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I BIOMARCATORI TUMORALI NELLA PRATICA CLINICA

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1. RIASSUNTO

Nell’ambito dello studio delle neoplasie negli ultimi anni, sono stati proposti e messi al vaglio numerosi nuovi marcatori tumorali e sono stati studiati in maniera approfondita i “biomarcatori classici”. Nonostante questi studi e una vasta letteratura, l’appropriatezza delle richieste dei biomarcatori rimane ad oggi non soddisfacente. Nell’ottica di un più razionale uso delle risorse economiche, volto a limitare gli sprechi esistenti, e della messa in atto di una “best practice”, appare evidente la necessità di fornire al clinico un mezzo che gli consenta di avere un quadro preciso e aggiornato di quelle che sono le indicazioni e le evidenze per i biomarcatori tumorali. La stesura di linee guida, approntate per indirizzare nella scelta, risponde solo parzialmente a questa richiesta.

Purtroppo rimangono ancora molte lacune da colmare, quali situazioni cliniche particolari non contemplate ed, in alcuni casi, mancanza di linee guida applicabili nella pratica. Inoltre, data la variabilità di linee guida presenti in letteratura, è auspicabile fornire al medico che vi si affida e alle Società Scientifiche che le raccomandano un metodo per verificarne la qualità, in modo da rendere consapevole il clinico dei limiti che la linea guida stessa presenta. Tutto questo si aggiunge al ben noto problema secondo il quale nel richiedere

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un dosaggio di un biomarcatore è importante tenere presenti i limiti che questi hanno in specificità e sensibilità, a cominciare dalle possibili cause non neoplastiche che ne possono aumentare i livelli e dai possibili problemi che si riscontrano nell’esecuzione del test.

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2. INTRODUZIONE

Negli ultimi anni la mortalità per neoplasia è diminuita, grazie essenzialmente alle campagne mirate di screening e all’efficacia sempre maggiore delle terapie; tuttavia, nonostante questi progressi, occorrono un numero sempre maggiore di strumenti per le possibili cure e soprattutto per la diagnosi precoce delle neoplasie. Si sono fatti enormi passi in avanti nella definizione di quella che è la biologia della cellula tumorale e questo ha favorito lo sviluppo di nuovi farmaci e di nuove metodologie diagnostiche, sia di imaging che di diagnostica in vitro. Quando furono identificate e misurate le prime molecole associate alla presenza di tumori, si creò la speranza di avere degli indicatori chiari, precisi e misurabili della presenza e dello sviluppo del tumore. Oggi sappiamo che quelle molecole, chiamate marcatori tumorali, in realtà sono prodotte anche da tessuti sani e che la differenza talvolta è solo di tipo quantitativo [Gion M. et Al. 2011 (a)].

Il primo tentativo documentato di individuare biomarcatori risale al 2000 a.C.; nel 1846 Bence-Jones individuò quello che possiamo definire il primo marcatore nella medicina moderna, la proteinuria che oggi sappiamo essere costituita da catene leggere libere delle immunoglobuline nelle urine; nel 1965 Gold et Al. trovarono il primo antigene associato al tumore, oggi conosciuto

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come CEA, in campioni di tessuto neoplastico del colon [Gold P. et Al. 1965]. Ad oggi sono centinaia i marcatori tumorali conosciuti, anche se la loro utilità clinica e le loro possibili applicazioni sono piuttosto controverse [Waxman J. 1995].

In generale si definiscono biomarcatori tumorali tutte quelle sostanze, presenti nel sangue o nei fluidi biologici, che costituiscono un segnale della presenza e dello sviluppo di una neoplasia. Questa definizione risulta essere molto estensiva ed include diverse classi di indicatori; infatti anche parametri ematochimici generali, quali VES o proteina C reattiva, possono modificarsi in risposta ad una neoplasia. In oncologia, ai fini pratici, si considerano marcatori quelle sostanze che sono espresse e rilasciate dal tessuto tumorale stesso o dal microambiente circostante [Gion M. et Al. 2011 (a)]. I requisiti fondamentali che una sostanza deve possedere per essere utilizzata come marcatore sono essenzialmente:

- Misurabilità con metodi standardizzati; risultati affidabili e riproducibili. - Associazione con un determinato processo biologico e con il

comportamento clinico che ne deriva.

- La determinazione deve avere una utilità per il paziente: riduzione della mortalità, miglioramento della qualità della vita.

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La determinazione di un marcatore nell’ambito oncologico ha l’obiettivo di verificare la presenza o la grandezza di un tumore, valutarne l’aggressività e la risposta a determinate tipologie di trattamento. Per questo motivo il livello di un marcatore deve essere auspicabilmente correlato con la gravità del tumore e deve riflettere eventuali regressioni o progressioni della neoplasia. Inoltre il test per il monitoraggio del livello del marker deve essere economicamente vantaggioso ed applicabile ad uno screening di massa, in più deve avere la caratteristica di essere facilmente accettato dal target della popolazione bersaglio. Purtroppo, anche se estremamente affascinante, l’idea di sottoporre allo screening la maggioranza della popolazione apparentemente sana, allo scopo di individuare neoplasie occulte ed intervenire molto precocemente, ad oggi non è applicabile, dal momento che i biomarcatori non sono specifici al 100% e soprattutto possono presentare livelli alterati anche in altre condizioni non riconducibili alle neoplasie.

Sono state proposte molte classificazioni per i marcatori, basate su origine, struttura, funzione biologica e relazione con lo sviluppo e la crescita del tumore. In base alla possibile applicazione clinica, i marcatori possono essere raggruppati in quattro categorie:

- Screening e diagnosi precoce. - Di conferma.

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- Prognostici: danno informazioni sull’andamento della malattia, indipendentemente o in assenza di trattamento.

- Predittivi: associati alla probabilità di risposta di un tumore ad un determinato trattamento; ne è un esempio il recettore HER-2 nel tumore mammario che consente di selezionare le pazienti con malattia responsiva all’anticorpo monoclonale Trastuzumab [Sharma S. 2009].

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3. CAUSE DI VARIAZIONE DEI MARCATORI

I livelli ematici di numerosi marcatori possono variare per condizioni e cause non legate alla presenza o alla progressione di una neoplasia.

MARCATORE CONDIZIONE AFP Gravidanza, epatopatia cronica

CA 125

Ciclo mestruale, gravidanza, insufficienza cardiaca, polmonite, sierositi

CA 15-3

Gravidanza, epatopatia, pancreatite, malattie del collagene

CEA

Fumo, abuso di alcool, insufficienza renale cronica, malattie epatiche e gastroenteriche

hCG Gravidanza, uso di cannabis

PSA Bicicletta, attività fisica, attività sessuale

SCCA Fumo, abuso di alcool

Tireoglobulina Fumo, gravidanza

NSE

Emolisi e traumi cranici importanti, versamento pleurico

CYFRA Epatopatia, pneumopatie croniche

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I marcatori sono solitamente molecole rilasciate in condizioni normali anche dal tessuto sano, quindi anche eventi non correlati ad una neoplasia possono determinarne un aumento dei livelli circolanti. Anche patologie benigne, per le quali si richiederebbe l’aiuto per differenziarle da possibili neoplasie, possono causare incrementi nei livelli del marcatore: distinguere, su questa sola base, fra una patologia benigna ed una neoplasia iniziale diventa in questi casi pressochè impossibile. Ad oggi tuttavia si sta valutando la possibilità dell’uso dei marcatori come indicatori di danno d’organo in eventuali malattie benigne: nell’endometriosi ad esempio si monitorano i livelli del CA 125, così come nell’ipertrofia prostatica benigna si controllano i valori del PSA [Gion M. et Al. 2011 (a)].

