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Goes (scritto in greco: gamma-omicron-eta-sigma), goeteuo (scritto in greco: gamma-omicron-eta-tau-epsilon-upsilon-omega) e goeteia (scritto in greco: gamma-omicron-eta-tau-epsilon-iota-alfa) in Platone

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea

Γόης, γοητεύω e γοητεία in Platone

CANDIDATO

RELATORE

Marta Antola

Dott.ssa Maria Isabella Bertagna

CORRELATORE

Dott. Dino De Sanctis

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Indice

Introduzione p. 3

Per una storia di *γοϝέω prima di Platone p. 5

• Γοάω in Omero p. 5

• Γόης e i suoi derivati prima di Platone p. 9

1. Eschilo p. 9 2. Erodoto p. 15 3. Gorgia p. 23 4. Euripide p. 31 a) Ippolito p. 31 b) Baccanti p. 41 • Conclusioni p. 51

Γόης e i suoi derivati in Platone p. 54

A. Retorica p. 57 1. Menesseno p. 58 2. Gorgia p. 62 3. Leggi X p. 67 4. Leggi XI p. 71 5. Ippia Minore p. 73 6. Repubblica II p. 77 7. Eutidemo p. 81 8. Repubblica X p. 85 9. Sofista p. 88 10. Politico p. 92 11. Repubblica IX p. 96 B. Seduzione erotica p. 101 1. Repubblica III p. 101 2. Fedone p. 104 C. Magia p. 107 1. Leggi I p. 107 2. Menone p. 109

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Platone e il γόης positivo p. 113 D. Ambito Magico-Religioso p. 117 Simposio p. 117 Conclusioni p. 129 Appendice p. 132 Bibliografia p. 133 Ringraziamenti p. 175

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Introduzione

In questo lavoro mi propongo di esaminare la natura del γόης, figura ambigua, oggetto di varie interpretazioni da parte della critica, nel tentativo di offrire un quadro di insieme sugli attributi che la caratterizzano. Per far ciò, analizzerò i testi in cui tale sostantivo e i suoi derivati compaiono, in modo da vedere come sono stati impiegati, con quali valori e in quali contesti.1 Non si tratta, tuttavia, di un lavoro semplice, poiché la figura stessa, nell’antichità, è sfuggente e non è del tutto chiaro quale ruolo rivestisse il γόης rispetto, per esempio, al µάγος, considerando che i due termini sono spesso usati come sinonimi in età tarda. Incomincerò dunque dalla parola da cui deriva γόης, γοάω, per spiegare come tale termine sia nato e quale valore potesse avere, almeno in origine. Un’ulteriore complicazione è fornita dal fatto che i lemmi oggetto di studio sono sovente riconducibili a campi diversi dell’esperienza umana (soprattutto da Gorgia in poi): magia, religione, seduzione, retorica… quindi è necessario procedere con cautela e, in base al contesto, stabilire quale valore γόης e i suoi derivati abbiano di volta in volta.

Come premesso, si inizierà con un breve excursus su γοάω e saranno presi in considerazione due passi dall’Odissea per esemplificare il significato che tale verbo aveva in un caso e nell’altro. Da tale analisi si arriverà infine al termine γόης e ai suoi primi impieghi. Si abbandonerà dunque γοάω e si rifletterà unicamente su γόης, γοητεύω e γοητεία.

La ricerca seguirà in principio un ordine cronologico. Nel primo capitolo verranno esaminati passi dalle Coefore di Eschilo, dalle Storie di Erodoto, dall’Encomio di Elena di Gorgia e dall’Ippolito e dalle Baccanti di Euripide.

1 Trovo riduttivo l’atteggiamento di alcuni studiosi che, solo perché le attestazioni a noi pervenute

sono poche e, sovente, poco chiare, preferiscono studiare unicamente le pratiche e i loro impieghi (cf. Collins 2008: 61). Costoro scelgono di non soffermarsi a riflettere sul fatto che doveva esservi un motivo se nell’Antica Grecia esistevano differenti termini per definire quello che oggi chiameremmo “stregone.” Con il passare del tempo i vari lemmi sono divenuti sinonimi, tuttavia ognuno aveva in origine un suo valore proprio, che lo differenziava da un altro. Il nostro compito è cercare di fare più chiarezza possibile su quale fosse tale valore per il termine γόης e i suoi derivati, e vedere poi come questi siano stati impiegati nel tempo.

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Nel secondo capitolo, adottando un ordine tematico, si analizzerà l’impiego degli stessi termini in Platone, autore che si è servito di essi in undici dialoghi: Eutidemo, Fedone, Gorgia, Ippia Minore, Leggi, Menesseno, Menone, Politico, Repubblica, Sofista e Simposio. In tale sede si affronterà lo studio di tutti i dialoghi eccetto il Simposio, su cui ci si concentrerà nell’ultimo capitolo.

Nel terzo capitolo, infine, cercheremo di comprendere, anche grazie all’analisi del Simposio, cosa Platone abbia innovato nell’orizzonte semantico dei termini oggetto di studio.

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Per una storia di *γοϝέω

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prima di Platone

• Γοάω in Omero

Il verbo γοάω significa letteralmente “emettere delle grida di dolore, dei lamenti”3 e ricorre soprattutto in situazioni associate al lutto.

Il termine è già attestato nell’Iliade e nell’Odissea, dove compare in tredici passaggi.4

In queste occorrenze esso può essere interpretato o come un lamento “improvviso e improvvisato”, ispirato dal dolore dell’occasione, o come un lamento cantato dai parenti e/o dagli amici intimi del defunto.5

Nel primo caso, solitamente,6 un singolo lamenta il proprio destino, passato o

futuro; in Odissea VIII, 92, per esempio, è detto che, ascoltando il canto di Demodoco e la sua rievocazione delle gesta degli eroi a Troia:

Ὀδυσεὺς κατὰ κρᾶτα καλυψάµενος γοάασκεν.7

Nel secondo caso, invece, la situazione evocata richiama proprio l’idea del lamento funebre in quanto diritto dei morti; in Odissea XXIV, 189-190, infatti, Anfimedonte dice ad Agamennone:

οἵ κ' ἀπονίψαντες µέλανα βρότον ἐξ ὠτειλέων κατθέµενοι γοάοιεν· ὃ γὰρ γέρας ἐστὶ θανόντων.8

2 Frisk 1972: 317-318. 3 Chantraine 1968: 231.

4 Si vedano in proposito: Il. VI, 500; Il XIV, 502; Il. XVI, 857; Il. XVIII, 315; Il. XXI,124; Il.

XXII, 353; Il. XXII, 476; Il. XXIV, 664; Od. VIII, 92; Od. IX, 467; Od. X, 567; Od. XIX, 119;

Od. XXIV, 190.

5 Cf. Alexiou 2002: 13.

6 In Od. X, 567, infatti, sono i compagni di Odisseo che alzano lamenti per la loro triste sorte,

costretti ancora una volta a fare vela verso lidi lontani dalla patria.

7 “Odisseo si nascondeva il capo e alzava lamenti.” Per il testo greco si veda von der Mühll 1962. 8 “Essi che, deterso il nero sangue dalle ferite, / dovrebbero porre i corpi sui feretri ed eseguire il

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Da un lato, pertanto, un singolo innalza lamenti per le disgrazie che gli sono capitate o che gli capiteranno;9 dall’altro, una collettività ristretta è chiamata a lamentarne il decesso:10 solamente i familiari del defunto, i suoi amici più intimi, potevano pronunciare il γόος.11

È da tenere presente che il lamento era una parte fondamentale e integrale del rituale funerario, oltre che un onore dovuto ai morti (come è già emerso dalle parole di Anfimedonte). Senza il lamento, infatti, il defunto non poteva raggiungere la sua “stabile condizione”12 nel mondo dei morti, ma era condannato a rimanere in una sorta di limbo.

Pertanto, se è possibile ipotizzare con Alexiou13 che in origine i lamenti probabilmente consistevano in “inarticulate wailing” sul corpo del morto, in particolare qualora si appoggi la proposta di Burkert,14 secondo il quale la radice

indoeuropea da cui deriva γοάω15 sarebbe onomatopeica e indicherebbe appunto il

dolore, è altrettanto sostenibile che, successivamente, il γόος sia diventato il pianto delle donne imparentate con il defunto, esternato in forma parlata. Reiner16 in precedenza aveva offerto un parere simile, sostenendo tuttavia che la forma più antica del lamento funebre greco doveva essere caratterizzata da un “λόγος ritmico”, con tono strascicato e dizione alta, fondato su ripetizioni, simmetrie e parallelismi e su periodiche incidenze dei ritornelli emotivi. In ambedue i casi, comunque, si può percepire il bisogno di parlare al defunto con un linguaggio rituale per concedergli infine la pace (e scongiurare la sua ira).

