Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia
Studio multicentrico retrospettivo dei fattori
prognostici dell’endocardite infettiva
Relatore:
Prof. Lorenzo Ghiadoni
Candidata:
Chiara Bertone
L’endocardite infettiva `e una patologia non particolarmente frequente, ma non per questo incapace di attirare su di s´e l’attenzione del mondo medico e della ricerca scientifica, in quanto il tasso di complicanze maggiori cui si associa `e piuttosto elevato.
L’introduzione e la sempre maggiore diffusione degli antibiotici, unite ai mi-glioramenti apportati nel campo della cardiochirurgia nel corso degli ultimi decenni del XX secolo, non hanno portato ad una sostanziale riduzione della mortalit`a associata all’endocardite infettiva. Di conseguenza, gli sforzi effet-tuati si sono concentrati sul fronte della prevenzione, nel tentativo di indivi-duare, fra tutti i pazienti, quelli a maggior rischio di sviluppo di complicanze maggiori, ed attuare solo su questo sottogruppo selezionato di soggetti op-portuni interventi capaci di evitare la successiva insorgenza di complicanze: in questo senso, `e particolarmente rilevante il ruolo degli eventi embolici mag-giori, la cui occorrenza `e in grado di peggiorare drasticamente gli esiti clinici. Sebbene alcuni studi abbiano focalizzato l’obiettivo sulla comprensione dei fattori associati in maniera indipendente ad un significativo aumento del tas-so di complicanze in catas-so di endocardite infettiva, i risultati in proposito non sono per`o sempre coerenti e compatibili gli uni con gli altri.
Lo studio multicentrico retrospettivo oggetto di questa tesi `e stato disegnato proprio con lo scopo di individuare i fattori prognostici negativi in caso di endocardite infettiva, ed in particolare quali parametri avessero un potere predittivo per l’aumento del rischio di mortalit`a e per l’incidenza di em-bolismo settico. Un altro obiettivo dello studio `e stato quello di verificare l’eventuale associazione fra l’occorrenza di eventi di embolizzazione periferica ed il riscontro di elevate concentrazioni ematiche di procalcitonina (PCT). Sono stati arruolati nello studio 295 pazienti ricoverati con una diagnosi certa di endocardite infettiva in 7 diverse strutture ospedaliere afferenti alle citt`a di Pisa, Massa, Roma, Perugia, Terni, Napoli e Caserta, nel periodo com-preso fra il dicembre 2012 ed il maggio 2018. Di ciascun soggetto sono stati registrati i dati relativi a: variabili anagrafiche, fattori di rischio per endo-cardite infettiva, co- morbidit`a concomitanti, tipo di substrato coinvolto nel corso del processo infettivo e sua localizzazione, sintomi associati all’insor-genza della malattia ed eventuale comparsa di complicanze (in particolare le embolizzazioni periferiche), esami di laboratorio, specie microbiche isolate dalle emocolture, ecocardiogramma, terapia, durata del ricovero e suo esito. L’analisi statistica effettuata ha mostrato una significativa associazione fra
mortalit`a per endocardite infettiva da un lato, e leucocitosi ed innalzamento dei livelli sierici di PCT dall’altro (p<0,001 in entrambi i casi). L’analisi random forest ha consentito di collocare questi parametri rispettivamente al primo ed al secondo posto nella classifica delle variabili predittive di un esito infausto della malattia in questione. Altre variabili associate con un aumento del tasso di mortalit`a sono la piastrinopenia, il Charlson Comorbidity Index, fattori classici come la comparsa di insufficienza renale e cardiaca, ed infine il riscontro di valori elevati di BNP e NT-proBNP nel sangue. Il ricorso ad un intervento cardiochirurgico si `e invece rivelato essere un fattore protettivo nei confronti dell’evento “decesso” (p<0,001). Confrontando l’incidenza di eventi embolici maggiori fra i soggetti con una PCT sempre inferiore a 2,9 ng/ml e quelli in cui essa assumeva almeno un valore superiore, si `e ottenu-ta una differenza sottenu-tatisticamente significativa (p=0,002), con AUC di 0,560 [0,510 – 0,622] nella curva ROC per tale valore soglia. Oltre alla PCT, altri fattori in grado di determinare un incremento del rischio di embolizzazione periferica sono risultati la presenza di cardiopatia dilatativa e soffi noti, l’a-bitudine al fumo, la comparsa di TIA/ictus come sintomo clinico, il riscontro di elevate concentrazioni di PCR e Troponina I al momento del ricovero, ed infine la positivit`a delle emocolture. L’insorgenza di una deiscenza protesica, invece, si `e dimostrata significativamente meno frequente nei pazienti andati incontro ad almeno un episodio di embolismo settico (p=0,03).
In conclusione, la PCT si `e rivelata un fattore prognostico determinante in caso di endocardite infettiva in virt`u della sua duplice correlazione con l’au-mento del tasso di mortalit`a da un lato e del rischio di eventi embolici dall’al-tro. Pertanto, i risultati di questo studio suggeriscono come l’individuazione dei soggetti affetti da endocardite infettiva a maggior rischio di complicanze maggiori e di morte possa essere effettuata in maniera piuttosto rapida ed economica, facendo ricorso al dosaggio delle concentrazioni sieriche di po-chi marcatori: PCT, conta dei globuli bianpo-chi e piastrinica, PCR ed alcuni indici di danno cardiaco (BNP, NT-proBNP e troponina I), che potrebbero essere quindi vantaggiosi per una efficare stratificazione prognostica (rischio di embolizzazione o di mortalit`a) nei pazienti affetti da endocardite infettiva rispetto ad esami invasivi e time- consuming quali l’ecocardiogramma trans-esofageo o la PET.
Indice
1 Introduzione 2
1.1 Il problema della diagnosi precoce . . . 7
1.2 Il problema delle embolizzazioni periferiche . . . 15
1.3 Altri fattori prognostici nell’endocardite . . . 22
1.3.1 PCT ed endocardite . . . 22
1.3.2 Diabete mellito ed endocardite . . . 23
2 Obiettivo della tesi 28 3 Materiali e metodi 31 3.1 Tipologia di studio e selezione dei pazienti . . . 31
3.2 Raccolta dei dati . . . 32
3.3 Analisi statistica . . . 34
4 Risultati 38 4.1 Dati epidemiologici ed eziologici . . . 38
4.2 Analisi della mortalit`a . . . 42
4.3 Le embolizzazioni periferiche . . . 45
5 Discussione 50 5.1 Epidemiologia . . . 50
5.2 Fattori predittivi di mortalit`a . . . 50
5.3 I fattori prognostici di embolizzazioni periferiche . . . 54
5.4 Punti di forza e limiti dello studio . . . 57
6 Conclusioni 59
Capitolo 1
Introduzione
L’endocardite infettiva `e un processo flogistico a carico dell’endocardio soste-nuto da agenti microbici. Pi`u frequentemente colpisce le valvole cardiache, ma pu`o anche estendersi a interessare l’endotelio murale e, in presenza di difetti strutturali, i setti.
La sua incidenza non `e nota con esattezza, ma si ritiene compresa fra 1,4 e 6,2 casi per 100.000 abitanti per anno, dati che comunque, secondo alcuni autori, sottostimano la realt`a del problema. Sotto il profilo epidemiologico, al di l`a dei dati numerici riguardanti prevalenza ed incidenza, `e necessario sottolineare come l’interesse suscitato da tale patologia all’interno del mondo medico sia dovuta soprattutto all’elevato rischio di morbidit`a e mortalit`a cui si associa [1].
Il tasso di mortalit`a intra- ospedaliera `e sicuramente elevato, variabile fra il 20 ed il 40%; per quanto riguarda invece la sopravvivenza a lungo termine, recenti casistiche suggeriscono che, in seguito al completamento della terapia specifica, l’80-90% dei pazienti sia ancora vivo a 1 anno, il 70-80% a 2 anni e il 60-70% a 5 anni [2].
Oltre l’80% delle endocarditi infettive riconosce quale agente eziologico un batterio Gram positivo appartenente ai generi Staphylococcus (S. aureus, stafilococchi coagulasi- negativi), Streptococcus (S. bovis e streptococchi “vi-ridanti” quali S. mitis, S. oralis, S. sanguinis, S. mutans e S. salivarius) o Enterococcus; nella restante quota di casi, invece, ad essere responsabili dell’insorgenza della patologia possono essere batteri Gram negativi apparte-nenti al gruppo HACEK (acronimo utile a racchiudere i generi Haemophilus, Aggregatibacter, Cardiobacterium, Eikenella e Kingella), Enterobacteriaceae, miceti o microrganismi intracellulari quali Coxiella burnetii, Chlamydia spp., Bartonella spp. e Mycoplasma hominis.
Dal punto di vista nosologico `e possibile riconoscere diverse classificazioni, ciascuna basata su un criterio distinto. In base alla modalit`a di insorgenza,
le endocarditi sono suddivise in acute e sub- acute, mentre in base alla loca-lizzazione del processo infettivo si distinguono endocarditi del cuore sinistro e del cuore destro; infine, in relazione al tipo di substrato coinvolto, `e possi-bile riconoscere endocarditi insorte su valvola nativa, su valvola protesica e su dispositivi intracardiaci: quest’ultima categoria, di non trascurabile rile-vanza epidemiologica, si `e andata affermando di recente, parallelamente alla sempre maggiore diffusione di presidi impiantabili nel cuore, quali pacemaker e defibrillatori.
