stimoli sociali. I sistemi di autoregolazione sono tutti quei meccanismi che consentono al bambino di filtrare gli stimoli del mondo esterno, attuare una processazione delle sensazioni, discriminare stimolazioni interne ed esterne, con il preciso obiettivo di adattare la propria risposta in funzione del ripristino dell’omeostasi (Greenspan 1997). Nel corso dei primi anni di vita, infatti, il bambino impara a organizzare le informazioni che, tramite i sensi, giungono dall’ambiente, apprende come dare loro un significato e diventa capace di emettere una conseguente risposta. Egli sviluppa quindi una propria modalità di rispondere a tali stimolazioni, ciò che viene definito “profilo sensoriale individuale”, ovvero un pattern unico che sta alla base dell’autoregolazione e che riguarda i meccanismi di processazione e integrazione sensoriale.

L’autoregolazione si sviluppa prevalentemente nella prima infanzia e soprattutto nei primi cinque anni di vita (Howard and Melhuish 2017): ciò sarà approfondito nel terzo capitolo di questo elaborato.

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3 Secondo il modello di Barry Lester e colleghi, vi sono quattro aspetti, le cosiddette “quattro A della prima infanzia”, che fondano l’autoregolazione:

1) l’Arousal, il livello di attivazione del sistema nervoso, che permette al bambino di regolare il passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno;

2) l’Attenzione, ovvero la capacità di mantenere il focus su un oggetto o su un compito; 3) l’Affetto, cioè tutto ciò che ha a che vedere con le emozioni, l’esperienza, il riconoscimento e l’espressione delle stesse;

4) l’Azione, la capacità di operare un effetto sulla realtà esterna, intervenendo su di essa.

Si tratta di elementi tra cui sussiste una relazione di interdipendenza e di influenza reciproca e che rappresentano il punto di incontro tra la modulazione degli stimoli esterni e la risposta agli stessi da parte del bambino (DeGangi 2000).

L’autoregolazione consente al soggetto di modulare i sistemi dell’emozione, comportamento e attenzione in relazione ad uno stimolo (Calkins and Fox 2002). L’accuratezza da parte del bambino nella lettura degli stimoli esterni, l’interiorizzazione di tutti gli aspetti routinari della quotidianità, e l’abilità di adattamento agli altri sono ingredienti fondamentali per una buona capacità di autoregolazione (DeGangi 2000). Essa è fondamentale per molti obiettivi di sviluppo, tra cui la creazione di relazioni affettive, la comunicazione intenzionale e il controllo degli stati interni (Cesari et al. 2003). Tra i processi che contribuiscono allo sviluppo dell’autoregolazione vi sono le funzioni esecutive (Hofmann et al. 2012), tra cui la capacità di aggiornare le informazioni in memoria, di esercitare un controllo inibitorio, di pianificare: si comprende quindi come questi processi siano ingredienti base

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4 necessari per lo sviluppo dell’autoregolazione e la capacità di esercitare il controllo delle proprie risposte. Il rapporto tra funzioni esecutive e autoregolazione è oggetto del terzo capitolo.

1.2 La definizione del disturbo

Nel 1994, all’interno della Classificazione Diagnostica 0-3 (DC:0-3, Zero to Three 1994) viene introdotta la categoria diagnostica dei Disturbi della regolazione dei processi sensoriali, con l’identificazione di diversi sottotipi, che si distinguono in base ai pattern comportamentali mostrati e al profilo di compromissione. Questa suddivisione è stata poi confermata anche nel 2005 con la revisione del manuale (DC:0-3R, Zero to Three 2005). Nell’attuale versione del manuale, la Classificazione Diagnostica 0-5 (DC:0-5, Zero to Three 2016), si parla di “Disturbo della processazione sensoriale”. Essa è la guida per la diagnosi dei disturbi mentali nella prima infanzia, fino ai cinque anni di età.

I bambini molto piccoli possono presentare alcune problematiche tipiche, come le coliche o i disturbi del sonno, che in genere si risolvono spontaneamente durante lo sviluppo. Secondo DeGangi e collaboratori (1991) si parla di Disturbo della regolazione quando le difficoltà in questi ambiti persistono oltre i 6 mesi: il bambino presenta agitazione, difficoltà a calmarsi, irritabilità, intolleranza al cambiamento e uno stato di iperarousal (DeGangi et al. 1991). Il disturbo di regolazione è stato anche definito come caratterizzato da due aspetti: deficit nell’auto-regolazione e ipersensitività, senza ritardo dello sviluppo (Dale et al. 2011).

Questo tipo di disturbo, secondo la Classificazione Diagnostica 0-5 (DC: 0-5, Zero to Three 2016), viene diagnosticato quando il bambino presenta comportamenti che

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5 riflettono anomalie nella regolazione dell’input sensoriale, emerge un disagio o una compromissione del funzionamento del bambino nelle attività quotidiane e non vi è una dipendenza rispetto ad altri disturbi del neurosviluppo o a condizioni psicopatologiche. Le anomalie sensoriali possono essere risposte amplificate (iper-responsività) o ridotte (ipo-(iper-responsività) rispetto agli stimoli sensoriali, oppure possono essere risposte atipiche (annusare gli oggetti, soffermarsi su luci o immagini riflesse). Esse si presentano in uno o più contesti (casa, asilo nido, scuola materna, contesti di gruppo) e coinvolgono uno o più domini sensoriali (ad esempio tatto, vista, udito, olfatto, propriocezione). Oltre alle anomalie sensoriali, si osservano aspetti comportamentali atipici in reazione alla stimolazione sensoriale, come l’irritabilità, la bassa tolleranza alla frustrazione e ipo/iper-reattività. I sintomi non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale ma vi si possono trovare in associazione (eccezion fatta per il disturbo dello spettro dell’autismo, dove le anomalie sensoriali fanno parte dei criteri diagnostici). Si distinguono due sottotipi (iper-responsività e ipo-responsività sensoriale), entrambi accomunati dalla difficoltà nel cambiare le routine, evento che può comportare reazioni emotive negative intense (rabbia, aggressività, ansia, paura).

Disturbo da iper-responsività sensoriale

In questo caso è sufficiente una minima stimolazione per indurre nel bambino risposte e reazioni anche molto intense rispetto all’entità dello stimolo.

I criteri diagnostici attuali sono i seguenti:

A) Il bambino presenta un pattern pervasivo e persistente di iper-responsività sensoriale che comporta reazioni intense e negative a uno o più tipi di stimoli sensoriali

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6 (tattili, visivi, uditivi, vestibolari, olfattivi, gustativi, propriocettivi o interocettivi) in più di un contesto (come ad esempio a casa, all’asilo nido o alla scuola materna, al parco giochi) e con diversi caregiver (se il bambino ha più di un caregiver). L’intensità o la durata della risposta sono sproporzionate rispetto all’intensità dello stimolo. Entrambi i criteri 1 e 2 devono essere presenti:

1. Il bambino mostra intense risposte comportamentali o emotive quando è esposto a stimoli che evocano in lui delle sensazioni. L’intensità e la durata della risposta sono sproporzionate rispetto all’intensità degli stimoli;

2. Il bambino cerca di evitare preventivamente il contatto con gli stimoli sensoriali avversi.

B) Il bambino non soddisfa i criteri diagnostici per l’ASD. I sintomi non sono meglio spiegati da un Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività.

C) I sintomi del disturbo o l’adattamento dei caregiver ai sintomi, compromettono significativamente il funzionamento del bambino o della famiglia in uno o più dei seguenti modi: causano disagio al bambino; interferiscono nelle relazioni del bambino; limitano la partecipazione del bambino alle attività e alla routine adeguate al suo sviluppo; limitano la partecipazione della famiglia alle routine o alle attività quotidiane; limitano la capacità del bambino di imparare e di sviluppare nuove abilità o interferiscono con i progressi dello sviluppo.