Proprio in tale atteggiamento è possibile trovare il collegamento fra la sfera del lamento e la figura del γόης; lo stesso Burkert17 ha sostenuto che questi apparisse ai funerali per condurre il morto al riposo eterno. Vermeule18 ha accennato poi al fatto che la figura del γόης potesse essere nata dall’ἔξαρχος γόοιο, il cui compito era temporaneamente “resuscitare” il morto e parlare con lui. Allo studioso

9 Si vedano in particolare, oltre al succitato Od. VIII, 92: Il. XVI, 857; Od. X, 567; Od. XIX, 119. 10 Al riguardo si veda, oltre a Od. XXIV, 190: Il. VI, 500; Il XIV, 502; Il. XVIII, 315; Il. XXI,124;

Il. XXII, 353; Il. XXII, 476 Il. XXIV, 664; Od. IX, 467.

11 A differenza del θρῆνος, che era pronunciato da donne straniere (cf. Alexiou 2002: 12). 12 De Martino 2000: 195.

13 Cf. Alexiou 2002: 102-103. 14 Cf. Burkert 1962: 44. 15 Cf. Spatafora 1997.

16 Reiner 1938 cit. ap. De Martino 2000: 189-191; cf. Reiner 1940. 17 Burkert 1962: 44.

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succitato si sono collegati sia Collins,19 vedendo nel γόης uno specialista in un tipo di lamentazione per il morto, chiamata γόος, sia, prima di lui, Dickie,20 ponendo l’accento sul legame fra i corradicali γόης e γόος.

Di cosa dunque sarebbe capace questo γόης? La sua figura, almeno in origine, sembrerebbe avere un rapporto speciale con la sfera dei morti e le sue competenze parrebbero essere confinate alla sfera della ψυχαγωγία;21 egli apparirebbe, infatti, capace di comunicare con i defunti per svariate ragioni. Johnson22 distingue la capacità di placare i morti per scongiurare la loro ira da quelle di risvegliare i morti per nuocere a una persona ancora viva e di consigliare il modo in cui eseguire i rituali, di modo che coloro che li compiano possano essere felici una volta morti. Il γόης dunque parrebbe essere una sorta di “stregone tuttofare”, capace, tramite la parola, di comunicare efficacemente con i defunti. Che pronunciasse tali formule in tono cantilenante o che sia stato così chiamato perché era richiesto in situazioni in cui veniva eseguito un γόος, è comunque indubbio che fosse una figura di un’importanza non indifferente.

Non deve neppure stupire l’aura di timore e mistero che circondava simili individui: essi, infatti, avevano un grande potere e potevano giovare o nuocere in egual misura. Anche per questo erano sovente rappresentati come stranieri23 che viaggiavano molto e offrivano i loro servigi a chi li richiedeva, nonostante si sappia che ve ne fossero anche di locali:24 era più rassicurante pensare che persone capaci di controllare i morti non vivessero all’interno di una comunità e apparissero solo di rado, se chiamati. È altrettanto comprensibile come l’abilità di tali individui possa in un secondo tempo essere stata associata non più unicamente all’ambito in cui la loro pratica è nata, ma anche ad altri, quali per esempio la capacità di sedurre attraverso la parola o la capacità di persuadere. In qualsiasi

19 Collins 2008: 59. 20 Dickie 2001: 29 n. 45.

21 Cf. Carastro 2006: 56. Tale associazione, come vedremo in seguito, ha anche condotto a

collegare la figura del γόης con quella di Hermes, per l’attività di quest’ultimo di guidare nell’Ade le anime dei morti.

22 Johnson 1999: 14.

23 Si vedano in proposito, per esempio, i passi tratti dalle Storie di Erodoto. 24 Cf. Johnson 1999: 19.

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occorrenza, rimane comunque sempre centrale il potere che la parola esercitava quando era usata da persone che sapevano servirsene con efficacia.

Prima di affrontare l’analisi dei passi oggetto di studio, vorrei soffermarmi ancora un poco sul rapporto che intercorre fra γοάω e γόης, γοητεύω e γοητεία. Già nell’introduzione ho premesso che γόης deriva da γοάω, verbo che, si è visto, esprime l’esternazione del dolore del singolo. Il derivato γόης25 rieccheggia il significato originario del verbo nell’azione che l’individuo doveva compiere, ma tale azione non è già più associata con il lamento in sé stesso, bensì con il potere che tale lamento aveva; ecco dunque nascere “metaforicamente” lo “stregone” e, in un secondo tempo, il “ciarlatano”. Gli altri termini che derivano da tale sostantivo, γοητεύω26 e γοητεία,27 ricalcano il suo valore e sono sovente impiegati

con una connotazione negativa.

25 Termine greco costituito appunto dalla radice del verbo e dall’aggiunta di un suffisso -ητ-, con

-η- di origine poco chiara secondo Chantraine 1933: 267. Buck and Petersen 1949: 451, invece, ritengono che all’originario suffisso -τ- si sia combinata la vocale tematica, risultando nel nesso -ετ-; -ητ-, dunque, non sarebbe altro che l’allungamento della vocale tematica, riscontrato prima in nomi d’agente e poi in derivati secondari denotanti persone e, successivamente, cose.

26 Formato dalla radice nominale (cf. Veitch 1871) terminante per consonante e dall’aggiunta del

suffisso -ηϝϳω > -ειω > -ευω per analogia (cf. Wright 1912: 299).

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• Γόης e i suoi derivati prima di Platone

1. Eschilo

Nelle Coefore di Eschilo troviamo la prima attestazione28 - a noi pervenuta - del

sostantivo γόης. Il termine è pronunciato dal coro che, come vedremo, ha in questa tragedia un’importanza fondamentale.29

L’opera inizia e al centro della scena torreggia la tomba di Agamennone,30 scelta registica tutt’altro che casuale. Il primo personaggio a entrare in scena, infatti, Oreste, ritornato infine a casa con l’amico Pilade e addolorato per non aver potuto piangere il padre al momento della morte, offre un ricciolo votivo appoggiandolo proprio sulla tomba, per poi nascondersi alla vista di un gruppo di donne - fra le quali è presente anche sua sorella, Elettra - che si avvicina.

Il loro arrivo è presto spiegato: sono venute a offrire libagioni sulla tomba perché la regina non le ha mai fatte prima. La tragedia quindi si apre con una situazione assai problematica: un re è stato sepolto senza le cerimonie a lui dovute, senza alcun lamento funebre!31 Non è necessario rilevare nuovamente l’importanza che tali riti rivestivano affinché il defunto potesse riposare in pace nell’oltretomba; ciò è però da tenere presente per lo sviluppo dell’azione.

Clitennestra non ha permesso di compiere i riti alla morte di Agamennone, ritenendo sufficiente menomare il suo cadavere32 per impedire che venisse in seguito a tormentarla. Tale decisione si è rivelata tuttavia inefficace e per questo Elettra e le Coefore devono portare libagioni: per placare l’“ombra” infuriata.33 All’inizio della tragedia, pertanto, il disordine regna sovrano: gli assassini del re governano, l’erede legittimo è appena tornato da un lungo esilio e la figlia di

28 La nostra analisi non affronterà, se non con brevi accenni a latere, i frammenti in cui γόης e

derivati compaiono, dal momento che si tratta di passi troppo lacunosi per poter fare affermazioni certe.

29 Non per nulla le donne che lo compongono danno il titolo all’opera.

30 Dal v. 653 la tomba sarà sostituita dal palazzo degli Atridi, ma i continui riferimenti a essa

anche nel prosieguo della tragedia implicano che essa continui a rivestire un ruolo fondamentale (cf. Di Benedetto 1995: 150).

31 Cf. Alexiou 2002: 4.

32 Si riteneva, infatti, che, una volta amputategli le braccia (da cui il nome µασχαλισµός), il morto

non potesse “ritornare” e perseguitare coloro che lo avevano ucciso (cf. Johnson 1999: 16).

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Agamennone vive in una condizione che rasenta la schiavitù. Il riconoscimento di Oreste, però, infonde speranza alla sorella e al coro: finalmente i colpevoli pagheranno.

