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Beta-amiloide, Tau e Alfa-sinucleina eritrocitari: biomarcatori della Malattia di Alzheimer

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE

TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

“BETA-AMILOIDE, TAU E ALFA-SINUCLEINA

ERITROCITARI: BIOMARCATORI NELLA

MALATTIA DI ALZHEIMER”

Candidato:

Relatore:

Francesca Lucarini

Chiar.mo Prof. Ubaldo Bonuccelli

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(3)

3

INDICE

:

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI E DEGLI ACRONIMI ...5

RIASSUNTO ...9

CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE ...12

1.1 LA MALATTIA DI ALZHEIMER...12

1.1.1 Epidemiologia ...12

1.1.2 Clinica e diagnosi ...14

1.1.3 La Malattia di Alzheimer come entità clinica-biologica: dai criteri NINCDS-ADRDA ai criteri IWG-2...18

1.1.4 Eziologia e fattori di rischio ...20

1.1.5 Neuropatogenesi ...23

1.1.6 I biomarcatori ...29

CAPITOLO 2 – OBIETTIVI...40

CAPITOLO 3 - MATERIALI E METODI………..40

3.1 SOGGETTI RECLUTATI E DISEGNO DELLO STUDIO………..…….40

3.2 PRELIEVO DI GLOBULI ROSSI………..………42

3.3 IDENTIFICAZIONE DI Aβ42………...………...42

3.4 IDENTIFICAZIONE DI T-TAU………..…………...43

3.5 IDENTIFICAZIONE DI T-α-SYN……….…44

3.6 IDENTIFICAZIONE ETERODIMERO α-SYN/TAU………..………..45

3.7 IDENTIFICAZIONE ETERODIMERO α-SYN/Aβ42………....….46

3.8 ANALISI STASTISTICA………...……….46

CAPITOLO 4 - RISULTATI………...47

4.1 ANALISI DESCRITTIVA ………..……...47

4.2 RISULTATI DELL’IMMUNODOSAGGIO……….………48

(4)

4

CAPITOLO 5 – DISCUSSIONE E CONCLUSIONI………50

BIBLIOGRAFIA………56

FIGURE E TABELLE………..78

APPENDICE………...85

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ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI E DEGLI ACRONIMI

ABCA7 ATP Binding Cassette sottofamiglia A membro 7

ADL Activities of Daily Living

AICD Amyloid precursor protein IntraCellular Domain

AMS Atrofia Multi-Sistemica

APOE Apolipoproteina E

APP Amyloid Precursor Protein

AUROC Area Under Receiver Operating Characteristic

Aβ Peptide -amiloide

Aβ40 Peptide -amiloide di 40 aminoacidi

Aβ42 Peptide -amiloide di 42 aminoacidi

BACE1 -site Amyloid precursor protein Cleaving Enzyme 1

BIN1 Bridging Integrator 1

BSA Bovine Serum Albumin

AAC Cerebral Amyloid Angiopathy

CD2AP Cluster of Differentiation 2-Associated Protein CD33 Cluster of Differentiation 33

CI Confidence Interval

CLU Clusterina

CR1 Complement Receptor type 1

CS Controlli Sani CSF Cerebrospinal Fluid

(6)

6 C99/CTF frammento C-terminale di 99 aminoacidi

EDTA acido EtilenDiamminoTetraAcetico

ELISA Enzyme-Linked Immunosorbent Assay

DCB Degenerazione Cortico-Basale

DLB Dementia with Lewy Bodies

DNA DeoxyriboNucleic Acid

EOAD Early-Onset Alzheimer’s Disease FANS Farmaci Antiinfiammatori Non Steroidei

18FDG 18-F-2-fluoro-2-desossi-D-glucosio

FTD FrontoTemporal Dementia

GR Globuli Rossi

HD Huntington’s Disease

HIV Human Immunodeficiency Virus

HRP Horseradish Peroxidas

IADL Instrumental Activities of Daily Living

IQ InterQuartile

IWG International Working Group

LCR Liquido CefaloRachidiano

LOAD Late-Onset Alzheimer’s Disease

MA Malattia di Alzheimer

MCI Mild Cognitive Impairment

MCI-MD MCI- dominio multiplo

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7

aMCI MCI amnesico

naMCI MCI non amnesico

MMSE Mini-Mental State Examination

MND Motor Neuron Disease

MP Malattia di Parkinson

MS4A Membrane-Spanning 4-domain family, subfamily A

NFTs NeuroFibrillary Tangles

NIA-AA National Institute on Aging - Alzheimer’s Association NINCDS-ADRDA National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke and the Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association

NMDA N-metil-D-aspartato

NPI NeuroPsychiatric Inventory

OMS Organizzazione Mondiale della Sanità

PBS-T Phosphate Buffered Saline contenente 0.01% Tween 20

PET Positron Emission Tomography,

PiB 11C-Pittsburgh compound B

PICALM Phosphatidylinositol binding clathrin assembly protein

PS Placche Senili

PSEN1 Presenilina 1

PSEN2 Presenilina 2

p-Tau proteina tau fosforilata

RM Risonanza Magnetica

ROC Receiver Operating Characteristic sAPP Soluble amyloid precursor protein 

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8 sAPPβ Soluble amyloid precursor protein β

SDS Sodio DodecilSolfato

SNC Sistema Nervoso Centrale

SORL1 Sortilin Related Receptor 1

TMB 3,3’,5,5’ TetraMetilBenzidina

TC Tomografia Computerizzata

TDP-43 Transactive-response DNA-binding Protein 43 kDa t--syn proteina -sinucleina totale

t-Tau proteina tau totale

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9

RIASSUNTO

La Malattia di Alzheimer (MA) è la più frequente patologia neurodegenerativa ed è responsabile del 60-70% dei casi di demenza. E’ tra le principali cause di disabilità nelle persone di età più avanzata e la sua incidenza è destinata ad aumentare a causa dell’invecchiamento generale della popolazione, determinando un forte impatto dal punto di vista socio-economico.

La MA è classicamente considerata una proteinopatia causata dall’accumulo a livello cerebrale di proteine Aβ e Tau misfolded. All’esame autoptico di pazienti affetti da patologia di Alzheimer si rilevano, infatti, depositi cerebrali di tali proteine, organizzate rispettivamente in placche amiloidi (peptide β-amiloide 42, Aβ42) e grovigli neurofibrillari (proteina t-Tau e p-Tau). Recenti studi anatomopatologici hanno tuttavia riscontrato la presenza a livello cerebrale anche di un’altra proteina, α-sinucleina (α-syn) misfolded, in forma di corpi di Lewy, in oltre il 30% dei pazienti con MA. Inoltre, l'α-syn contribuisce alla fibrillazione della β-amiloide e della Tau e determina la formazione di etero-oligomeri con Aβ42 e Tau (eterodimeri α-syn/Aβ42 e α-syn/Tau). Infatti, queste proteine misfolded si aggregano e interagiscono tra loro, potenziando a vicenda il loro effetto neurotossico.

La diagnosi di certezza di MA è possibile solo attraverso l’identificazione (post-mortem)

delle placche amiloidi e dei grovigli neurofibrillari direttamente nel tessuto cerebrale. La diagnosi clinica è, invece, di probabilità e, ad oggi, si basa sul riscontro combinato di

un disturbo cognitivo di memoria episodica associato a biomarcatori fisiopatologici indicativi di deposizione di β-amiloide a livello cerebrale. In particolare, secondo l’International Working Group (IWG) la diagnosi di MA si pone quando un fenotipo clinico con disturbi di memoria si associa una positività della PET cerebrale con tracciante β-amiloide, o in alternativa, una riduzione delle concentrazioni liquorali del peptide Aβ42, insieme a un incremento delle proteine liquorali p-Tau e/o t-Tau. L’introduzione di biomarcatori di neuroimaging e liquorali ha reso possibile una maggior accuratezza diagnostica in vivo della malattia e il riconoscimento di varianti cliniche atipiche. Recenti studi hanno concentrato le loro ricerche sul processo di misfolding proteico che caratterizza le patologie neurodegenerative, in particolare la MA, riscontrando che questo

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10 meccanismo patologico si propaga in modo cellula-cellula (“prion-like”). Ciò determina una diffusione delle proteine anomale, non solo a livello cerebrale, ma anche in tessuti periferici, tra cui il sangue. In particolare, gli eritrociti sono ritenuti particolarmente sensibili all’accumulo di proteine misfolded. Inoltre, sembrano coinvolti nel metabolismo e degradazione del peptide Aβ42 e contengono quasi la totalità di α-syn del sangue. Tali

caratteristiche hanno portato allo studio della concentrazione dei peptidi Aβ42, Tau, α-syn totale (t-α-syn) e degli eterodimeri α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 eritrocitari, come

potenziali biomarcatori di MA.

