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Il "lirismo sintetico" di Domenico Buratti

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Academic year: 2021

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Il «lirismo sintetico» di Domenico Buratti

Nell’imminenza della prima guerra mondiale, Nino Oxilia scrive – come è noto – un Saluto ai poeti crepuscolari nel quale contrappone il mondo poetico di Corazzini e, soprattutto, di Gozzano alle nuove esigenze della modernità: «Morto è il Passato, poeta! / …Domani passeran fischiando i treni / per le ville languidette / del tuo sogno vestito d’ombra e niente: / morto è il Passato e con le baionette / stiamo uccidendo il Presente / per mettere in trono il Futuro…».1 Si tratta di un atteggiamento programmaticamente ribellistico, che proprio per questo lascia emergere con chiarezza quando di velleitario ha in sé. Del resto, Oxilia non si pone nella prospettiva di una modernità ormai attuale, ma di là da venire, per quanto imminente: domani passeranno i treni, il Futuro ancora non è in trono, anche se si sta provvedendo con l’uccisione del Presente. Sarà la guerra, nel suo auspicio, a rendere inevitabile il processo e garantirne la conclusione: «Fiamme scoppiettanti, laceranti / incendiano il vecchio mondo».2 Non poteva prevedere, il povero Oxilia, che quella guerra avrebbe sì spazzato via il mondo dei poeti crepuscolari, ma insieme con esso anche le molte ingenue professioni di fede nel futuro e la sua stessa vita.

Ora, esattamente negli stessi anni, un altro intellettuale torinese dal destino almeno in parte sovrapponibile (dovrà lasciare anche lui carte e pennelli per andare a combattere al fronte), si rapporta a quel mondo letterario in maniera completamente diversa. Mi riferisco a Domenico Buratti, di cui qui si presenta la prima parte dell’epistolario con la futura moglie Vittoria Cocito (comprendente le lettere che vanno dagli inizi del rapporto, nel marzo 1913, all’autunno del 1917, quando, in seguito alla disfatta di Caporetto, Buratti fu internato nel campo di prigionia di Dülmen): un epistolario di mole impressionante, ricchissimo di informazioni di carattere storico e culturale, ma anche con frequenti momenti di grande bellezza. Buratti è nato per scrivere lettere: sono per lui non soltanto un mezzo di comunicazione, ma uno strumento per esprimere sé stesso né più né meno dei quadri e dei versi. Basti ricordare, al proposito, che anche quando è ormai sposato e i due giovani coniugi si vedono quasi quotidianamente, continua a scrivere alla moglie, ricoverata per la nascita della primogenita Vannarosa.

Ebbene: nell’epistolario di Buratti Gozzano è citato esplicitamente una sola volta (a cui vanno aggiunte però diverse allusioni, segno di una conoscenza e di una persistenza letteraria più profonda). Siamo nella lettera del 22 settembre 1917:

Da Torino a costà in vettura… bel viaggio! Antiche usanze! Poesia! – mi dice. A proposito non le parlai mai di Gozzano il cantore delle vecchie diligenze, morto l’altr’anno. Ci si conosceva. Non valeva Soffici o Papini, ma si è affermato meglio di loro forse in due o tre poesie.3

Non mi interessa il giudizio, ingeneroso verso Gozzano e storicamente rivelatosi sbagliato (anche se non è priva di acume l’osservazione che il manipolo di versi suoi che davvero sono penetrati nel pubblico è tutto sommato esiguo). Mi importa sottolineare il distacco assoluto rispetto alla Torino di cui Gozzano è l’espressione più alta, il bathos che è implicito in quel noncurante «Ci si conosceva». Una vera lapide funebre. Oxilia in maniera velleitaria esibisce il proprio rifiuto di un mondo e di una poesia, incarnata in Gozzano, che in tutta evidenza ancora pesa su di lui come un’ipoteca. Quel mondo e quella poesia sono per Buratti così remoti, che non c’è ragione quasi di occuparsene. E la cosa colpisce ancora di più se si tiene presente che molte delle frequentazioni di Domenico, da Bistolfi a Thovez, sono le stesse di Guido. Oxilia vuole entrare nella modernità, e ne resta irrimediabilmente escluso. Buratti è nella modernità, senza proclami e senza neppure porsi il problema. I due giudizi sono pressoché contemporanei.