Si comprende quindi come, in realt`a, la definizione di endocardite infetti-va racchiuda uno spettro di patologie caratterizzate da eziologia, patoge-nesi e prognosi differenti, ma tutte accomunate dalla medesima alterazione anatomo- patologica: la presenza di un’invasione microbica dell’endocardio con conseguente sviluppo di un danno tissutale.
Il reperto pi`u caratteristico – anche se non costantemente presente - dell’en-docardite infettiva `e la vegetazione, ovvero un ammasso di fibrina, piastrine e leucociti all’interno del quale si annidano e riproducono i microrganismi responsabili della patologia: questa si localizza in genere sui lembi valvolari, ma si pu`o ritrovare anche adesa alle corde tendinee, all’endocardio parietale e ai dispositivi intracardiaci, oppure, in caso di endocardite su valvola pro-tesica, in corrispondenza dell’anello di sutura.
La formazione di una vegetazione costituisce il risultato ultimo del concorso di due eventi: lo sviluppo di una batteriemia e la presenza di un danno ana-tomico o di un’alterazione funzionale dell’endotelio; dal momento in cui l’en-docardio `e molto resistente nei confronti delle infezioni microbiche, affinch´e si realizzi un’endocardite risulta indispensabile la presenza di ceppi molto virulenti, capaci di colonizzare tessuti anatomicamente integri (ad esempio S. aureus), oppure di soluzioni di continuo dell’endotelio valvolare o parie-tale, aggredibili anche da parte di batteri e funghi dotati di minor capacit`a invasiva.
In corrispondenza delle lesioni a carico dell’endocardio e sulle aree non rive-stite da endotelio di valvole protesiche e dispositivi impiantabili si depositano piastrine, eritrociti e fibrina, dando luogo alla formazione di microtrombi in-tracardiaci. Tale processo `e favorito dalla presenza di alterazioni del flusso sanguigno, in particolare di un getto ematico che, sospinto da una pressio-ne elevata, passa attraverso un orifizio ristretto per poi immettersi in una camera cardiaca a bassa pressione. Rodbard ed i suoi colleghi [3] hanno di-mostrato che, immediatamente a valle dell’orifizio ristretto attraversato dal sangue e secondariamente sulle superfici investite dal getto ematico stesso, la vorticosit`a del flusso genera micro-traumatismi responsabili dello sviluppo di un danno endoteliale e del conseguente deposito di aggregati di fibrina e piastrine. La realizzazione di una simile condizione, definita endocardite
trombotica non batterica, rappresenta il primum movens del processo patoge-netico dell’endocardite: i trombi adesi ai lembi valvolari costituiscono infatti un pabulum ottimale per la crescita delle specie microbiche, ragion per cui `
e possibile la loro colonizzazione da parte di diversi germi nel corso di una batteriemia transeunte. Una volta adesi alle formazioni trombotiche, i mi-crorganismi determinano il rilascio di fattore tissutale da parte delle cellule endoteliali e quindi l’innesco della via estrinseca della coagulazione: a que-sto punto si assiste ad un ulteriore deposito di fibrina e piastrine sul micro-trombo gi`a presente, con aumento della superficie disponibile per il deposito di altri agenti microbici circolanti; in altri termini, si genera un meccanismo capace di auto- mantenersi e portare alla formazione della vera e propria ve-getazione. All’interno di quest’ultima, le popolazioni microbiche proliferano protette dall’azione delle cellule fagocitiche, degli anticorpi circolanti e dei farmaci: questo accade perch´e da un lato i lembi valvolari sono sprovvisti di capillari, per cui cellule infiammatorie e farmaci non possono concentrarvisi, mentre dall’altro gli aggregati di piastrine e fibrina stratificatisi sopra le co-lonie microbiche in virt`u dell’attivazione della coagulazione fanno in qualche modo da barriera fisica nei confronti degli anticorpi e dei farmaci presenti nel torrente sanguigno.
Pi`u raramente, e solo in presenza di ceppi dotati di un’elevata virulenza, `e possibile l’invasione microbica di un endocardio privo di lesioni anatomiche ma funzionalmente “attivato”: `e il caso dello S. aureus, capace di produrre la fibronectina ed aderire alle cellule endoteliali grazie ad un meccanismo di riconoscimento recettoriale fra tale proteina e le integrine espresse dall’endo-telio attivato. Una volta penetrato nella cellula, il batterio stimola il rilascio di fattore tissutale e innesca una cascata di eventi analoga a quella descritta in precedenza in relazione alla colonizzazione microbica di valvole con alte-razioni anatomiche pre- esistenti.
Qualunque sia il movente fisiopatologico dell’endocardite, la proliferazione batterica determina un progressivo ingrandimento della vegetazione, che pu`o raggiungere dimensioni notevoli, anche superiori al centimetro. La presenza e l’evoluzione di questa lesione intra- cardiaca condizionano il decorso della patologia e possono causare diverse complicanze a livello non soltanto locale, ma anche sistemico, determinando un elevato tasso di mortalit`a e morbidit`a. L’aumento del diametro della vegetazione `e il riflesso di una crescita della popolazione microbica che avviene su pi`u fronti e finisce per creare lesioni erosive ed ascessuali a carico dell’apparato valvolare e dei tessuti ad esso immediatamente adiacenti: questo giustifica la comparsa di alcune compli-canze, quali la perforazione di un lembo valvolare, il distacco di una corda tendinea o la deiscenza di una valvola protesica con conseguente sviluppo di insufficienza valvolare severa e/o di scompenso cardiaco congestizio, la
formazione di ascessi perivalvolari, pseudo- aneurismi, aneurismi (micotici o sacculari) o fistole, ed infine la possibile comparsa di aritmie in seguito al danneggiamento diretto del sistema di conduzione.
Degli effetti extra- cardiaci, risultano particolarmente rilevanti la persistente immissione in circolo di agenti microbici e di complessi antigene- anticorpo (dove l’antigene `e costituito da frammenti del microrganismo infettante), le embolizzazioni periferiche, dovute al distacco di frammenti dalle vegetazioni stesse, e la formazione di focolai di infezione metastatici quale conseguenza della circolazione di emboli infetti.
La vegetazione costituisce una fonte di batteriemia pressoch´e continua e di incessante stimolazione del sistema immunitario, con conseguente rischio di degenerazione dell’infezione verso una sepsi o addirittura uno shock setti-co, due condizioni in grado di mettere in pericolo la vita del paziente. Un altro importante determinante della mortalit`a dell’endocardite `e il fenome-no delle embolizzazioni periferiche, anch’esso correlato, come accennato, alla presenza delle vegetazioni intra- cardiache. A mano a mano che queste si accrescono, diventano pi`u fragili e quindi predisposte alla rottura; `e proprio il distacco di frammenti da queste masse amorfe a immettere nella circolazio-ne emboli che si rendono responsabili di due ordini di fenomeni: l’occlusiocircolazio-ne dei vasi sanguigni e la formazione di ascessi periferici. Da un lato, infatti, essi possono arrestarsi all’interno del circolo provocando un danno tissuta-le e d’organo su base ischemica o emorragica, pi`u o meno esteso a seconda del calibro del vaso interessato: i micro- emboli, pi`u comuni, possono non dare affatto segno di s´e, oppure causare lesioni cutanee (lesioni di Janeway e splinter hemorrhages), mucose (emorragie sotto- congiuntivali), retiniche e soprattutto renali (glomerulonefrite focale); i macro- emboli, pi`u gravi ma fortunatamente anche pi`u rari, si rendono invece responsabili della comparsa di stroke, ischemie spleniche, intestinali, coronariche e polmonari. Dal mo-mento in cui la maggioranza delle endocarditi interessa le sezioni cardiache sinistre, pi`u frequentemente questi emboli sono immessi nella grande circo-lazione: in particolare, le sedi preferenziali di embolizzazione sono il sistema nervoso centrale e la milza, seguiti dagli organi splancnici, il rene e gli arti superiori; non mancano tuttavia i casi di embolia polmonare settica dovuta all’occlusione da parte di un embolo staccatosi da una vegetazione localizzata sulla tricuspide o comunque nelle camere cardiache di destra.
Dall’altro lato, occorre tenere presente che i frammenti embolici provenienti dalle vegetazioni endocarditiche contengono colonie microbiche capaci di at-tecchire e causare lo sviluppo di lesioni ascessuali nei tessuti periferici o di aneurismi micotici nella parete dei vasi arteriosi. La formazione di veri ascessi metastatici `e piuttosto rara e richiede la presenza di microrganismi partico-larmente aggressivi e virulenti, quali S. aureus; in genere interessa organi
quali il sistema nervoso centrale, il rene, la milza e l’osso: la sintomatologia, naturalmente, `e diversa a seconda della localizzazione del processo e questo rende almeno in parte ragione della variet`a delle manifestazioni cliniche del-l’endocardite. Pi`u comune, ma anche, purtroppo, maggiormente pericolosa, `
e la comparsa di aneurismi micotici, la cui rottura a livello cerebrale `e capace di causare emorragie sub aracnoidee potenzialmente fatali [1] [4].