Partendo da tali presupposti, è stato disegnato il seguente studio cross-sectional, con lo scopo di misurare la concentrazione dei biomarcatori periferici Aβ42, Tau totale (t-Tau), t-α-syn e degli eterodimeri α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 all’interno dei globuli rossi (GR) in una coorte di pazienti affetti da MA e di stabilirne il potenziale valore diagnostico nel discriminare tali pazienti da un gruppo di controlli cognitivamente sani. Di ogni biomarcatore è stata quindi misurata la concentrazione eritrocitaria e indagata l’accuratezza diagnostica nel discriminare i due gruppi.

In questo studio, sono stati reclutati 39 pazienti (19 donne e 20 uomini, età 67,88 ± 6,74 anni), di cui 27 affetti da “MA lieve” prevalentemente amnesica (MA tipica) e 12 affetti da MA in fase prodromica, o di Mild Cognitive Impairment (MCI), secondo i criteri diagnostici dell’International Working Group (IWG-2). Questi soggetti sono stati “matchati” con 39 controlli di simile età e sesso, cognitivamente sani (17 donne e 22 uomini, età 66,90 ± 8,68 anni). Il livello dei biomarcatori eritrocitari nei campioni di sangue è stato misurato utilizzando il saggio ELISA (Enzyme-Linked Immunosorbent Assay). Le differenze nelle concentrazioni dei biomarcatori riscontrate tra i due gruppi (controlli vs. pazienti affetti da MA) sono state studiate mediante il test non-parametrico di Mann-Whitney. Le differenze di sesso sono state studiate mediante il test del χ2 con

correzione per la continuità. Per quanto riguarda i dati dell’immunodosaggio, le concentrazioni eritrocitarie degli

eterodimeri α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 e di t-α-syn risultano significativamente inferiori nel gruppo dei pazienti affetti da MA rispetto al gruppo dei soggetti cognitivamente sani (eterodimero α-syn/Tau : mediana = 0,836 vs. 2,116 ng/mg, range IQ = 0,679 - 1,067 vs. 1,842 - 3,328 ng/mg, p < 0,001; eterodimero α-syn/Aβ42 : mediana = 1,411 vs. 2,479

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11 t-α-syn : mediana = 12,033 vs. 29,609 ng/mg, range IQ = 10,640 - 20,675 vs. 32,027 - 84,228 ng/mg, p = 0,036), mentre né le concentrazioni eritrocitarie di Aβ42 né quelle di t-Tau hanno mostrato differenze statisticamente significative tra il gruppo MA e il gruppo di controllo. Inoltre, le concentrazioni eritrocitarie di entrambi gli eterodimeri permettono di discriminare i due gruppi con un’accuratezza diagnostica moderata (α-syn/Tau:

AUROC = 0,746; IC = 0,630 - 0, 862; p<0,001) (α-syn/Aβ42 : AUROC = 0,738; IC = 0,626 - 0,850; p<0,001), mentre le concentrazioni eritrocitarie di t-α-syn presentano

un’accuratezza diagnostica limitata (AUROC = 0,63; IC = 0,497 - 0,762; p = 0,054). In base a questi risultati, dunque, le concentrazioni eritrocitarie degli eterodimeri

α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 e di t-α-syn potrebbero rappresentare potenziali biomarcatori diagnostici della MA, mentre le concentrazioni di Aβ42 e t-Tau non sembrano rivestire alcun ruolo diagnostico.

Gli eritrociti sono coinvolti nella clearance delle proteine misfolded e i risultati del nostro studio hanno riscontrato concentrazioni inferiori di t-α-syn e degli eterodimeri α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 nei GR dei soggetti MA rispetto ai controlli sani. Una spiegazione a questi risultati potrebbe venire da recenti studi che suggeriscono come nei soggetti con MA la capacità dei GR di eliminare le proteine circolanti libere nel plasma possa essere meno efficace.

Il nostro studio presenta alcuni limiti. La relativa bassa numerosità del campione, l’assenza di un follow-up dei pazienti e la mancata inclusione di pazienti che manifestano sintomi delle varianti cliniche atipiche (in assenza di disturbi di memoria) di MA. Inoltre, un altro limite è rappresentato dal fatto di non aver ancora confrontato le concentrazioni eritrocitarie di t-α-syn e degli eterodimeri α-syn/Tau e α-syn/Aβ42 con le rispettive concentrazioni plasmatiche per chiarire il loro rapporto ed equilibrio nel processo patogenetico. Future indagini, inoltre, potrebbero essere rivolte alla ricerca di ulteriori biomarcatori, eritrocitari e non, ad esempio in altre strutture cellulari nel sangue, come le piastrine, da individuare in base alle alterazioni molecolari osservate nello spettro delle malattie neurodegenerative.

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CAPITOLO 1 – INTRODUZIONE

1.1 LA MALATTIA DI ALZHEIMER

1.1.1 Epidemiologia

La demenza è una sindrome, solitamente di natura cronica o progressiva, nella quale si assiste ad un deterioramento nelle funzioni cognitive e comportamentali. Sono interessate la memoria, la capacità di pensiero, comprensione, calcolo, linguaggio, andando così ad interferire nelle capacità individuali di svolgere autonomamente attività della vita quotidiana. E’ il risultato di una grande varietà di malattie o danni che vanno a colpire

primariamente o secondariamente il cervello (World Health Organization, 2017). Ad oggi circa 44 milioni di persone sono affette da demenza e questo la rende la principale

causa di disabilità e assistenza nella popolazione di età più avanzata, rappresentando una

problematica a grande impatto sociale ed economico per ogni Sistema sanitario. Si stima inoltre che questo numero sia destinato quasi a raddoppiare ogni 20 anni almeno

fino al 2050. Il numero di nuovi casi ogni anno è di circa 7,7 milioni (Dening & Sandilyan, 2015). Nella popolazione di età superiore ai 60 anni la percentuale di persone affette da demenza conclamata si aggira attorno al 5-7% e cresce in funzione dell’età (Prince et al.,

2013). La forma più comune di demenza è la Malattia di Alzheimer (MA), che da sola

rappresenta il 60-70% di casi. Altre forme primarie neurodegenerative progressive croniche sono rappresentate dalla demenza a corpi di Lewy (DLB) (5-20%) e dalla demenza frontotemporale (FTD) (5-20%) nelle sue varianti: la variante comportamentale e l’afasia primaria progressiva, a sua volta distinta in una variante semantica e in una

variante non fluente (Olney, Spina, & Miller, 2017)(Nowrangi, Rao, & Lyketsos, 2011). La demenza secondaria più diffusa è quella vascolare (20-40% di tutte le demenze).

Data la frequente condivisione di aspetti clinici, fisiopatologici e di fattori di rischio, il confine tra le differenti tipologie di demenza rimane spesso indefinito, e queste forme vengono, quindi, definite miste (World Health Organization, 2017).

La MA è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una malattia neurodegenerativa a eziologia sconosciuta, caratterizzata da un deterioramento

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13 progressivo della memoria e delle altre funzioni cognitive come il linguaggio, le abilità visuo-spaziali, le funzioni esecutive e la capacità di giudizio (Niu, Álvarez-Álvarez, Guillén-Grima, & Aguinaga-Ontoso, 2017);(Auld, Kornecook, Bastianetto, & Quirion, 2002). Sebbene possa manifestarsi in ogni epoca della vita adulta, interessa principalmente soggetti a partire dalla sesta decade di età; in un numero relativamente esiguo di casi si può presentare prima o durante la quinta decade. La prevalenza specifica per età di MA quasi raddoppia ogni 5 anni dopo i 65 anni, passando dal 3% della fascia d’età 65-74 anni fino a quasi il 50% dei soggetti di 85 anni ed oltre. Questo dimostra come l’età rappresenti uno dei fattori di rischio più implicati nella genesi della patologia (Castellani, Rolston, & Smith, 2010). I tassi di incidenza annuale per questi paesi sono stati stimati a 10,5/1000 per il Nord America, 8,8/1000 per l'Europa occidentale, 9,2/1000 per l'America Latina e 8,0/1000 per la Cina, crescendo esponenzialmente con l'età in tutti i paesi, in particolare tra il settimo e l'ottavo decennio di vita (Qiu, Kivipelto, & von Strauss, 2009). L’incidenza è quindi generalmente maggiore in Nord America e in Europa

rispetto alla maggior parte dei paesi economicamente meno sviluppati, tuttavia, un considerevole aumento di prevalenza è stato recentemente registrato in Cina, India e

America Latina (Martin Prince et al., n.d.). La prevalenza di MA varia anche a seconda del genere: circa due terzi di tutti i pazienti

che ricevono la diagnosi sono donne. Sebbene la durata di vita della donna sia maggiore di quella dell’uomo, tale fattore non si dimostra sufficiente a spiegare questo divario, chiamando in causa anche fattori genetici, ormonali e sociali, come determinanti della patologia. Inoltre esistono dati epidemiologici riguardanti le differenze razziali: soggetti anziani di origine africana e ispanica hanno una prevalenza maggiore rispetto a soggetti anziani di origine caucasica. Si pensa che ciò possa dipendere in parte per via di un livello medio di educazione inferiore e di una maggiore prevalenza di comorbilità cardiovascolari, sebbene possano intervenire anche fattori genetici o sociali (Apostolova, 2016). Stiamo assistendo a questo rapido aumento di prevalenza di MA in gran parte perché la percentuale di persone di età pari o superiore a 65 anni sta crescendo più rapidamente di qualsiasi altra fascia di età della popolazione in tutto il mondo. Tra il 1997 e il 2050, la popolazione anziana, definita come soggetto di età pari o superiore a 65 anni, passerà da 63 a 137 milioni nelle Americhe, da 18 a 38 milioni in Africa, da 113 a 170

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L’aspettativa media di vita di un paziente con diagnosi clinica di MA si aggira attorno ai 7 anni, con morte determinata da complicanze soprattutto di tipo respiratorio e cardiovascolare (Ropper, A.H., Samuels, M.A., & Klein, 2014). Negli Stati Uniti, la MA rappresenta la terza causa di morte nelle persone al di sopra dei 65 anni, dopo malattie cardiovascolari e cancro (Khan, 2016). E’ probabile comunque che il numero reale di decessi determinati da MA sia sottostimato (Alzheimer’s Association, 2016).