Inoltre, l’età del bambino deve essere di almeno sei mesi e il pattern di iper-responsività presentarsi con una durata di almeno tre mesi. La prevalenza del disturbo, in cui non vi sono differenze di genere, è tra il 5 e 16,5%, con una modesta stabilità dei sintomi nel corso degli anni. I bambini piccoli possono manifestare sintomi di

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iper-7 responsività sensoriale quali: piangere eccessivamente o avere difficoltà a calmarsi dopo un forte rumore, mostrare disagio anche se consolati con movimenti dolci (cullandoli) o altre esperienze sensoriali. Quando il bambino cresce, può sviluppare comportamenti oppositivi o di evitamento quando gli viene chiesto di partecipare ad attività che includono l’esposizione a sensazioni a cui ha reagito con risposte avverse. I fattori di rischio sono la nascita pretermine (alto rischio), fattori ambientali come mancanza di movimento o stimolazione tattile nei primi anni di vita, esposizione a droghe o stress prenatale, istituzionalizzazione; sembra vi sia inoltre una ereditarietà del disturbo. I bambini più a rischio di anomalie nella regolazione sono coloro che presentano una disabilità intellettiva o un ritardo globale dello sviluppo. Le comorbilità più importanti sono problemi comportamentali ed emotivi in età prescolare e problemi nel rendimento scolastico in età scolare, oltre che un rischio elevato di andare incontro ad un disturbo d’ansia (DC:0-5, Zero to Three 2016).

Disturbo da ipo-responsività sensoriale

In questo caso è necessario uno stimolo molto intenso affinché il bambino presenti una reazione.

I criteri diagnostici attuali sono i seguenti:

A) Il bambino presenta un pattern pervasivo e persistente di ipo-responsività sensoriale che include reazioni mutaciche o neutre a uno o più tipi di stimoli sensoriali intensi (compresi stimoli tattili, visivi, uditivi, vestibolari, olfattivi, o gustativi), in più di un contesto (ad esempio a casa, all’asilo nido o alla scuola materna, al parco giochi) e con diversi caregiver (se il bambino ha più di un caregiver). L’intensità minima della

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8 reattività o la latenza nella risposta risultano sproporzionate rispetto all’intensità dello stimolo. Entrambi i criteri 1 e 2 devono essere presenti:

1. Il bambino mostra risposte emotive o comportamentali ridotte quando esposto a stimoli intensi che dovrebbero evocare una forte, o almeno moderata, risposta sensoriale. L’intensità minima di reazione, la lunga latenza di risposta e la breve durata della risposta non sono proporzionate all’intensità dello stimolo; 2. Il bambino è prevedibilmente non responsivo a stimoli sensoriali quotidiani che dovrebbero evocare una forte risposta positiva o negativa (anche quando la mancanza di risposta potrebbe causare una ferita).

B) Il bambino non soddisfa i criteri diagnostici per l’ASD. I sintomi non sono meglio spiegati da un Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività.

C) I sintomi del disturbo, o l’adattamento dei caregiver ai sintomi, compromettono significativamente il funzionamento del bambino e della sua famiglia in uno o più dei seguenti modi: causano disagio al bambino; interferiscono nelle relazioni del bambino; limitano la partecipazione del bambino alle attività e alla routine adeguate al suo sviluppo; limitano la partecipazione della famiglia alle routine o alle attività quotidiane; limitano la capacità del bambino di imparare e di sviluppare nuove abilità o interferiscono con i progressi dello sviluppo.

Inoltre, l’età del bambino deve essere almeno sei mesi e il pattern di ipo-responsività sensoriale presentarsi da almeno tre mesi. Si tratta di un disturbo di cui non è nota la prevalenza, essendo presumibilmente raro. Vi sono dati insufficienti riguardo a decorso, fattori di rischio, comorbilità e differenze di genere. Per diagnosticarlo è necessario dare una chiara dimostrazione di responsività limitata agli input sensoriali.

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I bambini con ipo-responsività sensoriale possono trovare difficoltà ad esplorare l’ambiente, essere pigri, apatici, possono ricercare forti stimolazioni sensoriali oppure avere una soglia del dolore molto alta (DC:0-5, Zero to Three 2016).

Si può definire il Disturbo di regolazione come derivante dalla risposta anomala ad uno stimolo sensoriale, che comporta difficoltà comportamentali e di regolazione emotiva. È importante sottolineare che la compromissione non si ha all’interno degli organi di senso, ma coinvolge il livello di elaborazione dello stimolo da parte del sistema nervoso. Durante il processo diagnostico è necessario fare un’indagine ampia che riguardi le caratteristiche costituzionali e di sviluppo del bambino (affettività, motricità, cognizione, linguaggio), ma è fondamentale anche che tale ricerca si estenda anche al sistema familiare, andando ad osservarne il funzionamento, le dinamiche relazionali di coppia e le interazioni tra il bambino e i genitori. È proprio grazie all’organizzazione multiassiale, che caratterizza il manuale sopracitato, che è facilitata l’individuazione di tutti questi aspetti, necessari per la diagnosi.

1.2.1 Definizione del Disturbo secondo la Classificazione 0-3R

I criteri diagnostici per il Disturbo di regolazione nella Classificazione Diagnostica 0-3R (DC: 0-0-3R, Zero to Three 2005), su cui ci si è basati nella valutazione dei bambini che compongono il campione del presente studio, sono differenti da quelli presenti nella versione attuale CD 0-5 (DC: 0-5, Zero to Three 2016). Infatti, la diagnosi di Disturbo della Regolazione della Processazione Sensoriale implica la presenza di tre caratteristiche: 1) difficoltà nella processazione sensoriale; 2) difficoltà motorie; 3) uno specifico pattern comportamentale. Esso comprende tre sottotipi categoriali:

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10 -Ipersensibile: i bambini sono ipersensibili agli stimoli sensoriali, che sperimentano come avversi. Si distingue il “TIPO A: Pauroso/Cauto”, in cui l’ipersensibilità può coesistere con un Disturbo d’ansia. Si ha iper-reattività agli stimoli sensoriali, a cui si danno risposte come paura, grida, congelamento, tentativi di fuga dallo stimolo, aumento della distraibilità, aggressività, agitazione motoria; inoltre l’ipersensibilità può limitare l’interazione con l’ambiente e lo sviluppo motorio: i pattern motori includono difficoltà nel controllo posturale, difficoltà nella coordinazione motoria fine e nella pianificazione motoria, minore tendenza all’esplorazione; infine i pattern comportamentali comprendono eccessiva cautela, inibizione e paura, e in particolare in età prescolare si possono ritrovare: paure eccessive/preoccupazioni, timidezza di fronte a persone/cose sconosciute, distraibilità da parte dello stimolo sensoriale, impulsività, irritabilità, difficoltà nel superare la frustrazione, evitamento della novità. Il “TIPO B: Negativo/Provocatore” invece presenta un’ipersensibilità sensoriale che può coesistere con un Disturbo da comportamento dirompente. I pattern sensoriali e motori sono uguali al tipo A, mentre i pattern comportamentali vi si distinguono: può essere presente un comportamento negativista (scoppi di rabbia), comportamenti controllanti, preferenza per la ripetitività, difficoltà di adattamento, perfezionismo. Il bambino in questo caso tende ad avere un lento coinvolgimento nelle nuove esperienze ed è aggressivo solo se provocato.

-Iposensibile/Iporesponsivo: in tal caso si necessita di un’elevata intensità dello stimolo per avere la risposta. Si tratta di bambini calmi e vigili, apparentemente non recettivi alle proposte altrui, anche se il loro ritiro e mancanza di responsività non è un segno di disinteresse, ma riflette l’incapacità di raggiungere la soglia che li può motivare a rispondere e interagire. I pattern sensoriali riguardano l’iporeattività agli

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11 stimoli sensoriali (come suoni, olfatto, gusto, movimento). I pattern motori includono una limitata esplorazione, ristretto repertorio di gioco, attività sensoriali ripetitive (ad esempio il dondolio), letargia, goffaggine. I pattern comportamentali riguardano l’apparente disinteresse per l’esplorazione delle proprietà degli oggetti e per i giochi impegnativi, apatia, affaticabilità, ritiro dagli stimoli e disattenzione.