I personaggi si accingono quindi a pronunciare il κοµµός (vv. 306 ss.), il lamento funebre, sulla tomba del defunto. Come ha notato Kitto,34 il lamento è preminente nella prima metà dell’opera e ciò, nuovamente, non è casuale; esso, infatti, è “in funzione dell’atto da eseguirsi.”35

È un elemento necessario per il prosieguo dell’azione, per “facilitare” al morto “il raggiungimento della sua dimora definitiva e per tramutarlo in alleato dei vivi:”36 solamente così Agamennone riotterrà il suo potere e potrà aiutare i suoi eredi. Per questo il lamento è molto appassionato:37 per garantire il successo di tale impresa, cosicché coloro che lo innalzano possano “farsi sentire” da Agamennone,38

implorando il suo aiuto, pagandogli gli onori dovuti e dimostrando la loro lealtà. È il coro stesso a rivelare tale valenza rivestita dal lamento a uno scoraggiato Oreste (vv. 327-330):

ὀτοτύζεται δ' ὁ θνῄσκων, ἀναφαίνεται δ' ὁ βλάπτων, πατέρων δὲ καὶ τεκόντων

γόος ἔνδικος µατεύει [...]39

Il γόος quindi, “pianto qualificato”,40 stabilendo un contatto con il morto e restituendogli potere, consente di ottenere il suo appoggio nella vendetta41 che presto sarà inscenata: “mourning becomes revenge.”42

34 Kitto 19592: 41. 35 Albini 1989: 98. 36 De Martino 2000: 195. 37 Cf. Alexiou 2002: 8.

38 Letteralmente “making themselves heard by the spirit of Agamemnon” in Kitto 19592 : 45. 39 “Chi muore viene pianto, / chi danneggia si rivela; / lo ricerca il lamento conforme a giustizia /

per padri e genitori.” Ho generalmente utilizzato l’edizione di Sommerstein 2008, in questo caso però preferisco la lezione di West 1990 ad loc., in quanto mantiene la lezione di M che, a mio parere, ha senso e non necessita di emendamento.

40 Citti 1962: 80.

41 Cf. Tucker 1901: XXXVII-XXXVIII.

42 Reinhartd 1949 cit. ap. Conacher 1974: 334. È allettante la proposta di Romilly 1973: 155 di

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Quando dunque sono pronunciate le preghiere affinché - si augura il coro (ai vv. 464-465) - il destino si compia, sono invocati Zeus, garante di giustizia,43 e le divinità infere, fra le quali, oramai, compare anche la figura di Agamennone,44 che, sebbene non sia ritornato dal mondo dei morti come l’ombra di Dario in Persiani 687,45 tuttavia è avvertito come forza partecipante all’azione.

Le invocazioni alle divinità, come rileva Citti, 46 “hanno una funzione

insostituibile ai fini dello svolgimento” dell’azione; tramite esse, infatti, i partecipanti all’azione acquisiscono non solo potenti alleati, ma anche una legittimazione delle gesta che si accingono a compiere. Non bisogna dimenticare che Oreste ed Elettra intendono uccidere la madre che, per quanto abbia assassinato loro padre, rimane pur sempre colei che li ha generati. Ecco perché è necessario invocare l’aiuto di divinità potenti, oltre a quello di chi per primo è stato oltraggiato e deve essere vendicato: Agamennone.

Fino a ora abbiamo assistito a uno “static play”, come afferma, non a torto, Kitto,47 tuttavia i discorsi pronunciati non sono affatto inutili, ma “preparano all’azione.”48

L'opera prosegue, Oreste si presenta alla porta della reggia sotto mentite spoglie, proclamando di portare le ceneri del defunto erede ed è così accolto nel palazzo. È a questo punto che il coro, che in precedenza ha accompagnato i legittimi eredi nell’azione, consigliandoli, esortandoli e pregando per loro, prende nuovamente la parola e pare voler fare qualcosa di più “concreto” per aiutarli (vv. 720-721):

πότε δὴ στοµάτων

δείξοµεν ἰσχὺν ἐπ' Ὀρέστῃ;49

legami con il primo. Tuttavia, non essendo presente il termine a testo, ci limitiamo a segnalare il suggerimento in nota. 43 Cf. Dodds 2000: 46. 44 Cf. Citti 1962: 83. 45 Cf. Graf 2009: 29. 46 Citti 1962: 3. 47 Kitto 19592: 45. 48 Citti 1962: 74.

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E nel terzo stasimo, dopo il lamento di Cilissa, nutrice di Oreste, profondamente addolorata dalla falsa notizia della scomparsa dell’erede di Agamennone, tale volontà si realizza.

Dopo aver pregato Zeus50 - supplicandolo di concedere a Oreste ed Elettra il trionfo nella loro impresa -, gli dei della casa e Apollo, le Coefore invocano anche il figlio di Maia, Hermes, affinché “intervenga con il suo aiuto.”51

Il dio ha un ruolo fondamentale nelle Coefore ed è necessario soffermarsi un momento su di lui prima di proseguire. Egli è invocato da Oreste come salvatore e alleato alla prima riga della tragedia con l’epiteto di χθόνιος e con lo stesso titolo è nuovamente pregato da Elettra (vv. 124 ss.), affinché faccia sentire le preghiere della giovane agli dei inferi e al padre.52 Anche il coro lo invoca con il medesimo

epiteto (vv. 726 ss.), ma, a differenza dei due eredi, al tempo stesso chiede anche a Persuasione ingannevole di scendere in campo al suo fianco. Analogamente, in seguito (vv. 812 ss.), le Coefore lo descrivono come “colui che chiarisce molte cose oscure” (v. 815) e come colui che sa pronunciare parole il cui significato oscuro è difficile da comprendere (vv. 816 ss.).

È dunque un dio dalle molteplici funzioni:53 permette il contatto con i morti (divinità e non), può essere favorevole in combattimento e può assecondare un δόλος. Tali attributi non devono stupire: Hermes è infatti conosciuto sia per il suo ruolo di guida dei viaggiatori - e tale carica include anche condurre le ombre dei morti nell’aldilà54 e la capacità di dialogare con loro -, sia come artefice e

50 Egli è invocato prima da Oreste ed Elettra, ora anche dal coro in quanto, come abbiamo già

accennato in precedenza, è il dio garante della giustizia e per questo colui che deve accompagnare gli eroi nella vendetta, considerata azione giusta in quanto richiesta da Apollo e dalle convenzioni sociali.

51 Untersteiner 2002: 419.

52 Ricordiamo che Agamennone in questi versi, qualora anche senta le parole della figlia, non

potrebbe fare nulla perché non ha ancora ricevuto i lamenti rituali che gli spettano di diritto e senza i quali può solamente tormentare la sua assassina in sogno.

53 Cf. Citti 1962: 75.

54 Cf. Conacher 1974: 331; Ogden 2001: 98. Il dio è nominato a proposito di tale incarico anche

nei frammenti della tragedia eschilea Ψυχαγωγοί. Frinico di Bitinia (cf. Bekker 1814: 73,13) così spiega come erano viste tali figure dagli alessandrini e dagli antichi: οἱ µὲν Ἀλεξανδρεῖς τὸν τῶν παίδων ἀνδραποδιστὴν οὕτω καλοῦσιν, οἱ δ' ἀρχαῖοι τοὺς τὰς ‘ψυχὰς’ τῶν τεθνηκότων γοητείαις τισὶν ‘ἄγοντας’. τῆς αὐτῆς ἐννοίας καὶ <τοῦ Αἰσχύλου τὸ δρᾶµα ‘Ψυχαγωγός’·> Una componente “magica” associata alle parole e connessa ai morti, pertanto, era sicuramente presente in altre opere di Eschilo.

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protettore di inganni.55 Il suo compito nella tragedia, pertanto, è quello di aiutare i legittimi eredi da un lato in quanto dio dei morti, dall’altro in quanto dio dell’inganno, di modo che il piano architettato da Oreste56 vada a buon fine. Pertanto, dopo aver implorato l’aiuto di due potenti divinità, garanti l’una di giustizia e l’altra del “power of deception”,57 il coro si accinge a intonare un canto per propiziare la navigazione con queste parole (vv. 819-825):

καὶ τότ' ἤδη ’ς πλόον δωµάτων λυτήριον θῆλυν οὐριοστάταν † ὁµοῦ κρεκτὸν † γοήτων58 νόµον µεθήσοµεν· “πλεῖ τάδ' εὖ· ἐµὸν ἐµὸν κέρδος αὔξεται τόδ', Ἄ- τα δ' ἀποστατεῖ φίλων.”59

Ecco infine che il coro innalza un νόµος γοήτων con l’intenzione di influire favorevolmente sullo svolgersi degli eventi. In esso non vi è alcun riferimento alla sfera dell’inganno, questa, a mio parere, si è infatti conclusa con la preghiera rivolta a Hermes.60 Non si tratta, come ha sostenuto Di Benedetto,61 neanche di “un canto che deve liberare dalla contaminazione dell’omicidio” ancor prima che

55 Cf. Kitto 19592: 52; Sommerstein 2008: 315.

56 La tragicità della vicenda risiederà anche nel fatto che il giovane è destinato a ingannare e a

essere ingannato a sua volta, poiché sarà costretto a pagare il fio delle proprie azioni nonostante queste siano state dettate da un ordine divino.