1.1.2 Clinica e diagnosi

Nel 1906, in Germania, il neuropatologo Alois Alzheimer fu il primo a descrivere le caratteristiche cliniche e patologiche di una insolita malattia cerebrale durante il Convegno della Society of Southwest German Psychiatrists: la paziente, Auguste Deter, soffriva di perdita di memoria, disorientamento, disturbi percettivi quali illusioni ed allucinazioni e morì all’età di 55 anni per setticemia da alcune ulcere da decubito. Alzheimer, all’esame autoptico della signora Deter, ritrovò a livello cerebrale le caratteristiche istologiche che sono oggi associate alla MA: una massiva perdita neuronale e la presenza di placche amiloidi e di grovigli neurofibrillari. Nel 1910, Emil Kraepelin denominò la condizione con l’eponimo di “Malattia di Alzheimer”. Al tempo, la nuova entità clinica descritta da Alzheimer venne ritenuta una rara forma di demenza presenile distinta dalla più comune demenza senile, considerata invece in relazione ai fisiologici meccanismi di invecchiamento. Solo negli anni Settanta si comprese che queste due entità sono parte del medesimo spettro, e la denominazione Malattia di Alzheimer ha assunto, quindi, l’accezione odierna (Cipriani, Dolciotti, & Picchi, n.d.);(Boller & Forbes, 1998).

La MA è una devastante patologia neurodegenerativa che interessa soprattutto pazienti con un’età superiore ai 65 anni (forme ad esordio tardivo, late-onset AD), anche se nel 2-10% dei casi si ha una manifestazione clinica dei sintomi più precoce (forme ad esordio precoce, early-onset AD) (Van Cauwenberghe, Van Broeckhoven, & Sleegers, 2016). Nella forma tipica, la MA esordisce in pazienti tendenzialmente anziani, con un caratteristico e progressivo disordine amnestico che interessa la memoria episodica (capacità di acquisire nuove informazioni). Si ha poi una successiva compromissione cognitiva più ampia, portando ad un deterioramento sul piano esecutivo,

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15 comportamentale e neuropsichiatrico, con la comparsa di depressione, allucinazioni,

deliri, cambiamenti di personalità (Borson & Raskind, 1997);(Caltagirone et al., 2005). La presentazione iniziale del disturbo è spesso insidiosa e tendenzialmente

misconosciuta, attribuita ai fisiologici cambiamenti determinati dall’età. Si ha una inesorabile progressione con esito fatale che sopraggiunge mediamente 8-10 anni dopo la comparsa dei sintomi, con un intervallo di variabilità di 1-25 anni (Seeley & Miller, 2013). Nella fase terminale del paziente, ormai muto, rigido, incontinente, allettato, sopraggiunge la tetraparesi in flessione e il decesso avviene in un marcato scadimento delle condizioni generali, per complicanze soprattutto di tipo infettivo e broncopolmonari (Loeb & Favale, 2003). Il percorso diagnostico comprende un’accurata valutazione clinica, con anamnesi personale e familiare, valutazione dello stato mentale, esame generale e neurologico, valutazione dello stato funzionale, della depressione e dei sintomi non cognitivi ed esecuzione di indagini strumentali quali esami ematochimici e di neuroimmagine, supportata da valutazione neuropsicologica che attesti la compromissione nei diversi ambiti cognitivi. Al termine di questo percorso, si può giungere ad una diagnosi di MA in termini di probabilità più o meno elevata, poiché per una diagnosi di certezza sarebbe necessario un riscontro neuropatologico, ovviamente impossibile da ottenere in vivo (Corey-Bloom et al., 1995);(Caltagirone et al., 2005);(Dubois et al., 2007). Negli ultimi anni è però aumentato sia il grado di sensibilità che di specificità con cui si può riconoscere e diagnosticare in vivo la MA, grazie ad una miglior definizione del quadro clinico supportata dall’utilizzo di biomarcatori liquorali, di neuroimmagine ed ematici (Dubois et al., 2010);(Taler & Phillips, 2008);(Ferris & Farlow, 2013).

Dal punto di vista dell’umore e dei sintomi neuropsichiatrici, una caratteristica tipica soprattutto dei primi stadi è l’apatia e la perdita di interessi, da differenziare dalla depressione maggiore, con la quale può essere tipicamente confusa, soprattutto quando il declino cognitivo si presenta ancora in forma lieve(Onyike et al., 2007). Col progredire della malattia si aggiungono poi allucinazioni soprattutto visive, deliri, aggressività,

manie di persecuzione ed altri disturbi comportamentali (Kramer & Miller, 2000). Si assiste, dunque, ad una lenta ed inesorabile perdita della facoltà di svolgere le attività

della vita quotidiana, che interessa inizialmente le attività strumentali come scrivere, guidare, usare il telefono o gestire il denaro; in seguito coinvolge anche le attività più

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16 semplici e le autonomie personali come mangiare, vestirsi, curare l’igiene personale. Il malato finisce per necessitare di una sempre maggiore supervisione quotidiana, fino a che

non diviene totalmente dipendente dal caregiver (Guaita&Trabucchi,2016). La presentazione iniziale della malattia può anche essere atipica, manifestandosi con

fenotipi clinici decisamente meno comuni, caratterizzati da sintomi precoci di tipo non amnestico, ma con alterazioni più marcate nel linguaggio, nelle funzioni visive, prassiche od esecutive (Scheltens et al., 2016). Si tratta delle forme atipiche di MA, che si verificano generalmente con un'età di insorgenza più precoce rispetto alla MA amnestica tipica e si

ritiene rappresentino il 6-14% dei casi di MA (Dubois et al., 2014). In questa categoria sono incluse la variante posteriore, la variante logopenica e la variante

frontale di MA (vedi appendice 4). La variante posteriore di MA si presenta all’imaging con un'atrofia corticale posteriore e generalmente ciò si traduce in diversi segni e sintomi che distinguono due sottotipi: una variante occipitotemporale, con una compromissione predominante nell'identificazione visuale di oggetti, parole o volti e una variante biparietale, più comune, con disfunzione visuo-spaziale predominante (tipiche della Sindrome di Gerstmann o Balint), aprassia degli arti o neglect (Galton et al., 2000);(Mackenzie Ross et al., 1996). La variante logopenica, che si presenta come afasia progressiva primaria logopenica, è definita da una progressiva compromissione del linguaggio, in particolare nel recupero di una singola parola e nella ripetizione di frasi, in un contesto in cui le abilità semantiche, sintattiche e motorie sono risparmiate (Gorno-Tempini et al., 2011). La variante frontale si manifesta invece con progressiva apatia o

disinibizione e comportamenti stereotipati (Woodward et al., 2009).

Spesso si ha una sovrapposizione con altri disordini di tipo neurodegenerativo o vascolare, rendendo complessa e poco affidabile la formulazione di una diagnosi basata solo sulla descrizione clinica (Dubois et al., 2014). Grazie alla determinazione di biomarcatori capaci di fornire in vivo evidenze della presenza di un sottostante processo patologico di tipo Alzheimer, è stato possibile includere queste varianti atipiche all’interno dello spettro della MA (Perrin, Fagan, & Holtzman, 2009)(Price et al., 1993).

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MCI (Mild Cognitive Impairment o deterioramento cognitivo lieve)

Il Mild Cognitive Impairment (MCI) rappresenta un’entità clinica che si colloca tra le alterazioni cognitive associate al normale invecchiamento e la demenza (Petersen and Negash 2008). Si definisce in presenza di (i) un cambiamento del paziente dal punto di vista cognitivo rispetto al livello precedente riferito da lui medesimo o da persone che gli sono vicine, (ii) una performance peggiore in uno o più domini cognitivi, più di quanto ci si può aspettare per l’età e il livello di istruzione del paziente, (iii) indipendenza o necessità di minima assistenza per le attività della vita quotidiana, (iv) assenza di demenza (Albert, DeKosky et al. 2011).