-Impulsivo/Alla Ricerca di Stimolazione Sensoriale: come i bambini iposensibili, essi necessitano di un’elevata intensità dello stimolo sensoriale per rispondervi, ma a differenza di loro cercano attivamente di soddisfare il bisogno di alti livelli di stimoli sensoriali. Si può associare ad un Disturbo da deficit di attenzione/Iperattività. I pattern di reattività sensoriale includono uno spasmodico desiderio di stimoli sensoriali di elevata intensità. I pattern motori riguardano il bisogno di scariche motorie, impulsività, tendenza agli incidenti. I pattern comportamentali comprendono elevati livelli di attività, ricerca di contatto con persone e oggetti, temerarietà, comportamento disorganizzato. In età prescolare, in particolare, i bambini possono essere aggressivi, invadenti, temerari, concentrati su temi aggressivi nel gioco di finzione (DC:0-3R, Zero to Three 2005).

1.3 Ipotesi eziopatogenetiche

Le cause del disturbo sono da ricercarsi nell’intreccio di genetica e ambiente: fattori genetici ed ereditarietà si sommano a fattori ambientali, tra cui difficoltà nel parto e nella gravidanza, ambienti deprivati di stimolazioni sensoriali (ad esempio movimento, gioco). Inoltre, è stato indagato il contributo della genetica, studiando i polimorfismi nel gene del trasportatore della serotonina 5-HTTLPR: avere un allele

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12 “short” (ss/sl) comporta un genotipo ad alto rischio correlato a deficit di auto-regolazione, mentre il rischio è basso se vi è una condizione di omozigosi per l’allele “long” (ll). Si è visto però che, tra coloro che presentano l’allele corto (ss/sl), solo quelli che hanno avuto un attaccamento insicuro alle loro madri sviluppavano in seguito scarse capacità di regolazione da bambini e durante l’età prescolare, mentre coloro che hanno manifestato un attaccamento sicuro riuscivano a sviluppare buone capacità regolatorie, al pari dei bambini omozigoti per l’allele lungo. Si dimostra così come l’attaccamento sicuro sia un fattore protettivo rispetto al rischio conferito dal genotipo (Kochanska et al. 2009).

Una delle spiegazioni avanzate per questo disturbo è la cosiddetta ipotesi vagotonica: il disturbo della regolazione sarebbe in questo senso una precoce manifestazione di vagotonia. Si tratta di una condizione del sistema nervoso parasimpatico che causa disturbi del sistema autonomico in cui non si ritrovano danni specifici d’organo: la vagotonia è caratterizzata da un tono vagale elevato e da un’iperreattività del vago. I soggetti con disturbo della regolazione manifesterebbero una iperattività autonomica sostenuta da difettosi programmi neurali e mediati dai neurotrasmettitori attraverso il vago. Questa ipotesi è stata confermata in particolare da uno studio di DeGangi e collaboratori (1991), in cui si è visto che i bambini con disturbo di regolazione, rispetto ai controlli, mostrano cambiamenti nel tono vagale non in rapporto al tono vagale cardiaco di base: ciò dimostrerebbe la difficoltà reale di questi bambini nel regolare il sistema nervoso autonomico per supportare i processi attentivi durante le attività cognitive. Inoltre, essi mostrerebbero anche livelli più alti nel tono vagale di base. Sembra quindi che vi sia una relazione tra le difficoltà di regolazione del tono vagale e processi cognitivi ed emotivi, e in particolare questa problematica vagale esiterebbe

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13 in deficit nei processi che sostengono le capacità attentive e di controllo emotivo, con la possibilità di sfociare in disturbi dell’apprendimento o dell’emotività (DeGangi et al. 1991).

1.4 Evoluzione del disturbo di regolazione

Il Disturbo della regolazione della processazione sensoriale può scontrarsi con una serie di difficoltà di sviluppo che il bambino potrebbe presentare nella prima infanzia, che possono essere transitorie, oppure invece essere campanelli d’allarme per la comparsa di disturbi più complessi. Si possono quindi ipotizzare fattori endogeni e ambientali che nel corso del tempo possono attutire o al contrario rinforzare le difficoltà di regolazione. L’evoluzione del disturbo è influenzata dall’incontro di genetica e ambiente: se i geni possono predisporre verso una determinata traiettoria evolutiva, è anche vero che i fattori protettivi o di rischio che si trovano nell’ambiente di crescita possono modificare il corso degli eventi. In particolare, il caregiver può rappresentare un importante protezione da tali rischi: se riesce a comprendere i comportamenti del bambino nei confronti degli stimoli sensoriali e a darvi un significato, potrà aiutarlo a migliorare le sue capacità di regolazione, al contrario, se ciò non avviene, le risposte disadattive del soggetto potrebbero intensificarsi.

Il disturbo della regolazione risulta essere antecedente a tanti disturbi e può quindi evolvere in varie traiettorie psicopatologiche. Sembra infatti che alcuni sintomi precoci dei bambini che presentano un disturbo dell’apprendimento o un disturbo dello spettro autistico siano gli stessi di chi presenta un disturbo della regolazione: incapacità di regolare i cicli sonno-veglia, ipersensibilità alla stimolazione, irritabilità, coliche (Ayres 1979; DeGangi and Greenspan 1988). Il bambino con disturbo della

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14 regolazione risulta a rischio di difficoltà nel campo dell’apprendimento e delle emozioni (DeGangi et al. 1991). Anche in un altro studio si è visto come l’evoluzione clinica dei bambini con questo disturbo sia molto eterogenea: una volta giunti all’età scolare si può avere una completa risoluzione sintomatologica oppure può manifestarsi un Disturbo dello spettro autistico o ritardo mentale anche di gravità elevata (Maestro et al. 2012). Inoltre, si è visto che i soggetti con disturbo di regolazione hanno un alto rischio di sviluppare in età prescolare difficoltà comportamentali, percettive, linguistiche e di integrazione sensoriale (DeGangi 2000). Quando il deficit di regolazione persiste nel tempo, il bambino può ricevere frequentemente diagnosi di disturbo dell’umore, disturbo d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da deficit di attenzione (DeGangi 2000).

Secondo un altro studio, difficoltà nell’auto-regolazione sono collegate a problematiche emergenti nel campo dei disturbi del comportamento dirompente (Calkins 2009). Fallimenti nella capacità di regolazione emotiva, che fa parte del costrutto di auto-regolazione (Calkins et al. 2004), potrebbero infatti causare comportamenti problematici; inoltre, a causa dell’incapacità di controllare le emozioni negative, sono limitate le opportunità di apprendere capacità adattive in contesti di interazione sociale (Calkins 2009).

1.5 Trattamento

I genitori di un bambino con Disturbo di Regolazione possono sentirsi incapaci e questo amplifica ancora di più i comportamenti disadattivi mostrati dal figlio. Gli interventi che oggi vengono portati avanti hanno l’obiettivo di agire in un’età precoce, per cercare di indirizzare e promuovere un percorso di sviluppo più adattivo: ciò è

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15 possibile intervenendo sulle vulnerabilità connesse al difetto di integrazione sensoriale, tipico di questi bambini. Ogni intervento dovrebbe fondarsi sempre su una specifica attenzione da riservare al bambino, ma anche ai contesti relazionali in cui egli è inserito, e quindi primariamente all’ambiente familiare e all’interazione del soggetto con i caregivers. È fondamentale l’inclusione dei genitori nel piano di intervento, affinché per questi bambini si possa favorire il passaggio da una regolazione esterna fornita dal genitore ad una vera e propria autoregolazione emessa in modo indipendente. In questo modo, il bambino riuscirà a mettere in atto comportamenti più funzionali per lui e per i contesti sociali e a gestire adeguatamente e in autonomia le reazioni agli eventi esterni.