Una classificazione pi`u immediata e fruibile dal punto di vista pratico sud-divide gli eventi embolici in minori e maggiori. I primi sono clinicamente silenti ed `e molto probabile che non modifichino in misura sostanziale il de-corso della malattia; la loro presenza pu`o essere dimostrata nella maggioranza dei soggetti affetti da endocardite grazie all’esecuzione di una PET (Positron Emission Tomography) o di una risonanza magnetica. I secondi, al contra-rio, sono capaci di dare segno di s´e e causare sintomi differenti a seconda dell’organo colpito; la loro comparsa si associa all’insorgenza di complicanze e ad un incremento del tasso di mortalit`a: sono dunque proprio questi ulti-mi a risultare rilevanti dal punto di vista prognostico. La prevalenza delle embolizzazioni clinicamente manifeste `e comunque inferiore rispetto a quella delle embolizzazioni asintomatiche. Alcune stime hanno infatti suggerito che in circa l’81% dei pazienti con endocardite sono presenti segni radiologici di eventi embolici minori a livello del sistema nervoso centrale, mentre la com-parsa di segni e sintomi di embolizzazione cerebrale si pu`o riscontrare in una percentuale di soggetti con endocardite variabile fra il 12% ed il 40% [5] [6]. Un’ultima suddivisione, effettuata sulla base di un criterio squisitamente tem-porale, raccoglie gli eventi embolici in due gruppi: nel primo rientrano tutti i fenomeni di embolizzazione verificatisi prima della somministrazione della terapia antibiotica, mentre nel secondo quelli insorti in un momento succes-sivo all’inizio del trattamento.
La prevenzione delle complicanze dell’endocardite e la riduzione della sua mortalit`a dipendono dalla capacit`a di evitare la comparsa di eventi emboli-ci. Pertanto, `e necessario mettere in atto due tipi di strategie: innanzitutto effettuare una diagnosi precoce, per instaurare prontamente una terapia an-tibiotica empirica e scongiurare il rischio di sviluppo di eventi embolici pre-trattamento, ed in seconda istanza individuare i soggetti a maggior rischio di embolizzazione post- terapia antibiotica, per poter intervenire chirurgica-mente prima che simili eventi si verifichino [7].
In effetti, gli sforzi effettuati sinora si sono concentrati proprio su questi due fronti: da una parte, si `e cercato di ottimizzare l’algoritmo diagnostico al fine di giungere ad una diagnosi di certezza nel pi`u breve tempo possibile, mentre dall’altra si `e tentato di elaborare un metodo affidabile per il calcolo del rischio individuale di embolizzazione periferica.
buo-na parte concentrata sulla pro- calcitonibuo-na, ubuo-na proteibuo-na i cui livelli ematici aumentano significativamente nel corso di infezioni batteriche, in particolare in seguito al rilascio di endotossina, ed in misura minore in concomitanza di processi infettivi sostenuti da miceti o parassiti.
Per quanto riguarda le embolizzazioni successive all’inizio del trattamento antibiotico, sono stati considerati come ulteriori potenziali fattori di rischio l’et`a avanzata, la presenza di fibrillazione atriale, diabete e altre co- morbi-dit`a, il sesso: alcuni di questi si sono rivelati del tutto irrilevanti, mentre altri, fra cui il diabete, paiono configurarsi come parametri prognostici significativi, da tenere quindi in attenta considerazione.
1.1
Il problema della diagnosi precoce
Come si pu`o intuire da quanto scritto sinora, l’endocardite pu`o avere uno spettro piuttosto ampio di presentazioni cliniche ed `e proprio in questa sua manifestazione proteiforme che risiede il motivo principale del ritardo con cui si riesce a giungere alla diagnosi.
Il primo tentativo di una razionalizzazione dell’algoritmo diagnostico `e stato effettuato nel 1994 con la stesura dei criteri di Duke, divisi in maggiori e minori [8]. I due criteri maggiori includevano la positivit`a all’emocoltura per germi tipicamente responsabili dell’insorgenza di endocardite e la presenza all’ecocardiogramma di vegetazioni intra- cardiache; i sei criteri minori com-prendevano invece la presenza di fattori di rischio per endocardite, febbre, fenomeni vascolari, fenomeni immunologici, ecocardiogramma suggestivo di infezione dell’endocardio e rilievi microbiologici suggestivi ma non tali da soddisfare i criteri maggiori. Sulla base di questi criteri, ciascun paziente con sospetta endocardite poteva essere inquadrato in una delle seguenti tre categorie diagnostiche [8]:
1. Endocardite certa, definita sulla base di criteri clinici e patologici 2. Endocardite possibile
3. Endocardite esclusa
Questi criteri sono stati leggermente modificati nel 2000, cos`ı da giun-gere ad una versione ancora attualmente utilizzata nella pratica clinica; la ripartizione nelle tre categorie diagnostiche di endocardite (certa, possibile ed esclusa) `e stata mantenuta, cos`ı come la suddivisione in criteri maggiori e minori, mentre sono stati rettificati o eliminati alcuni criteri specifici [2] [9].
Tabella 1.1: Criteri maggiori e minori modificati (2000) Criteri maggiori
1. Emocolture positive per endocardite infettiva: deve essere soddisfatta una delle seguenti:
a. Microrganismi compatibili con endocardite infettiva isolati da due emocolture separate: streptococchi viridanti, S. bovis, microrga-nismi del gruppo HACEK, S. aureus oppure enterococchi acquisiti in comunit`a, in assenza di un focus primario
b. Microrganismi compatibili con endocardite infettiva isolati da emocolture persistentemente positive: 2 o pi`u emocolture positive ottenute a distanza di 12h una dall’altra, oppure 3 o la maggio-ranza di ≥4 emocolture separate (la prima e l’ultima a distanza di almeno un’ora una dall’altra)
c. Singola emocoltura positiva per Coxiella burnetii o titolo anticorpale IgG > 1 : 800.
2. Imaging positivo per endocardite infettiva
a. Risultati ecocardiografici positivi per endocardite infettiva: pre-senza di vegetazioni, ascessi, pseudoaneurismi, fistole intracardia-che, perforazioni valvolari o aneurismi, nuova deiscenza parziale di valvola protesica
b. Anomala attivit`a nell’area circostante la sede di impianto di una protesi valvolare rilevata con 18F-FDG PET/TC (solo nel caso di protesi impiantate da oltre 3 mesi) o SPECT con leucociti marcati/TC
c. Lesione paravalvolare identificata alla TC cardiaca. Criteri minori
1. Condizione cardiaca predisponente o uso di droghe per via endovenosa 2. Febbre definita da una temperatura corporea > 38oC
3. Fenomeni vascolari: embolia arteriosa maggiore, infarti polmonari set-tici, aneurisma infettivo, lesioni di Janeway, emorragia intracranica o congiuntivale
4. Fenomeni immunologici: presenza di glomerulonefrite, noduli di Osler, macchie di Roth, positivit`a del fattore reumatoide
5. Evidenza microbiologica: emocoltura positiva che non soddisfa i cri-teri maggiori o evidenza sierologica di infezione attiva da parte di un microrganismo compatibile con endocardite.
Tabella 1.2: Categorie diagnostiche dell’endocardite infettiva Endocardite certa
Criteri anatomo- patologici
• Microrganismi dimostrati dalla coltura o istologicamente in una vege-tazione, o in una vegetazione che `e embolizzata o in un ascesso intra cardiaco, oppure
• Lesioni anatomo- patologiche: vegetazione o ascesso intra- cardiaco confermato dal quadro istologico di endocardite attiva.
Criteri clinici
• 2 criteri maggiori, oppure
• 1 criterio maggiore + 3 criteri minori, oppure • 5 criteri minori.
Endocardite possibile
• 1 criterio maggiore + 1 criterio minore, oppure • 3 criteri minori
Endocardite esclusa
• Solida diagnosi alternativa, oppure
• Risoluzione dei sintomi suggestivi di endocardite infettiva dopo terapia antibiotica di durata ≤4 giorni, oppure
• Nessuna evidenza anatomo- patologica di endocardite infettiva all’in-tervento chirurgico o all’esame autoptico dopo terapia antibiotica di durata ≤4 giorni
L’utilizzo dei criteri di Duke modificati presenta tuttavia due importanti limiti: innanzitutto, la loro applicazione non `e immediata, in quanto l’esecu-zione di una emocoltura richiede del tempo; in secondo luogo, la specificit`a e soprattutto la sensibilit`a delle metodiche a disposizione non sono ottimali. L’ecocardiogramma trans- toracico pu`o risultare di difficile esecuzione o ina-deguato allo studio delle camere cardiache in presenza di obesit`a, deformit`a della gabbia toracica oppure bronco- pneumopatia cronica ostruttiva; la me-todica trans- esofagea `e pi`u affidabile e sensibile di quella trans- toracica, ma non annulla del tutto la possibilit`a di avere dei falsi negativi e pu`o comunque lasciarsi sfuggire la presenza di alcune vegetazioni intracardiache soprattutto in caso di endocarditi insorte su valvola protesica. D’altra parte pu`o acca-dere che l’ecocardiogramma evidenzi reperti compatibili con la diagnosi di endocardite in pazienti in cui invece non sta avendo luogo alcun processo infettivo: tali falsi positivi sono pi`u frequentemente soggetti con cardiopatie sottostanti e/o anomalie strutturali a carico dell’apparato valvolare [10]. Qualora l’ecocardiogramma trans- esofageo non sia dirimente, la tomografia computerizzata del torace pu`o rivelarsi un valido ausilio per la definizione dell’anatomia cardiaca: in particolare, `e pi`u efficace nella ricerca di lesio-ni paravalvolari e di complicanze locali quali ascessi ed aneurismi micotici. Se confrontate con quelle ecocardiografiche, le immagini ottenute con la TC offrono poi l’ulteriore vantaggio di essere inficiate da un minor numero di artefatti dovuti alla presenza di valvole protesiche o dispositivi intracardiaci impiantabili.