Oltre a queste cause patologiche esistono una serie di variazioni imputabili a manovre od interventi diagnostici: spesso gli stessi trattamenti volti alla diagnosi ed al controllo della neoplasia possono indurre variazioni anomale nei livelli dei marcatori. La biopsia prostatica, ad esempio, può provocare nel paziente un notevole aumento dei livelli del PSA, aumento che può persistere anche molto a lungo (fino a due mesi dalla manovra). In caso di interventi all’addome è stato riscontrato, nel 20-75% dei casi, un aumento dei livelli del CA 125, come conseguenza del traumatismo del tessuto peritoneale; inoltre questo marcatore si riscontra aumentato nei pazienti che presentano

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tubercolosi [Gion M. et Al. 2011 (a), Hussain S.F. et Al. 2004, Miralles C et Al. 2003]. Anche la chemioterapia stessa può far sì che si riscontrino aumenti inaspettati nei livelli dei marcatori in pazienti che rispondono bene alla terapia (ad esempio nel carcinoma mammario metastatico per CA 15-3 e CEA): questo effetto sembra dovuto alla citolisi delle cellule neoplastiche in seguito alla somministrazione dei farmaci antiblastici. In questi casi è importante effettuare il prelievo del sangue prima di ogni nuovo ciclo, in modo da ovviare a problemi di interpretazione errata dei livelli del marcatore. Anche altri farmaci possono interferire con il dosaggio dei marcatori: gli inibitori della pompa protonica possono causare un aumento nel dosaggio della cromogranina A, così come le statine possono ridurre i livelli di PSA [Gion M. et Al. 2011 (a)].

Oltre alle cause appena riportate occorre tener presente che vi possono essere interferenze nei metodi di dosaggio dei marcatori che possono condurre a determinazioni non precise accurate dei reali valori sierici. La tireoglobulina (Tg) ad esempio, il cui dosaggio trova impiego nel monitoraggio del carcinoma della tiroide, è una proteina prodotta esclusivamente dalle cellule follicolari tiroidee normali e neoplastiche, che ha la funzione fisiologica di pro-ormone per la tiroxina e la tri-iodotironina. La misurazione della tireoglobulina continua ad oggi ad essere un argomento particolarmente complesso della diagnostica. La sua concentrazione è funzione della massa di tessuto tiroideo e può

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dipendere da processi citolitici a genesi flogistica e dalla stimolazione del recettore del TSH che possono determinare incrementi nella Tg circolante. L’utilizzo della tireoglobulina come marcatore nel carcinoma della tiroide presuppone una precedente ablazione del tessuto tiroideo.

In generale in laboratorio i metodi usati per il dosaggio possono essere di tipo competitivo (RIA o metodi competitivi non-isotopici) o immunometrici (IMA). Questi ultimi sono decisamente più utilizzati dal momento che presentano caratteristiche favorevoli quali minor tempo di incubazione, intervallo di misura più ampio, Ab legato al tracciante più stabile e una maggiore sensibilità analitica. In generale vengono usati i metodi di dosaggio immunoradiometrico (IRMA) e di recente sono stati introdotti dosaggi immunochemiluminometrici (ICMA). Esistono però per molti marcatori alcuni problemi legati al metodo e il caso della Tg è esemplificativo. Nel dosaggio della Tg, infatti, dal punto di vista analitico-clinico, si riscontrano alcuni problemi. Il primo risiede nella variazione che esiste fra le concentrazioni di Tg valutate con diversi metodi (RIA o IMA): tali variazioni sono dovute principalmente alle differenze tra i calibratori e alle diverse specificità degli anticorpi usati. La diffusione di un preparato di riferimento da parte del Community Bureau of Reference della Commissione della Comunità Europea ed il suo utilizzo ha determinato una riduzione della variabilità fra i metodi, pur tuttavia non eliminandola del tutto. La residua

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variabilità riflette probabilmente le diverse specificità degli anticorpi diretti contro la Tg utilizzati nei vari metodi. A questo proposito i risultati di un lavoro del 2005 nell’ambito di un Programma di Verifica Esterna della Qualità (VEQ) hanno messo in evidenza come le variabilità possano essere anche molto ampie a tutti i livelli di concentrazione: un campione con Tg di 36,2 µg/L e AbTg assenti mostrava una variabilità intorno al 20%, uno con concentrazione di Tg pari a 18,1 µg/L e AbTg presenti aveva invece una variabilità del 70%, infine un campione con Tg di 0,76 µg/L e AbTg assenti risultava avere una variabilità del 40% [Dorizzi R.M. et Al. 2008].

In genere i metodi tradizionalmente usati sembrano avere qualche difficoltà nella misura della Tg in pazienti in terapia soppressiva: i cut off clinici si aggirano intorno a 1 µg/L e i pazienti tiroidectomizzati senza evidenza di recidiva presentano valori tra 0,01 µg/L e 1 µg/L. Appare evidente l’importanza di determinare il valore della Tg sempre con lo stesso metodo e, se possibile, sempre nello stesso laboratorio. La sensibilità del metodo di rilevazione diventa fondamentale soprattutto nel monitoraggio del carcinoma tiroideo dopo ablazione totale, in cui il livello desiderabile di Tg è virtualmente uguale a zero. L’accuratezza ai bassi livelli è cruciale proprio nelle situazioni nelle quali i valori attesi sono prossimi allo zero: in questi casi ogni quantità rilevabile potrebbe essere indicativa di una ripresa della malattia. Nella misurazione della Tg un

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altro problema importante sono le interferenze anticorpali, dal momento che in realtà nessuna metodica ne è indenne. Tutti i sistemi immunometrici sono basati sul riconoscimento degli analiti da parte di anticorpi e, pur differenti nei dettagli, comprendono necessariamente alcuni reagenti: uno o più Ab specifici diretti contro uno (competitivo) o due (sandwich) epitopi dell’analita da identificare; calibratori/controlli in una matrice (solitamente quella del campione da analizzare) e un sistema detector che permette la rilevazione e la misurazione dell’avvenuta reazione, in un appropriato intervallo, mediante idonea strumentazione. Nelle metodiche sandwich, l’anticorpo di cattura è immobilizzato su una fase solida, l’anticorpo detector può essere aggiunto in contemporanea (one step) o successivamente (two step) all’esecuzione di alcuni lavaggi. Il detector può essere coniugato a differenti sistemi rilevatori quali molecole radioattive, fluorescenza, chemiluminescenza, enzimi. I metodi non competitivi sembrano più sensibili a queste interferenze rispetto ai RIA o competitivi; anche basse concentrazioni di anticorpi anti Tg possono dare interferenza nel dosaggio della Tg. Ulteriore problema sono gli anticorpi eterofili: questi anticorpi reagiscono con proteine animali e interessano tutti i metodi “sandwich”. In alcuni casi la presenza di questi anticorpi è imputabile ad una precedente esposizione ad un determinato Ag, tuttavia, in molti casi, non è possibile dimostrare una esposizione antecedente. La percentuale in

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letteratura dei soggetti positivi agli HAMA (human anti-mouse monoclonal antibodies, i più comuni) varia dal >1% all’80%. Nei metodi “sandwich” questi anticorpi formano un ponte tra l’Ig di cattura di topo e quella di rilevazione e ciò produce dei falsi positivi; meno frequentemente si producono falsi negativi se gli HAMA si legano all’Ig murino usato nel dosaggio e ne deformano il sito di legame, rendendo difficoltoso il riconoscimento dell’antigene. Ad oggi le aziende del settore aggiungono immunoglobuline nei reagenti, ad esempio IgG monoclonali polimerizzati chimicamente che bloccano gli HAMA, allo scopo di ovviare al problema degli anticorpi eterofili; tuttavia occorre tener presente questa interferenza nei casi in cui il dato laboratoristico non concordi con il quadro clinico. Questa interferenza è stata descritta in letteratura per CEA, CA 125, hCG e TSH [Gion M. et Al. 2011 (a)].

Come ultimo problema bisogna infine ricordare quello che viene definito “effetto gancio” (hook effect): un risultato inappropriatamente basso ottenuto in un campione che in realtà contiene elevatissime concentrazioni di analita. Il fenomeno si può verificare in metodi di dosaggio immunometrico tipo “sandwich” ed è uno stato in cui l’eccesso di antigene supera la capacità di legame dell’anticorpo di cattura. La presenza di questo fenomeno è facilmente verificabile utilizzando diluizioni: con l’aumentare della diluizione sarà possibile rilevare la presenza dell’analita nel campione. In conclusione un valore di un

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marcatore incongruente con il quadro clinico del paziente potrebbe essere causato da un effetto gancio, se il valore risultasse troppo basso, o da una interferenza anticorpale, nel caso risultasse eccessivamente alto [Gion M. et Al. 2011 (a), Radice A. et Al. 2006, Dorizzi R.M. et Al. 2008].