Il trattamento congiunto che include i genitori e il bambino nasce dalla necessità di comprendere il contributo che le due parti forniscono all’instaurarsi dei pattern relazionali, e riserva un’attenzione e una comprensione alle modalità interpersonali da una parte (la relazione) e agli aspetti soggettivi dall’altra (modalità dei genitori di rappresentare se stessi e il bambino). Risulta molto importante la capacità dei genitori di comprendere e sintonizzarsi sulle modalità di reazione agli stimoli e sulla sua sensibilità sensoriale, specifica per ogni bambino, tenendo conto della bassa o alta soglia di attivazione che lo caratterizza. Alla luce di questi concetti, Winnie Dunn (1997) ha gettato le basi per l’ideazione di un intervento basato sull’elaborazione sensoriale, che ha l’obiettivo di fornire il livello di stimolazione adeguata per lo stile di attivazione tipico del bambino. Una specifica attenzione a tali peculiari modalità sensoriali consente ai bambini di sentirsi compresi e può migliorare i difetti di regolazione. Alcuni accorgimenti dei genitori possono aiutare in tal senso: preparare il bambino agli elementi di novità, rispettando i suoi tempi ed eventualmente

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16 affiancandolo inizialmente, suddividere gli obiettivi in piccoli compiti sequenziali, favorire il rispecchiamento delle sue emozioni e la loro comprensione e verbalizzazione, moderare la quantità di stimoli in ingresso.

È sempre fondamentale il lavoro congiunto tra scuola, famiglia e strutture di cura, per affrontare meglio le criticità, per permettere una adeguata comprensione della situazione da parte dei genitori e per avere uno scambio sulle modalità più utili ed efficaci per far fronte alle problematiche che emergono.

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CAPITOLO 2

Le funzioni esecutive

Le funzioni esecutive si riferiscono ad una serie di processi mentali fondamentali, si tratta di un set di operazioni e meccanismi cognitivi di ordine superiore che facilitano il comportamento adattivo e goal-directed, in un ambiente costantemente in cambiamento (Jurado and Roselli 2007). Esse sono necessarie quando c’è bisogno di concentrazione e attenzione, oppure quando andare in automatico o basarsi su istinto o intuizione sarebbe sconsiderato, insufficiente o impossibile (Diamond 2013). Come afferma una delle studiose più celebri di questo ambito, le funzioni esecutive permettono di giocare mentalmente con le idee (Diamond 2013) e sono ciò che consente di risolvere i problemi ricercando soluzioni creative e da diverse prospettive, rimandare le gratificazioni, adattarci rapidamente e in modo flessibile alle mutate circostanze, prendere tempo per considerare cosa fare dopo, resistere alle tentazioni, rimanere concentrati e affrontare nuove sfide impreviste, pianificare le azioni future, controllare gli impulsi (Diamond 2013). Le funzioni esecutive, o di controllo cognitivo, ci consentono di inibire comportamenti radicati, focalizzare l'attenzione in modo strategico e organizzare i nostri pensieri di fronte a distrazione, complessità e stress (Blair 2017). Le funzioni esecutive si suddividono in due tipologie: le cosiddette funzioni “fredde”, come la working memory, la pianificazione, la flessibilità cognitiva, l’inibizione, il monitoraggio, ovvero tutte le operazioni sostenute dalla cognizione e dal ragionamento; le funzioni “calde”, supportate invece, oltre che dalla cognizione, anche da processi di stampo emotivo, come l’empatia e la teoria della mente (ToM). Le funzioni esecutive trovano la loro rappresentazione cerebrale all’interno della

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18 corteccia prefrontale (PFC), con una differenziazione: se le funzioni esecutive fredde si ritrovano rappresentate prevalentemente a livello della sezione dorsolaterale della corteccia sopracitata, quelle calde sono più rappresentate nella parte ventromediale.

Le funzioni esecutive sono predittive di capacità future: ad esempio uno studio ha dimostrato che esiste un’associazione tra un miglior punteggio in task che misurano le funzioni esecutive a quattro anni e capacità matematiche più sviluppate all’età di sei anni, all’inizio della scuola primaria; per contro, difetti nelle funzioni esecutive sono stati riportati in bambini con difficoltà nell’apprendimento della matematica (Clark et al. 2010). Inoltre, si è visto che bambini da 3 a 11 anni di età con un miglior controllo inibitorio avevano una maggiore permanenza nella scuola, minore tendenza all’uso di droghe e fumo, guadagnavano di più da adulti e avevano una migliore salute fisica e mentale (Moffitt et al. 2011). In generale, le funzioni esecutive hanno un effetto su molteplici aspetti della vita: risultano più predittive rispetto al QI sulle capacità scolastiche (Morrison et al. 2010) e l’effetto positivo si ha non solo sulla matematica (Clarke et al. 2010), ma anche sulla lettura (Borella et al. 2010); funzioni esecutive scarse comportano maggiori difficoltà sul lavoro per quanto riguarda la produttività, la ricerca e il mantenimento di un’occupazione (Bailey 2007); si riscontra un impatto anche sulla salute fisica, con problemi di obesità e scarsa compliance ai trattamenti (Crescioni et al. 2011) e un effetto sulla qualità della vita (Davis et al. 2010).

Le funzioni esecutive, inoltre, possono essere oggetto di training e potenziamenti: si dice che le “cellule che si accendono insieme, si legano insieme” ovvero gran parte dei circuiti del cervello e la forza della connettività sono modellati nel tempo dall’esperienza (ciò che viene definito “attività dipendente dall’uso”). Pertanto, è ragionevole aspettarsi che un individuo possa allenare le sue funzioni esecutive

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19 rafforzando i circuiti neurali che sono alla base di tali abilità. Praticando ripetutamente i tipi di compiti delle funzioni esecutive, si attiverebbero i circuiti neurali del cervello che vanno dalla corteccia prefrontale al sistema limbico, così come la connettività in tutto il cervello in relazione al compito da svolgere. Presumibilmente tale pratica ripetuta, purché non diventasse troppo noiosa e rimanesse moderatamente stimolante, rafforzerebbe il controllo dall'alto verso il basso (dalla PFC alle zone limbiche), così come ad altre aree cerebrali, portando a un migliore controllo delle risposte emotive e ad un controllo esecutivo più forte (Blair 2017).

C’è accordo sull’esistenza di tre funzioni esecutive di base: inibizione, working memory e flessibilità cognitiva (Miyake et al. 2000).

-Controllo inibitorio: il controllo inibitorio implica la capacità di controllare l'attenzione, il comportamento, i pensieri e/o le emozioni per fare ciò che è più appropriato o necessario. Gli stimoli ambientali esercitano un’influenza sul nostro comportamento, ma avere la capacità di esercitare un controllo inibitorio crea la possibilità di cambiamento e scelta. Il controllo inibitorio dell'attenzione (controllo delle interferenze a livello percettivo) per esempio permette di concentrarsi selettivamente su ciò che scegliamo e sopprimere l'attenzione su altri stimoli: ne è un esempio il cosiddetto “effetto cocktail party”, ovvero quando riusciamo ad azzerare tutti i rumori isolandone uno solo, come una voce. Un altro aspetto del controllo delle interferenze è l’inibizione cognitiva, cioè la soppressione delle rappresentazioni mentali prepotenti. L'autocontrollo, sempre facente parte del controllo inibitorio, riguarda invece il controllo di sé e delle proprie emozioni al servizio del controllo del proprio comportamento; implica l’abilità di posticipare la gratificazione, ovvero resistere alle tentazioni e non agire impulsivamente, completare un compito nonostante

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20 le distrazioni o il desiderio di arrendersi e passare ad attività più piacevoli (Diamond 2013). Senza uno sviluppo adeguato di questa abilità, non saremmo in grado di inibire le distrazioni irrilevanti durante lo svolgimento di un compito, né di prenderci tempo prima di agire; il soggetto sarebbe più in balia di stimoli interni ed esterni (Usai et al. 2017). Una prova per rilevare la capacità inibitoria è lo Stroop Test (Stroop 1935), in cui si richiede al soggetto di denominare il colore dell’inchiostro con cui è scritta la parola, ignorando la parola stessa. Un’altra prova è il Go/No-Go task (Fillmore 2003), in cui è richiesto di compiere un’azione (ad esempio premere un bottone) in presenza di un certo stimolo e di non effettuarla se vi è uno stimolo differente.