Alla luce di queste considerazioni si pu`o comprendere il motivo per cui le linee guida pubblicate nel 2014 dall’ACC/AHA (American College of Car-diology and American Heart Association) [11] suggeriscano il ricorso alla TC nei casi di sospetta endocardite in cui lo strumento ecocardiografico non si sia rivelato decisivo ai fini diagnostici; `e tuttavia doveroso puntualizzare co-me il livello di raccomandazione di questa proposta non sia particolarco-mente elevato (classe II, livello di evidenza B).
Un approccio pi`u promettente della sola TC prevede la combinazione di que-st’ultima metodica con la tomografia ad emissione di positroni (18F DG − P ET ) oppure con la scintigrafia con leucociti marcati (SPECT, acronimo inglese per Single Photon Emission Computed Tomography): questi due stru-menti messi a disposizione dalla medicina nucleare dovrebbero consentire di mettere in evidenza, rispettivamente, tessuti ad elevata attivit`a metabolica e sedi di processi infiammatori, aiutando in tal modo i clinici a giungere ad una diagnosi definitiva in caso di endocardite sospetta o possibile. Sebbe-ne l’impiego della 18F DG − P ET /T C o della SPECT/TC possa permettere di etichettare come affetti da endocardite infettiva certa pazienti in cui le immagini ecocardiografiche non erano risultate diagnostiche, occorre
ricor-dare che anch’esso `e gravato da alcune limitazioni e non trascurabili svan-taggi. Innanzitutto, le regioni ad elevata attivit`a metabolica mostrate dalla 18F DG − P ET e quelle infiammatorie rilevate con la SPECT potrebbero corrispondere sia a regioni infette, sia a sedi di un processo flogistico sterile, senza che vi sia un modo per discernere queste due condizioni e ridurre il numero di falsi positivi. La specificit`a di queste due metodiche risulta par-ticolarmente bassa nei pazienti sottoposti ad un intervento cardiochirurgico recente, in quanto lo sviluppo di una sindrome post- pericardiotomica o di una trombosi su valvola protesica nel periodo immediatamente successivo all’operazione chirurgica determina una captazione di 18F DG da parte dei cardiomiociti o un accumulo di leucociti marcati in sede paravalvolare, gene-rando cos`ı immagini tomografiche del tutto sovrapponibili a quelle ottenibili in caso di endocardite infettiva: per tale ragione, non `e indicata l’esecuzione di una 18F DG − P ET /T C n´e di una SPECT/TC nei primi 3 mesi seguenti l’intervento cardiochirurgico. In seconda istanza, l’accesso a questi tipi di in-dagine non `e sempre garantito e pu`o richiedere del tempo, ritardando magari anche l’invio del paziente al tavolo operatorio [12].
Le emocolture risultano persistentemente negative in circa il 5-10% dei pa-zienti con endocardite documentata: tale percentuale corrisponde probabil-mente ai casi in cui il campione di sangue per le emocolture viene prelevato in seguito all’inizio della terapia antibiotica, oppure agli episodi infettivi so-stenuti da patogeni intra- cellulari [10].
Infine, se ci si basa esclusivamente sui dati clinici, si rischia di non porre il sospetto (e dunque la diagnosi) di endocardite nei casi in cui la patolo-gia si manifesta in maniera atipica o sub- acuta. Questo problema non `e affatto trascurabile, soprattutto se si considerano i cambiamenti di ordine epidemiologico avvenuti negli ultimi 20 anni nei Paesi pi`u sviluppati ed in-dustrializzati: mentre in precedenza l’endocardite era una patologia tipica di soggetti affetti da malattia reumatica valvolare, al giorno d’oggi interessa principalmente pazienti immuno- depressi, portatori di valvole protesiche o cateteri a permanenza, anziani con difetti valvolari di tipo sclerotico, giovani facenti uso di sostanze stupefacenti iniettate per via endovenosa ed indivi-dui in terapia sostituiva emodialitica. La concreta importanza di una simile inversione di tendenza risiede nel fatto che le nuove categorie colpite da endo-cardite comprendono soggetti anziani, affetti da patologie croniche o diverse co- morbidit`a, molto spesso anche soppressi o almeno immuno-depressi, incapaci di organizzare una risposta immunologica adeguata nei confronti dell’agente microbico fonte di infezione: tali pazienti si presentano afebbrili o solo con una lieve febbricola, e non possono sviluppare i carat-teristici segni e sintomi imputabili al danno d’organo provocato dalla stessa risposta del sistema immunitario all’infezione. Dal punto di vista pratico,
questo si traduce in una sempre maggiore diffusione di quadri di infezione atipici, privi di tutti quei fenomeni immunologici presenti nei classici quadri di endocardite ed elencati fra i criteri minori di Duke, e pertanto molto pi`u difficili da diagnosticare. Per quanto la TC (tomografia computerizzata) e l’ecocardiogramma trans- esofageo possano essere di ausilio in simili casi, da soli non sono sufficienti per porre diagnosi di certezza; sono inoltre costosi e non sempre disponibili in tutti gli ospedali. Si rende quindi evidente la neces-sit`a di avere a disposizione uno strumento non solo di rapida ed economica esecuzione, ma anche dotato di alta specificit`a e sensibilit`a nell’escludere o confermare la diagnosi di endocardite; il dosaggio di un marcatore sierico potrebbe rispondere a queste esigenze e permettere un pronto riconoscimen-to di questa pariconoscimen-tologia, un tempestivo inizio della terapia antibiotica e un conseguente miglioramento della prognosi del paziente.
Per essere effettivamente utile ad un simile scopo, il marcatore in questione dovrebbe possedere alcuni requisiti: ad esempio, aumentare rapidamente in corso di infezione batterica, ma mantenersi a basse concentrazioni in caso di infezione virale o di processi infiammatori di natura non infettiva; una simi-le richiesta esclude gi`a la possibilit`a di sfruttare il dosaggio di alcuni indici di flogosi come la PCR (proteina C reattiva), troppo aspecifica e capace di raggiungere livelli elevati anche in seguito a infezioni di tipo virale o eventi infiammatori asettici, ma indirizza la scelta verso un altro marcatore, la pro-calcitonina.
Quest’ultima rappresenta il precursore dell’ormone calcitonina, normalmente prodotto a livello delle cellule C della tiroide e delle cellule K del polmone: in condizioni fisiologiche non `e dosabile nel siero, mantenendosi su valori di concentrazione inferiori a 0,01 ng/ml, ma in presenza di una infezione batte-rica, specialmente se la specie incriminata `e produttrice di endotossina, la sua sintesi a livello dei tessuti extra- tiroidei aumenta in misura considerevole; al contrario della PCR, inoltre, essa non aumenta in conseguenza di episodi infettivi virali o infiammazione asettica.
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E probabilmente stato un simile ragionamento a focalizzare l’interesse dei medici nei confronti della procalcitonina e incoraggiare l’avvio di una serie di studi volti a indagare la possibilit`a di stabilire un valore soglia superato il quale i soggetti con sospetta endocardite potessero essere considerati dav-vero affetti da tale patologia ed al di sotto del quale fosse invece possibile escludere la presenza di una simile infezione con ragionevole certezza [13]. Uno dei primi studi in proposito `e stato condotto in Svizzera ad opera di Mueller ed alcuni suoi colleghi [14], sull’ipotesi che la presenza di una vege-tazione intra-cardiaca, fonte di batteriemia persistente e continua, avrebbe dovuto indurre nei pazienti affetti da endocardite un innalzamento dei livelli di procalcitonina sensibilmente maggiore rispetto a quello provocato da altre
infezioni sistemiche o processi infiammatori asettici con analoga sintomato-logia. Nello studio sono stati inclusi tutti i pazienti ricoverati presso lo “Uni-versity Hospital Basel” per sospetta endocardite dal maggio 1999 al febbraio 2001, ed a ognuno di essi `e stata dosata la procalcitonina al momento dell’in-gresso in reparto. Dei 67 pazienti cos`ı analizzati, solo 21 hanno poi ricevuto la conferma della diagnosi di endocardite, effettuata grazie all’applicazione dei criteri di Duke modificati. Il confronto fra i livelli di procalcitonina al momento dell’accesso in ospedale di tutti i pazienti con endocardite certa e quelli con un’altra diagnosi ha messo in evidenza una differenza significativa fra i due gruppi: nel primo, la mediana delle concentrazioni sieriche di tale proteina era pari a 6,56 ng/ml, mentre nel secondo era soltanto 0,44 ng/ml. Un’analisi multivariata condotta sugli stessi dati ha inoltre dimostrato che il livello di procalcitonina all’ingresso costituiva l’unico marcatore predittivo della diagnosi di endocardite infettiva.