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4. INTERPRETAZIONE DEL DATO LABORATORISTICO

Il clinico, nell’utilizzo routinario dei marcatori, può trovarsi di fronte a due tipologie di situazioni:

- Unico dosaggio del marcatore.

- Più dosaggi seriali dello stesso marcatore nel tempo.

Se si dispone di un solo dato relativo ad un determinato marcatore tumorale, la valutazione viene fatta sulla base di un cut-off stabilito in base alla distribuzione del marcatore nei soggetti sani: il risultato si definisce positivo o negativo in relazione a questo valore soglia. Questa tipologia di interpretazione trova la sua motivazione nell’iniziale bilancio prima del trattamento di un tumore primitivo, situazione in cui generalmente non si dispone di più determinazioni nel tempo. Bisogna infatti prestare molta attenzione ad interpretare una singola determinazione, dal momento che nessun marcatore è totalmente specifico per una neoplasia e soprattutto in considerazione del fatto che il valore potrebbe risultare alterato anche in altre situazioni non neoplastiche. Inoltre la concentrazione in circolo della sostanza è condizionata dal volume di distribuzione, dal metabolismo e dall’entità della clearance. Si definisce sensibilità clinica la capacità di un marcatore di individuare la malattia in pazienti realmente malati ed è indicata come:

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sensibilità clinica = a/(a+b)

Dove a sono i soggetti con neoplasia in cui il marcatore è positivo e b i soggetti con neoplasia in cui il marcatore risulta negativo.

Per specificità clinica di un marcatore si intende la capacità di un marcatore di riconoscere una data neoplasia e di restare negativo nei soggetti che non presentano tale patologia:

specificità clinica = c/(c+d)

Dove c sono i soggetti sani con marcatore negativo e d i soggetti sani con marcatore positivo.

Per misurare l’accuratezza di un test diagnostico lungo tutto il range dei possibili valori ad oggi è frequente l’uso delle curve ROC (receiver operating curve). Dal momento che la curva ROC misura l’accordo tra il test diagnostico di interesse e la presenza/assenza di malattia, essa rappresenta il metodo di elezione per validare un test diagnostico. La curva ROC inoltre permette di identificare il valore soglia ottimale (“best cut-off”), cioè il valore del test che massimizza la differenza tra i veri positivi (individui che hanno un valore alterato del test tra tutti quelli realmente affetti da malattia) e i falsi positivi

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(individui con test alterato ma non affetti da malattia). La curva ROC si costruisce considerando tutti i possibili valori del test e, per ciascuno di questi, si calcola la proporzione di veri positivi e la proporzione di falsi positivi (calcolata con la formula standard: 1-specificità). Congiungendo i punti corrispondenti si ottiene la curva ROC; l’area sottostante alla curva (AUC: “Area Under the Curve”) è una misura dell’accuratezza diagnostica. Ad esempio, un test che discriminasse perfettamente i sani dai malati, avrebbe una AUC pari ad 1, cioè il 100% di accuratezza; un test, al contrario, che non distinguesse affatto malati e sani, avrebbe una AUC di 0,5 (50% di accuratezza). Nella realtà si considera adeguato un test diagnostico con un una AUC maggiore di 0,8 (80%) [Gion M. et Al. 2011 (b), D’Arrigo G. et Al. 2011].

Un altro parametro importante per la valutazione dell’efficacia diagnostica di un marcatore è il “rapporto di verosimiglianza”, espresso dalla probabilità che il test risulti positivo in un soggetto con la malattia divisa la probabilità dello stesso risultato in uno senza malattia, il quale indica la validità con cui il test identifica correttamente la patologia in questione. Maggiore è il suo valore, più alta è la probabilità che l’esame indichi la presenza della malattia: se il rapporto è pari a 1 la probabilità post-test (capacità di orientare la diagnosi dopo l’esecuzione del test) risulta uguale a quella pre-test (capacità di orientare la diagnosi senza eseguire il test).

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18 RAPPORTO DI

VEROSIMIGLIANZA

EFFETTO DEL MARCATORE SULLA PROBABILITA’ PRE-TEST

>10 Cambiamento consistente, impatto clinico importante.

5-10 Cambiamento moderato, impatto clinico probabile.

2-5 Cambiamento modesto, impatto clinico possibile.

1-2 Cambiamento trascurabile, impatto clinico irrilevante.

Tabella 2: Rapporto di verosimiglianza [Gion M. et Al. 2011 (b)].

Nell’ipotesi che il clinico abbia la disponibilità di più dosaggi seriati del marcatore in questione, la valutazione si basa sulle variazioni che questo ha nel tempo. Possono essere seguite due tipologie di approccio: una basata su criteri empirici e una basata su criteri matematici. La valutazione delle variazioni basata su criteri empirici, fra l’altro molto utilizzata nella pratica, si basa su scelte arbitrarie maturate con l’esperienza ed in genere è difficilmente applicabile al di fuori dello scenario in cui è stata maturata. Per quanto invece riguarda l’analisi su base matematica è sicuramente più promettente, soprattutto nell’ipotesi di una applicazione su larga scala, anche se ad oggi non sono disponibili purtroppo algoritmi ottimizzati e standardizzati per una applicazione di routine per le neoplasie epidemiologicamente rilevanti [Gion M. et Al. 2011 (b)].

Complessa è l’interpretazione della variazione di concentrazione dopo un intervento terapeutico o nel corso del tempo. Una resezione incompleta o una

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recidiva può essere indicata da una diminuzione della concentrazione che avviene con una emivita più lunga rispetto a quella attesa. Secondo il Working Group on Tumor Marker Criteria of the International Society for Oncodevelopment Biology and Medicine una recidiva è indicata dall’aumento di almeno il 25% in tre prelievi successivi separati da almeno 2-4 settimane, una diminuzione di almeno il 50% indica una parziale remissione [Caputo M. et Al. 2001]. Prima di trarre qualsiasi conclusione il clinico deve tenere presente la cinetica del biomarcatore: interpretazioni errate possono essere dovute alla cinetica di distribuzione e di eliminazione dell’analita. In generale, in caso di aumenti anomali, una ripetizione del dosaggio può essere fatta dopo 2-4 settimane. In pazienti che hanno subito l’asportazione chirurgica la valutazione del biomarcatore dovrebbe essere effettuata non prima che sia passato un tempo pari a 5-6 volte l’emivita della sostanza; questo lasso di tempo si prolunga nel caso di chemioterapia o radioterapia che esercitano i loro effetti per un periodo più lungo [Fateh-Moghadam A. et Al. 1993, Basuyau J.P. et Al. 2001].

Nell’interpretazione del dato il clinico deve basarsi sulla variabilità biologica e sulla differenza critica che ha il marker. La variabilità biologica ha due componenti: una variabilità intra-individuale, che rispecchia la misura dell’oscillazione casuale di un valore attorno al suo punto omeostatico, e una

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variabilità inter-individuale, che riflette la variazione dei vari punti omeostatici negli individui della popolazione. Per differenza critica si intende la differenza percentuale fra due misure di analita consecutive in un soggetto, misurate con lo stesso metodo e nel medesimo laboratorio; questa è dovuta alla combinazione della variabilità analitica (legata prevalentemente alla specifica del metodo usato) con la variabilità dell’analita nell’individuo. Qualsiasi situazione si stia monitorando, progressione del tumore e/o efficacia di un trattamento, per essere giudicata efficace deve causare una variazione della concentrazione del biomarcatore superiore alla differenza critica.

MARCATORE DIFFERENZA CRITICA

AFP 40% CA 125 80% CA 15-3 20% CA 19-9 45% CEA 40% hCG NON DISPONIBILE

Calcitonina NON DISPONIBILE

PSA 50%

Tabella 3: Differenze critiche per i biomarcatori in oncologia [rielaborata da: Gion M. et Al. 2011 (b)].