57 Sommerstein 2008: 315.

58 Il passo è fortemente corrotto, ma la critica al giorno d’oggi tende quasi unanimemente a

conservare γοήτων dei manoscritti (cf. West 1991: 49). Ho mantenuto γοήτων (ΣΜ) invece di γοητῶν (Μa) poiché quest’ultimo non è attestato prima di Clemente Romano (I d.C.). Bothe 1831: 210 l’aveva rifiutato in favore di βοάταν; a suo parere, qui non c’era bisogno di un simile termine, cioè di discorsi e azioni ingannevoli, ma solo di canto accompagnato da musica. Egli non ha compreso che il passo trattato non riguarda discorsi ingannevoli (è comunque da dire che anche se li avesse riguardati sarebbe stato comunque perfettamente in linea con il testo, visto gli attributi di Hermes ricordati poco fa), ma un incantamento in senso proprio, eseguito dagli stessi “stregoni” di cui si è parlato all’inizio del capitolo.

59 “E già allora, come traversata / liberatrice della casa, innalzeremo un canto, / noi donne, per

rendere il vento prospero, / un canto cantato da incantatori a mo’ di accompagnamento: “La navigazione è prospera! / Il mio guadagno aumenta qui / e Ate sta lontana dagli amici”.”

60 Rimane comunque curioso il fatto che il termine γόης compaia così vicino a quello di Hermes,

che, abbiamo ricordato, resta un famoso ψυχοποµπός (cf. Carastro 2006: 56).

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l’omicidio accada, lo dimostra il fatto che il coro è scioccato dallo sviluppo degli eventi, una volta compiuto l’assassinio di Clitennestra ed Egisto. Il coro non sta neppure parlando dell’ὀλολυγµός62 che aveva in precedenza promesso di cantare (vv. 386 ss.): esso non sarà infatti innalzato prima del verso 942, non appena la regina sarà entrata nella reggia per essere uccisa da Oreste. È senza dubbio svanito ogni riferimento al lamento, ma il coro non sta ancora celebrando la felice riuscita dell’impresa, bensì, dopo aver pregato nell’aiuto degli dei, sta intonando lui stesso un canto propiziatore, affinché gli eventi volgano al meglio. Fuor di metafora: “come i maghi sono capaci di dominare i venti,63 così il coro vuole ottenere un vento prospero per mezzo del suo canto.”64

Il termine γόης compare pertanto in un contesto che ricorda quello in cui la parola è nata, tuttavia si è “evoluto”: la “parola magica”, infatti, non è più circoscritta all’ambito dei morti, è diventata invece parte del mondo dei vivi65 ed è impiegata

con l’intenzione di influenzare l’azione in favore dei giustizieri. È un incrocio fra “conjuration and charm”66 e la sua forza è tale che, tramite la ripetizione di formule di salvezza e di trionfo, il νόµος γοήτων parrebbe produrre quasi, con l’insistenza verbale, la realtà di cui manca la sicurezza. Se dunque definire le donne del coro “portatrici di vendetta”67 possa essere un po’ azzardato - dopotutto il compito di vendicatore rimane un’esclusiva dell’erede al trono, Oreste -, è però indubbio che le Coefore svolgano un ruolo fondamentale nella vicenda, loro, le “consigliere e complici”68 che tramite la parola, “l’unico mezzo con cui possano incidere sulla realtà che le circonda”,69 si appropriano di essa come incantamento, diventando loro stesse incantatrici per “justice and vengeance”,70 “to set the wind fair.”71

62 Come sostenuto da Untersteiner 2002: 423.

63 Potere attribuito ai γόητες, lo troviamo anche in Empedocle (si veda in proposito 31 B 111 DK). 64 Di Benedetto 1995: 406-407. 65 Cf. Carastro 2006: 58. 66 Entralgo 1970: 22. 67 Severino 1985: 77. 68 Amendola 2006: 33. 69 Amendola 2006: 42. 70 Versnel 1991: 172.

(16)

2. Erodoto

Ritroviamo nuovamente due occorrenze del termine γόης nelle Storie e noteremo presto che esso presenta certi aspetti già conosciuti, altri mai menzionati in precedenza.

Per la prima volta il sostantivo compare nel secondo libro, quando lo storico, nell’excursus sull’Egitto, parla della ricerca delle sorgenti del fiume Nilo. Nel capitolo 32, in particolare, l’autore riporta i racconti che gli avevano riferito degli uomini di Cirene, i quali si erano recati nell’oasi dell’oracolo di Ammone e avevano parlato con Etearco, re degli Ammoni. Questi - raccontavano allo storico - aveva un tempo incontrato i Nasamoni, una popolazione libica.72 Essi gli avevano rivelato che cinque giovani temerari,73 figli di adulti potenti,74 divenuti a loro volta adulti, si erano coraggiosamente addentrati nei deserti della Libia per esplorarli e cercare di scoprire qualcosa di più su di essi. Gli uomini prima attraversarono la zona abitata, poi quella delle fiere e infine s’inoltrarono nel deserto. Dopo avervi trascorso molti giorni, giunsero da ultimo in una pianura in cui crescevano degli alberi e si accinsero a coglierne i frutti. Accade l’inaspettato (a 32, 6 - 33, 1): […] ἐπελθεῖν ἄνδρας µικρούς, µετρίων ἐλάσσονας ἀνδρῶν, λαβόντας δὲ ἄγειν σφέας· φωνῆς δὲ οὔτε τι τῆς ἐκείνων τοὺς Νασαµῶνας γινώσκειν οὔτε τοὺς ἄγοντας τῶν Νασαµώνων. Ἄγειν τε δὴ αὐτοὺς δι' ἑλέων µεγίστων, καὶ διεξελθόντας ταῦτα ἀπικέσθαι ἐς πόλιν ἐν τῇ πάντας εἶναι τοῖσι ἄγουσι τὸ µέγαθος ἴσους, χρῶµα δὲ µέλανας. Παρὰ δὲ τὴν πόλιν ῥέειν ποταµὸν µέγαν,75

72 A IV, 172, 1-3 i Nasamoni sono descritti come un popolo che, fra le altre cose, è capace di

divinare dormendo sui sepolcri degli antenati dopo aver pregato, utilizzando come vaticinio la visione avuta in sogno. Non appaiono quindi estranei a una qualche esperienza del soprannaturale.

73 A latere ci domandiamo se nell’ὑβριστής non si trovi forse una spia delle disavventure che

attendono i giovani.

74Asheri 2007: 261 propone che aggettivo “potenti” implichi che si tratti di capi di “loose

agglomerations of tribes.” Qualsiasi cosa significhi, a me preme sottolineare comunque che, con tale qualifica, è chiaro che fossero uomini rispettati dai loro conterranei e ciò implica che, almeno per i conterranei stessi, anche le parole dei loro figli o, in questo caso, i loro resoconti, dovevano essere ritenuti affidabili.

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ῥέειν δὲ ἀπὸ ἑσπέρης αὐτὸν πρὸς ἥλιον ἀνατέλλοντα, φαίνεσθαι δὲ ἐν αὐτῷ κροκοδείλους. Ὁ µὲν δὴ τοῦ Ἀµµωνίου Ἐτεάρχου λόγος ἐς τοσοῦτό µοι δεδηλώσθω, πλὴν ὅτι ἀπονοστῆσαί τε ἔφασκε τοὺς Νασαµῶνας, ὡς οἱ Κυρηναῖοι ἔλεγον, καὶ ἐς τοὺς οὗτοι ἀπίκοντο ἀνθρώπους, γόητας εἶναι ἅπαντας.76

Dal racconto dei Cirenei pertanto apprendiamo che: i Nasamoni si sono imbattuti in uomini di bassa statura, inferiore a quella del normale; sono stati da essi catturati; non capivano la lingua di coloro che li avevano catturati e a loro volta coloro che li avevano catturati non capivano la loro lingua; questi individui vivevano in una città vicina a un fiume popolato da coccodrilli e gli abitanti condividevano tutti la stessa fisionomia: bassa statura e pelle nera; al loro ritorno dicevano che gli uomini presso i quali erano arrivati erano tutti stregoni.

Non sono fornite alcune spiegazioni per tale appellativo ed Erodoto non commenta oltre. Questi misteriosi piccoli uomini compaiono solamente in un altro passo nelle Storie (IV, 43, 5), dove sono descritti come “uomini di bassa statura, che usavano abiti fatti di foglie di palma” e che “fuggivano sulle montagne abbandonando i loro villaggi” all’approdo di una nave sulle loro coste. Non parrebbero essere, per lo meno da quest’ultima descrizione, individui offensivi. Prima di proseguire con una possibile interpretazione del perché dunque i Nasamoni abbiano attribuito un simile titolo a tale popolazione, vediamo l’altro passo in cui compare il termine γόης.