Nel caso in cui ci siano sufficienti elementi diagnostici per supporre che questo lieve deficit cognitivo rappresenti lo stadio iniziale della MA, si parla di “fase prodromica della MA”, (Dubois et al., 2010);(Dubois et al., 2007) o, alternativamente, di “MCI dovuto a MA” (Albert et al., 2011).

La maggior parte dei dati sulle alterazioni neuropatologiche supportano il concetto dell’esistenza di un continuum tra il normale invecchiamento e la demenza, di cui il MCI potrebbe rappresentare una condizione neuropatologica di transizione (Portet, Ousset et al. 2006);(Albert et al., 2011). I soggetti con MCI possiedono un maggior rischio di sviluppare demenza, con un tasso di progressione annuale compreso tra l’8% e il 15%; si tratta di una condizione che può anche rimanere stabile per molti anni o addirittura ritornare ad uno stato di normalità (Stephanie J. B. Vos et al., 2015);(R., 2004).

La presentazione clinica del MCI è eterogenea e questo dimostra una potenziale eziologia multipla, sia su base degenerativa, ma anche vascolare, metabolica, traumatica ed altre ancora (Winblad et al., 2004). Si parla di MCI amnestico (amnestic-MCI single domain, aMCI-SD) quando il deficit cognitivo interessa unicamente l’ambito della memoria; il rischio di evoluzione verso la demenza di tipo Alzheimer è in questo caso elevato (8-33% durante 2 anni) (Bertens, Knol, Scheltens, Visser, & Alzheimer’s Disease Neuroimaging Initiative, 2015);(J Cummings & Fox, 2017). Si parla invece di MCI multi-dominio (amnestic-MCI multiple domain, aMCI-MD) se il deficit mnesico si accompagna a disturbi in altri domini cognitivi (funzioni esecutive, linguaggio e abilità visuo-spaziali); in questa forma alcuni studi indicano che l’evoluzione risulta addirittura più probabile e più precoce (Whitwell et al., 2007). La presenza di una positività ai biomarcatori biologici o di neuroimaging specifici, in particolare, è indice di un rischio aumentato di

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18 progressione a una demenza Alzheimer indipendentemente dal fenotipo neuropsicologico (S. J. B. Vos et al., 2013);(Whitwell et al., 2007).

1.1.3 La Malattia di Alzheimer come entità clinica-biologica: dai criteri

NINCDS-ADRDA ai criteri IWG-2

Uno dei più grandi progressi dal punto di vista diagnostico è avvenuto nel 1984 grazie al NINCDS-ADRDA Work Group (National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke; Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association) con la definizione di criteri per la MA (vedi appendice 2). In seguito, nel 2004, sono stati definiti i criteri di MCI. Tuttavia un limite di questi criteri diagnostici è rappresentato dal fatto di essere esclusivamente clinici (G. McKhann et al., 1984). Nel 2007 e 2010 l’International Working Group (IWG) applica alla Malattia di Alzheimer l’utilizzo diagnostico di biomarcatori di processi fisiopatologici in un continuum clinico che spazia dalla fase asintomatica alla fase di demenza, passando per una fase prodromica (MCI con biomarcatori MA positivi). Nel 2011 questi concetti sono stati ripresi e più sviluppati dal National Institute on Aging - Alzheimer’s Association (NIA-AA). Questi criteri distinguono una fase asintomatica con biomarcatori positivi (Sperling et al., 2011), una fase clinica MCI con biomarcatori positivi (Albert et al., 2011) e una fase di demenza con biomarcatori positivi (G. M. McKhann et al., 2011). Nel 2014 l’IWG-2 unifica il concetto di MCI e di demenza di Alzheimer con biomarcatori positivi in un unico gruppo diagnostico denominato MA, in cui non si specifica il livello di compromissione dei disturbi cognitivi (Dubois et al., 2014). Inoltre questi criteri diagnostici identificano forme tipiche, in cui prevalgono i disturbi di memoria, dette anche ippocampali, e forme atipiche di MA, quali la variante logopenica, la variante frontale e la variante posteriore (vedi appendice 3 e 4). Questa distinzione ha ampliato lo spettro della malattia includendo stati preclinici, in cui la patologia di Alzheimer esiste senza sintomi evidenti. Sono state proposte due definizioni per la MA preclinica: "stato asintomatico a rischio per MA" e "MA presintomatica". Il primo gruppo include individui con biomarcatori della patologia di Alzheimer positivi, ma senza sintomi o segni clinici; la percentuale di tali individui che progredisce verso condizioni cliniche sintomatiche non è stata ancora stabilita. La definizione di MA presintomatica, invece, è stata proposta per i pochi individui che

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19 presentano una mutazione autosomica dominante a penetranza completa, considerando che inevitabilmente svilupperanno MA clinica (Dubois et al., 2014).

Nei criteri diagnostici IWG-2 del 2014 viene dato maggior risalto a biomarcatori fisiopatologici della malattia, quali PET-amiloide cerebrale, p-Tau, t-Tau e Aβ42 liquorali, che sono considerati specifici della patologia stessa. Infine nel 2018 le nuove raccomandazioni NIA-AA tentano di unificare e aggiornare il lavoro svolto nel 2011, introducendo uno schema “unbiased” per definire e stadiare le varie fasi di malattia sulla base della positività dei biomarcatori. Questo sistema è stato chiamato A/T/N (vedi

appendice 5), in cui “A” indica la positività per i biomarcatori liquorali Aβ42 e/o PET-amiloide cerebrale, “T” indica positività per p-Tau liquorale e/o PET-Tau cerebrale,

“N” indica positività per t-Tau liquorale e/o ipometabolismo alla PET cerebrale e/o atrofia ippocampale alla RM cerebrale. Questi criteri rappresentano un tentativo di definire la MA come un’entità fisiopatologica più che una manifestazione clinica. Quindi la definizione biologica di MA diventa indipendente dal suo fenotipo clinico, e basata essenzialmente sulla positività dei biomarcatori fisiopatologici contenuti all’interno dello schema A/T/N. Le combinazioni dei biomarcatori positivi o negativi del sistema A/T/N permettono di descrivere l’intero spettro della MA, dalle fasi asintomatiche a quelle di demenza avanzata. Per esempio, un individuo “A-” sarà considerato non affetto da MA (o con cambiamenti patologici di tipo non MA, se “T+” e/o “N+”), mentre un individuo con una riduzione liquorale del peptide Aβ42 e/o una positività della PET-amiloide cerebrale (“A+”, “T-” e “N-”) sarà in una condizione che gli autori definiscono di transizione patologica verso la MA, ossia in una fase iniziale di malattia (Jack et al., 2016);(Jack et al., 2018). Queste nuove linee guida sono utilizzate esclusivamente in ambito di ricerca per aiutare la comprensione della fisiopatologia nella MA e migliorare l’accuratezza della diagnosi in vivo di MA (Jeffrey Cummings, 2018).

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1.1.4 Eziologia e fattori di rischio

Fatta eccezione per i pochi casi di MA con ereditarietà autosomico dominante, nella maggioranza dei casi, in cui l’esordio è tardivo, la MA è una patologia ad eziologia ignota,

verosimilmente multifattoriale (Bekris, Yu, Bird, & Tsuang, 2010). Indubbiamente uno dei più significativi fattori eziologici è rappresentato dall’età, come

suggeriscono sia la prevalenza che l’incidenza della MA. Sta crescendo l’evidenza del ruolo che alcuni fattori di rischio giocano nello sviluppo

della malattia, come suscettibilità genetica, disordini vascolari e numerosi altri fattori ambientali. Si riconoscono anche fattori di rischio psicosociali, che possono influenzare la manifestazione clinica della malattia. Pertanto, l'intervento in queste aree può ridurre il rischio di sviluppo di MA o almeno ritardarne la manifestazione clinica (Povova et al., 2012).

La malattia è divisa in due sottotipi in base all'età di esordio: MA ad esordio precoce (early-onset AD) e MA ad insorgenza tardiva (late-onset AD). Le forme di MA ad esordio precoce rappresentano all'incirca il 2-10% di tutti i casi ed interessano persone tra i 30 ed i 65 anni, mentre la forma ad esordio tardivo, che è la più comune di MA, ha un'età di insorgenza successiva ai 60 o 65 anni.