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Spesso viene segnalato un uso non sempre razionale degli indicatori di neoplasia tradizionali, a cui si aggiunge, come già detto, una limitata accuratezza clinico-diagnostica (dovuta a modeste sensibilità e specificità, valori predittivi positivi e negativi bassi), il tutto nei confronti di patologie in cui un errore diagnostico può avere gravi conseguenze cliniche e soprattutto psicologiche. In questo ambito la NACB nel 2005 ha stilato delle raccomandazioni per minimizzare, oltre agli errori analitici, anche i pre e post analitici. Una corretta impostazione del referto può indubbiamente aiutare il clinico nella valutazione del dato laboratoristico [Esposito E. et Al. 2005].

REQUISITI

RACCOMANDAZIONI COMMENTI

REQUISITI DI BUONA PRATICA DI LABORATORIO Informazione clinica dai

dati della richiesta

Breve informazione relativa alla patologia neoplastica ed alle condizioni di prelievo (pre/post terapia)

Essenziale per la corretta interpretazione del dato e per identificare eventuali errori quali lo scambio di provette. Intervalli di riferimento

appropriati

Costruiti con una appropriata popolazione sana

Rilevante in pazienti pre-trattamento; importante soprattutto il valore basale del paziente (un aumento, anche in ambito normale, può essere significativo) Conoscenza della variazione significativa Il laboratorio dovrebbe fornire la percentuale di aumento o decremento In genere si considera significativo un aumento o decremento del 25%,

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del valore che è significativa

ma bisogna valutare questo parametro in relazione alla variabilità biologica del test

Protocollo relativo alla variazione del metodo

Dovrebbe essere

definito nel caso che il laboratorio cambi il metodo di dosaggio del marcatore

Bisogna rianalizzare il campione con il nuovo metodo per stabilire il valore basale

Conoscenza dell’emivita dei marcatori

Il laboratorio dovrebbe calcolare l’emivita per i marcatori per i quali tale dato è importante

Audit di laboratorio sull’utilità dei marcatori tumorali

Il laboratorio dovrebbe essere coinvolto in audit-clinici relativi all’utilità dei risultati forniti

Questa

raccomandazione

dovrebbe essere una priorità

REQUISITI DEL REFERTO

Risultati cumulativi Dovrebbero essere forniti dati in forma

cumulativa, una

rappresentazione grafica potrebbe essere utile

Un referto è utile se facilita l’interpretazione del risultato

Metodo di dosaggio Dovrebbe essere

segnalato il metodo utilizzato e ogni

cambiamento di

metodologia che possa influenzare

l’interpretazione del risultato

Appropriatezza nella frequenza dei dosaggi

Dovrebbero essere fornite informazioni sulla frequenza del monitoraggio e sulla necessità di campioni di conferma Un aumento di un marcatore dovrebbe sempre essere

confermato con una seconda determinazione

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Comunicazione laboratorio-clinico

Il laboratorio dovrebbe sempre accettare e favorire il commento del clinico

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5. VALUTAZIONE DINAMICA DEI MARCATORI:

IL CASO DEL PSA

La frequenza del carcinoma della prostata (CP) è molto elevata in numerose parti del mondo e l’impiego dell’antigene prostatico specifico (PSA) come test di screening da molti anni ci consente una serie di osservazioni sull’utilità di questa procedura. Il test è sicuramente accettabile da parte del paziente e viene ad oggi usato su larga scala. Tuttavia il PSA ha una bassa specificità: adottando il comune cut-off di 4 ng/ml circa il 12-15% della popolazione maschile con più di 50 anni risulta avere un valore anormale. Il principale limite di questo marcatore risiede nell’elevato rischio di sovradiagnosi: l’anticipazione diagnostica media del PSA è di 10 anni e il rapporto tra tasso diagnostico in screening e l’incidenza attesa suggerisce che buona parte dei tumori diagnosticati non sarebbe mai comparsa durante la vita del soggetto. La sovradiagnosi si affianca sempre ad un sovratrattamento non sempre esente da conseguenze: la prostatectomia può presentare effetti collaterali importanti (incontinenza, impotenza, mortalità). D’altra parte studi prospettici hanno evidenziato che un valore di PSA inferiore a 4 ng/ml non esclude categoricamente la presenza di un CP: circa il 20-25% di uomini con neoplasie iniziali presentano valori inferiori a 3 ng/ml. Inoltre bisogna tenere presente

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che il valore di questo marcatore può subire alterazioni dipendenti da cause non neoplastiche: uso della bicicletta, attività sessuale, attività fisica [Gion M. et Al. 2012 (a)].

Con queste premesse numerosi gruppi di ricercatori hanno cercato di studiare le variazioni del PSA monitorandole nel tempo. Da un lato si è proposto di adattare i valori di riferimento in base all’età del paziente: alcuni autori segnalano che i valori del PSA aumentano con l’età secondo un’equazione lineare che prevede un aumento del 25% ogni 10 anni. Questo approccio però trova risultati contrastanti e ad oggi ci sono studi che non ne dimostrano un reale vantaggio. Dall’altro lato è stato proposto lo studio di quella che viene definita PSA velocity (PSAV), alla cui base vi è il concetto che i cambiamenti registrati in due misurazioni ravvicinate del PSA possono essere date da variazioni fisiologiche, ma anche da patologie prostatiche. Tali variazioni possono essere aggiustate sulla base del tempo intercorso: la PSAV si calcola sottraendo al valore del PSA dell’ultima determinazione quello della precedente e dividendo il risultato per gli anni intercorsi fra i due prelievi. Diversi studi hanno messo in relazione la PSAV con l’aggressività del tumore: nel 1992 uno studio su pazienti con valori di PSA fra 4 e 10 ng/ml ha messo in evidenza che un valore di PSAV > 0,75 ng/ml/anno consentiva di distinguere fra CP e patologie benigne [Carter H.B. et Al. 1992]. Successivamente è stato

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rilevato che nel 47% delle biopsie dei pazienti con PSAV > 0,75 ng/ml/anno è stato riscontrato un CP, in confronto all’11% dei pazienti con PSAV < 0,75 ng/ml/anno [Smith D.S. et Al. 1994]. Inoltre in pazienti sottoposti a prostatectomia per CP è stata messa in luce una correlazione con i livelli preoperatori di PSAV e positività dei margini di resezione chirurgica, invasione al livello delle vescicole seminali e grandezza del tumore: valori di PSAV > 0,4 ng/ml/anno si correlano con caratteristiche patologiche avverse del tumore. Tuttavia, anche se ad oggi non ci sono indicazioni sufficienti sull’uso della PSAV in pazienti con valori normali di PSA, questi dati lasciano supporre che la PSAV, in unione con altre variabili, potrebbe essere utile nella pratica clinica per distinguere pazienti a rischio di sviluppare carcinoma prostatico.

In conclusione la valutazione dei biomarcatori in prelievi seriali ha una buona motivazione di base, dato che ci si aspetta che la produzione da parte del tessuto tumorale del marcatore sia accelerata rispetto ai tessuti normali. Inoltre questo approccio svincolerebbe dal fare riferimento ad un valore soglia arbitrario e consentirebbe di valutare variazioni patologiche anche in soggetti con livelli apparentemente “normali”. Tuttavia, un limite di questa metodologia risiede nella scarsa standardizzazione e nella carenza di informazioni sulla variabilità dei biomarcatori: tutto questo rende molto difficile l’applicazione nella pratica clinica [Gion M. et Al. 2012 (a), Loeb S. et Al. 2010].

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6. I BIOMARCATORI CLASSICI

Vengono definiti “biomarcatori classici” i markers che ormai sono entrati da anni nella pratica clinica; ne sono esempi l’antigene carcino-embrionario o CEA e l’alfa-fetoproteina (AFP), appartenenti alla categoria degli antigeni onco-fetali, e il CA 125, CA 15-3 e CA 19-9, appartenenti alla categoria delle mucine.