Secondo questo studio, infine, il valore soglia ottimale al di sopra del qua-le si poteva prendere in considerazione la diagnosi di endocardite era una concentrazione di procalcitonina pari a 2,3 ng/ml. Utilizzando tale cut off, infatti, si avevano una sensibilit`a dell’81%, una specificit`a dell’85%, un valore predittivo positivo del 72% e un valore predittivo negativo del 92% [14]. Simili risultati, piuttosto incoraggianti, sembravano aprire la strada per un impiego routinario del dosaggio della procalcitonina al momento del ricovero quale utile strumento da affiancare ai dati clinici, microbiologici ed ecocar-diografici/ radiologici per la diagnosi di endocardite, ma non sono pi`u stati ripetuti: gli studi successivi, in effetti, hanno ottenuto risultati discordanti a tale proposito, attenuando ed affievolendo cos`ı le speranze iniziali [13]. Una prima smentita `e giunta da uno studio pubblicato nel 2003 in cui veniva-no confrontati i livelli di procalcitonina misurati al momento dell’ammissione in ospedale in 3 distinti gruppi di pazienti: il primo includeva 50 soggetti con diagnosi di certezza di endocardite, il secondo 49 soggetti con batteriemia ma senza endocardite ed infine il terzo 50 donatori di sangue sani. Le analisi statistiche hanno riscontrato valori di procalcitonina significativamente supe-riori nei pazienti con batteriemia (fossero essi affetti o meno da endocardite infettiva) rispetto ai controlli sani, ma hanno negato la presenza di una dif-ferenza significativa fra i soggetti con endocardite infettiva e quelli con altra diagnosi.
Questo studio, tuttavia, ha messo in evidenza un risultato interessante, con-fermato poi in seguito da altri gruppi di lavoro, secondo il quale `e possibile riscontrare livelli pi`u elevati di PCT nel siero di individui in cui il processo infettivo `e sostenuto da batteri Gram positivi rispetto ai portatori di infe-zioni dovute a ceppi Gram negativi [15]. In questa prospettiva, i livelli di procalcitonina non sarebbero pertanto da correlare tanto alla diagnosi di una
specifica patologia (quale, ad esempio, l’endocardite infettiva), quanto ad una indicazione circa l’eziologia del processo batteriemico in atto.
In effetti, risultati simili a questi sono stati ottenuti da un secondo studio svizzero, questa volta svolto nel 2007 in un ospedale non universitario del cen-tro del Paese, in cui ci si `e proposti di misurare i livelli di PCT al momento dell’esecuzione dell’ecocardiogramma (trans- toracico e/o trans- esofageo) in 77 pazienti sottoposti a tale esame per sospetta endocardite, e di confrontare poi i valori cos`ı ottenuti nei soggetti effettivamente colpiti da endocardite (15) con quelli rilevati nei portatori di un’altra tipologia di infezione (tutti i rimanenti, in cui la presenza di endocardite era stata esclusa grazie all’esecu-zione di esami pi`u approfonditi). Si `e in questo modo ottenuta un’ulteriore prova a sostegno dell’ipotesi per cui non sussiste alcuna differenza signifi-cativa nei livelli di PCT fra i pazienti con endocardite infettiva e quelli con un’infezione differente; tuttavia, dei casi con endocardite documentata, quelli sostenuti da S. aureus presentavano concentrazioni sieriche di PCT sensibil-mente superiori rispetto agli altri, con una media di 13,1 ng/ml contro 0,435 ng/ml, mentre quelli imputabili a ceppi di streptococchi viridanti, patoge-ni comunemente responsabili di questa affezione dell’endocardio, risultavano sorprendentemente bassi [16].
A conclusioni del tutto sovrapponibili a queste ultime sono giunti Jereb ed i suoi colleghi grazie ad uno studio comparativo dei livelli di procalcitonina in 3 popolazioni distinte: una composta da 23 pazienti con endocardite, un’al-tra da 30 soggetti in sepsi ed infine l’ultima da 30 portatori di encefalite da zecche [10].
L’anno successivo, tuttavia, un ampio studio danese coinvolgente 759 pazien-ti con sospetto di endocardite [17] `e riuscito a confermare la tesi di Mueller e dei suoi colleghi [14]. Il confronto fra i livelli di procalcitonina nei pazienti in cui si era poi avuta la conferma del sospetto diagnostico e quelli dei soggetti in cui era stata invece esclusa la presenza di endocardite ha infatti mostrato come nel primo gruppo i valori fossero significativamente pi`u alti rispetto al secondo. Al contrario, per quanto riguarda i valori di altri indici di flogosi, quali la PCR e la velocit`a di eritrosedimentazione, non sussisteva fra i due gruppi alcuna differenza significativa.
Rispetto ai precedenti, questo studio presenta l’innegabile vantaggio di aver incluso un maggior numero di pazienti affetti da endocardite oppure da altre patologie che con essa entrano in diagnosi differenziale.
A differenza di Mueller e dei suoi collaboratori, gli autori danesi non sono riusciti ad identificare un cut off dei livelli di procalcitonina utile nel discri-minare i casi di endocardite infettiva dagli altri tipi di invasioni microbiche: questo rende tale proteina un marcatore debole e aspecifico della presenza di endocardite infettiva.
Un’analisi multivariata dei dati riguardanti i medesimi pazienti ha inoltre permesso di individuare 5 diversi fattori in grado di determinare in maniera indipendente un innalzamento della PCT, pi`u specificatamente la presenza di: sintomi da 65 giorni, una batteriemia sostenuta da patogeni tipici di EI, una temperatura corporea > 38oC, un’immunocompromissione e il sesso maschile [17].
Di fronte ad un quadro tanto variegato e a tratti contraddittorio, si rendeva sempre pi`u necessario procedere ad un’opera di revisione della letteratura e delle precedenti casistiche che fornisse una risposta se non proprio definitiva, almeno fondata su pi`u solide basi circa la possibilit`a di impiegare la PCT co-me marcatore sierico per discriminare i casi di endocardite infettiva da quelli di altre patologie dalla simile presentazione clinica: a questo scopo `e stata completata nel 2013 una meta- analisi basata sulla revisione di 6 lavori pub-blicati prima della fine del 2012, per un totale di 1006 sospetti di endocardite, di cui solo 126 confermati in un momento successivo. La conclusione di tale studio `e stata deludente, in quanto ha negato l’utilit`a di un dosaggio di PCT e PCR nell’iter di rule in e rule out dell’endocardite infettiva in pazienti con sospetto di tale patologia [13].
1.2
Il problema delle embolizzazioni
periferi-che
Parallelamente ai tentativi sopra citati di individuare un metodo rapido ed economico per porre diagnosi certa e soprattutto precoce di endocardite, so-no stati effettuati anche diversi sforzi per scoprire un metodo affidabile nel calcolo del rischio di embolizzazione in pazienti affetti da endocardite infet-tiva e gi`a sottoposti ad un ciclo di terapia antibiotica. Come gi`a spiegato, infatti, gli eventi embolici maggiori costituiscono non solo una complicanza piuttosto frequente in questo tipo di patologia, con una prevalenza variabile fra il 20% e il 40% dei casi, ma anche (e soprattutto) un fattore prognostico di peso rilevante nella storia naturale della malattia.
Proprio a questo scopo `e stato designato nel 1996 uno studio prospettico che ha coinvolto 211 pazienti con diagnosi certa di endocardite infettiva del cuore sinistro, sia su valvola protesica, sia su valvola nativa [18]. Il follow up di questi soggetti `e proseguito per quattro anni ed ha riscontrato la comparsa di 34 episodi di embolizzazione periferica in seguito all’inizio della terapia antibiotica. La maggior parte di questi eventi ha coinvolto il sistema nervoso centrale, mentre non sono stati considerati nel conteggio i fenomeni cuta-nei; in accordo con quanto gi`a notato in precedenza da altri autori, questo
gruppo di ricerca ha dimostrato una significativa riduzione dell’incidenza di embolizzazioni periferiche a partire dalla terza settimana di terapia antibio-tica efficace. Un’attenta analisi di tale casisantibio-tica ha permesso di comprendere come, effettivamente, vi siano dei fattori coinvolti nella determinazione del rischio di embolizzazione: questi comprendono sia dati squisitamente anam-nestici, sia parametri strettamente relativi all’infezione quali il tipo di sub-strato anatomico coinvolto e, con le dovute precisazioni, la dimensione della stessa vegetazione. Pi`u precisamente, il numero di embolizzazioni `e risultato significativamente superiore nei pazienti che facevano uso di droghe per via endovenosa ed in quelli con infezione localizzata su valvola mitralica, mentre non vi era alcuna differenza fra il coinvolgimento delle valvole protesiche e native, n´e fra quello del lembo anteriore e posteriore della mitrale. La dimen-sione delle vegetazioni, come facilmente intuibile, pare essere un fattore di rischio per le embolizzazioni, ma a questo proposito si rende necessaria una puntualizzazione: lo stesso studio ha infatti dimostrato che tale associazione `
e vera esclusivamente per le infezioni sostenute da S. aureus e quelle a carico della mitrale; in particolare, in questo sotto- insieme di casi, si riscontra un aumento del rischio significativo nel momento in cui il diametro della vege-tazione supera il centimetro.