-Working memory (WM): è l’abilità di tenere a mente informazioni, manipolarle, aggiornarle e lavorare mentalmente con esse (Baddeley and Hitch 1994). Si distingue in due tipologie: working memory verbale e visuo-spaziale. È un aspetto fondamentale per connettere e mettere in relazione ciò che è accaduto con ciò che verrà dopo, riordinare mentalmente idee o oggetti, dare senso a elementi scritti o effettuare procedimenti matematici. La working memory ci consente di essere creativi e quindi di fare uno smontaggio degli elementi da un tutto integrato, per ricombinarli in modi nuovi. Si fa riferimento anche alla capacità di aggiornare le informazioni in memoria (updating) per la risoluzione di un compito (Usai et al. 2017). Quest’abilità è sostenuta perlopiù dall’attivazione cerebrale della corteccia prefrontale dorsolaterale. Working memory e controllo inibitorio sono funzioni interconnesse: da un lato la WM sostiene il controllo inibitorio, infatti si deve tenere a mente il proprio obiettivo per poter sapere ciò che è rilevante o che è necessario inibire; d’altra parte, per correlare idee e ricombinarle in modo creativo, è necessario mantenere un focus specifico e sopprimere distrazioni e interferenze interne ed esterne attraverso l’inibizione (Diamond 2013).

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21 La WM presenta una notevole somiglianza con ciò che si definisce “attenzione selettiva”, in quanto tenere a mente informazioni per un certo tempo non significa altro che mantenere un’attenzione focalizzata su quei contenuti mentali, e sembra infatti che i miglioramenti che si riscontrano nell’una e nell’altra funzione vadano di pari passo (Stedron et al. 2005). Una prova ampiamente utilizzata per misurare la WM visuo-spaziale è il test di Corsi (Lezak 1983): un soggetto osserva l’esaminatore che tocca una serie di cubi ed egli deve toccarli subito dopo nello stesso ordine. Un’altra prova riguarda la ripetizione di elementi ascoltati riordinandoli secondo un criterio: ad esempio riordinare i numeri 5, 9, 4, 7 in ordine numerico crescente (4, 5, 7, 9).

-Flessibilità cognitiva: questa funzione esecutiva poggia sulle altre due ed emerge tardivamente nello sviluppo (Garon et al. 2008). Essa riguarda la capacità di cambiare prospettiva, sia a livello spaziale, immaginando di guardare un oggetto da un’altra direzione, sia a livello interpersonale, cercando di adottare il punto di vista dell’altro. Inoltre, implica la capacità di cambiare il nostro pensiero su un certo argomento, di avere flessibilità per adeguarsi al cambiamento delle richieste o delle regole (per esempio durante lo svolgimento di un task), di ammettere se abbiamo sbagliato (Diamond 2013). Senza questa capacità ci sarebbe il rischio di perseverare nelle proprie azioni, anche quando esse non fossero più funzionali per gli scopi preposti (Usai et al. 2017). Uno strumento utile a misurare quest’abilità è il Wisconsin Card Sorting Test (WCST, Berg 1948), che presenta una serie di carte che raffigurano un determinato simbolo colorato: compito del soggetto è ordinare le carte secondo un criterio specifico (colore, forma, numero), che il paziente deve intercettare ed essere abile a cambiare al momento giusto.

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22 Le funzioni esecutive si esprimono in maniera differente nelle varie fasce d’età: i bambini più piccoli e gli adulti più anziani tendono ad esercitare le funzioni esecutive in modo reattivo, ovvero in risposta alle richieste ambientali, mentre i bambini più grandi e i giovani adulti tendono ad essere più pianificanti e anticipatori, ovvero le utilizzano in maniera proattiva (Munakata et al. 2012).

2.1 Lo sviluppo delle funzioni esecutive in età prescolare

I primi cinque anni di vita sono un momento cruciale per lo sviluppo delle funzioni esecutive (Garon et al. 2008). Sembra che queste funzioni emergano molto precocemente (forse intorno al primo anno di vita) per svilupparsi poi in un arco protratto di tempo (Zelazo and Müller 2002), in parallelo con lo sviluppo della corteccia prefrontale, che sottende tali funzioni (Kagan and Herschkowitz 2005) e che si sviluppa in particolare tra i 3 e i 6 anni. Secondo alcuni autori, all’età di 3-4 anni è difficile distinguere le funzioni esecutive, che quindi non vanno pensate come categorie separate, ma come un insieme unitario di abilità che si esprime differentemente a seconda del contesto (Wiebe et al. 2011; Willoughby and Blair 2016). Secondo un’altra linea di ricerca, invece, le differenti componenti del funzionamento esecutivo emergono separatamente e ognuna segue una propria traiettoria di sviluppo (Lerner and Lonigan 2014). Già a partire dai 4 anni, secondo alcuni studi, si hanno due dimensioni distinte, una riguardante i processi inibitori e l’altra che interpella la memoria di lavoro (Lee et al. 2013; Monette et al. 2015); dagli 8 anni sarebbero pienamente identificabili le tre componenti descritte nel modello di Miyake e colleghi (Lee et al. 2013). Tra i 3 e i 5 anni migliorano notevolmente le

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23 abilità di inibizione e flessibilità cognitiva, specialmente la capacità di cambiare prospettiva (Diamond 2006). Ciò è evidenziabile anche dal successo che i bambini hanno in alcuni task cognitivi che valutano le funzioni esecutive, come il Dimensional Change Card Sort Task (DCCS, Zelazo 1995) e lo Stroop giorno-notte (Gerstadt et al. 1994). Allo stesso tempo emerge uno sviluppo importante della teoria della mente, in particolare visibile tramite il test della falsa credenza (Wimmer & Perner 1983): i soggetti di 3 anni tipicamente sbagliano questa prova, mentre a 4-5 anni di età i bambini riescono a svolgere il test, in cui si presenta uno scenario in cui le due bambine Sally e Anne giocano a palla; Anne sistema l’oggetto ed esce di scena, poi Sally lo sposta. Si chiede al bambino dove, secondo lui, Anne cercherà la palla: il bambino che ha acquisito la teoria della mente memorizza dove Anne ha visto l’oggetto l’ultima volta e inibisce l’impulso a riferire la reale posizione dell’oggetto. L’abilità di teoria della mente, ovvero la capacità di inferire lo stato mentale dell’altro (pensieri, emozioni, desideri) per prevedere ciò che succederà, si sviluppa parallelamente alle funzioni esecutive: i miglioramenti e le acquisizioni nell’una correlano con i successi nelle altre. Infatti, le prove di teoria della mente richiedono la capacità di tenere a mente più informazioni (lo stato dei fatti e la falsa credenza) e la capacità di inibire una risposta dominante (ad esempio nel caso del test della falsa credenza, riferire la reale posizione dell’oggetto), dimostrando il parallelismo esistente tra funzioni esecutive e teoria della mente (Diamond 2006).