6.1. CEA

Il più conosciuto, descritto da Gold per la prima volta nel 1965, è stato fra i primi biomarcatori ad essere identificato e caratterizzato [Gold P. et Al. 1965]. È una glicoproteina, costituita da una sola catena polipetidica, di 641 aminoacidi con massa molecolare di 150-300 kDa e contenente circa il 45-55% di carboidrati che ne condizionano il peso molecolare variabile. Alcuni studi dimostrano la similarità fra la struttura del CEA e la catena pesante  delle immunoglobuline IgG, suggerendo che il gene codificante per questo marcatore faccia parte della superfamiglia di geni per le immunoglobuline. Questo lascerebbe ipotizzare che il CEA abbia un ruolo nei meccanismi di riconoscimento intracellulari e fra cellula e matrice. È presente nella vita fetale, ma dopo la nascita la sua concentrazione va gradualmente riducendosi [Benchimol S. et Al. 1989].

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6.2. ALFA-FETOPROTEINA

È una glicoproteina di 70 kDa sintetizzata nel periodo embrionale dall’endoderma del sacco vitellino e dal fegato fetale; dopo la nascita la concentrazione di alfa-fetoproteina (AFP) cala rapidamente nel siero materno, mentre nel neonato si mantiene elevata per 3-4 settimane per poi ridursi. L’espressione genica dell’AFP è regolata al livello di trascrizione: durante la vita fetale i geni per l’AFP e per l’albumina sono coespressi sul cromosoma 4, con prevalenza di trascrizione dell’AFP. Quando il gene per l’albumina raggiunge la completa attivazione, viene represso quello dell’AFP, portando così ad una graduale riduzione dei livelli dopo la nascita, fino al raggiungimento, al 12°-18° mese di vita post-natale, dei valori tipici dell’adulto [Esposito E. et Al. 2010].

6.3. CA 125

È una glicoproteina ad alto peso molecolare, appartenente alla famiglia delle mucine (MUC 16). Recenti esperimenti di clonazione di questa proteina, hanno messo in evidenza la presenza di una regione ripetuta di 156 aminoacidi a livello della porzione N-terminale, probabilmente una regione transmembrana, e di un sito di fosforilazione al livello della regione C-terminale. I due principali domini antigenici del CA 125 sono riconosciuti rispettivamente dagli anticorpi

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OC125 e M11. Nella prima generazione di test, veniva usato solo l’OC125 (il primo anticorpo monoclonale scoperto per l’identificazione di questo antigene [Bast R.C. et Al. 1981]), mentre nei test di seconda generazione, ad oggi, si usano entrambi gli anticorpi [Meany D.L. et Al. 2009].

6.4. CA 15-3

È una glicoproteina di 300-400 kDa, appartenente alla famiglia delle mucine. L’antigene CA 15-3 corrisponde ad un epitopo immunodominante presente nella porzione extracellulare della MUC1. La MUC1 è una glicoproteina di circa 400 kDa, contenente circa il 50% di carboidrati, espressa sulla superficie apicale della maggioranza degli epiteli dei tessuti sani [Bafna S. et Al. 2010]. In tessuti neoplastici, l’espressione di questa mucina, si rileva a livello di tutta la membrana plasmatica, a causa del processo di trasformazione e della perdita di polarità delle cellule [Agrawal B. et Al. 1998].

6.5. CA 19-9

È stato descritto per la prima volta nel 1979 in cellule colorettali neoplastiche e successivamente riscontrato in tessuti e siero di pazienti con tumori gastrointestinali [Koprowski H. et Al. 1979]. Il CA 19-9 deriva da una

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aberrazione della via di produzione del disialil-Lewis a, il quale presenta un residuo in più di acido sialico attaccato con un legame 2→6. Normalmente il disialil-Lewis a è espresso sulle superfici epiteliali o sugli organi digestivi e funge da ligando per monociti e macrofagi, partecipando all’immunosorveglianza. Il silenziamento, durante le fasi precoci della cancerogenesi, del gene della 2→6 sialil transferasi, porta ad una sintesi anomala e all’accumulo del CA 19-9. Da alcuni studi è emerso che il CA 19-9 può interagire con la E-selectina: ciò potrebbe indicare un suo ruolo nell’invasione metastatica del tumore [Kannagi R. 2007].

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7. NUOVE CLASSI DI BIOMARCATORI EMERGENTI

Negli ultimi anni gli studi e la ricerca oncologica hanno portato ad un notevole incremento delle conoscenze della cellula tumorale e dei meccanismi che ne sono alla base. Sempre più importanza risulta avere la relazione delle cellule neoplastiche con il microambiente circolante, costituito dallo stroma, dall’apparato microvascolare e dalle cellule dell’immunità dell’ospite. In particolare si è visto che questo riveste un ruolo fondamentale nella regolazione e nella progressione della neoplasia, tramite complesse interazioni con la cellula tumorale. Proprio questa rete di complesse interazioni però ha come conseguenza la notevole difficoltà di trasferire queste conoscenze nella pratica clinica. Infatti, nonostante la pletora di nuove informazioni ottenute negli ultimi anni, una nota pubblicata il 12 agosto 2010 dal “Journal of the National Cancer Institute” conferma che nelle ultime due decadi nessun nuovo biomarcatore è stato approvato dalla Food and Drug Administration per l’utilizzo nella pratica clinica [Gion M. et Al. 2012 (a)].

Tra le classi di nuovi biomarcatori vale la pena ricordare gli indicatori di risposta dell’ospite e i marcatori di meccanismo. Fra i primi possiamo citare le immunoglobuline complessate con i marcatori noti, le quali, in studi preliminari, hanno dimostrato buona sensibilità e specificità. È stata infatti dimostrata la presenza, in pazienti con differenti tipologie di neoplasia (fegato,

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colon e prostata), di immunoglobuline IgM complessate con i biomarcatori classici. La valutazione del complesso marcatore-IgM ha presentato una maggiore valenza diagnostica rispetto al dosaggio del biomarcatore libero. Nel caso dell’epatocarcinoma questo è stato provato anche per l’AFP e recentemente anche per l’SCCA (Squamous Cell Carcinoma Antigen). Inoltre è stata riportata l’importanza clinica del complesso SCCA-IgM come biomarker predittivo di evoluzione in epatocarcinoma, dimostrando che elevate concentrazioni di questo immunocomplesso in pazienti con cirrosi sono associate ad un più alto rischio di sviluppo di epatocarcinoma. Nello specifico sono state analizzate le variazioni di SCCA-IgM in due classi di pazienti cirrotici e seguite nel tempo. Un incremento significativo nelle concentrazioni si SCCA-IgM è stato riscontrato solo nel gruppo di pazienti che poi ha sviluppato il carcinoma nei successivi 4 anni. In questo lasso di tempo, l’altra categoria di pazienti, la quale non ha mostrato evoluzione verso la neoplasia, non ha evidenziato variazioni nel dosaggio di SCCA-IgM. La valutazione di questo immunocomplesso potrebbe dimostrarsi utile nello screening di pazienti a rischio di epatocarcinoma, per i quali i markers convenzionali non hanno dato buoni risultati [Beneduce L. et Al. 2004, Beneduce L. et Al. 2005, Beneduce L. et Al. 2008, Castaldi F. et Al. 2005, Beneduce L. et Al. 2007, Pontisso P. et al. 2006, Giannelli G. et Al. 2006].

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I marcatori di meccanismo invece sono una classe eterogenea che comprende molecole quali proteine codificate da geni oncosoppressori e oncogeni, proteine associate all’angiogenesi, proteasi e marcatori dell’infiammazione [Gion M. et Al. 2012 (a)].