Poich´e, almeno in teoria, una vegetazione friabile e di recente formazione, cor-rispondente ad una lesione ecografica ipoecogena, dovrebbe essere pi`u prona a determinare il distacco di un embolo rispetto ad una pi`u compatta, soli-da ed iperecogena all’ecocardiogramma, alcuni autori avevano in precedenza avanzato l’ipotesi di una associazione fra il rischio di embolizzazione e l’a-spetto eco- cardiografico delle masse adese alle valvole; tale teoria `e tuttavia stata smentita da questo stesso studio. Infine, la presenza di un precedente episodio embolico `e risultata un determinante importante del rischio di for-mazione di nuovi emboli dopo l’inizio del trattamento antibiotico [18]. A conclusioni in parte differenti `e giunto un secondo studio clinico condotto in maniera parallela e indipendente da un gruppo italiano all’incirca nel me-desimo periodo [5]. La casistica considerata da quest’ultimo era pi`u ristretta rispetto alla precedente, includendo solo 94 pazienti con endocardite infetti-va, ma poteva poi comparare due classi di soggetti di numerosit`a campionaria simile (43 casi di episodi di embolizzazione maggiori vs 51 non andati incon-tro ad eventi analoghi), possibilit`a negata allo studio precedente, in cui i casi di embolizzazione erano soltanto 34, a fronte di un totale di processi di en-docardite infettiva superiore a 200: questo potrebbe almeno in parte rendere ragione delle differenze nelle conclusioni tratte dai due lavori. Sono stati individuati tre fattori di rischio indipendenti per embolizzazione periferica, pi`u precisamente: l’et`a giovanile, il riscontro di livelli sierici elevati di PCR e bassi di albumina, e la presenza di una vegetazione di grandi dimensioni.
Il fattore et`a `e sicuramente, fra tutti, il pi`u controverso: alcuni lavori gi`a pubblicati (incluso quello appena descritto nei paragrafi precedenti) avevano infatti negato la presenza di un’associazione fra et`a del paziente e rischio di embolizzazione, mentre altri avevano addirittura dimostrato come fosse l’et`a avanzata a correlare con un incremento dell’incidenza di eventi embolici si-stemici maggiori.
Il meccanismo per cui i giovani dovrebbero andare pi`u facilmente incontro a simili fenomeni non `e noto; gli autori italiani hanno ipotizzato che in questa categoria di pazienti la risposta elicitata da parte del sistema immunitario nei confronti dell’agente patogeno dovrebbe essere pi`u vigorosa e quindi in-nescare un processo infiammatorio pi`u imponente, portando alla formazione di masse meno saldamente adese ai lembi valvolari o pi`u friabili, e di conse-guenza pi`u prone a frammentarsi per dare emboli.
Questa teoria sembra trovare una parziale conferma nella dimostrata asso-ciazione fra rischio di embolizzazione e riscontro di livelli di PCR alti, ma di albumina bassi: questi dati di laboratorio, cos`ı come l’innesco di una risposta immune massiccia, sono infatti spia di un processo flogistico in atto piuttosto importante.
Come sottolineato dagli stessi autori, la correlazione fra innalzamento dei livelli di PCR e aumento del rischio di frammentazione delle vegetazioni po-trebbe comunque trovare un’altra spiegazione nella capacit`a di questa pro-teina di inibire l’aggregazione piastrinica e conseguentemente di interferire con la formazione e l’accrescimento delle masse adese alle valvole, rendendo-le maggiormente friabili e inclini alla rottura.
L’ultimo spunto offerto da questo studio `e rappresentato dalla documen-tazione di una maggiore tendenza all’embolizzazione nei soggetti affetti da endocardite su valvola protesica rispetto a quelli con infezione di una valvola nativa; numerose variabili confondenti avrebbero per`o potuto influire su que-sto risultato, ad esempio l’utilizzo di warfarin nei pazienti portatori di protesi valvolari o la significativa differenza di et`a fra le due categorie, ragion per cui sarebbero necessari ulteriori studi per approfondire e chiarire la questione [5].
Successivamente, due gruppi di ricerca, il primo francese ed il secondo italia-no, si sono occupati indipendentemente del problema del rischio delle embo-lizzazioni in corso di endocardite infettiva, giungendo all’elaborazione di due distinti metodi per quantificare questo stesso rischio al momento dell’ammis-sione in ospedale dei pazienti affetti dalla malattia [6] [7].
La disponibilit`a di un metodo capace di quantificare in maniera piuttosto accurata il rischio di embolizzazione di un paziente con endocardite infet-tiva dovrebbe rappresentare un notevole passo in avanti nella prevenzione del rischio di simili eventi e permettere un’attenta valutazione del rapporto
fra costi e benefici di un intervento chirurgico di sostituzione della valvola o comunque della struttura anatomica colpita, in modo tale da selezionare in maniera pi`u accurata i soggetti effettivamente meritevoli di essere condotti al tavolo operatorio [7]. Al momento, infatti, le linee guida internazionali descrivono l’intervento chirurgico come strumento non solo di trattamento di uno scompenso cardiaco acuto (scatenato ovviamente dallo stesso processo infettivo) oppure di un’infezione impossibile da controllare con la sola te-rapia antibiotica, ma anche di prevenzione dell’embolia, ed a quest’ultimo proposito raccomandano il ricorso alla chirurgia in presenza di:
• Endocardite su valvola aortica o mitrale (protesica o nativa) con persi-stenti vegetazioni >10 mm dopo uno o pi`u episodi embolici nonostante la somministrazione di una terapia antibiotica appropriata;
• Endocardite su valvola aortica o mitrale (protesica o nativa) con vege-tazioni >10 mm, associata a stenosi o insufficienza valvolare severa e basso rischio chirurgico;
• Endocardite su valvola aortica o mitrale (protesica o nativa) con vege-tazioni isolate di grossissime dimensioni (>30 mm);
• Endocardite su valvola aortica o mitrale (protesica o nativa) con vege-tazioni isolate di grosse dimensioni (>15 mm) e nessun’altra indicazione all’intervento chirurgico.
Queste indicazioni presentano due limiti principali: in primo luogo, sono basate esclusivamente sulla presenza di eventi embolici antecedenti e sulle dimensioni delle vegetazioni, mentre `e stato dimostrato che diversi altri fat-tori possono contribuire a determinare il rischio di embolizzazione periferica; in seconda istanza, fatta eccezione per la prima, dotata di una forza di rac-comandazione IB, sono tutte basate su bassi livelli di evidenza [2].
La consapevolezza e la constatazione di queste mancanze hanno incentivato e indirizzato la ricerca verso la messa a punto di un semplice ma allo stesso tempo esaustivo sistema di calcolo del rischio di embolizzazione in caso di endocardite infettiva: in questo modo sono stati realizzati il “French risk calculator” e lo “scoring system” italiano.
Lo studio francese, multicentrico, ha seguito per 6 mesi una coorte di 1022 pazienti con diagnosi di certezza di endocardite (e sottoposti ad un regime adeguato di terapia antibiotica) al fine di valutare la capacit`a di alcune varia-bili di fungere da predittori indipendenti di episodi embolici dopo l’inizio del trattamento [7]. Fra tutte quelle considerate, soltanto 6 sono state associate con tale evento: l’et`a avanzata, il diabete, la fibrillazione atriale, l’infezione
da S. aureus, le dimensioni della vegetazione (in particolare si considerava un valore limite di 10 mm di diametro) e la presenza di precedenti emboliz-zazioni.
Come si pu`o facilmente notare, non si tratta di fattori relativi esclusivamente alla patologia in s´e, ma anche alle caratteristiche intrinseche del paziente; in particolare, rientrano in questa seconda categoria alcune condizioni capaci di determinare un aumento del rischio trombotico, ovvero: l’et`a avanzata, il diabete e la fibrillazione atriale.
Si configura poi come fattore di rischio molto importante, come gi`a sottolinea-to in precedenza dal primo studio sopra descritsottolinea-to, la presenza di un’anamnesi positiva per precedenti eventi embolici: a questo proposito `e doveroso pun-tualizzare come con tale definizione si faccia riferimento non solo agli episodi maggiori, sintomatici, ma anche a quelli minori e clinicamente silenti. Per questa ragione, si rivela di cruciale importanza effettuare uno studio accurato del paziente con metodiche di diagnostica per immagini molto sensibili: la TC pu`o risultare inadatta allo scopo per la sua scarsa capacit`a di individuare la presenza di micro- emboli periferici e minime lesioni cerebrali e/o renali, mentre la PET con18F- FDG (fluoro- desossi glucosio marcato con fluoro 18) oppure la risonanza magnetica potrebbero risultare pi`u adeguate allo scopo.