Ci troviamo nel quarto libro. Dopo l’excursus sulla Scizia, Erodoto riprende la narrazione ed elenca gli alleati ai quali gli Sciti avevano mandato messaggeri una volta che si resero conto della loro incapacità di vincere, da soli, l’esercito di Dario. Durante la rassegna, al capitolo 105, 1-2, lo storico parla così dei Neuri:

76 “Sopraggiunsero uomini di bassa statura, inferiore a quella del normale: costoro, avendoli

catturati, li portarono via. I Nasamoni non capivano per nulla la lingua di quelli, né quelli che li conducevano via la lingua dei Nasamoni. Li condussero attraverso immense paludi e, superate le paludi, giunsero a una città nella quale tutti gli uomini avevano la stessa altezza di coloro che li conducevano e la pelle nera. Vicino alla città scorreva un grande fiume: scorreva da occidente verso oriente e in esso si vedevano dei coccodrilli. Fermiamoci a questo punto con il racconto dell’Ammonio Etearco: aggiungiamo soltanto che egli diceva che i Nasamoni, come raccontavano i Cirenei, erano tornati nel loro paese e che gli uomini presso i quali erano arrivati erano tutti stregoni.” Si veda Legrand 19603 per il testo greco.

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Νευροὶ δὲ νόµοισι µὲν χρέωνται Σκυθικοῖσι. Γενεῇ δὲ µιῇ πρότερόν σφεας τῆς Δαρείου στρατηλασίης κατέλαβε ἐκλιπεῖν τὴν χώρην πᾶσαν ὑπὸ ὀφίων· ὄφιας γάρ σφι πολλοὺς µὲν ἡ χώρη ἀνέφαινε, οἱ δὲ πλέονες ἄνωθέν σφι ἐκ τῶν ἐρήµων ἐπέπεσον, ἐς ὃ πιεζόµενοι οἴκησαν µετὰ Βουδίνων τὴν ἑωυτῶν ἐκλιπόντες. Κινδυνεύουσι δὲ οἱ ἄνθρωποι οὗτοι γόητες εἶναι. Λέγονται γὰρ ὑπὸ Σκυθέων καὶ Ἑλλήνων τῶν ἐν τῇ Σκυθικῇ κατοικηµένων ὡς ἔτεος ἑκάστου ἅπαξ τῶν Νευρῶν ἕκαστος λύκος γίνεται ἡµέρας ὀλίγας καὶ αὖτις ὀπίσω ἐς τὠυτὸ κατίσταται· ἐµὲ µέν νυν ταῦτα λέγοντες οὐ πείθουσι, λέγουσι δὲ οὐδὲν ἧσσον, καὶ ὀµνύουσι δὲ λέγοντες.77

Dalla narrazione erodotea raccogliamo dunque i seguenti indizi sui Neuri: hanno gli stessi costumi degli Sciti; hanno lasciato la loro terra per un’invasione di serpenti; sono chiamati stregoni in quanto gli Sciti e i Greci che vivono in Scizia li ritengono capaci di trasformarsi in lupi e di riprendere il loro aspetto umano dopo alcuni giorni; Erodoto non si dimostra convinto da tali dicerie, ma coloro che le pronunciano giurano si tratti della verità.

Il termine γόης compare pertanto due volte in Erodoto e in circostanze diverse; in entrambe i casi, però, gli ἄνθρωποι sono definiti γόητες.

Dickie78 commenta che in Erodoto vi sia “virtually no mention of magic”, nei passi appena citati, tuttavia, solamente nel secondo Erodoto si mostra scettico, nel primo si astiene dal formulare qualsiasi commento.

Quale valore ha dunque il termine γόης nelle Storie? Ripercorriamo i due passaggi e proviamo a fare chiarezza.

77 “I Neuri invece hanno gli stessi costumi degli Sciti. Una generazione prima della spedizione di

Dario capitò loro di dover abbandonare l’intera regione a causa dei serpenti: la loro terra, infatti, già produceva serpenti in gran numero, ma un numero ancora maggiore discese dai deserti del nord, finché i Neuri, tormentati da tale flagello, andarono ad abitare con i Budini, lasciando il proprio paese. È probabile che questi individui siano degli stregoni. In effetti, gli Sciti e i Greci che vivono in Scizia sostengono che una volta all’anno ciascuno dei Neuri diventa un lupo per alcuni giorni e riprende poi di nuovo l’aspetto di prima: per quanto mi riguarda coloro che pronunciano questi discorsi non mi convincono; tuttavia li fanno e per di più giurano di dire la verità.”

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Nel secondo libro Erodoto presenta un racconto di terza mano e, conseguentemente, seguendo l’esempio dettato dall’autore, è necessario procedere con cautela e ritenere che i dettagli possano non essere attendibili. Ciononostante, che non si tratti di una spedizione impossibile all’epoca79 lo dimostra anche il fatto che i piccoli uomini incontrati dai Nasamoni sono una popolazione realmente esistente; si tratta, infatti, dei Pigmei che, peraltro, erano già conosciuti ai tempi di Omero.80 Secondo la testimonianza erodotea allora abitavano più a nord di oggi,81 ma questo poco importa ai fini della nostra ricerca, l’importante è che esistessero e avessero effettivamente la fisionomia descritta nel passo.

Ora, non vi sono aperte dimostrazioni di magia da parte dei Pigmei, gli unici elementi destabilizzanti sono i seguenti: sono più bassi del normale; hanno la pelle di un colore strano, nera; parlano una lingua incomprensibile. Abbiamo solamente tali indizi, oltre al fatto che Erodoto non abbia messo in discussione il racconto.

A mio parere, i Cirenei hanno ritenuto degna di fiducia e hanno riportato a loro volta la notizia perché l’hanno sentita dallo stesso Etearco, il re degli Ammoni, l’oracolo dei quali era quello del dio più caro al loro popolo.82 Se un tale personaggio ritiene affidabili le parole dei Nasamoni, o comunque degne di essere riportate, come possono i Cirenei dubitarne?

Comunque, a prescindere dall’attendibilità o meno dell’interezza del resoconto, si è già notato che i dettagli principali, statura e in generale aspetto fisico della popolazione misteriosa, sono veritieri ed essi bastano per un’accusa di “stregoneria.” Il diverso, infatti, è sempre percepito come sospetto e gli aspetti “strani” di una cultura estranea alla propria vengono, di solito, automaticamente rifiutati.83

Vi è poi un altro fattore da tenere in considerazione: l’incomprensibilità linguistica. Non riuscire a capire quello che uno sconosciuto con caratteristiche fisiche mai viste né conosciute prima stia dicendo, soprattutto qualora parli con un

79 Per uno studio sul viaggio dei Nasamoni si legga How 2007: 197. 80 Si veda in proposito Il. III, 3-7. Cf. Janni 1978.

81 Cf. Asheri 2007: 262; Colonna 1996: 316. 82 Cf. Asheri 2007: 261.

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tono cantilenante84 o compia azioni strane, può facilmente far pensare che costui sia uno stregone.85

Se poi decidiamo di affidarci appieno alla testimonianza dei Nasamoni e riteniamo a prescindere che i Pigmei siano “stregoni”,86 vi sono due ultimi punti da tenere in considerazione prima di passare oltre.

Il primo è che, come abbiamo già accennato all’inizio del capitolo, la magia è sovente prerogativa di stranieri,87 ed è superfluo rilevare che i Pigmei per i Nasamoni erano, in primis, degli stranieri.

Il secondo è che ancora oggi in Africa vi sono delle tribù che godono di simile fama. Nachtigal racconta, infatti, che “in modern times the Makari of the Logane region, south-east of Lake Chad, in the Bodele area enjoyed a similar reputation.”88

Nel quarto libro troviamo la seconda e ultima ricorrenza del termine nelle Storie. Il passo riguarda i Neuri, un popolo che pare avere caratteristiche molto particolari. Esso ha gli stessi costumi degli Sciti e tale eguaglianza, insegna Corcella,89 è dovuta al contatto avvenuto fra le due popolazioni. Sono gli stessi Sciti,90 assieme ai Greci che vivono in Scizia, a chiamare i Neuri γόητες e a

84 Tono che richiamerebbe la sfera del lamento, del γόος.

85 In FGrHist 1A,4,F.89.1-15 la situazione è simile a quella appena esplicata. Il termine γόης

compare tre volte per descrivere una popolazione straniera (i Δάκτυλοι Ἰδαῖοι), nonostante nel passo non vi sia alcuna spiegazione o motivo apparente per cui tale popolo avesse guadagnato simile attributo. Il termine è impiegato qui per la prima volta in letteratura al plurale per definire i Dattili di sinistra γόητες, rispetto a quelli di destra, ἀναλύοντες (cf. Carastro 2006: 56). Vi sono varie leggende al riguardo. In Graves 1963: 166, per esempio, è detto che i Dattili nacquero quando Rea premette le dita al suolo per alleviare la sofferenza delle doglie mentre stava partorendo Zeus; dalla mano sinistra nacquero cinque femmine, dalla destra cinque maschi. I maschi erano conosciuti per le loro abilità metallurgiche, le femmine per le loro opere di magia. Un’altra tradizione vede nei Dattili una personificazione delle dita, con riferimento al fatto che nell’Europa primitiva alla lavorazione dei metalli erano associate pratiche di magia ed era necessario usare determinate dita per compiere determinate operazioni (cf. Burkert 1962: 39; Graves 1963: 167).