Il valore letterario, naturalmente, è altra cosa: e infatti Guido si è imposto come meritava, Domenico è stato dimenticato ben al di là dei suoi demeriti. Ma non si può non riconoscere, nel 1 Nino Oxilia, Poesie edite e inedite, a cura di R. Tessari, Napoli, Guida, 1978, pp. 188-189.

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panorama che emerge da queste lettere e dall’intera attività di Buratti, la piena appartenenza ad una stagione nuova e insieme matura, che non sente il bisogno di proclami e di rivendicazioni, perché ha precocemente superato le ansie dell’avanguardia. Un mondo che trova la sua espressione prima e il suo luogo identitario nelle riviste: mentre è al fronte, in pericolo di vita, Buratti dialoga con Vittoria dell’abbonamento alla «Voce», dei contributi che vi compaiono, dei meriti e dei limiti della scrittura di Soffici. E attraverso una serie di allusioni spesso di difficilissima interpretazione per il lettore di oggi (che Eliana Pollone con impegno strenuo ma soprattutto con l’intelligenza che le deriva dalla lunga consuetudine con i materiali bibliografici ha nella maggior parte dei casi sciolto), dialoga con le voci – non soltanto italiane – del dibattito letterario contemporaneo spesso incontrate proprio sulle riviste: su tutte, mi limito a ricordare Ibsen. È qui che matura quella sensibilità e consapevolezza che lo porterà, tra il 1928 e il 1932, a pubblicare opere di Sbarbaro, di Slataper, di Montale, di Alvaro, di Malaparte, per i tipi della casa editrice «Fratelli Buratti», da lui condotta insieme con il fratello Tino.

Si leggano anche, a riprova, i versi dell’inedita Poesia Cubista inviata da Domenico a Vittoria il 2 aprile 1913. Si tratta certamente di un lusus, di uno scherzo leggero finalizzato a un intento ancora discreto (siamo appena dopo il primo incontro con la donna) ma chiaramente riconoscibile di corteggiamento amoroso; tuttavia l’immagine di letterato e artista che ne emerge è quanto mai aggiornata. Buratti contrappone – difficile dire con quanta convinzione – due modelli artistici scherzosamente presentati come ormai superati, l’impressionismo e il futurismo, alla nuova moda del momento, il cubismo:

Amammo gli impressionisti Che vedono blu,

ora non più:

si odia il color di lontananza. A mare i futuristi,

meglio non averli mai visti… Se li porti il diavolo vento Con lo stile del movimento… Di qui in poi s’ameranno i cubisti Che vedono gli oggetti da ogni lato, in immobile immobilità,

come volume e gravità. Oh amare la stabilità!4

È appena il caso di richiamare l’attenzione del lettore sulla data, aprile del 1913. Certo il distacco critico e ironico è facilitato dalla destinazione privata del testo e dall’intento di brillante esibizione di sé: ma non si può non notare come la Poesia Cubista rispecchi polemiche di strettissima attualità (Eliana Pollone opportunamente richiama un articolo di Ardengo Soffici, uscito su «Lacerba» del 1 febbraio 1913: e siamo davvero ai primordi del dibattito in Italia sulle sperimentazioni cubiste, se la prima attestazione della voce, secondo il Cortelazzo-Zolli, è nella «Lettura» del dicembre 1912). Su questioni su cui ci si scannava, Buratti trascorre con giocosa levità, non nega le sue curiosità e le sue passioni ma non si appiattisce su posizioni alla moda, in una ricerca personale che, senza ignorarli, procede in maniera autonoma rispetto a quei modelli.

Tutto sommato, si può dire la stessa cosa a proposito della letteratura. Mi pare evidente, più ancora che nei versi sopra citati in quelli d’inizio del componimento («Oh il cubismo, il cubismo! / A basso il futurismo, / l’impressionismo / che vede azzurro di lontananza! / …disorientati, / sotto una cappa di cielo buio / cerchiamo un punto / che non c’è più»),5 l’influenza di Palazzeschi: a lui riportano la tipologia del verso, il libero ma ben rilevato rincorrersi delle rime, il piacere per gli effetti fonici, i bisticci e le ripetizioni, la sovrabbondanza delle esclamative, l’atteggiamento 4 Lettera del 2 aprile 1913, p. [?].