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E proprio su questi sei parametri che si fonda il sistema per il calcolo del ri-schio di embolizzazione al momento dell’ingresso in reparto: si inserisce l’et`a del paziente ed assegna un punto per ciascuno degli altri fattori di rischio presenti, cos`ı che l’algoritmo elaborato possa fornire una stima della proba-bilit`a quotidiana di occorrenza di un evento embolico nei primi 180 giorni a partire da quello di ammissione in ospedale. Si nota che tale probabilit`a cresce progressivamente nelle prime due settimane, per poi tendere quasi ad un plateau e raggiungere un rischio cumulativo a 6 mesi che non si discosta troppo da quello calcolato al 14o giorno.
Si tratta di un sistema economico, semplice, veloce, abbastanza affidabile ed accurato, realizzato a partire da uno studio multicentrico e frutto di un’ana-lisi statistica condotta su un campione numeroso; inoltre, `e stato in seguito messo alla prova e validato in occasione di un altro studio indipendente dal primo.
Accanto a questi indiscutibili vantaggi, tuttavia, il sistema francese presenta alcuni difetti: prima di tutto, si tratta di uno studio retrospettivo, per cui la procedura di raccolta dei dati potrebbe avere risentito di alcuni bias o essere comunque difettosa in relazione ad alcuni parametri; in secondo luogo, la disponibilit`a di un unico secondo studio che ne abbia confermato l’efficacia non risulta affatto sufficiente per avanzare pretese di riconoscimenti assolu-ti o validit`a universale; infine, la ristrettezza del numero di eventi embolici riscontrati (solamente 72) costituisce un limite per il potere statistico
del-l’analisi e lascia spazio al dubbio che almeno una delle variabili considerate possa aver acquisito il ruolo di predittore di eventi embolici per caso [7]. Quest’ultimo limite, ammesso dagli stessi autori, `e stato arginato dall’altro studio multicentrico cui si accennava prima, effettuato in Italia, il quale ha analizzato retrospettivamente 1456 casi di endocardite infettiva riuscendo a collezionare un numero nettamente superiore di eventi embolici: 499 pazien-ti, infatpazien-ti, ne hanno sviluppato almeno uno [6].
In accordo con la tesi sostenuta dallo studio francese sopra citato, gli autori italiani hanno messo in evidenza che la probabilit`a di andare incontro ad un evento embolico in seguito all’inizio del trattamento `e massimo nelle pri-me due settimane; per quanto riguarda i fattori di rischio per simili episodi, non si sono invece ottenuti risultati completamente sovrapponibili a quelli descritti prima.
L’analisi dei dati raccolti in Italia ha infatti concluso che, qualora si vadano a considerare i casi di endocardite infettiva nella loro totalit`a, gli unici fattori di rischio indipendenti per embolizzazione periferica sono il coinvolgimento di una valvola protesica, l’interessamento delle sezioni destre del cuore, le dimensioni della vegetazione (considerando come cut off un diametro di 13 mm) e l’infezione da S. aureus: quest’ultimo rappresenta quindi il solo para-metro su cui i due studi si trovano concordi. A differenza di quanto sostenuto dai francesi, lo studio italiano ha esplicitamente sottolineato come la ricerca di pregressi eventi (anche minori) di embolizzazione periferica sia di scarsa utilit`a nel tentativo di predire la comparsa di episodi analoghi o di gravit`a superiore a carico di altri distretti corporei, in particolare del sistema nervoso centrale.
Se si focalizza poi l’interesse esclusivamente sui casi di endocardite del cuore sinistro, i predittori indipendenti di episodi embolici restano solo pi`u due, in particolare la presenza di una vegetazione di diametro superiore a 13 mm e l’eziologia da S. aureus. `E dalla combinazione di questi ultimi due fattori che il gruppo italiano ha messo a punto il proprio sistema di calcolo del rischio di embolizzazione in caso di endocardite sinistra; considerata la mancanza di una significativa differenza nelle odds ratio delle due variabili prognostiche, si `e pensato che avessero all’incirca il medesimo peso nel determinare la pro-babilit`a di comparsa di episodi embolici e si `e pertanto deciso di assegnare 1 punto per la presenza di ciascuna di esse. Si ottiene in questo modo un punteggio totale variabile fra 0 e 2, sulla base del quale si vengono a stratifi-care i pazienti in 3 categorie di rischio: basso, intermedio ed alto; alla prima appartengono soggetti privi di fattori prognostici negativi, alla seconda quelli che presentano solo uno dei due, ed infine alla terza i portatori di entrambi. L’incidenza cumulativa di eventi embolici a 30 giorni differisce significativa-mente fra le 3 classi ora elencate [6].
Trovandosi di fronte a due diverse metodiche per la quantificazione del rischio di embolizzazioni periferiche, altri gruppi di ricerca hanno deciso di cercare di capire quale fosse la pi`u affidabile. Per procedere al confronto, hanno rac-colto i dati riguardanti pazienti ricoverati per endocardite del cuore sinistro e per ognuno di essi hanno calcolato il rischio di embolizzazione sfruttando en-trambe le metodiche; in un secondo momento hanno quindi paragonato il loro potere predittivo positivo, giungendo per`o a conclusioni differenti. Secondo uno studio pubblicato nel 2015 [19], infatti, il metodo francese dovrebbe es-sere pi`u utile, mentre un altro, ultimato nel 2017 e condotto su un campione pi`u numeroso [20], ha concluso come il sistema italiano potrebbe essere do-tato di un potere predittivo positivo lievemente superiore a quello francese e risultare inoltre di pi`u semplice applicazione [20].
Sostanzialmente, l’unico punto fermo e su cui si trova ancora un consenso piuttosto ampio rimane l’associazione fra un’aumentata incidenza di eventi embolici settici da un lato e la presenza di una endocardite sostenuta da S. aureus e/o caratterizzata dalla formazione di vegetazioni di notevoli dimen-sioni dall’altro.
Per quanto concerne la questione del valore del diametro al di sopra del quale una vegetazione si possa considerare “grande” e tale da configurare un rea-le aumento del rischio embolico, una meta analisi pubblicata di recente ha concluso che esso si pu`o stabilire sui 10 mm: questo rappresenta anche il cut off utilizzato dalle linee guida dell’American Heart Association nel fornire indicazioni sull’applicazione di un trattamento cardiochirurgico preventivo in corso di endocardite infettiva [11]. Questa associazione risulta del tutto indipendente da altre variabili quali l’et`a, il sesso ed il tipo di valvola coin-volta.
Gli autori tengono inoltre a precisare che la differenza nel numero di episodi embolici fra i pazienti con vegetazioni sub- centimetriche e quelli con lesioni pi`u grandi risulta significativa soltanto se si tengono in considerazione gli studi effettuati dal 2000 al 2016, mentre diviene molto meno marcata se si analizzano le casistiche raccolte dal 1983 al 1999. Le spiegazioni pi`u verosi-mili di tale rilievo sono due: secondo la prima, l’applicazione dei criteri di Duke a partire dal 1994 e di quelli di Duke modificati dal 2000 ha favorito un sempre miglior inquadramento dei pazienti con endocardite, per cui le analisi statistiche effettuate negli ultimi anni dovrebbero essere sempre me-no inficiate dalla presenza di falsi positivi; in effetti, gli stessi responsabili del lavoro di meta analisi hanno notato che la relazione fra le due variabili era riscontrabile solo negli studi in cui erano stati correttamente applicati i criteri di Duke (originali o modificati che fossero). La seconda ipotesi sotto-linea invece l’importanza dell’evoluzione delle metodiche ecocardiografiche: questa avrebbe infatti implementato l’accuratezza delle stime riguardanti le
dimensioni delle vegetazioni, evitando cos`ı una sovrastima del reale diametro delle lesioni e di conseguenza della potenziale capacit`a di embolizzazione di quelle sub- centimetriche.
Una terza teoria proposta si riallaccia alla tesi di Vilacosta e dei suoi colleghi [18] secondo la quale una vegetazione di grande diametro sarebbe in grado di provocare un aumento del rischio embolico solo nei casi di infezione impu-tabili a S. aureus; tuttavia, dal momento in cui gli autori non hanno notato un sensibile incremento del numero di endocarditi scatenate da tale batterio, una simile ipotesi pare poco realistica e percorribile [21].
In conclusione, si pu`o affermare che il problema delle embolizzazioni resta tuttora in buona parte irrisolto ed ampiamente dibattuto, mentre continua a preoccupare la loro capacit`a di influire in maniera decisamente negativa sull’outcome del paziente.
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E tuttavia necessario ricordare come la comparsa di fenomeni embolici mag-giori non sia il solo fattore prognostico negativo nell’ambito dell’endocardite; quasi sicuramente anche altre variabili correlano in qualche modo con la pos-sibilit`a di sopravvivenza del paziente, e parte della letteratura scientifica si `e appunto sforzata di individuarle.
1.3
Altri fattori prognostici nell’endocardite
La stessa recente meta- analisi prima citata afferma come la presenza di vege-tazioni di diametro sopra centimetrico in un soggetto affetto da endocardite correli con un aumento del rischio non solo di embolizzazione, ma anche di mortalit`a nel suo complesso [21]. Trattandosi tuttavia di un lavoro estrema-mente recente, non vi sono in letteratura ulteriori conferme di questa ipotesi, e sarebbero necessari studi aggiuntivi per meglio approfondire la questione. Allo stato attuale, si possono infine trovare lavori di ricerca volti ad indagare le potenzialit`a di altri due fattori quali determinanti prognostici di malattia in caso di endocardite: il riscontro di livelli ematici elevati di procalcitonina e la concomitante presenza di diabete mellito.