Forme ad esordio precoce: circa il 2-10% di pazienti presentano una forma precoce di

malattia, la quale si manifesta e decorre in modo tendenzialmente più aggressivo. In questi soggetti è stata riconosciuta una modalità di trasmissione autosomica dominante, anche se rappresenta una forma estremamente rara, con una prevalenza inferiore all’1%. L’individuazione delle mutazioni responsabili ha contribuito alla comprensione della patogenesi della MA anche per le forme sporadiche. Sono coinvolte nell’eziologia delle forme autosomico-dominanti mutazioni a elevata penetranza a carico dei geni della Presenilina-1 (PSEN1, 50-75% dei casi) sul cromosoma 14; il gene della Presenilina-2 (PSEN2, <1%) sul cromosoma 1 ed il gene della proteina precursore dell'amiloide (APP, <5%) sul cromosoma 21 (Brickell et al., 2006);(Bekris et al., 2010);(Atwood & Bowen, 2015). Le mutazioni di PSEN1 sono responsabili delle forme più frequenti e più severe di MA a penetranza completa e l’esordio può avvenire già a partire dai 25 anni di età; il decorso è rapidamente progressivo, con una sopravvivenza media di 6-7 anni. Le mutazioni nel gene PSEN2 sono invece meno frequenti, possono mostrare una penetranza

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21 incompleta, hanno una durata media di 11 anni e si manifestano più tardivamente (39-83 anni). Le mutazioni a carico di questi 3 geni si associano all’aumentata produzione del peptide Aβ e in particolare all’aumento del rapporto A42/A40, essendo A42 critica per lo sviluppo delle placche (Bird, 2005). Queste tre mutazioni, associate tra loro, spiegano circa il 5-10% delle forme precoci di MA (Blennow, de Leon, & Zetterberg, 2006). I portatori di una di queste forme monogeniche sono inevitabilmente destinati a sviluppare la MA; in assenza di sintomatologia tipica si parla di MA presintomatica (Dubois et al., 2010);(Dubois et al., 2014). Nel capitolo 1.1.5 sarà spiegato il ruolo di questi geni.

Forme ad esordio tardivo: la MA ad insorgenza tardiva, o sporadica, è responsabile del

95% dei casi di MA ed è considerata multifattoriale; tuttavia, anche in questa forma è implicata una forte predisposizione genetica. Si ritiene quindi che la patologia sia determinata da una combinazione di fattori di rischio ambientali e genetici, che vanno a sommarsi agli inesorabili effetti dell’invecchiamento (Bird, 2005). Importante ricordare l'identificazione dell'allele ɛ4 dell'Apolipoproteina E (APOE) come uno dei principali fattori di rischio genetico sia per MA ad esordio precoce sia ad insorgenza tardiva. La presenza di tale polimorfismo non è tuttavia condizione necessaria né sufficiente a causare la MA, come è dimostrato dal fatto che fino al 75% dei portatori non sviluppano MA durante la vita; inoltre fino al 50% delle persone affette da MA non possiedono tale variante allelica. APOE codifica per una glicoproteina espressa in diverse sedi e con svariate funzioni (Van Cauwenberghe et al., 2016). È stato proposto che APOE, interagendo in qualche modo con APP o con la proteina Tau, modifichi la formazione delle placche amiloidi (Ropper, Samuels & Klein, 2014). Il gene APOE contiene tre principali varianti alleliche (ε2, ε3, ε4), che codificano per tre differenti isoforme (APOE-ε2, APOE-ε3, APOE-ε4) (Van Cauwenberghe et al., 2016). APOE-ε3 è la variante più comune, presente in circa il 60% della popolazione e non viene considerata un fattore di rischio per la MA. L’eterozigosi APOE-ε4/-ε3 o l’omozigosi APOE-ε4 conferiscono invece un rischio elevato: rispettivamente di 3 volte e di 8-25 volte più alto rispetto alle altre varianti. APOE-ε4 viene identificato approssimativamente nel 40% dei casi di MA e tendenzialmente si associa con un’età di esordio più precoce (Hickman, Faustin, & Wisniewski, 2016). Si pensa che l’allele APOE-ε2 abbia invece un ruolo protettivo e ritardante l’età di esordio della malattia (Van Cauwenberghe et al., 2016). Inoltre, studi di genome-wide association hanno identificato numerosi polimorfismi genetici connessi

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22 con un aumento del rischio di MA sporadica, suggerendo alcuni possibili percorsi fisiopatologici implicati nella malattia. Tra questi troviamo TREM2, CR1, CD33 e MS4A coinvolti nell’infiammazione e nella risposta immunitaria; SORL1, PICALM, BIN1 e CD2AP nel riciclo delle vescicole endosomali; CLU e ABCA7 nel metabolismo del colesterolo e dei lipidi (Van Cauwenberghe et al., 2016);(Mendiola-Precoma, Berumen, Padilla, & Garcia-Alcocer, 2016). Questo rende ragione di quanto la componente genetica sia complessa ed eterogenea, poiché non esiste un singolo modello che spieghi la modalità di trasmissione della malattia. Inoltre le mutazioni geniche ed i polimorfismi possono interagire tra loro e con i fattori ambientali che sono numerosi e non completamente conosciuti (Van Cauwenberghe et al., 2016). I risultati della maggior parte degli studi hanno confermato la relazione tra stato di salute vascolare ed il conseguente rischio di declino cognitivo e demenza. Il World Dementia Council ha dichiarato che la riduzione dei fattori di rischio per la demenza, con una forte evidenza negli interventi per ridurre il rischio cardiovascolare, potrebbe migliorare la salute cognitiva a livello di popolazione. Tra questi ricordiamo tra i più rilevanti l’ipertensione arteriosa, patologia aterosclerotica, ipercolesterolemia, iperomocisteinemia, fibrillazione atriale, storia di ictus pregresso

(Lorius et al., 2015); (Zhuo, Wang, & Pratico, 2011);(Luchsinger & Mayeux, 2007). Evidenze crescenti suggeriscono che molti altri fattori legati allo stile di vita, tra cui

diabete, obesità, inattività fisica e mentale, depressione, basso livello di istruzione e dieta abbiano un ruolo nella demenza e il potenziale di prevenzione primaria correlato al controllo e riduzione di tali fattori di rischio modificabili è enorme, ma ancora da approfondire. Contrastante il ruolo del fumo, addirittura ritenuto fattore protettivo da alcuni studi (Ott et al., 1998); (Launer, Feskens, Kalmijn, & Kromhout, 1996). Tra i fattori di rischio ambientali si sottolineano anche la sintomatologia depressiva, l'apatia e il disagio psicologico cronico, che sono stati associati ad un aumentato rischio di manifestare MCI e demenza. Resta inoltre poco chiaro se vi siano esposizioni ambientali specifiche, come un trauma cranico, che possano influenzare la progressione della sequenza fisiopatologica o l'espressione clinica della patologia. Un'associazione tra un trauma cranico e MA è biologicamente plausibile, in quanto può causare sovraespressione della proteina precursore della β-amiloide, portando all'accumulo di depositi β-amiloidi

nel cervello, simile a quello osservato nei pazienti con MA (Li et al., 2017). Fattori di rischio particolarmente problematici nelle donne sono obesità ed alterazioni

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23 ormonali; in menopausa si osserva infatti una serie di cambiamenti, tra cui un aumento dell’adiposità centrale e di uno stato infiammatorio cronico, a cui partecipa il calo estrogenico (Christensen & Pike, 2015);(Craft, 2006);(Csernansky et al., 2006);(Shumaker et al., 2003);(Tan et al., 2008).

Per quanto riguarda i fattori protettivi, vi sono alcune prove che l'impegno in attività specifiche, comprese attività cognitive, fisiche, ricreative e sociali, può essere associato a un ridotto rischio di demenza da MCI e MA. L'istruzione superiore e un alto stato socio-economico sono stati associati a una minore incidenza di diagnosi di MA per l'età, andando a influenzare positivamente quelle che sono definite “riserva cerebrale” e

“riserva cognitiva”. Il concetto di riserva è stato originariamente utilizzato per fornire

una spiegazione al fatto che l'entità dei danni istopatologici cerebrali di MA all'autopsia non sempre correlava con il grado di severità clinica. La "riserva cerebrale" si riferisce alla capacità del cervello di sopportare un insulto patologico, forse a causa di una maggiore densità sinaptica o di un numero maggiore di neuroni sani, tale che rimane sufficiente substrato neurale per supportare la normale funzione. Al contrario, si ritiene che la "riserva cognitiva" rappresenti la capacità di impegnare reti cerebrali alternative o

strategie cognitive per far fronte agli effetti della patologia (Sperling et al., 2011).

1.1.5 Neuropatogenesi

L’esame macroscopico dell’encefalo di soggetti affetti da MA mostra un grado variabile di atrofia corticale, generalmente diffusa e simmetrica, evidenziata dall’ampliamento dei solchi cerebrali e dall’espansione compensatoria delle cavità ventricolari, conseguenza della diffusa rarefazione neuronale e sinaptica (Castellani et al., 2010). L’atrofia risulta più accentuata nei lobi frontale, temporale e parietale (Mandell & Green, 2011);(Serrano-Pozo, Frosch, Masliah, & Hyman, 2011).