La crescita dei tumori solidi dipende dall’angiogenesi, la quale facilita la formazione di metastasi e fornisce i nutrienti e l’ossigeno ai tessuti neoplastici. Un passo critico di questo processo è la crescita delle cellule endoteliali al di fuori dei preesistenti capillari e la migrazione di queste, grazie al VEGF (Vascular Endothelial Growt Factor). Le cellule proliferanti rimodellano in seguito la matrice extracellulare grazie alle metallo-proteinasi (MMP) e formano dei nuovi capillari. Nelle cellule neoplastiche, l’over-espressione dei fattori angiogenetici (VEGF e MMP) porta alla proliferazione ed ad una più facile mobilità attraverso i vasi sanguigni, caratteristiche strettamente legate all’invasione neoplastica e alla metastatizzazione. In studi su neoplasie gastrointestinali è stato osservato che l’alta espressione nelle cellule tumorali di MMP è correlata strettamente con il potenziale metastatico ed invasivo del tumore. La MMP-2, la MMP-7 e la MMP-9 giocano un ruolo fondamentale nell’angiogenesi: le cellule neoplastiche sintetizzano grandi quantità di MMP-2 e MMP-9 in modo da stimolare l’angiogenesi e la produzione di VEGF. È stato

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visto che l’espressione di MMP-2, MMP-7, MMP-9 e VEGF è associata con la grandezza del tumore e l’invasione linfonodale e venosa [Yang X. Et Al. 2012]. Le mucine sono una famiglia di glicoproteine ad alto peso molecolare che hanno la funzione di lubrificare le superfici luminali dei dotti. Recenti studi hanno messo in luce un possibile ruolo di queste proteine nella progressione dei tumori, in quanto sarebbero coinvolte nella proliferazione, nell’invasione e nella metastatizzazione. In studi su pazienti con cancro al seno è stato osservato che una alterata espressione delle mucine è correlata con la crescita cellulare, la trasformazione neoplastica e l’invasione. Nello specifico è stato visto che esiste una correlazione fra l’espressione sub cellulare di MUC-1 e la prognosi dei pazienti: la positività per MUC-1 è associata alla presenza di invasione vascolare, diffusione linfatica e presenza di metastasi. Inoltre pazienti positive per MUC-2 hanno dimostrato una sopravvivenza inferiore (49 mesi) rispetto a pazienti i cui tessuti neoplastici risultavano negativi per l’espressione di questa mucina (75 mesi). Anche MUC-3 e MUC-4 sono state messe in relazione con la prognosi delle pazienti con cancro al seno: l’espressione di MUC-3 è risultata significativamente più alta in pazienti con invasione del torrente ematico e metastasi, mentre MUC-4 mostra una correlazione positiva con il grado della neoplasia [Mukhopadhyay P. et Al. 2011]. In conclusione questa famiglia di glicoproteine potrebbe essere estremamente utile nella

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diagnosi precoce e soprattutto nella valutazione della prognosi in pazienti con neoplasia.

Molti autori recentemente si sono focalizzati sull’analisi di quelle che vengono definite cellule tumorali circolanti (CTC). Queste cellule sono presenti nella circolazione sanguigna di molti pazienti affetti da differenti tipi di tumore solido; il loro numero è estremamente basso e sono costituite da una popolazione molto eterogenea con caratteristiche spesso diverse dalla lesione neoplastica primitiva. Come nel caso di altri marcatori il dosaggio delle CTC potrebbe in linea teorica essere di aiuto nella valutazione della prognosi di una neoplasia e nel predire la risposta a determinati trattamenti, così come nel follow-up al fine di identificare precocemente le recidive. Anche se negli ultimi anni sono stati messi a punto molti metodi, isolare e quantificare queste cellule in modo standardizzato ad oggi rimane una vera e propria sfida [Den Tonder J. 2011]. Attualmente l’unico sistema approvato dalla “Food and Drug administration” per l’isolamento e il dosaggio delle CTC è il Cell Search della Immunocon Corporation e Veridex. Il processo di identificazione sfrutta il riconoscimento tramite il legame con un anticorpo diretto contro una molecola di adesione della cellula epiteliale (EPCAM) frequentemente sovra-espressa nei carcinomi mammario, prostatico, colo-rettale e testa-collo. Gli anticorpi sono coniugati con ferrofluid, una sostanza liquida contenente particelle

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ferromagnetiche , ed una volta che le CTC sono legate, queste vengono estratte grazie ad un magnete. Per completare la selezione le cellule devono essere positive per l’espressione delle CK (citocheratine) e del DAPI (4’,6-diamidin-2-fenilindolo) e negative per il CD45; inoltre devono possedere caratteristiche istologiche di malignità quali grandi dimensioni, nucleo ipercromatico, nucleoli prominenti [Gion M. et Al. 2012 (a), Kraan J. Et Al. 2010]. Alcuni studi hanno dimostrato come le CTC sono osservabili nel 20-54% dei pazienti con neoplasia mammaria in stadio precoce: in alcuni casi questo può essere correlato con una peggiore sopravvivenza dei pazienti. Allo stesso modo in pazienti con carcinoma colo-rettale in fase precoce, sottoposti a resezione chirurgica, le CTC sono risultate indicative di recidiva. Ad oggi, per quanto riguarda neoplasie in stadi precoci, l’utilità del dosaggio delle CTC è comunque controversa. Infatti, l’American Society of Clinical Oncology ha affermato che il dosaggio delle CTC, nell’ambito della neoplasia mammaria in fase precoce, deve essere considerato ad un livello di evidenza III, cioè non ancora sufficiente per una applicazione nella clinica pratica [Danova M. et Al. 2011]. Per quanto riguarda invece tumori in fase avanzata le CTC, individuando una eventuale progressione o risposta alla terapia, offrirebbero la possibilità di scegliere un regime terapeutico che da un lato porti ad un tasso elevato di risposte e dall’altro ad un basso rischio di tossicità. In differenti studi è stato osservato come le CTC siano presenti in una

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popolazione di pazienti affetti da neoplasia mammaria avanzata, in un intervallo fra il 26% e il 49% [Miller M.C. et Al. 2010]. Una prima indicazione dell’utilità prognostica delle CTC è stata descritta nel 2004 in uno studio che ha dimostrato come il 60-70% dei pazienti con neoplasia mammaria metastatica abbia una conta uguale o superiore a 2 cellule per 7,5 ml, mentre nei soggetti di controllo sono raramente osservate. Inoltre pazienti con CTC in numero maggiore o uguale al basale hanno una sopravvivenza peggiore rispetto a pazienti con conte minori [Cristofanilli M. et Al. 2004]. Studi successivi confermano questi risultati anche per carcinoma prostatici e colo-rettali in fase avanzata. In alcuni casi l’analisi delle CTC si è dimostrata più affidabile nel predire la risposta al trattamento rispetto alle metodiche tradizionali, quali rilievi radiologici e dosaggio del PSA. In pazienti affetti da carcinomi mammari, prostatici o colo-rettali in fase avanzata, un decremento di CTC dopo 2-5 settimane di terapia si correla con una migliore sopravvivenza [Danova M. et Al. 2011]. Nonostante questi promettenti studi, però, ad oggi, anche per le neoplasie in stadio avanzato, il dosaggio delle CTC non è ancora inserito nella pratica clinica. Qualora i saggi per le CTC venissero validati definitivamente mediante studi prospettici disegnati ad hoc, anche tramite il confronto con i marcatori tradizionali, queste cellule potrebbero effettivamente svolgere il

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ruolo di biomarcatori utili per orientare la scelta di una specifica terapia per ogni singolo paziente [Attard G. et Al. 2011, Nelson N.J. 2010].

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8. LINEE GUIDA

Nonostante le teoriche potenzialità dei biomarcatori tumorali, la loro utilità pratica, come abbiamo visto, è spesso fortemente limitata da caratteristiche di sensibilità e specificità non ottimali e da costi, in alcuni casi, elevati. Questo determina un notevole problema etico, sia dal punto di vista di un razionale ed appropriato uso delle risorse economiche, sia dal punto di vista di ingiustificati allarmi originati da risultati falsamente positivi. In questa ottica si inserisce la creazione di linee guida volte ad aiutare il clinico a gestire ed affrontare le varie situazioni che possono presentarsi. L’Institute of Medicine statunitense, nel 1990, definiva le linee guida come “raccomandazioni di comportamento clinico elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni degli esperti, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche” [Institute of Medicine. 1992]. Le linee guida si caratterizzano in primo luogo per il processo sistematico di elaborazione; devono essenzialmente assistere al momento della decisione clinica ed essere di ausilio alla pratica professionale come risultato di un preciso percorso sistematico di analisi dei processi clinici orientato alla definizione della “best practice”. La popolarità delle linee guida può essere spiegata dal loro ruolo nell’educazione, formazione ed aggiornamento in quanto sintesi critica delle informazioni scientifiche

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disponibili; inoltre individuano i comportamenti clinici più appropriati e promuovono il continuo miglioramento dell’attività assistenziale. Esse orientano infine verso una attività clinica più omogenea, riducendo la variabilità dei comportamenti [Grilli R. et Al. 1995]. Alla luce di quanto detto si può comprendere la definizione di linee guida intese come “raccomandazioni elaborate a partire da una interpretazione multidisciplinare e condivisa delle informazioni scientifiche disponibili, per assistere medici e pazienti nelle decisioni che riguardano le modalità di assistenza appropriate in specifiche circostanze cliniche “, proposta da R. Grilli, e la definizione di A. Cartabellotta “le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico, coerenti con le conoscenze sul rapporto costo/beneficio degli interventi sanitari, per assistere medici e pazienti nella scelta delle modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche” [Cartabellotta A. et Al. 2001].