Le capacità di inibizione si sviluppano nettamente in questa fascia d’età e vanno incontro a importanti cambiamenti nell’epoca prescolare (Best and Miller 2010). Fino ai 3 anni si può identificare l’inibizione come una componente unitaria, mentre già a 4 anni si distinguono due tipi di abilità: l’inibizione della risposta, ovvero la capacità

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24 di sopprimere risposte prepotenti ma inappropriate, e la soppressione dell’interferenza, cioè la possibilità di gestire l’interferenza generata da stimoli con caratteristiche complesse e ambivalenti (Gandolfi et al. 2014). Le abilità inibitorie si mostrano nella loro complessità dopo i 4 anni, quando questa capacità inizia a richiedere l’integrazione con la working memory: il bambino diventa capace di sopprimere risposte dominanti anche in compiti che presentano un carico cognitivo in termini di memoria di lavoro (Carlson 2005). L’inibizione si può rilevare con il Luria’s tapping test (Luria 1966), che richiede di battere la mano una volta quando l’esaminatore batte due volte, mentre quando quest’ultimo batte una volta il bambino deve battere due volte. Si richiede quindi di inibire la naturale tendenza ad imitare l’esaminatore. Si ha un miglioramento nella correttezza delle risposte tra i 3 anni e mezzo e 4, mentre la velocità nella risposta cresce tra i 4 anni e mezzo e i 5 (Diamond and Taylor 1996). Anche per lo Stroop giorno-notte (FE-PS 2-6, Usai et al. 2017), che richiede di dire “giorno” se viene presentata un’immagine con la luna e dire “notte” se l’immagine raffigura un sole, si osserva lo stesso andamento della performance in relazione all’età dei bambini (Gerstadt et al. 1994).

La working memory si sviluppa anch’essa in modo importante: intorno al primo anno di età compare la capacità di rappresentare mentalmente un oggetto, poi tra i 3 e i 5 anni il bambino diventa capace di trattenere in mente un’informazione in un compito di tipo span (Garon et al. 2008).

La flessibilità cognitiva si sviluppa più tardivamente e fino ai 6 anni non risulta una dimensione indipendente, trovandosi associata alla working memory (Miller et al. 2012; Usai et al. 2014; Monette et al. 2015) o all’inibizione (Lee et al. 2013). I compiti di shifting da una parte richiedono di mantenere attive più informazioni

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25 contemporaneamente, e nel passaggio da una rappresentazione all’altra è richiesto di sopprimerne una delle due. Le prove che rilevano quest’abilità indagano la capacità di passare da un’attività mentale ad un’altra e di gestire l’interferenza che ciò comporta. I bambini di 3 anni non riescono a vedere due soggetti nascosti in una figura ambigua, continuano a vederne solo uno, rimanendo ancorati alla loro percezione iniziale e mostrando una difficoltà a mettere in relazione due identità all’interno di uno stesso oggetto (Gopnik and Rosati 2001). Nel Dimensional Change Card Sort task (DCCS, Zelazo 1995; Zelazo 2006) si richiede al bambino di ordinare un mazzo di carte seguendo alcuni criteri, ad esempio prima il colore e poi la forma: a 3 anni il bambino riordina correttamente le carte, tuttavia quando il criterio di riordinamento cambia egli ha la tendenza a perseverare e riordina le carte secondo la regola precedente; queste difficoltà nella flessibilità scompaiono entro i 4-5 anni di età (Zelazo et al. 1995). Probabilmente a 3 anni si verifica la cosiddetta “inerzia dell’attenzione” (Kirkham et al. 2003), per cui risulta difficile cambiare assetto mentale e focalizzarsi sulla forma degli stimoli, se fino ad allora il focus era sul colore. Le capacità esecutive si potenziano anche grazie allo sviluppo del sistema attentivo che si ha nell’età prescolare. L’abilità di dirigere il focus su un compito e inibire tutte le informazioni irrilevanti è il presupposto per ogni comportamento cosiddetto “goal-directed” (Garon et al. 2008). Per esempio, alti livelli di attenzione sostenuta predicono le capacità inibitorie del bambino (Reck and Hund 2011).

Si è osservata una particolare relazione tra le capacità linguistiche in età prescolare e lo sviluppo delle funzioni esecutive, evidenziando come l’espansione del vocabolario tra i 15 e 36 mesi correlava con lo sviluppo delle funzioni esecutive tra i 3 e i 5 anni e con le capacità esecutive vere e proprie a 5 anni (Kuhn et al. 2016). Al contrario, i

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26 bambini che presentano un ritardo nel linguaggio mostrano livelli più bassi nell’inibizione, working memory e flessibilità cognitiva (Vissers et al. 2015).

In conclusione, nell’età prescolare è possibile osservare, anche grazie a vari task e prove strutturate, importanti cambiamenti quantitativi e qualitativi (Zelazo et al. 2003) in tali processi e uno sviluppo rilevante delle funzioni esecutive, abilità centrali per lo sviluppo del bambino e la sua vita futura (Ackerman and Friedman-Krauss 2017).

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CAPITOLO 3

L’autoregolazione e il rapporto con le funzioni esecutive

3.1 Lo sviluppo dell’autoregolazione

Durante l’infanzia, il bambino acquisisce capacità e strategie di autoregolazione, necessarie per far fronte alle richieste ambientali. I processi di regolazione fondano le loro basi in età molto precoce ed evolvono durante l’infanzia, il periodo prescolare e poi scolare. Alla nascita è presente una soglia individuale che determina la reattività agli stimoli sensoriali di intensità differente (Calkins et al. 1996): le risposte iniziali del bambino verso l’ambiente sono reazioni automatiche e tale reattività si pensa che sia presente alla nascita e che sia una caratteristica stabile del soggetto (Calkins and Fox 2002), correlata con il suo temperamento. Crescendo, il bambino impara a regolare il suo comportamento motorio e affettivo e la sua autoregolazione viene potenziata, in larga parte grazie al fondamentale contributo del contesto relazionale e di interazione diadica in cui il bambino è inserito, e dove fa esperienza di cure e supporto (Calkins 2007). Durante il secondo e terzo anno di vita, i bambini sviluppano la capacità di controllo su impulsi e azioni attivate dal contesto, e sono capaci per esempio di ritardare la gratificazione. Durante la scuola materna, i bambini iniziano ad essere consapevoli dei fattori che influenzano la loro attenzione, come la motivazione o il rumore, per cui cercano di mettere in atto un controllo cognitivo verso pensieri ed azioni. Questo sviluppo tipico potrebbe essere alterato da eventi ambientali che possono deviare la traiettoria evolutiva tipica dell’autoregolazione.

Lo sviluppo dei processi di autoregolazione è relativamente protratto, in quanto dipendente, secondo alcuni studi, dalla maturazione delle connessioni tra la corteccia

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28 prefrontale e il sistema limbico. Le aree appartenenti al cingolo (giro cingolato anteriore) nello specifico sono preposte al controllo cognitivo ed emotivo, e quindi anche al dominio dell’autoregolazione (Posner et al. 2007).

3.2 Le componenti dell’autoregolazione

3.2.1 Regolazione emotiva

Si tratta dell’insieme di processi con cui abbiamo un’influenza sulle emozioni che proviamo, sul quando le sperimentiamo e sul come ne facciamo esperienza e le esprimiamo (Gross 1998). Essa comprende tutte le capacità e strategie che l’individuo ha a disposizione per modulare, inibire ed enfatizzare le emozioni positive e negative, e per supportare risposte adattive sociali (Calkins 2007). La regolazione emotiva comprende cambiamenti nella dinamica delle emozioni e quindi ad esempio negli aspetti di latenza, intensità e durata. Inoltre, i processi di regolazione emotiva possono avvenire in presenza di consapevolezza oppure possono essere messi in atto in modo inconsapevole. Un altro aspetto importante riguarda il fatto che le strategie di regolazione emotiva non sono di per sé né positive né negative: dipende dall’uso che se ne fa, dal contesto, dalle conseguenze che ne derivano (Gross 2002). Le strategie di regolazione emotiva si suddividono in due tipologie: le strategie focalizzate sull’antecedente sono tutte le azioni che facciamo prima che la nostra risposta emotiva sia pienamente attivata e abbia modificato il comportamento e la risposta fisiologica periferica; le strategie focalizzate sulla risposta sono ciò che facciamo quando la risposta emotiva è già in atto (Gross 2002).