86 La stessa Hartog 1988: 229, dopotutto, ha commentato: “any traveler’s tale that claims to be

faithful must contain a category of θῶµα.”

87 Cf. Luck 1997: XXV. 88 Nachtigal 1879: 533. 89 Corcella 1984: 84.

90 È curioso che siano proprio gli Sciti ad attribuire simili notizie ai Neuri, poiché è noto (cf.

Dodds 2000: 170) che, fra loro, vi erano persone misteriose con doti “sciamaniche” che, a partire dallo studio di Burkert 1962: 36, sono state identificate come proprie degli stessi γόητες. Tali personaggi sono descritti nelle Storie, si veda in proposito il libro IV a 13, 1 per l’operato di Aristea e a 94, 1 per quello di Salmoxis (cf. Ogden 2001: 116).

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menzionare riguardo a loro la più antica notizia di licantropia a noi pervenuta.91 Procediamo per gradi. Si è detto che i Neuri sono stati cacciati dalle loro terre da un’invasione di serpenti.92 La critica è divisa fra accettare alla lettera tale testimonianza93 come la vera causa,94 oppure vedere in questi serpenti una popolazione. Wakefield95 in proposito suggerisce che “bands of warriors as savage dogs or wolves was an old widespread Indoeuropean notion”, molto conosciuta, peraltro, fra gli Sciti. Lo stesso Asheri96 considera il passo in questione una trasfigurazione di un’invasione nemica, “perharps by people who worshipped the serpent, whose cult is attested among Baltic people.” Che si tratti di veri serpenti o di guerrieri, i Neuri hanno comunque dovuto abbandonare la regione dove abitavano in seguito al loro arrivo e, come si è notato per i Pigmei, non sembrerebbero essere una popolazione particolarmente aggressiva.

Passiamo ora alla questione della licantropia.97 Essa era diffusa nell’antichità,

probabilmente per il fatto che i lupi erano animali comuni e, soprattutto, temuti.98 Anche in questo caso la critica non ha tardato a proporre soluzioni alternative a un’effettiva trasformazione in lupo, suggerendo le seguenti ipotesi: erano guerrieri feroci come lupi;99 era una ricorrenza simile a quella dei Lupercalia;100 era un fenomeno individuale o un rituale collettivo, forse di travestimento come quello praticato dagli Arcadi;101 era un generico rito di passaggio in cui l’uscire dalla comunità poteva implicare adottare un comportamento lupesco.102

Qualunque sia la verità, è comunque indubbio che i Neuri siano stati chiamati γόητες proprio per la licantropia, perché ritenuti capaci di cambiare aspetto103 e

91 Cf. Colonna 1996: 737 n. 1.

92 Animali, peraltro, sovente menzionati assieme al termine γόης, forse per la loro associazione a

Hermes, forse, congetturiamo, per la loro capacità di cambiare pelle periodicamente (si vedrà che tale capacità di cambiare pelle e/o aspetto comparirà spesso come una caratteristica peculiare del γόης). Cf. Luck 1999: 34.

93 A partire da Strab. III, 2, 6. 94 Cf. How 2007: 371. 95 Wakefield 1998: 642. 96 Asheri 2007: 656. 97 Cf. Svenbro 1989. 98 Cf. Fahy 1989: 37. 99 Cf. Wakefield 1998: 642. 100 Cf. How 2007: 371. 101 Asheri 2007: 656. 102 Buxton 1987: 68. 103 Cf. Carastro 2006: 56.

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tale “abilità di trasformarsi”104 apparirà come esclusiva del γόης a lungo, in senso proprio o in senso metaforico.

Pertanto, secondo le fonti riportate da Erodoto, i γόητες, a prescindere dalla loro effettiva condizione, erano ritenuti essere a tutti gli effetti stregoni e ciò può essere spiegato, oltre a come è già stato fatto, anche qualora si rifletta su ciò che i due popoli avevano in comune: entrambi, infatti, vivevano oltre i confini.105 I Nasamoni, prima di imbattersi nei Pigmei, avevano dovuto attraversare la regione abitata, quella delle belve, il deserto, fino a giungere, appunto, in zone sconosciute. Analogamente, in Erodoto (IV, 17, 2)106 troviamo una notizia secondo la quale si riteneva che i Neuri vivessero a nord degli Sciti, a contatto con terre selvagge. Erano quindi popoli “selvaggi” oltre a essere stranieri107 e i Greci

avevano soltanto raramente contatti diretti con loro. Concordemente con una mentalità comune in Grecia (e non solo), come rileva Buxton,108 “marginal people are perceived as behaving in ways inverse to those favoured by the “central” people.” Capitava sovente di fraintendere la natura degli stranieri, o perché si avevano su di loro notizie vaghe o “per sentito dire”, o perché ci si sforzava poco di capirli109 e le notizie basate su pregiustizi erano sufficienti a soddisfare la curiosità. Dopotutto, si trattava di stranieri, in certi casi quasi di selvaggi: che fossero effettivamente i γόητες che erano chiamati essere o meno poco importava, soprattutto se vivevano così lontano. Importa tuttavia a Erodoto, il quale ha sovente introdotto cose meravigliose110 e improbabili come “sfondo”111 nella sua opera per comprendere meglio τὰ ἀνθρώπεια.112 L’“esperienza dell’alterità”,113

104 Burkert 1962: 40.

105 Secondo tale prospettiva, lo stregone non sarebbe più il vicino di casa che fa il malocchio (o per

lo meno non solo), come sostenuto da Favret-Saada 1977: 16, bensì l’uomo che abita nelle terre sconosciute o comunque al confine con esse.

106 Asheri 2007: 554 commenta che si tratta probabilmente di una notizia tratta dalla Periegesi di

Ecateo e che poi Erodoto ha corretto nel passo da noi studiato. Rimane comunque una testimonianza di una diversa tradizione relativa al popolo dei Neuri.

107 Cf. Johnson 1999: 19. Ricordiamo anche la questione della “magia” come prerogativa degli

stranieri menzionata in precedenza.

108 Buxton 1987: 68. Cf. Hartog 1988: 213. 109 Cf. Luck 1997: 8. 110 Cf. Corcella 1984: 68. 111 Grene 1961: 477. 112 Cf. Wakefield 1998: 15. 113 Corcella 1984: 68.

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dopotutto, è alla base della ricerca erodotea, a dimostrazione del fatto che spesso “un dato diverso e sconvolgente [...] è accettato in quanto giustificabile in una prospettiva diversa da quella greca.”114 Lo storico si è pertanto sforzato di capire e conoscere il diverso da sé e di insegnarlo tramite la sua opera, e quale modo migliore di farlo che andando anche a investigare proprio quei θωυµαστά che rendono la vita degli uomini interessante e degna di essere ricordata.

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3. Gorgia

Nell’Encomio di Elena troviamo per la prima volta attestati i termini γοητεύω e γοητεία.115 Come abbiamo preannunciato nell’introduzione, la situazione si complica perché Gorgia non associa più i suddetti vocaboli unicamente al contesto “magico-religioso”,116 ma li riferisce anche agli ambiti della retorica e della seduzione, introducendo nell’equazione inganno, piacere e trasformazione. Vediamo come.