Il pattern di atrofia nella MA non è casuale, ma di solito si evolve lentamente, seguendo un percorso specifico che coinvolge precocemente la corteccia entorinale e l'ippocampo, quindi si estende alle aree associative nelle regioni parietali mediali, laterali temporali e

frontali, interessando tutte le regioni della corteccia (Fjell et al., 2014). Le strutture del lobo temporale mediale, nello specifico l’ippocampo, la corteccia

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24 solito gravemente atrofizzate negli stadi più avanzati. Sono interessati dalla perdita di neuroni anche alcuni nuclei sottocorticali: il nucleo basale di Meynert, il locus coeruleus e il nucleo dorsale del rafe (P J Whitehouse et al., 1982);(Peter J. Whitehouse, Price, Clark, Coyle, & DeLong, 1981);(Loeb, C., & Tabaton, 2003). La degenerazione di questi nuclei a proiezione corticale diffusa contribuisce alla riduzione del contenuto dei neurotrasmettitori a livello corticale, tra cui l’acetilcolina (Chozick, 1987);(Coyle, Price, & DeLong, 1983), la noradrenalina e la serotonina (Ropper, A.H., Samuels, M.A., & Klein, 2014);(Loeb, C., & Tabaton, 2003). La presenza di modificazioni dell’assetto dei neurotrasmettitori e, in particolare, di un più chiaro deficit colinergico, continua a costituire il razionale di molte terapie. Tuttavia, il deficit colinergico rappresenta uno degli stadi più avanzati, se non finali, di un processo la cui origine è verosimilmente determinata dal convergere di più fattori (Terry & Buccafusco, 2003). Da un punto di vista microscopico, le alterazioni neuropatologiche più rilevanti sono rappresentate dalle placche senili (PS), i grovigli neurofibrillari (neurofibrillary tangles, NFT) e l’angiopatia amiloide cerebrale (CAA): si tratta di reperti fortemente suggestivi di MA, sebbene non siano patognomonici. Non è insolito, infatti, riscontrarli anche in individui affetti da altre demenze o in anziani apparentemente sani dal punto di vista cognitivo.

Le placche senili sono depositi extracellulari dei peptidi β-amiloide (Aβ), i quali più frequentemente assumono formazioni sferoidali con un nucleo centrale di β-amiloide, circondato da un alone chiaro, e una corona composta di assoni e dendriti degenerati alla periferia. La loro nomenclatura e le caratteristiche morfologiche sono però complesse. I depositi di Aβ possono essere al centro di un gruppo di neuriti distrofici; queste sono un sottoinsieme di placche senili chiamate placche neuritiche. I depositi di Aβ42 sono morfologicamente diversi e comprendono anche strutture non neuritiche chiamate placche diffuse. La situazione è ulteriormente complicata perché diversi tipi di placche tendono a svilupparsi in diverse regioni del cervello.

All'interno di queste placche ritroviamo vari peptidi Aβ42, formatisi dalla scissione della glicoproteina transmembrana APP da parte di secretasi. Tra queste diverse forme di placche Aβ42, le placche neuritiche sono state considerate più strettamente associate al danno neuronale. Infatti, le placche neuritiche sono caratterizzate dall'insorgenza di neuriti distrofici, maggiore perdita di sinapsi locale e attivazione gliale (Hyman et al., 2012);(Armstrong, 2009).

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I grovigli neurofibrillari (NFT) sono inclusioni argirofile composte da aggregati proteici filamentosi a doppia elica, costituiti principalmente da proteina Tau iperfosforilata. Le NFT sono comunemente osservate nelle regioni limbiche all'inizio della malattia ma, col progredire della MA, coinvolgono anche altre regioni cerebrali, inclusa la corteccia associativa, alcuni nuclei subcorticali e persino alcune regioni del tronco cerebrale (Hyman et al., 2012).

La proteina Tau è una proteina altamente solubile che si associa ai microtubuli e la sua funzione in condizioni normali consiste nello stabilizzarli. Questi microtubuli forniscono supporto per cambiamenti strutturali, trasporto assonale e crescita neuronale: una loro alterazione comporta quindi morte neuronale (Sanabria-Castro, Alvarado-Echeverría, & Monge-Bonilla, 2017);(Serrano-Pozo et al., 2011).

Il peptide β-amiloide non si deposita solo nel parenchima cerebrale sotto forma di placche amiloidi, ma anche nelle pareti dei vasi sotto forma di angiopatia amiloide cerebrale (CAA). Infatti, il peptide Aβ42, più insolubile, tende ad accumularsi nel nucleo delle

placche senili, mentre il peptide Aβ40, più solubile, è il principale costituente della CAA.

Si accumula principalmente nell'interstizio tra le cellule muscolari lisce. Sebbene la CAA possa comparire anche in forma isolata (CAA pura), è più comune nel contesto di MA. La CAA di solito colpisce i capillari corticali, le piccole arteriole e le arterie di media grandezza, nonché le arterie leptomeningee, mentre venule, vene e arterie della sostanza bianca sono raramente coinvolte. Per ragioni sconosciute, le aree parietali posteriori e occipitali sono di solito interessate in modo più prominente dei lobi frontali e temporali e, all'interno della stessa area, le arterie leptomeningee di solito mostrano un CAA più grave delle arterie corticali. Studi recenti hanno evidenziato come la CAA possa svolgere un ruolo indipendente dalla MA nel determinare il decadimento cognitivo. Una complicanza comune della CAA sono infatti le microemorragie e le emorragie spontanee intracerebrali lobari, condizione che si presenta più spesso nei portatori dell’allele ε2, mentre ε4 si associa maggiormente con una forma di CAA non emorragica (Serrano-Pozo et al., 2011);(Banerjee et al., 2017).

In molti casi sono riscontrabili ulteriori alterazioni microscopiche meno specifiche della MA, quali cambiamenti a livello della sostanza bianca, degenerazione granulo-vacuolare e aggregati di altre proteine come corpi di Lewy, corpi di Hirano immunoreattivi di actina

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26 e inclusioni immunoreattive costituite da TDP-43 (TAR DNA-binding protein 43) (Hyman et al., 2012).

I meccanismi attraverso i quali si realizzano le alterazioni neuropatologiche comunemente riscontrate non sono ancora stati del tutto chiariti, ma molte ipotesi sono state formulate. Per spiegare la patogenesi della MA sono stati di volta in volta chiamati in causa fattori genetici, infiammatori, ormonali, legati allo stress ossidativo, che concorrono ad amplificare il danno iniziato dal vero primum movens della MA, ad oggi non identificato. Tra le ipotesi più accreditate, pur non senza obiezioni, figurano l’ipotesi della cascata amiloide, l’ipotesi dell’iperfosforilazione della proteina tau, l’ipotesi dello stress ossidativo (Blennow et al., 2006).

L’ipotesi della cascata amiloide (vedi appendice 1). Secondo l’ipotesi della “cascata amiloide”, l’accumulo anomalo e progressivo del peptide Aβ42, derivante da uno

squilibrio tra produzione e clearance dello stesso, rappresenta il primo evento della malattia, precedendo di molti anni la degenerazione neuronale ed infine la comparsa della demenza (Selkoe & Hardy, 2016).

Aβ è un peptide di lunghezza variabile compresa tra 39 e 43 aminoacidi ed è un normale componente solubile del plasma e del liquido cefalorachidiano che deriva dal clivaggio della proteina precursore della β-amiloide APP (Thordardottir et al., 2017). L’APP è una proteina transmembrana che svolge importanti funzioni fisiologiche riguardanti lo sviluppo cerebrale, la plasticità sinaptica e la neuroprotezione (Müller & Deller, 2017). APP può essere processata attraverso due vie enzimatiche differenti, di cui una esita nella formazione di sostanza amiloide: nella via amiloidogenica, dal clivaggio sequenziale da parte di β-secretasi e γ-secretasi in successione si forma il peptide Aβ; nella via non amiloidogenica, dove invece agiscono α-secretasi e γ-secretasi APP subisce una proteolisi

combinata e sequenziale ad opera degli enzimi α e γ-secretasi. Nello specifico, l’α-secretasi esegue un taglio a livello della sequenza Aβ, rilasciando nelle immediate

circostanze il dominio amino (N)- terminale extracellulare solubile di APP (sAPPα), mentre il dominio citoplasmatico carbossi (C)-terminale (C83 o CTF) rimane ancorato alla membrana. Il successivo clivaggio di C83, realizzato tramite la γ-secretasi, genera il dominio intracellulare di APP (AICD) e un frammento sottile denominato 3p, il quale non sembra svolgere alcun ruolo nella formazione delle placche né nella tossicità neuronale (Yates & McLoughlin, 2008). Stessa cosa vale per il frammento sAPP, il quale sembra

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27 addirittura possedere un effetto neuroprotettivo (Mockett, Richter, Abraham, & Müller, 2017). L’attività γ-secretasica è mediata da un complesso proteico costituito da almeno

quattro proteine, tra cui presenilina 1 e il suo omologo presenilina 2 (rispettivamente codificate dai geni PSEN1 e PSEN2), che entrano nella costituzione del sito catalitico (Yates and McLoughlin, 2008).