1.3.1
PCT ed endocardite
Come noto, la procalcitonina costituisce un marcatore affidabile e accurato largamente impiegato nei reparti di terapia intensiva al fine di discernere i ca-si di sepca-si da quelli di ca-sindrome da risposta infiammatoria ca-sistemica elicitata da condizioni di matrice non infettiva: la sua concentrazione ematica risulta infatti significativamente maggiore nel primo gruppo rispetto al secondo. Naturalmente il solo riscontro di elevati livelli di procalcitonina non consente
di porre diagnosi di sepsi; a tale scopo, `e necessario infatti affiancare al suo dosaggio un’attenta anamnesi, un esame obiettivo completo e, quando pos-sibile, indagini microbiologiche mirate [22].
Sulla scia di questa convinzione, si `e pensato che questo precursore ormonale potesse rivelarsi un fattore prognostico nell’endocardite infettiva e che il suo dosaggio al momento dell’ammissione in ospedale di un paziente affetto da tale patologia fosse capace di individuare i casi pi`u critici e meritevoli di un trattamento maggiormente aggressivo o quanto meno di un serrato monito-raggio clinico.
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E stato uno studio retrospettivo tedesco completato nel 2013 ad arrogarsi il merito di fornire una prima dimostrazione circa la presenza di una associazio-ne fra il riscontro di un valore di PCT all’ingresso in ospedale superiore a 0,5 ng/ml ed un peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, valutato in termini di mortalit`a e comparsa di gravi complicanze quali embolie settiche periferiche (artrite settica, meningite, osteomielite, ascessi viscerali, aneu-rismi micotici, infarto polmonare settico ed emorragie o infarti cerebrali), scompenso cardiaco acuto, aritmie pericolose, shock settico e vizi valvolari tali da richiedere l’esecuzione di un intervento cardiochirurgico in regime di urgenza [23].
Anche i leucociti e la PCR risultavano marcatamente pi`u alti nei casi in cui l’infezione prendeva poi un decorso sfavorevole, ma dei tre marcatori la PCT era sicuramente il miglior predittore di eventi critici.
Il valore soglia di procalcitonina stabilito e proposto da questo studio per l’u-so clinico (0,5 ng/ml) `e il medesimo impiegato in precedenza per differenziare i pazienti con batteriemia da quelli senza; tale risultato sembra ragionevole e coerente se si riflette sul fatto che la vegetazione endocarditica si rende responsabile di un’immissione pressoch´e continua di batteri nel torrente san-guigno.
Le conclusioni del gruppo tedesco si discostano per`o da alcune teorie ante-cedenti circa la capacit`a della procalcitonina di suggerire in qualche modo l’origine eziologica dell’endocardite: mentre secondo alcuni il riscontro di li-velli elevati di tale proteina si poteva associare alla presenza di patogeni come S. aureus, quest’ultimo lavoro ha concluso che non sussistono differenze so-stanziali nelle concentrazioni sieriche di procalcitonina dipendenti dal tipo di microrganismo infettante [15] [23].
1.3.2
Diabete mellito ed endocardite
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E ormai acquisita ed assodata da tempo la consapevolezza del fatto che il diabete costituisca un fattore di rischio per la comparsa di episodi infettivi
di vario tipo, da quelli delle vie urinarie alle batteriemie sostenute da germi commensali colonizzatori della cute e delle mucose nasali, quali S. aureus; `
e altres`ı noto come le infezioni verificatesi nella popolazione diabetica siano non soltanto pi`u frequenti, ma anche tendenzialmente pi`u gravi rispetto a quelle occorse negli individui non affetti da tale co- morbidit`a [24]. `E proba-bile che un simile fenomeno sia dovuto alla condizione di immunodeficienza acquisita intimamente legata al diabete: lo sviluppo di una simile patologia metabolica, infatti, determina una disfunzione della risposta immunitaria sia naturale sia specifica, in particolare della funzione fagocitica da un lato e della componente cellulo- mediata dall’altro. Si comprende quindi come, in un individuo diabetico, lo sviluppo di un episodio di batteriemia sia facilitato nell’innescare una sepsi o per lo meno una colonizzazione microbica di siti normalmente sterili; in effetti, `e stato ben documentato che la prevalenza di endocardite infettiva fra i soggetti con diabete mellito di tipo 2 `e significati-vamente superiore rispetto a quella riscontrabile nella popolazione generale [25].
Considerate queste premesse, risulta abbastanza logico e intuitivo che il dia-bete potrebbe associarsi anche in caso di infezione dell’endocardio ad uno sviluppo clinico meno favorevole; tuttavia, si deve ammettere come esso ab-bia costituito, dal punto di vista meramente cronologico, una delle ultime variabili prese in considerazione quale potenziale determinante della progno-si di una endocardite infettiva: di conseguenza, la letteratura inerente questa problematica era (ed `e forse tuttora) piuttosto scarna.
I primi studi clinici occupatisi del problema non sono riusciti a dimostrare, relativamente al rischio di eventi avversi (ed in particolare di mortalit`a), la presenza di una differenza statisticamente significativa fra i pazienti colpiti da endocardite e contemporaneamente affetti anche da diabete da una parte, e quelli sempre affetti da tale infezione ma non da diabete dall’altra [26] [27].
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E tuttavia probabile che il fallimento di questi tentativi sia imputabile alla ristrettezza numerica del campione di pazienti diabetici preso in considerazio-ne ai fini statistici (considerazio-nel primo solamente 13 dei 151 soggetti con endocardite erano anche affetti da diabete, mentre nel secondo 39 su 213).
Un passo in avanti in questo filone di ricerca `e stato compiuto grazie all’opera di Duval ed alcuni suoi collaboratori, impegnatisi nell’osservazione di pi`u di 500 episodi di endocardite, 75 dei quali osservati in individui diabetici: la lo-ro casistica dimostra come soltanto la presenza di un diabete mellito insulino dipendente sia un fattore prognostico negativo nell’endocardite infettiva e si associ ad un tasso di mortalit`a significativamente maggiore rispetto a quello degli altri due gruppi, costituiti rispettivamente da soggetti non diabetici e da pazienti affetti s`ı da diabete, ma trattati con ipoglicemizzanti orali [28]. Un ulteriore contributo in materia `e arrivato nel 2010, quando, considerate la
scarsit`a e le numerose contraddizioni presenti nella letteratura in merito alla questione, un gruppo di medici e ricercatori italiani ha deciso di intraprende-re appositamente uno studio intraprende-retrospettivo ponendosi due obiettivi principali: da un lato, comprendere se effettivamente la presenza di una condizione qua-le il diabete mellito fosse in grado di influire in maniera incisiva sul decorso clinico dell’endocardite, e dall’altro stabilire se vi fossero poi dei fattori ca-paci di incidere negativamente sulla prognosi dei soggetti diabetici colpiti da tale infezione.
Dall’analisi e dallo studio di un campione di 309 soggetti con diagnosi certa di endocardite (fatta con i criteri di Duke modificati), 38 dei quali diabetici, sono emersi risultati rilevanti e almeno in parte ragionevolmente prevedibili; non si pu`o tuttavia fare a meno di notare come questo lavoro, al pari dei due sopra menzionati, presenti l’importante limite di aver incluso un numero di diabetici piuttosto ridotto se paragonato a quello del gruppo comparatore (dove per controlli si intendono i pazienti affetti da endocardite ma non da diabete).
Innanzitutto, sotto il profilo epidemiologico ed anamnestico, i pazienti diabe-tici risultavano essere significativamente pi`u anziani, affetti da maggiori co-morbidit`a (parametro valutato utilizzando il Charlson comorbidity index) e pi`u spesso colpiti da infezioni sostenute da ceppi afferenti al genere enterococ-co; quest’ultimo dato si potrebbe giustificare considerando come nei pazienti diabetici si verifichino con maggiore frequenza episodi di batteriemia a par-tenza dalle vie urinarie oppure dall’intestino, siti anatomici spesso colonizzati da questi agenti patogeni.
Pi`u interessante e decisiva risulta comunque la dimostrazione del fatto che la presenza di diabete mellito in un soggetto con diagnosi di endocardite rappresenti un fattore predittivo di mortalit`a: di tutti i pazienti colpiti da endocardite, i diabetici hanno in effetti maggiori tassi di mortalit`a sia intra-ospedaliera, sia intra- e post- operatoria; le cause pi`u frequenti di morte an-noverano lo shock cardiogeno, l’ictus cerebrale di origine embolica, lo shock settico, l’insufficienza epatica e quella multi- organo.
Il diabete non costituisce comunque l’unica co- morbidit`a rivelatasi indipen-dentemente associata a un incremento del tasso di mortalit`a: un discorso analogo si pu`o infatti applicare ad altre variabili quali la presenza di insuf-ficienza multi- organo o scompenso cardiaco ed il fallimento della terapia antibiotica.
Un secondo risultato degno di menzione riguarda il rapporto fra la presenza di diabete e il rischio di embolizzazioni periferiche: nonostante il tasso di stroke fosse maggiore nei pazienti diabetici, la differenza rispetto ai soggetti non affetti da tale co- morbidit`a non `e risultata significativa; in compenso, si `