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29 Le capacità di autoregolazione si formano nel bambino molto piccolo e per la loro maturazione è fondamentale non solo la componente genetica ma anche l’aspetto relazionale con le figure di attaccamento. In particolare, all’interno dei primi scambi genitore-bambino, il caregiver regola dall’esterno le esperienze del figlio, che allo stesso tempo esercita, con il suo temperamento, un’influenza sul genitore. Tronick (1989) afferma che all’interno del sistema di regolazione emotiva da una parte la madre ha l’importante capacità di trasformare le emozioni negative sperimentate dal bambino, dall’altra il figlio comunicando affettivamente con la madre è capace di modificare il comportamento della madre. Per la strutturazione delle competenze di regolazione emotiva, il bambino passa da una fase di completa dipendenza dal caregiver, che fornisce la regolazione dall’esterno, fino ad una completa, matura e indipendente autoregolazione (Calkins 2007). Se al primo anno di vita il bambino regola le emozioni in modo passivo, per esempio attraverso il comportamento motorio richiama l’attenzione dell’adulto affinché lo regoli dall’esterno, a due anni egli utilizza strategie varie ed attive di regolazione emotiva, supportate dallo sviluppo del linguaggio e della possibilità di rappresentarsi mentalmente gli eventi (Rothbart et al. 1992). La regolazione emotiva in epoca prescolare, in particolare, è correlata alla concorrente competenza sociale, e la regolazione, espressione e conoscenza delle emozioni sono aspetti predittivi della futura competenza sociale e accademica (Denham et al. 2003).

3.2.2 Regolazione comportamentale

In questo caso ci si riferisce per esempio alla capacità di controllare le risposte impulsive o di seguire le direttive degli adulti. Nel passaggio dal cosiddetto “toddler” alla successiva età infantile, al bambino è richiesto di bloccare reazioni impulsive o di

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30 sospendere attività piacevoli per soddisfare le richieste esterne. La regolazione comportamentale è critica per il passaggio del bambino nel contesto scolastico e in generale in tutti i contesti sociali e lo rende in grado di attenersi alle richieste altrui (per esempio dei genitori), ritardare un’attività piacevole, monitorare il proprio comportamento (Calkins 2007). Per adempiere a tutto ciò, un presupposto importante è la capacità di regolare l’arousal a livello fisiologico ed emotivo. La regolazione comportamentale si può anche definire come la manifestazione di funzioni esecutive in risposte cosiddette “overt”, quindi osservabili. Ad esempio, l’attenzione focalizzata, tramite il mantenimento del focus attentivo, la working memory, grazie all’aggiornamento delle informazioni in memoria, e l’inibizione, che blocca le risposte inopportune, permettono di regolare il proprio comportamento in funzione di uno scopo (Ponitz et al. 2009).

3.2.3 Regolazione cognitiva

Si fa riferimento con questo termine ai processi che ci consentono di controllare il funzionamento cognitivo, il pensiero e l’attenzione. In particolare, nella regolazione cognitiva sono compresi alcuni processi di funzionamento esecutivo (Liebermann et al. 2007), come la working memory e l’inibizione, che consentono di mantenere il comportamento focalizzato su un certo obiettivo (Pennington and Ozonoff 1996) e di autoregolarsi di conseguenza. Inoltre, essa riguarda anche la capacità di monitorare e controllare l’attenzione. Il sistema attenzionale è formato da tre componenti, di cui l’elemento più importante nell’ottica dell’autoregolazione è il cosiddetto sistema attenzionale anteriore, che permette di regolare le informazioni sensoriali orientando, reindirizzando e mantenendo il focus attentivo (Calkins 2007). Il rapporto tra funzioni esecutive e autoregolazione è approfondito di seguito.

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3.3 Funzioni esecutive di base e autoregolazione

Una definizione che viene data di autoregolazione comprende tre componenti: 1) modelli di pensiero, emozione e comportamento che l’individuo approva, rappresenta mentalmente e monitora; 2) motivazione sufficiente per investire energie con il fine di ridurre la discrepanza tra gli standard e lo stato attuale; 3) sufficienti capacità per raggiungere questo obiettivo, cioè eliminare il gap (Hofmann et al. 2012).

Secondo vari studi effettuati recentemente, le funzioni esecutive risultano nettamente intrecciate con il costrutto dell’autoregolazione. In particolare, le tre funzioni esecutive di base, working memory, inibizione e flessibilità cognitiva, supportano e sono alla base di numerosi processi dell’autoregolazione. Di seguito si riporta nel dettaglio in che modo avviene la connessione tra questi due importanti concetti.

3.3.1 Working memory e autoregolazione

Un’autoregolazione di successo implica la rappresentazione degli obiettivi e delle informazioni rilevanti per il loro raggiungimento. La working memory risulta quindi fondamentale per tenere attiva in memoria la rappresentazione mentale della meta e dei mezzi necessari per ottenerla (Miller and Cohen 2001). Senza questo contributo, l’autoregolazione non avrebbe una direzione e sarebbe destinata a fallire (Baumeister and Heatherton 1996). Inoltre, la working memory è fondamentale per supportare forme proattive di autoregolazione rendendo gli individui capaci di resistere a stimoli desiderati. Questi ultimi sono infatti capaci di attirare l’attenzione a causa della loro salienza motivazionale, riducendo così le risorse attentive che possono essere messe a disposizione dei processi goal-directed (Knudsen 2007). Si è visto che la working memory è in grado di impedire questo reclutamento dell’attenzione da parte di tali

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32 stimoli, facendo sì che l’attenzione possa essere messa a disposizione di processi più rilevanti (Hofmann et al. 2012). Inoltre, una conseguenza dell’attenzione sostenuta su un obiettivo è la possibilità di schermarlo da eventuali stimoli distraenti o altri obiettivi. Si tratta di una forma di controllo inibitorio di tipo passivo (controllo dell’interferenza) che promuove uno stato mentale focalizzato sulla meta e sul suo raggiungimento. Quando la working memory funziona in modo efficiente, c’è corrispondenza tra gli standard posti dall’individuo e il comportamento; contrariamente, l’assenza della schermatura degli obiettivi, dovuta ad una memoria di lavoro poco forte, può far cedere il soggetto a comportamenti impulsivi (Hofmann et al. 2009). La working memory, inoltre, riesce a supportare l’autoregolazione necessaria per raggiungere gli obiettivi, anche grazie al controllo e regolazione del pensiero. Chi ha una working memory più potente riesce a sopprimere più facilmente i pensieri intrusivi e a dirigere l’attenzione verso contenuti mentali più utili ai propri scopi (Brewin and Beaton 2002). Infine, la working memory, funzione esecutiva definita “fredda”, riesce a esercitare un’influenza sui cosiddetti processi “caldi”. In particolare, ha un ruolo comprovato in alcuni processi di regolazione emotiva (Schmeichel and Demaree 2010), come il reappraisal o la soppressione di emozioni come la rabbia in alcuni contesti. La working memory supporta l’autoregolazione a livello comportamentale, come l’aggressività o il comportamento alimentare.

3.3.2 Controllo inibitorio e autoregolazione

L’autoregolazione, soprattutto a livello comportamentale, ha successo anche quando è presente la capacità di inibire le risposte comportamentali, come abitudini negative o impulsi, che siano in contrasto con gli obiettivi del soggetto. Una scarsa capacità inibitoria è implicata in molti problemi di controllo degli impulsi, e quindi di

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33 autoregolazione, come l’abuso di droghe o inadeguate risposte sociali (Hofmann 2012).