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giocosamente irriverente verso la cultura del passato. Anche il senso di disorientamento per l’assenza di certezze riflette un sentimento ben vivo nella cultura letteraria di primo novecento: e lo riflette attraverso un’immagine, quella della cappa di cielo buio che non permette più di scorgere un punto fisso, complementare e insieme opposta a quella del celebre passo dello strappo nel cielo di carta nel Fu Mattia Pascal pirandelliano. C’è poi, nell’indicazione del blu come «color di lontananza», la citazione del Pascoli dell’Ultimo viaggio (XIII, La partenza, vv. 1-2: «Ed ecco a tutti colorirsi il cuore / dell’azzurro color di lontananza»), con curiosa coincidenza ripreso proprio in quello stesso anno anche da Gozzano nella chiusa de la più Bella! (che esce sul numero della «Lettura» del luglio 1913). Mi sembra degno di segnalazione il fatto che nella ben più tarda Commiato,6 Buratti individui proprio nella lontananza, nell’atteggiamento di distacco postumo, il carattere fondamentale della poesia di Gozzano (ed è senza dubbio, questa volta, indicazione critica acutissima): «Talvolta arrivava Gozzano / sul labbro il sigillo del dito: uno, arrivato di lontano… / per lontananze ripartito».

È presente, insomma, una sensibilità estrema alle voci del dibattito contemporaneo, cui le riviste offrono un contributo decisivo, senza che mai il poeta-pittore si appiattisca su una singola posizione. Se, dal punto di vista della metrica e in parte della strumentazione retorica, la Poesia cubista potrebbe sembrare una riscrittura di Palazzeschi, non c’è nulla dello spirito incendiario e liquidatorio di Palazzeschi; in compenso, altri caratteri, come l’uso dei puntini di sospensione e le riprese con lievi variazioni, sembrano rinviare a Gozzano. Superati, gli impressionisti e i futuristi, ma un tempo amati; amati, ora, i cubisti, ma con la dovuta ironia. In questa dialettica, mi sembra, molto c’è dello spirito di Buratti.

Oltre ad essere un documento di informazione preziosissimo, a contribuire in maniera significativa alla ricostruzione di un ambiente culturale – artistico e letterario – vivace come quello della Torino del secondo decennio del Novecento, con i suoi personaggi, i suoi luoghi di ritrovo (a partire ovviamente dallo studio di Vittoria Cocito, dove ogni sabato ci si incontrava per discutere dell’arte e del mondo contemporaneo), le sue letture, i suoi modelli culturali, i suoi rituali (il corteggiamento di Domenico a Vittoria, pure culminato con un matrimonio ‘scandaloso’ per la famiglia ‘bene’ di lei, ci riporta a un contesto sociale remotissimo dal nostro, con effetti a momenti quasi vertiginosi), l’epistolario di Buratti ci offre anche un ritratto di intellettuale di fronte alla guerra originale e almeno parzialmente diverso rispetto ai molti che conosciamo e siamo abituati a frequentare.

Buratti si trova catapultato nel teatro delle operazioni quasi senza rendersene conto, come tanti altri giovani italiani del tempo, nel maggio del 1916, dopo un breve periodo di addestramento al campo di Piossasco. Nelle lettere degli anni precedenti ben poche sono le tracce del grande conflitto bellico che sta mietendo intere generazioni di giovani in tutta Europa e del serrato e a tratti feroce dibattito ideologico che coinvolge, con poche eccezioni, l’intero mondo intellettuale italiano sull’opportunità o no dell’intervento militare: e si tratta unicamente di tracce per così dire ‘private’ (la preoccupazione per il fratello e gli amici che debbono partire per il fronte) oppure che si intrecciano strettamente con gli interessi letterari dello scrittore (le discussioni con Vittoria sulla lettera pubblica di Romain Rolland relativa alla distruzione di Lovanio). Il momento iniziale è di sorpresa, quasi di meravigliata ammirazione di fronte a uno spettacolo che si riconosce vicino, incombente, a tratti minaccioso, ma pure radicalmente estraneo. Nella lettera del 12 maggio si legge:

Come uno spettatore di fronte a un sipario calato. A pochi chilometri dalla ribalta.