La figura di Elena,117 mai descritta da Omero eppure universalmente riconosciuta come la più bella del mondo, ha da sempre suscitato interesse negli autori più disparati, sia di prosa che di poesia. Nonostante la donna sia la causa scatenante della guerra tra Greci e Troiani, compare solo quattro volte nell’Iliade e due nell’Odissea; in tutte le occorrenze, comunque, la sua caratterizzazione chiaroscurale determina che sia impossibile stabilire dove stia la sua lealtà e da un

115 Gorgia è associato alla pratica della γοητεία in una testimonianza tramandata da Diogene

Laerzio (Diog. VIII 58.59). Questi riporta un passo di Satiro, filosofo peripatetico e biografo vissuto nel III a.C., i cui protagonisti sono appunto Empedocle e Gorgia, il primo presentato in qualità di “medico, ottimo oratore e maestro”, il secondo come suo “discepolo.” Naturalmente una testimonianza indiretta non pretende di avere lo stesso valore di una diretta, ma rimane comunque una fonte interessante. L’autore scrive (a 82 A 3 DK): τοῦτόν φησιν ὁ Σάτυρος λέγειν, ὡς αὐτὸς [Γοργίας] παρείη τῶι Ἐµπεδοκλεῖ γοητεύοντι. Diels 1884: 344 n.1 giudica inverosimile tale notizia dal momento che Gorgia non si sarebbe mai servito del termine γοητεύω, che egli giudicava negativamente, in relazione al suo “mentore.” Ipotizza dunque che la notizia fosse tratta dal Φυσικός di Alcidamante, in cui si sarebbe svolto un confronto fra Gorgia ed Empedocle. La parola γοητεύω, tuttavia, non presenta qui in realtà una sfumatura malevola (cf. Pfister 1930: 228, 277; Untersteiner 2015: 205), poiché in Empedocle, come scrive Bignone 1916: 9-10, troviamo effettivamente un “occultismo”, ma è quello di un vate-filosofo per il quale vita e scienza sono un

unicum e per cui è naturale e necessario voler conoscere profondamente gli elementi per poi

operare su di essi e scoprire la realtà che si cela al di là delle apparenze. Lo strumento della conoscenza è la parola, che, una volta diventata “magica”, si svincola dalla mera letteralità e rivela le connessioni che esistono fra le cose, creandole lei stessa e persuadendo l’uditorio. L’abbandonarsi al λόγος non è dunque un segno di cedimento, anzi, è l’aprirsi a ciò che è altro per poi insegnarlo al prossimo ed Empedocle può farlo in quanto “medium di una sapienza trascendente” (Battegazzore 1999: 99) veicolata dagli dei. Nella testimonianza non si tratta pertanto di “esorcismi”, come traduceva Diels, ma di veri e propri esperimenti volti a conoscere la “magia” intrinseca nel mondo. La parola nell’Agrigentino è ancora legata con la cosa che rappresenta (si vedrà che non accade più lo stesso in Gorgia) e può comunicare la verità tramite un adattamento del linguaggio alla materia e, soprattutto, grazie all’“investitura divina” che pervade la “struttura materiale della parola” (Battegazzore 1999: 97-98). È infine da ricordare che tale atteggiamento ha vinto a Empedocle il titolo di “sciamano” (cf. Entralgo 1970: 83; Luck 1997: 15 ss.; Lanata 1967: 43), al pari degli individui che abbiamo menzionato alla nota 90.

116 Si vedrà che anche l’associazione all’“ambito religioso” in Gorgia è comunque differente da

quella dei suoi predecessori.

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episodio all’altro emergono contraddizioni che rendono assai arduo comprendere se il poeta sia persuaso della sua innocenza o della sua colpevolezza.118 Sono poi presenti racconti che la dipingono come la più spietata delle traditrici119 e racconti in cui appare invece come una vittima delle circostanze.120 In tale panorama si inscrive l’opera di Gorgia, il quale approccia la questione per la seguente ragione: δεῖξαι τε τἀληθὲς καὶ παῦσαι τῆς ἀµαθίας (82 Α 11.2.8-9 DK).121

Egli, per far ciò, decide di scrivere un encomio e dopo una breve lode incipitaria della donna, bruscamente interrotta, il λόγος si sviluppa presto come una difesa per scagionarla dal reato di cui è stata accusata: la fuga verso Troia insieme a Paride.122

Gorgia dunque adduce nella cosiddetta tractatio123 quattro motivazioni124 verosimili per le quali Elena avrebbe compiuto tale azione: 1) la volontà degli dei l’ha spinta ad agire così, e nessuno può contrastare il loro volere; 2) la donna è stata vittima della violenza di Paride, a causa del quale ha perduto casa e famiglia; 3) la potenza del logos l’ha persuasa (ne discorreremo più diffusamente in seguito); 4) ha agito per amore, sia questi un dio (quindi incontrastabile) o una malattia dell’anima (che, in quanto malattia, non dipende dalla volontà del singolo).

La terza motivazione è quella che concerne più da vicino la nostra ricerca e possiamo dire che rivesta di per sé un ruolo importante, giacché occupa un terzo dell’opera. La premessa è che anche in questo caso non sarà difficile difendere e

118 Cf. Ryan 1965: 115-117.

119 Si vedano il Catalogo delle Donne (libro V), dove Esiodo canta la storia di Elena

sottolineandone l’aspetto etico negativo; Alceo ( fr. 1 del Pap. Oxy. 2300), che biasima la carnalità e la condotta immorale della donna; le Troiane di Euripide (vv. 372-373), nelle quali Elena è detta seguire volontariamente Paride etc.

120 Per esempio nella Palinodia di Stesicoro e nell’Elena di Euripide.

121 “Svelare la verità e far cessare l’ignoranza.” Per il testo greco si veda MacDowell 1982. 122 La denominazione “encomio” è stata messa in discussione dalla critica in quanto, come non ha

mancato di far notare Isocrate nel suo Encomio, la maggior parte del discorso consiste in una difesa di Elena piuttosto che in un effettivo encomio. Mazzara 1999: 182 ss., tuttavia, ha commentato brillantemente che un encomio, per divenire tale, presuppone un’apologia e quindi una parte estesa dedicata alla difesa è funzionale ai fini dell’elogio stesso.

123 Cf. Giombini 2012: 72 ss. 124 Cf. Paduano 20072: 56-67.

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scagionare Elena dall’accusa εἰ δὲ λόγος ὁ πείσας καὶ τὴν ψυχὴν ἀπατήσας (82 A 11.8.1-2 DK).125

Il motivo è presto detto (a 82 A 11.8.4-7 DK):

λόγος δυνάστης µέγας ἐστίν, ὃς σµικροτάτωι σώµατι καὶ ἀφανεστάτωι θειότατα ἔργα ἀποτελεῖ· δύναται γὰρ καὶ φόβον παῦσαι καὶ λύπην ἀφελεῖν καὶ χαρὰν ἐνεργάσασθαι καὶ ἔλεον ἐπαυξῆσαι.126

Gorgia inizia dunque facendo una dettagliata descrizione del λόγος. Questo appare subito come indipendente e autonomo,127 come un corpo piccolissimo, ma dotato di enormi poteri, capaci di influire sulle emozioni umane. La portata di tali poteri è indicata in primis dalla personificazione stessa che l’autore attribuisce loro. Il λόγος, infatti, assume un corpo fisico128 e, tramite esso, giunge a

influenzare emozionalmente la “quasi-physical reality;”129 con le parole di Spatharas:130 “speech may have a function equivalent to that of facts: speech acts, it does divine things.”

Il secondo aspetto che dimostra la potenza del λόγος è costituito proprio da questi θειότατα ἔργα di cui esso è capace. Adottando un simile lessico Gorgia non solo inscrive il λόγος all’interno della tradizione poetica e dona egual valore alla terza motivazione rispetto alle altre,131 ma addirittura supera la tradizione. Mentre solitamente la parola era divina e aveva autorità perché era affidata al poeta da una divinità, infatti, ora il λόγος non ha più il “patrocinio della divinità”,132 ma è divino in sé stesso ed è capace di compiere cose divine per bocca dell’individuo che lo pronuncia.

125 “Se invece fu la parola a persuadere e ingannare la sua anima.”

126 “La parola è un grande sovrano, che con un corpo minuscolo e invisibile compie le imprese più

divine; ha il potere infatti di fare smettere la paura, eliminare il dolore, infondere gioia, aumentare

la compassione.” 127 Spatharas 2001: 100. 128 Cf. Bona 1974: 13; Wardy 1996: 40. 129 Segal 1962: 104. 130 Spatharas 2001: 153. 131 Cf. Fournier 2013: 124. 132 Battegazzore 1999: 98.

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Gorgia vuole quindi dimostrare tale potere della parola tramite due esempi, efficaci perché “descrivono momenti dell’esperienza comune;”133 si tratta di due modi d’uso della parola che sono le “manifestazioni più efficaci della comunicazione verbale:”134 la “parola poetica” e la “parola magica.”

La prima è presentata immediatamente poiché “è al primo posto […] per prestigio e diffusione;”135 la seconda in quanto sarà fondamentale per dimostrare gli effetti

del λόγος in generale e per scagionare di conseguenza Elena dalle accuse. Vediamo dunque gli effetti di questa “parola magica” (a 82 A 11.10. 1-6 DK):

αἱ γὰρ ἔνθεοι διὰ λόγων ἐπωιδαὶ ἐπαγωγοὶ ἡδονῆς, ἀπαγωγοὶ λύπης γίγνονται· συγγιγνοµένη γὰρ τῆι δόξηι τῆς ψυχῆς ἡ δύναµις τῆς ἐπωιδῆς ἔθελξε καὶ ἔπεισε καὶ µετέστησεν αὐτὴν γοητεῖαι. γοητείας δὲ καὶ µαγείας δισσαὶ τέχναι εὕρηνται, αἵ εἰσι ψυχῆς ἁµαρτήµατα καὶ δόξης ἀπατήµατα.136

Il passo è denso d’informazioni. Per prima cosa mi preme rilevare che i termini sono impiegati con un uso proprio: le ἐπωιδαί sono effettivamente gli incantesimi pronunciati di solito in riti magici 137 - incantesimi connotati peraltro dall’aggettivo ἔνθεοι, che è riferito, come θειότατα poco prima, non più agli dei,138 ma allo stesso λόγος.139 È necessario anche rilevare che gli incantesimi “si

133 Mureddu 1991: 251. 134 Mureddu 1991: 254.

135 Velardi 1993: 819. Si tratta proprio di quella tradizione secolare cui abbiamo accennato poco fa

e che Gorgia supera.