A seconda del sito in cui agisce, la γ-secretasi porta alla produzione di due frammenti di differente lunghezza: si tratta di Aβ40 o di Aβ42, costituiti rispettivamente da 40 e 42 aminoacidi. Sebbene Aβ40 sia la forma maggiormente prodotta (10:1), è Aβ42 che possiede una maggior tendenza all’aggregazione, caratteristica conferitale dalla presenza di due aminoacidi idrofobici a livello dell’estremità C-terminale (Spies et al., 2010);(Yates & McLoughlin, 2008). Grazie a meccanismi non del tutto noti, la quota di Aβ prodotta viene poi rapidamente degradata da alcune proteasi (la neprisilina, l’enzima convertente l’endotelina e l’enzima degradante l’insulina); in seguito viene eliminata dagli spazi

extracellulari cerebrali (Duyckaerts, Delatour, & Potier, 2009). Secondo l’ipotesi dell’amiloide, a causa di un disequilibrio tra produzione e

degradazione, si ha un aumento del rapporto tra Aβ42 e Aβ40. Questo aumento relativo di Aβ42 predispone al passaggio da una forma monomerica e solubile ad una conformazione a β-foglietto, che la rende propensa all’aggregazione; dapprima si organizza in oligomeri solubili e in seguito in più grandi fibrille insolubili, le quali si ritrovano nel nucleo delle placche amiloidi (Tarasoff-Conway et al., 2016);(Haass & Selkoe, 2007). Negli ultimi decenni, numerosi studi hanno mostrato come gli oligomeri solubili di Aβ42 possano alterare direttamente le sinapsi, sia da un punto di vista funzionale (il meccanismo di

long-term potentiation), che strutturale (danneggiando le spine dendritiche) (Shankar et al.,

2008).

Anche la via lisosomiale endosomiale è un importante regolatore dell'elaborazione di APP e del metabolismo delle proteine Tau. Studi recenti suggeriscono che le disfunzioni nell'autofagia neuronale, che causano un aumento della quantità e delle dimensioni degli endosomi a livello cellulare, possono essere coinvolte nella patogenesi di MA, poiché questi cambiamenti sono osservati prima dell'apparizione delle placche senili e dei grovigli neurofibrillari a livello cerebrale. (Sanabria-Castro et al., 2017). Per questo l’ipotesi della cascata amiloide è ritenuta ad oggi troppo semplicistica per poter spiegare

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la complessità dei cambiamenti neuropatogenetici rinvenuti nei soggetti con MA ed è necessaria una visione più estesa che consideri il contributo di diversi tipi di cellule, le loro interazioni reciproche e l'evoluzione graduale della malattia (De Strooper & Karran, 2016). Inoltre la formazione delle placche amiloidi è condizione necessaria ma non sufficiente a determinare la fase clinica della MA (Jack, Knopman, et al., 2013). Perciò, col tempo, sono state proposte altre ipotesi, le quali in parte si dissociano e in parte si integrano alla teoria amiloidogenica (Scheltens et al., 2016).

Iperfosforilazione della proteina Tau. Un’ipotesi alternativa vede come punto di partenza

del processo patogenetico della MA la formazione dei filamenti a doppia elica di proteina tau. Nella MA, la tipologia e la severità dei sintomi rispecchiano maggiormente il numero e la distribuzione sia spaziale che temporale dei grovigli piuttosto che delle placche (Musiek & Holtzman, 2015). Braak e Del Tredici hanno pubblicato uno studio che utilizza l'immunocolorazione con AT8 nei casi di autopsia in soggetti di età inferiore a 30 anni. AT8 è un anticorpo monoclonale anti-tau specifico che riconosce la proteina tau patologicamente fosforilata. In un'alta percentuale di individui estremamente giovani (di età pari a 6 anni) sono stati ritrovati pre-NFT AT8 positivi in nuclei sottocorticali selezionati e nella corteccia entorinale. Braak e Del Tredici propongono che il luogo dove inizia la patologia tau sia il locus coeruleus e che si diffonda poi ad altri nuclei del tronco cerebrale e alla corteccia entorinale, forse per trasmissione diretta cellula-cellula (prion-like).

Braak e Del Tredici propongono, quindi, che la deposizione Tau sottocorticale sia il punto di partenza della cascata patofisiologica della MA, a partire già dalla prima decade di vita (Kaufman, Del Tredici, Thomas, Braak, & Diamond, 2018).

La capacità di Tau di indurre neurodegenerazione è dimostrata dal fatto che, nella FTD, si possono identificare mutazioni nel gene codificante per Tau e grovigli neurofibrillari, in assenza di placche amiloidi. Non è comunque da escludere che Tau e Aβ agiscano in parallelo nella patogenesi della MA, incrementando reciprocamente i propri effetti deleteri (S. A. Small & Duff, 2008), o che siano addirittura effetti di un meccanismo eziopatogenetico a monte non ancora identificato (Hyman et al., 2012).

Indipendentemente da quale sia l’elemento patogenetico primario, è stato progressivamente riconosciuto, nel corso degli anni, il ruolo dello stress ossidativo nella

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29 patogenesi della MA. Nonostante l’invecchiamento rappresenti un fattore che di per sé aumenta sia la predisposizione che la vulnerabilità allo stress ossidativo, è stato osservato che pazienti affetti da MA mostrano livelli cerebrali di ossidazione nettamente maggiori rispetto alla popolazione anziana sana. È stato dimostrato che l'accumulo anormale di

β-amiloide è in grado di promuovere la formazione di ROS attraverso un meccanismo che implica l'attivazione dei recettori NMDA e, a sua volta, lo stress ossidativo può aumentare la produzione e l'aggregazione di amiloide e facilitare la fosforilazione e la polimerizzazione della proteina tau formando un circolo vizioso che promuove l'iniziazione e la progressione della MA. Potrebbe essere quindi centrale il ruolo che lo stress ossidativo riveste nelle fasi iniziali della malattia, anche se per adesso una terapia antiossidante ha tuttavia dimostrato risultati deludenti (Padurariu et al., 2013).

1.1.6 I biomarcatori

Un biomarcatore è un parametro fisiologico, biochimico o anatomico che può essere obiettivamente misurato come indicatore di normali processi biologici, processi patologici o di risposta a interventi terapeutici.

La malattia di Alzheimer è una malattia che progredisce lentamente e in cui le anomalie patofisiologiche, rilevabili in vivo da biomarcatori, precedono di anni o decenni i sintomi clinici evidenti (Jack, Holtzman, & Holtzman, 2013). Per tale motivo biomarcatori di MA in fase precoce vengono utilizzati per formulare la diagnosi secondo i criteri diagnostici internazionali più recenti e per permettere un intervento terapeutico nella fase prodromica della malattia.

Attualmente cinque biomarcatori di MA sono stati sufficientemente validati per essere utilizzati negli studi clinici e nei moderni criteri diagnostici (G. M. McKhann et al., 2011);(Jack, Holtzman, et al., 2013). Due di questi sono proteine del liquido cerebrospinale (CSF) e tre sono misure di imaging cerebrale. Vengono distinti in due gruppi:

-Misure di deposito di Aβ a livello cerebrale: si tratta delle quantità di Aβ42 a livello del

liquido cerebrospinale (CSF) e di imaging di PET amiloide.

-Misure di neurodegenerazione, in cui la neurodegenerazione è definita come perdita progressiva di neuroni o dei loro processi (assoni e dendriti) con una compromissione

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della loro funzione. Vi rientrano livelli CSF aumentati di Tau totale (t-Tau) e fosforilata (p-Tau), ipometabolismo alla 18FDG-PET e atrofia rilevabile alla MRI (Jack, Knopman, et al., 2013).

I biomarcatori rappresentano un mezzo utile da un punto di vista sia diagnostico che prognostico, in quanto il loro utilizzo permette di migliorare l’accuratezza diagnostica, monitorare la progressione della malattia e la responsività al trattamento (O’Bryant et al., 2017).

Biomarcatori di neuroimaging

Tramite tecniche di neuroimaging strutturale e funzionale si possono identificare in vivo alterazioni cerebrali associate alla neurodegenerazione ed al declino cognitivo. Queste metodiche includono RM strutturale, 18FDG-PET e PET con tracciante per l’amiloide (Giacomelli, Daniele, & Martini, 2017a).