I minuti e le ore sono segnate, battute sulla voce del cannone. Veggo tutto passare in movimento scoppiante ininterrotto nel tempo e nello spazio. Ma per adesso non sono che un pacifico e intontito dilettante che guarda.7

6 Di cui tuttavia è al momento impossibile stabilire la data di composizione ed esce per la prima volta nelle Canzoni di

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Per il momento Buratti, in quanto non ancora aggregato, si trova in una posizione di privilegio, in un «tranquillo accampamento di retrovia»:8 «Mi trovo entro la guerra, la vedo senza parteciparvi in quello che è rischio».9 La dimensione dello sguardo – curioso, affascinato da quanto di pittoresco è nello spettacolo bellico, perplesso, a volte partecipe, ma come di cosa che riguarda altri – è nettamente dominante nelle lettere di questo periodo (Eliana Pollone vi segnala in vedere la parola chiave). Collocato nelle retrovie, gode di ampia libertà e disponibilità di tempo: il lavoro principale finisce così per essere quello della pittura, condotta en plein air, in maniera non dissimile da quanto avveniva a Nole Canavese, anzi senza quelle inquietudini e quei rovelli che l’avevano quasi resa impossibile, spazzati via dalle regole del campo e dai bisogni materiali dell’esistenza quotidiana. L’unico ostacolo sembra essere la pioggia, ostinata e pervasiva. Non c’è neppure la percezione del contrasto stridente tra le esigenze della vita militare e quelle superiori dell’arte, il senso di degrado conseguente alla riduzione della pittura a mero strumento pratico: Domenico si adatta senza difficoltà alle richieste dei superiori, sfrutta la famigliarità coi colori per fare l’imbianchino e il decoratore, simile in questo agli antichi pittori, che non si sentivano artisti, bensì artigiani del pennello. La dimensione prevalente è quella del pittoresco, del bozzetto, se si preferisce, per usare il termine caro a Buratti, con la campagna friulana, i paesaggi alpini, la piccola Alice di cui si conquistano le pose con una bambola meravigliosa. Il peso della guerra si insinua soltanto attraverso una licenza prima attesa come naturale compenso per il servizio prestato, poi sognata come imminente, infine sempre ritardata fino a sembrare utopia.

Non che Buratti non avverta fin da subito e sia insensibile alle contraddizioni e ai drammi della guerra, e in particolare della guerra di trincea quale è combattuta dall’esercito italiano. Ad esempio, nella lettera del 21 giugno rileva l’egoismo dei locali, per i quali un morto è davvero tale solo se è friulano: «È un friulano (il morto) o un italiano?!... Se sì, il morto è ben morto, e addio…»10 (e l’osservazione vale più di tante discussioni e dissertazioni sull’integrazione incompiuta, sulla mancanza di spirito nazionale). Oppure, nella lettera del 26 agosto, con lucida e spietata ironia, pone in evidenza la contraddizione tra le esigenze della guerra moderna, la «guerra più industriale che si possa concepire», e l’inadeguatezza degli armamenti con cui l’Italia si trova ad affrontarla, residui di un modo di combattere individualistico ed eroico: «Nei magazzeni avanzati di scarico, arrivano a mucchi scudi e corazze… il viso antico della guerra più industriale che si possa concepire. Si ode dunque un fragorio di armi da poesia fuori moda, fuori uso…»11 (e non sfugga l’efficacia della doppia citazione, da Manzoni e da Leopardi, come dalle auctoritates della poesia patriottica ottocentesca, che meglio di qualsiasi tirata o argomentazione distesa liquida in maniera definitiva ogni velleità di idealizzazione della moderna guerra industriale come guerra patriottica, combattuta dagli eredi della virtù romana). Ciò non esclude che Buratti sia tutt’altro che insensibile al fascino di una nuova, possibile estetica bellica e industriale: «Ma fosse qui un giorno anche lei a goderla da semplici buongustai la bellezza di questi enormi magazzini che sono davvero il fondamento d’una estetica davvero moderna…». Nulla c’è, però, dell’entusiasmo futurista: e ancora una volta una sola parola – l’impossibilità di godere della bellezza dei magazzini bellici da «buongustai», insieme con la donna che si ama – basta a spazzar via i furori avanguardistici. Soprattutto – ed è l’aspetto davvero più innovativo, più consapevole – il fondamento di questa estetica è posto nel contrasto, nella contraddizione, nel distacco, non nell’ingenua riproposizione marinettiana dell’antico spirito epico nelle forme nuove della modernità. Con l’ulteriore, decisiva limitazione: «Ma oggi… questo inciso è appicciato con molto belletto. In pittura m’è inutile».12

Perché fin da subito, a dispetto di un persistente gusto estetizzante, a dispetto della nostalgia per una vita alto borghese agognata proprio come riscatto delle proprie origini modeste (il pensiero costante rivolto alle più eleganti località di mare della Liguria dove Vittoria soggiorna, Santa 8 Lettera del 19 ottobre 1916, p. [?].