3.3.3 Flessibilità cognitiva e autoregolazione

Gli studi sulla connessione tra questi due processi sono in minor numero rispetto alle altre due componenti sopracitate, ovvero working memory e inibizione. L’abilità di shifting può sostenere l’autoregolazione per il raggiungimento degli obiettivi in due modi: la flessibilità aiuta il soggetto a ricercare nuovi mezzi quando quelli attuali non sono utili per raggiungere gli obiettivi preposti, evitando la perseverazione (Marien et al. 2012). In questo senso, essa aiuta l’individuo ad essere aperto ad un nuovo corso degli eventi, esercitando un ruolo opposto a quello che hanno l’inibizione e la working memory, che mantengono il soggetto aderente al focus e a quel mind-set di rigidità utile nel perseguimento della meta. D’altra parte, la flessibilità cognitiva consente al soggetto di distaccarsi, quando necessario, dall’obiettivo prefissato e regolato per ricercare alternative più desiderabili (Fishbach et al. 2009): un esempio di ciò è il soggetto sottoposto ad una dieta che occasionalmente si concede senza rimorso uno spuntino gustoso. Avere flessibilità cognitiva consente quindi di destreggiarsi tra l’obiettivo autoregolato e le gratificazioni a breve termine, e per questo risulta di fondamentale importanza l’equilibrio tra entrambe le parti. La linea che separa la flessibilità, che per esempio consente di gratificarsi momentaneamente, e l’indulgenza eccessiva, è infatti molto sottile. Sono comunque necessari più studi per comprendere il funzionamento della connessione tra flessibilità e autoregolazione (Hofmann et al. 2012).

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34 Nel concetto di regolazione cognitiva è già insito il rapporto tra le due componenti, in quanto, come visto precedentemente, la regolazione cognitiva comprende i processi di funzionamento esecutivo che vengono messi a servizio dell’autoregolazione. A dimostrazione della connessione che si ritrova tra il concetto di autoregolazione e quello di funzioni esecutive, vi è il fatto che riduzioni temporanee nel funzionamento esecutivo sembrano essere alla base di deficit di autoregolazione. Infatti, vi sono diversi contesti che costituiscono un rischio per il danneggiamento temporaneo dell’autoregolazione, quali il carico cognitivo, stressor ambientali o sociali, o l’intossicazione alcolica: tutte queste situazioni, seppure apparentemente diverse, presentano tutte un meccanismo comune, ovvero la riduzione temporanea dell’efficienza delle funzioni esecutive (Hofmann et al. 2012). Un’altra evidenza dello stretto rapporto dell’autoregolazione con le funzioni esecutive riguarda gli interventi di potenziamento: sembra infatti che training specifici sulle funzioni esecutive possano avere un effetto anche sull’autoregolazione. I training sulla working memory, per esempio, si sono dimostrati efficaci nel regolare l’impulsività nel bere (Houben et al. 2011), invece quelli sull’inibizione possono aiutare nel ridurre i comportamenti alimentari problematici (Veling et al. 2011).

L’autoregolazione risulta fondamentale per il successo scolastico e accademico secondo numerosi studi (McClelland and Cameron 2012; Duckworth and Carlson 2013). Essa, infatti, nella sua connessione con la componente del funzionamento esecutivo, permette di effettuare un’adeguata regolazione comportamentale in vista del raggiungimento di uno scopo (per esempio seguire le istruzioni dell’insegnante) mettendo al servizio del contesto scolastico abilità quali l’inibizione, la working memory, la flessibilità cognitiva e molte altre. Si è visto che l’autoregolazione

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35 registrata a cinque anni è predittiva delle successive capacità di alfabetizzazione e calcolo (Melhuish et al. 2007). Questi effetti positivi dell’autoregolazione sono probabilmente mediati proprio dalle funzioni esecutive che vi sottostanno. Inoltre, i soggetti con un’autoregolazione più efficiente tendono ad apprendere di più e a proseguire nei vari gradi dell’istruzione (Blair and Diamond 2008), se invece ciò non è presente il soggetto tende a confrontarsi meno con attività con carico cognitivo elevato. L’autoregolazione consente anche di mettere in atto azioni e comportamenti adeguati nei contesti sociali, facilitando l’accettazione dei pari e un comportamento positivo all’interno della classe (Blair and Razza 2007). Essa è correlata a competenze sociali come i comportamenti prosociali, la propensione a collaborare e l’empatia (Kochanska et al. 2000).

3.4 Potenziamento delle FE e dell’autoregolazione in età prescolare

Abbiamo visto come le funzioni esecutive siano un elemento fondante che caratterizza l’età prescolare del bambino, determinanti per numerosi aspetti della sua vita futura, tra cui le prestazioni scolastiche (Blair and Razza 2007), il successo accademico (Müller et al. 2008), le precoci capacità matematiche e di alfabetizzazione (Bull et al. 2008). Non solo, si ritrovano evidenze di un impatto positivo anche sulla salute fisica (Liang et al. 2014), sulle competenze socio-emotive (Riggs et al. 2006) e sulla qualità di vita (Davis et al. 2010).

In quest’ottica si comprende l’importanza dell’attuazione di interventi che vadano a sostenere e potenziare tali funzioni esecutive, e ciò risulta rilevante sia nei soggetti a sviluppo tipico, dove il training ha lo scopo di allenare queste abilità, sia nel caso dei

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36 soggetti a sviluppo atipico. In particolare, si è visto che gli interventi precoci sulle funzioni esecutive portano cambiamenti più rilevanti, stabili e duraturi (Wass et al. 2012) ed è quindi importante intervenire nella fascia d’età prescolare. Una delle tipologie possibili di intervento è la somministrazione di un training computerizzato con task a difficoltà crescente, con target sulle varie funzioni esecutive: un esempio ne è Cogmed (Klingberg et al. 2002), che si indirizza specificamente all’allenamento della working memory. Tuttavia, questi potenziamenti non risultano spesso efficaci nei bambini piccoli (Fernández-Molina et al. 2015), in quanto necessitano di consapevolezza metacognitiva, competenze tecnologiche, attenzione sostenuta, processi deboli in questa fascia d’età. Esistono però, parallelamente, attività della vita quotidiana che forniscono un contesto familiare (e più ecologico) per il training delle funzioni esecutive, e in cui processi cognitivi importanti possono essere allenati. Questo tipo di interventi presenta alcuni vantaggi rispetto ai training computerizzati: innanzitutto possono essere calibrati e definiti in relazione ai bisogni specifici del bambino; inoltre risultano molto più economici ed accessibili ad una vasta popolazione; infine essi consentono di spaziare su più contesti e situazioni (casa, scuola, contesti di gruppo).

I training in età prescolare sono di vario tipo e differiscono nella durata (interventi a breve o lungo termine), contesto (interventi individuali o di gruppo) e materiali (Traverso et al. 2015). I programmi a lungo termine sono di solito interventi di gruppo che corrispondono a un curriculum scolastico e sono forniti in servizi educativi per l'intera durata della scuola materna o durante l’anno prima dell’ingresso alla scuola primaria. Un esempio è Tools of the Mind, sviluppato da Bodrova e Leong (1996) e basato su un approccio vygotskiano. Il programma sottolinea lo sviluppo di abilità

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37 sottostanti come prestare attenzione, ricordare di proposito, logica e rappresentazione simbolica; le opportunità di apprendere le abilità cognitive e socio-emotive di autoregolazione si intrecciano in quasi tutte le attività di classe durante il giorno. In uno studio randomizzato, Diamond e collaboratori (2007) hanno scoperto che i bambini in età prescolare di famiglie a basso reddito che hanno frequentato tale programma hanno mostrato funzioni esecutive significativamente migliori rispetto al gruppo di controllo. Gli interventi a breve termine sono generalmente individuali e includono training computerizzati (Thorell et al. 2009), attività carta e matita (Kloo and Perner 2003) o interventi misti (Röthlisberger et al. 2011).

I risultati di tali studi mostrano come, tramite differenti interventi e strategie, sia possibile potenziare le funzioni esecutive in età prescolare. In particolar modo, le funzioni esecutive che riescono ad essere più facilmente potenziate sono la working memory (Röthlisberger et al. 2011) e la flessibilità cognitiva (Kloo & Perner 2003), con risultati più contrastanti per quanto riguarda il controllo dell’interferenza (Thorell et al. 2009; Röthlisberger et al. 2011). Inoltre, si è visto che i bambini in questa fascia d’età possono trarre da questi training maggiori benefici rispetto ai soggetti più grandi (Melby-Lervag and Hulme 2013), incluso un effetto positivo sull’andamento scolastico (Blair 2002).

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