Il processo di sviluppo di una linea guida è cruciale, non solo in relazione alla qualità delle evidenze utilizzate e delle raccomandazioni formulate, ma anche per porre i presupposti per il trasferimento nella pratica clinica. Uno dei requisiti fondamentali è quello di promuovere raccomandazioni cliniche fondate scientificamente su “raccomandazioni” validate e riproducibili; la presenza di esperti qualificati è condizione necessaria, ma non sufficiente, per

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garantire il buon esito: essi devono confrontarsi in modo sistematico con le evidenze scientifiche e derivare da queste le opinioni presentate. Le linee guida non devono essere intese come un rigido protocollo da seguire che limita la libertà nell’agire clinico, ma come uno strumento di ausilio e miglioramento della pratica. Il processo di produzione di una linea guida parte dall’identificazione di un gruppo di esperti multidisciplinari che ha il compito di definire i punti cruciali per sviluppare e portare a termine una revisione sistematica della letteratura pertinente; è condotta poi una valutazione delle evidenze disponibili con particolare attenzione agli esiti degli interventi considerati e la presenza di eventuali linee guida già presenti ed infine sono valutati i costi economici associati [Plebani M. et Al. 2002].

Nell’ottica dell’importanza che le linee guida rivestono nella pratica clinica appare evidente la necessità di valutarne criticamente la qualità, in modo che i clinici e le società scientifiche che le usano possano aver fiducia nella buona qualità delle raccomandazioni in esse presenti. Per qualità di una linea guida si intende la valutazione dell’adeguata considerazione di potenziali errori sistematici presentatisi nell’elaborazione, dell’applicabilità nella pratica clinica ed infine degli eventuali benefici, rischi, costi ed implicazioni etiche dei comportamenti consigliati. Per far ciò è necessario far uso di uno strumento a sua volta valido e dotato di espliciti criteri [Gion M. et Al. 2011 (c)]. Alla fine

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degli anni ’90 venne costituita l’Appraisal of Guidelines for Research & Evaluation (AGREE) Collaboration, con l’obiettivo di mettere a punto uno strumento per valutare la qualità delle linee guida, definita come “la ragionevole probabilità che le potenziali distorsioni nella produzione delle linee guida siano state adeguatamente gestite e che le raccomandazioni prodotte siano valide e applicabili in pratica”. Nel 2001 è stato pubblicato lo strumento AGREE (http://www.gimbe.org/pubblicazioni/traduzioni/AGREE_IT.pdf), una checklist costituita da 23 item raggruppati in sei dimensioni, ciascuna delle quali esplora vari aspetti che possono influenzare la qualità di una linea guida. Nello specifico le aree esaminate sono:

 Dimensione 1: obiettivi ed ambiti di applicazione (analizza l’obiettivo generale della linea guida, i quesiti clinico assistenziali a cui risponde e la popolazione target).

 Dimensione 2: coinvolgimento dei soggetti portatori di interesse (verifica l’entità del coinvolgimento di tutti i portatori di interesse, oltre che il punto di vista dei potenziali utenti).

 Dimensione 3: rigore metodologico (analizza i metodi e gli strumenti utilizzati per la ricerca bibliografica, la valutazione critica e la selezione delle evidenze scientifiche, la formulazione delle raccomandazioni cliniche, l’aggiornamento della linea guida).

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43  Dimensione 4: chiarezza espositiva (esamina il linguaggio, la struttura ed

il formato della linea guida).

 Dimensione 5: applicabilità (analizza le possibili barriere ed i fattori facilitanti l’implementazione della linea guida, le possibili strategie per favorirne l’adozione, l’implicazione sulle risorse economiche conseguenti all’applicazione).

 Dimensione 6: indipendenza editoriale (verifica se eventuali conflitti di interesse abbiano influenzato la formulazione delle raccomandazioni). Il computo del punteggio per area si ottiene associando ad ogni quesito un numero sulla scala da 1 a 4 dove 1 rappresenta il completo disaccordo e 4 il completo accordo [Gion M. et Al. 2011 (c), Cartabellotta A. 2011].

Come ogni nuovo strumento è apparsa necessaria una sua continua revisione al fine di migliorarne la capacità e la facilità d’uso: da questo processo, recentemente, nel 2010, è nata una nuova versione dell’AGREE (AGREE II). AGREE II introduce essenzialmente tre radicali innovazioni: per l’assegnazione dello score si utilizza una scala a 7 punti (invece che la classica da 1 a 4), le 6 dimensioni sono le stesse ma sono stati modificati 11 dei 23 item, infine il manuale d’uso è stato interamente ridisegnato per facilitare ulteriormente l’applicazione pratica del sistema AGREE.

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Recentemente, in due studi condotti dall’AGREE Next Steps Consortium, è emerso che la qualità di una linea guida in termini di score AGREE è un fattore predittivo della sua implementazione; inoltre questo strumento si è dimostrato efficace nel differenziare i contenuti tra linee guida a bassa ed alta qualità [Cartabellotta A. 2011]

Vale la pena ricordare, senza entrare nello specifico di una trattazione dettagliata, che è possibile identificare criteri generali per valutare il peso delle “evidenze” che stanno alla base della stesura di una linea guida e la forza delle raccomandazioni che ne derivano. Per livello di evidenza si intende il tipo di studio che supporta l’informazione utilizzata e di conseguenza la validità della stessa. Si riconoscono vari livelli di evidenza:

- I: prove ottenute da più studi clinici controllati e/o revisioni sistematiche di studi randomizzati.

- II: prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato. - III: prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli

concorrenti o storici o loro metanalisi.

- IV: prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso controllo o loro metanalisi.

- V: prove ottenute da studi di casistica “serie di casi” senza gruppo di controllo.

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- VI: prove basate sull’opinione di esperti o comitati di esperti come indicato in linee guida o consensus conference.

La forza delle raccomandazioni si riferisce alla probabilità che l’applicazione delle stesse nelle pratica clinica determini un miglioramento dello stato di salute. Si riconoscono vari gradi:

- A: indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II. - B: si nutrono dubbi sul fatto che quella particolare procedura o

intervento debba essere sempre raccomandato ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata.

- C: esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura od intervento.

- D: l’esecuzione della procedura non è raccomandabile. - E: si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura.

Oltre alla classificazione appena descritta, presente nel Manuale Metodologico del progetto Nazionale Linee Guida e aggiornata nel 2004 (http://www.pnlg.it/doc/Manuale_PNLG.pdf), in ambito internazionale sono state proposte e utilizzate nella pratica anche altre metodologie di valutazione, ne è un esempio quella formulata nel 2004 dalla National Academy of Clinical

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Biochemistry, nell’ambito delle sindromi coronariche acute (http://www.nacb.org/lmpg/main.stm).

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9. GUIDA ALL’USO DEI MARCATORI NELLA PRATICA

CLINICA

Nel 1985 nacque il “Comitato Nazionale per lo studio dei marcatori tumorali”, con lo scopo di coordinare e gestire le problematiche connesse all’uso dei biomarcatori tumorali. Nel 1986 venne pubblicata la prima Guida con l’obiettivo di fornire indicazioni condivise per la determinazione e l’uso dei marcatori in oncologia; questa venne poi rieditata nel 1990 e nel 1993. Nel 1989 il CRIBIT (Centro Regionale Indicatori Biochimici di Tumore), in accordo con il Comitato, pubblicò una nuova versione della Guida e successivamente continuò il suo lavoro con la pubblicazione di una seconda edizione nel 1992 e di una terza nel 1997. Nel 2002 fu pubblicata la quarta versione della guida, la quale per la prima volta fu aggiornata da un gruppo di lavoro e ricontrollata da un revisore esterno, avviando il processo di trasformazione della Guida in un prodotto di valutazione multidisciplinare delle evidenze disponibili, in conformità con quanto indicato dalla EBM (Evidence-Based Medicine). Il successivo ingresso nel progetto dell’ABO (Associazione per l’Applicazione delle biotecnologie in Oncologia) permise di estendere il lavoro a livello nazionale.