136 “Gli incantesimi sacri esercitati per mezzo della parola sono apportatori di piacere e liberatori

dal dolore: la forza dell’incantesimo, incontrandosi con l’opinione dell’anima, l’ammalia, la persuade, la trasforma con la stregoneria. Di stregoneria e magia due arti sono state inventate, che sono errori dell’anima e inganni dell’opinione.” Seguo l’esempio di MacDowell concentrando la traduzione sulle componenti delle arti, stregoneria e magia, piuttosto che sulle arti in sé stesse, dal momento che la critica è tuttora divisa su cosa possano essere e, a mio parere, non si tratta né di poesia e prosa (cf. Untersteiner 2009: 297), né del binomio “magia bianca e magia nera” (Paduano 20072: 94-95 n. 39). Nel primo caso, poiché l’esempio della poesia è terminato nel paragrafo precedente e qui è trattata un’altra varietà di discorso; nel secondo perché ambedue le arti hanno una connotazione negativa, quindi non avrebbe senso presupporre che una delle due sia “magia bianca.” L’ipotesi più convincente (cf. Giombini 2012: 134) forse è che la prima possa riferirsi “allo stravolgimento dell’anima esposto nella quarta prova da Gorgia”, mentre la seconda non sia altro che “l’anticipazione della terza prova.”

137 Cf. Paduano 20072: 94. Ciò non deve stupire. L’uso proprio mostra, infatti, un potere del λόγος

ancora maggiore rispetto a un uso metaforico e bisogna ricordare che Gorgia vuole dimostrare che il λόγος sia il padrone più potente in assoluto. Per altri esempi di ἔνθεοι ἐπωιδαί si veda Velardi 1993: 823.

138 Come suggerirebbe MacDowell 1982: 37. Cf. Cornford 1952: 102. 139 Cf. Noël 1989: 150.

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attivano per mezzo della parola;”140 qualora anche si ritenga che essi siano scritti, “still written words would be read out orally.”141 L’oralità è insomma un elemento essenziale affinché l’incantamento avvenga, tanto nella magia quanto, si vedrà, nell’“arte della parola” in generale.

Procediamo con l’analizzare gli effetti dei suddetti incantesimi: essi sono capaci di portare piacere e liberare dal dolore e perciò, come abbiamo notato, rientrano appieno nell’ambito “magico-religioso.” Gorgia però, per descrivere la loro azione, si serve anche del termine ἐπαγωγοί, che appartiene al campo semantico della seduzione;142 gli incantesimi pertanto apportano piacere con una seduzione, e, analogamente, la forza dell’incantesimo s’incontra con l’opinione dell’anima quasi in maniera fisica, come suggerisce il termine συγγιγνοµένη.143 Da simile incontro l’anima risulta ammaliata, persuasa e trasformata con la stregoneria. I due termini magici (ἔθελξε e γοητεῖαι) sono quindi associati a un altro appartenente all’ambito della persuasione ed è già possibile intravvedere cosa voglia fare Gorgia: presentare la “parola magica” come una categoria della “parola persuasiva.” Ciò non toglie che la “parola magica” mantenga il proprio status e sia impiegata con uso proprio:144 Gorgia non vuole razionalizzarla, ma vuole “utilizzare razionalmente i suoi poteri irrazionali.”145 La magia rimane magia, ma è in un certo senso asservita alla retorica. In tale contesto, il richiamo al lessico della seduzione non deve stupire. È noto, infatti, che Πειθώ sia in origine una dea della seduzione amorosa, parte del corteo di Afrodite, e Gorgia non esita nuovamente a mescolare le carte e ad associare (come ha fatto con la “parola magica”) anche i suoi antichi attributi a quelli della nuova πειθώ, la Persuasione.146

Fino a ora sembrerebbe che gli effetti della “parola magica” siano neutri, se non addirittura positivi.147 Gorgia tuttavia prosegue introducendo due τέχναι di stregoneria e magia che sono dette essere ψυχῆς ἁµαρτήµατα καὶ δόξης

140 Bona 1974: 18. 141 MacDowell 1982: 13.

142 Cf. Burkert 1962: 42; Entralgo 1970: 63.

143 Cf. Spatharas 2001: 166. Si è già parlato, dopotutto, della “corporeità” assunta dal λόγος

nell’Encomio.

144 Cf. Wardy 1996: 41. 145 Romilly 1973: 155. 146 Cf. Noël 1989: 143.

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ἀπατήµατα. Non ci soffermeremo su cosa possano essere tali τέχναι,148 ci preme nondimeno rilevare che ambedue non sono valutate positivamente. Per quale motivo? Si potrebbe congetturare che magia e stregoneria siano riprovevoli di per sé e, conseguentemente, anche le arti che da loro derivate lo siano; non è però questo che suggerisce il testo. Gorgia, infatti, prosegue il discorso sostenendo che il λόγος inganna a tal punto per il seguente motivo (a 82 A 11.11.6-10 DK):

[…] νῦν γε οὔτε µνησθῆναι τὸ παροιχόµενον οὔτε σκέψασθαι τὸ παρὸν οὔτε µαντεύσασθαι τὸ µέλλον εὐπόρως ἔχει· ὥστε περὶ τῶν πλείστων οἱ πλεῖστοι τὴν δόξαν σύµβουλον τῆι ψυχῆι παρέχονται.149

Ecco dunque da dove sorge l’inganno, dal fatto che gli uomini si devono affidare all’opinione, che di per sé è malsicura e sovente infondata. Ne consegue dunque che, per un individuo che padroneggia l’“arte della parola”, sia facile influenzare il suo prossimo e far mutare i suoi incerti pensieri, positivamente o negativamente. Elena, “incantata” - se accettiamo la proposta di Mureddu150 - dalle parole di Paride, è stata vittima della parola e ha subito i suoi effetti negativi. La persuasione, non per nulla, ha, nel bene e nel male, lo stesso potere della costrizione - Gorgia, infatti, scrive: λόγος γὰρ ψυχὴν ὁ πείσας, ἣν ἔπεισεν, ἠνάγκασε καὶ πείθεσθαι τοῖς λεγοµένοις καὶ συναινέσαι τοῖς ποιουµένοις (82 A 11.12.5-7 DK)151 - ed Elena, sopraffatta dal persuasore,152 è stata ingannata e a torto riscuote cattiva fama.

148 Si veda in proposito la nota 136. In questa sede aggiungiamo che vi è una menzione di simili

τέχναι anche in Ecateo (FGrHist 3a,264,F.25.1163-5: καὶ γὰρ τὰς τέχνας τῶν ῥητόρων καὶ τὴν τῆς ὑποκρίσεως γοητείαν καὶ τὰ τῶν κινδυνευόντων δάκρυα πολλοὺς προτρέπεσθαι παρορᾶν τὸ τῶν νόµων ἀπότοµον καὶ τὴν τῆς ἀληθείας ἀκρίβειαν), dove γοητεία è usato con valore spregiativo.

149 “Non è agevole né ricordare il passato, né investigare il presente, né vaticinare il futuro; di

conseguenza, sulla maggior parte degli argomenti i più non possono che offrire all’anima come consigliera l’opinione.”

150 Mureddu 1991: 253 propone di leggere l’incomprensibile ἂν οὐ νέαν οὖσαν dei codici (82 A

11.12.2 DK) ἄνουν ἂν οὖσαν. Non ha alcuna rilevanza, infatti, in questo punto, il fatto che Elena non sia più giovane, e in tal modo non solo sarebbe giustificato il tradito ὕµνος (solitamente fra

cruces), che, dopotutto, come rileva Untersteiner 2015: 298-299, può significare anche

“incantamento”, ma avremmo inoltre una continuità del lessico magico, che sarebbe pertanto presente nei paragrafi 10, 12 e 14. Elena sarebbe dunque stata trascinata “come fuori di senno” dall’incantamento esercitato dal λόγος (e, conseguentemente, da colui che l’ha pronunciato).

151 “Il λόγος che la persuase costrinse l’anima persuasa a obbedire alle parole e ad approvare i

fatti.”

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