Per quanto riguarda la RM strutturale, permette di rilevare aspetti macroscopici morfologici tipici di MA, come l’atrofia del lobo temporale mediale, presente in circa il 71-96% dei pazienti, che correla con il grado di severità della malattia. Frequentemente si ritrova anche in soggetti con MCI (59-78%), meno frequentemente in soggetti sottoposti al normale invecchiamento (29%). La RM si è dimostrata utile anche per distinguere i pazienti con MA da quelli con demenza non-MA, ad esempio su base vascolare, o frontotemporale ed altre demenze su base non specificata; combinando risultati del MMSE ed i valori di atrofia del MTL, si raggiunge una sensibilità e specificità nella diagnosi superiore all'85%.

La valutazione di altre strutture anatomiche o combinazioni di più strutture possono dimostrarsi più sensibili nella rilevazione di forme precoci di MA. Per esempio, il volume della corteccia entorinale identifica la MA prodromica con maggior precisione rispetto al volume dell'ippocampo. Altre possibili combinazioni da valutare sono i volumi del MTL e del lobo temporale laterale od il volume della corteccia cingolata anteriore (Dubois et al., 2007). Altre regioni frequentemente interessate includono il precuneo e la corteccia cingolata posteriore (Kehoe, McNulty, Mullins, & Bokde, 2014).

Da ricordare però che la localizzazione dell’atrofia può variare nelle forme atipiche di malattia (Jack et al., 2016). Per questo, considerata singolarmente, la RM non è un

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indicatore specifico per la MA, ma piuttosto di un danno neuronale generico (Jack et al., 2018).

La 18FDG-PET cerebrale misura la captazione di glucosio da parte dei neuroni e delle cellule gliali, la quale risulterà sensibilmente ridotta in caso di disfunzione sinaptica. Una riduzione del metabolismo del glucosio osservato nelle regioni parietali temporali bilaterali e nel cingolo posteriore è il criterio diagnostico più comunemente descritto per MA (Dubois et al., 2007). Questo esame si è dimostrato capace di rilevare con una buona sensibilità le alterazioni precoci della MA (Anchisi et al., 2005);(Drzezga et al., 2003), compresa la fase asintomatica a rischio di MA (Reiman et al., 2004) e di seguirne progressivamente l’evoluzione (Johnson, Fox, Sperling, & Klunk, 2012);(Mosconi et al., 2009). Una riduzione del metabolismo a localizzazione temporo-parietale può però essere osservata anche in condizioni diverse dalla MA, ad esempio nella degenerazione cortico-basale (DCB), nell’atrofia primaria progressiva (Josephs et al., 2010) e nei disordini cerebrovascolari (Wirth et al., 2013). Sebbene la 18FDG-PET sia dotata di alta sensibilità e specificità nella distinzione tra pazienti affetti da MA e controlli sani (Herholz et al., 2002), la distribuzione delle aree di ipometabolismo potrà variare in relazione ai diversi fenotipi appartenenti allo spettro della MA stessa (Lehmann et al., 2013);(Bohnen, Djang, Herholz, Anzai, & Minoshima, 2012).

Per quanto riguarda l’utilizzo della PET amiloide, tutti i pazienti con MA hanno un aumentato carico di amiloide cerebrale. Pertanto, il continuo sviluppo di strumenti di imaging per l'individuazione e la quantificazione della deposizione di amiloide cerebrale è di particolare importanza per la conferma o l'esclusione di MA, la distinzione della MA da altre demenze e la sua diagnosi precoce.

Il primo tracciante per l'amiloide fu sviluppato all'Università di Pittsburgh e gli è stato dato il nome di Pittsburgh composto B (11C-PiB). Si è scoperto che l'11C-PiB si lega all'amiloide nelle classiche placche (cioè neuritiche) della MA. Manca però di specificità, poiché si lega anche alle placche amiloidi diffuse, non specifiche per MA, che possono essere ritrovate in un numero consistente di anziani sani. Inoltre, il PiB si lega all'amiloide cerebrovascolare nell'angiopatia amiloide cerebrale (CAA), principalmente nella corteccia parietale posteriore e occipitale. Pertanto, il PiB non può essere considerato un marker specifico dell'amiloidosi della MA, ma piuttosto dell'amiloidosi cerebrale più in generale (Perani et al., 2014). L’amiloidosi cerebrale peraltro è una condizione

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strettamente legata all’età, per cui è frequente ritrovare depositi di amiloide anche in soggetti cognitivamente sani; secondo una meta-analisi infatti, circa il 35% dei soggetti sani oltre i 60 anni sono positivi ad uno scan con PET amiloide. Sono stati sviluppati poi altri traccianti, come Florbetapir, Florbetaben o Flutemetamol che si legano specificatamente alla forma fibrillare di A.

Recentemente sono stati realizzati anche ligandi per gli aggregati fibrillari di proteina Tau, anche se la loro utilità nella diagnosi deve ancora essere confermata (Scheltens et al., 2016).

Sia la 18FDG-PET che la RM strutturale sono considerati biomarcatori topografici, in quanto capaci di individuare la localizzazione e la distribuzione cerebrale delle alterazioni neuropatologiche, partendo dal presupposto che queste portino a cambiamenti metabolici o a perdita neuronale nelle regioni connesse. Si modificano in maniera dinamica e seguono il decorso della malattia, correlando con l’insorgenza dei sintomi cognitivi (Jack et al., 2009) e marcandone la severità clinica (Jack et al., 2010);(Bateman et al., 2012) Perciò il loro ruolo fondamentale non è tanto la diagnosi di MA, data la loro bassa specificità, quanto la determinazione dello stadio e della progressione della patologia (Dubois et al., 2014). La PET-amiloide rappresenta invece un biomarcatore fisiopatologico poiché è un indicatore in vivo chiaramente correlato con il substrato neuropatologico della MA (Dubois et al., 2014). I biomarcatori fisiopatologici, a differenza di quelli topografici, non mostrano alcuna rilevante associazione né con la severità né con lo stadio della malattia (Jack et al., 2008), ma sono dotati, in genere, di una specificità maggiore.

Biomarcatori liquorali

Assieme alla PET amiloide, sono i biomarcatori più specifici per determinare che un individuo sia affetto da MA anche diversi anni prima dell'inizio clinico della malattia. Infatti, cambiamenti a livello cerebrale, come danni neuronali, gliali o sinaptici, si riflettono in cambiamenti a livello del CSF (Blennow, Hampel, & Zetterberg, 2014);(Mattsson et al., 2009). Permettono inoltre di aumentare l’accuratezza diagnostica nei casi clinicamente incerti. I marcatori patofisiologici del CSF per la MA includono

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direttamente con l'intensità della degenerazione neuronale e P-tau, che si ritiene essere un diretto marcatore della presenza dei grovigli neurofibrillari.

E’ stato osservato che i pazienti affetti da MA mostrano un profilo liquorale tipico, comprendente una riduzione di A42 e un aumento di t-Tau e di p-Tau. Questi marcatori, presi singolarmente, possiedono una scarsa accuratezza diagnostica (van Rossum, Vos, Handels, & Visser, 2010), mentre in combinazione sono altamente predittivi della presenza della MA. A conferma di ciò alcuni studi hanno rilevato una combinazione di alti livelli di amiloide cerebrale e bassi livelli di A42 liquorale in soggetti cognitivamente

sani.

Dei marcatori CSF, le concentrazioni di p-Tau si sono dimostrate le più accurate nel distinguere le forme di demenza MA-correlate da quelle non-MA.

Una marcata riduzione del A42 liquorale e del rapporto Aβ42/Aβ40 è stato costantemente

notato nei pazienti a diversi stadi di MA. Tuttavia, una riduzione isolata di Aβ42 non è

sufficientemente specifica per diagnosticare la MA, visti i risultati simili in alcuni pazienti con altri tipi di demenze in particolar modo nella DLB, ed anche nella demenza vascolare. Inoltre, le concentrazioni di Aβ42 sono particolarmente sensibili ad errori preanalitici ed

analitici.

Studi dimostano che alti livelli di t-Tau e p-Tau nel liquor combinati con una diminuzione in Aβ42 e del rapporto tra Aβ42 e Aβ40 liquorali sono presenti già 10-15 anni prima dei

primi sintomi di demenza.

La performance diagnostica dei biomarcatori liquorali diminuisce con l'età, così come diminuisce l'associazione tra placche neuritiche e demenza. Questa diminuzione nelle prestazioni potrebbe influire sulla capacità di distinguere la MA dal normale invecchiamento in soggetti anziani, nei quali si rilevano spesso alti livelli di amiloide cerebrale (Dubois et al., 2014).

L’aumento liquorale di t-Tau nella MA è espressione dell’intensità della degenerazione e della perdita neuronale. In particolare, poiché t-Tau è associata principalmente ai microtubuli degli assoni corticali, il suo valore è tanto più elevato quanto maggiore è il danno a carico di tali neuroni (Blennow, Hampel, Weiner, & Zetterberg, 2010). Inoltre, la sua concentrazione sembra essere direttamente proporzionale alla velocità con cui si realizza la perdita neuronale, risultando particolarmente utile nell’identificazione di processi neurodegenerativi a rapida progressione, come ad esempio la malattia di

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