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Recentemente è apparsa evidente la necessità di revisionare ulteriormente la Guida, in quanto diversi studi hanno messo in evidenza che l’impiego dei marcatori tumorali “classici” rimane ad oggi fortemente inappropriato, con percentuali di richieste clinicamente non appropriate anche superiori al 50-70%. Così nel 2010 la Guida è stata aggiornata, coinvolgendo nel progetto un gruppo di 61 professionisti tra rappresentanti delle principali discipline clinico sanitarie implicate nell’uso e nella valutazione dei biomarcatori, esperti di EBM, economisti sanitari e ricercatori specializzati nel campo dei marcatori tumorali. Le linee guida sono state selezionate attraverso una revisione sistematica delle letteratura per gli argomenti trattati nella Guida; ogni linea guida è stata analizzata con lo strumento AGREE e sono stati estratti i contenuti delle raccomandazioni relative ai marcatori e le evidenze a supporto di questi. La novità introdotta da questa versione è quella di non fornire raccomandazioni o suggerimenti, ma dare la possibilità a chi la usa di capire la situazione attuale sui biomarcatori e di scegliere, in modo autonomo e critico, il percorso migliore da seguire.

Un tale approccio, con una visione chiara e sintetica della situazione ad oggi esistente per quanto riguarda i biomarcatori tumorali, consente di tradurre le linee guida esistenti in un iter diagnostico-terapeutico specifico per le varie categorie di pazienti. Inoltre mette in evidenza le aree che necessitano di linee

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guida di buona qualità o di studi che valutino l’impatto dell’applicazione di un esame sugli esiti importanti per i pazienti [Gion M. 2011 (d)].

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10. UTILIZZO DEI MARCATORI NEOPLASTICI NELLE

PRINCIPALI PATOLOGIE TUMORALI

Alla luce delle problematiche e dei limiti fin qui riscontrati nell’uso dei marcatori tumorali nella pratica clinica, esaminiamo in una breve rassegna le principali neoplasie, in relazione al possibile uso dei markers nelle varie fasi: screening, diagnosi differenziale, bilancio di base, risposta al trattamento primario, riconoscimento precoce della progressione, monitoraggio della terapia nella malattia avanzata.

Le linee guida prese in considerazione sono: ACOG (American Congress of Obstetricians and Gynecologists), ACS (American Chemical Society), AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica), ATA (American Thyroid Association), ASCO (American Society of Clinical Oncology), ESMO (European Society for Medical Oncology), NACB (National Academy of Clinical Biochemistry), NCCN (National Comprehensive Cancer Network), NICE (National Institute for health and Clinical Excellence), SIGN (Scottish Intercollegiate Guidelines Network).

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10.1. CARCINOMA MIDOLLARE DELLA TIROIDE

Le linee guida esaminate mostrano che nella fase di screening di popolazione nessun biomarcatore circolante risulta indicato, ad eccezione della calcitonina in soggetti a rischio genetico o familiare. Nelle fasi successive invece la determinazione dei marcatori risulta avere una utilità clinica, soprattutto nel bilancio di base, in quanto associati all’estensione del tumore, nella risposta al trattamento, nella progressione e nel monitoraggio della malattia. Le linee guida inoltre raccomandano l’utilizzo dello stesso metodo nelle varie determinazioni e mettono in guardia il clinico dai possibili falsi positivi e falsi negativi.

SCENARIO MARCATORE SINTESI DELLE RACCOMANDAZIONI LG SELEZIONATE NOTE SCREENING NO Ct La Ct non è raccomandata per la valutazione di un paziente con patologia nodulare tiroidea. Dovrebbe essere usata nella valutazione dei pazienti con maggior rischio genetico o familiare per definire la strategia diagnostico-terapeutica. NCCN

ATA Casi con genotipo a

rischio o mutazioni dell’oncogene RET o famiglie che

rispondono ai

criteri clinici per MEN 2° o 2b o FMTC, o anche in caso di sequenziamento negativo dell’intera regione dell’oncogene RET. DIAGNOSI DIFFERENZIALE Ct Dovrebbe essere parte integrante

ESMO La Ct avrebbe una

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52 NO Ct dell’approccio diagnostico ai nodi tiroidei. In assenza di stimolazione con pentagastrina, la Ct non è consigliata. Può essere utile in fase diagnostica (l’utilità in assenza di stimolazione con penta gastrina è incerta). NCCN ATA maggiore della FNAC. Valori maggiori o uguali a 100 µg/L sono sospetti per MTC e richiedono ulteriori

accertamenti. BILANCIO DI BASE Ct, CEA Dovrebbero far

parte del comune “work-up”

preoperatorio e sono in relazione con l’estensione del tumore.

ATA, NCCN ATA: la probabilità

di metastasi a distanza è direttamente associata anche alle concentrazioni di Ct. ATA: indicazioni per la interpretazione della Ct (usare sempre lo stesso metodo, possibili falsi positivi e falsi negativi, intervalli diversi in relazione al sesso, attenzione ai limiti di riferimento nei bambini). RISPOSTA AL TRATTAMENTO PRIMARIO Ct Dovrebbe essere determinata 2-3 mesi dopo la chirurgia. ATA, NCCN Valori postoperatori maggiori o uguali a 150 µg/L suggeriscono ulteriori indagini per escludere la presenza di metastasi. RICONOSCIMENTO PRECOCE DELLA PROGRESSIONE

Ct, CEA Dovrebbero essere

misurati

periodicamente. Al di fuori di studi clinici, l’incremento dei marcatori non dovrebbe essere usato per iniziare la terapia.

Dovrebbero essere misurati ogni 6 mesi per determinare l’eventuale DT. Il

ATA, NCCN

NCCN

ATA Per valutare

l’incremento, il timing potrebbe essere ¼ del DT.

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53 timing dovrebbe essere poi aggiustato sul DT. Un incremento dei valori di Ct del 20-100% o in caso di valori superiori o uguali a 150 µg/L giustifica ulteriori accertamenti (imaging). ATA MONITORAGGIO TERAPIA MALATTIA AVANZATA Ct Ct, CEA Dovrebbe essere misurata periodicamente. Il DT può essere un marcatore surrogato di progressione e fornisce indicazioni prognostiche. NCCN ATA La Ct può ridursi anche in assenza di riduzione del

tumore nel caso di terapie basate su RET-inibitori. I DT di CEA e Ct potrebbero non essere coerenti. Opportuno misurarli entrambi.

Tabella 5. Carcinoma midollare della tiroide (tratto da Gion M. et Al. 2011(e)].

10.2. CARCINOMA DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE

Le linee guida esaminate non affrontano lo scenario dello screening di popolazione. Nella diagnosi differenziale i marcatori circolanti non sono raccomandati, così come per il bilancio di base, ad eccezione della tireoglobulina associata però ad indagini di imaging per la pianificazione della strategia terapeutica. I biomarcatori vengono invece presi in considerazione nel riconoscimento della progressione, nel quale il dosaggio della tireoglobulina e degli anticorpi anti-tireoglobulina assumono importanza nell’individuazione di una recidiva. Anche in questo caso le linee guida mettono in evidenza la necessità di eseguire la determinazione dei livelli dei marcatori sempre nello

Figura

Tabella 1. Eventi fisiologici e abitudini che possono incrementare i livelli dei marcatori
Tabella 2: Rapporto di verosimiglianza [Gion M. et Al. 2011 (b)].
Tabella 3: Differenze critiche per i biomarcatori in oncologia [rielaborata da: Gion M
Tabella 5. Carcinoma midollare della tiroide (tratto da Gion M. et Al. 2011(e)].
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