9 Lettera del 26 maggio 1916, p. [?]. 10 Lettera del 21 giugno 1916, p. [?]. 11 Lettera del 26 agosto 1916, p. [?]. 12 Ivi, p. [?].

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Margherita, Rapallo, Alassio…), l’influsso che l’esperienza militare esercita su Buratti è soprattutto un richiamo alla semplicità, all’essenzialità, al piacere e alla bellezza della banalità, anche: «È semplice quello che faccio»;13 «Sì, sono un semplicissimo soldato con fucile leggiero e elmetto»;14 «Sono un povero semplice soldato»;15 «qui tutto è limpido semplice chiaro come il sole»;16 e si potrebbe andare avanti a lungo. Mi limito soltanto alle parole con cui Domenico sintetizza i doni – un nastro e una poesia – che i due innamorati si sono scambiati: «Due cose somiglianti in aria di semplicità delle cose prime, delle cose che avremo sempre e ci consoleranno sempre!».17 Si tratta di una tendenza già ben rilevabile nelle lettere che precedono l’arrivo al fronte, e che è tutt’altro che sconosciuta alla cultura primo-novecentesca (in campo letterario si pensi soltanto, per riprendere un nome che già si è fatto, alla gozzaniana aspirazione alla «voce delle cose prime», all’apparizione del Parnasso nel «silenzio primo, intatto» della montagna; in campo pittorico il rimando d’obbligo è ovviamente all’esperienza non solo artistica ma biografica di Segantini). Per certi versi, il pensiero va anche ad Ungaretti, alla sua scoperta della comune umanità in mezzo agli orrori della guerra.

Ma il tono del «semplicissimo soldato» Buratti, che ha rifiutato senza clamori ma con fermezza la possibilità di diventare ufficiale come il fratello, che non ha da farsi perdonare entusiasmi interventisti e irredentistici, è peculiare, riconoscibilissimo: ed ha in sé una carica etica che lo redime dei cascami estetizzanti e simbolistici che pure qua e là lo aduggiano, come residui di una moda diventata habitus prima di tutto mentale. Viene naturale l’accostamento con Jahier, con i versetti biblici di Con me e con gli alpini: per il rifiuto di ogni retorica spesso sorretto dall’ironia, per la limpidezza immune da ogni tentazione oratoria, per l’epica del sacrificio gratuito, insensato, senza ragione, dei poveri che combattono e muoiono senza neppure sapere il perché. Ma Jahier è un ufficiale che pone sé come riferimento per i suoi alpini, che populisticamente intrattiene con loro un rapporto simile a quello tra il padre e i figli, che esibisce la rinuncia ai privilegi del proprio ruolo. Così facendo, nel momento stesso in cui canta l’epos della nuova guerra moderna senza eroi, fatta di marce, di fatica, di trincee, di attacchi inutili, di pioggia e fango e freddo, si pone come il solo, vero eroe, di quel conflitto. Buratti davvero è ultimo tra gli ultimi, vive – per scelta – gli stessi stenti e le stesse sofferenze e gli stessi orrori senza senso, conservando tuttavia, rispetto ai compagni, la consapevolezza dell’intellettuale che, nel momento stesso in cui guarda e rappresenta quella realtà, la fa oggetto di valutazione etica, la giudica e la allontana. In questo senso, l’atteggiamento rispetto al Domenico appena arrivato al fronte, che assiste da un posto sicuro alla guerra come a uno spettacolo, muta pochissimo anche nelle lettere scritte in prima linea. C’è un Buratti che agisce, e c’è un Buratti che guarda e che scrive. Si legga, a riprova, la lunga lettera, bellissima, scritta in tre riprese tra il tardo pomeriggio e la notte dell’8 novembre 1916. Buratti prima rappresenta senza enfasi retorica, ma anche senza edulcoramenti, in aperta polemica con le versioni ufficiali, la vita in trincea:

Tutta notte, pioggia. Dentro non ci pioveva, ma di sotterra zampillavano fontane.

Mi chiede nell’ultima sua arrivata, dei miei lavori. Il mio lavoro? qui tutto è fatica. Faticose pure le cose più lievi. Riuscire oggi – per esempio – a bere un sorso di brodo, di marsala sarà già un’operazione tormentosa! Sprofondarsi nel fango, mettersi in fila e attendere il nostro turno sotto la pioggia... Non occorre dire che il brodo sa di fango; e che sono fango gli orli della tazza, del cucchiaio e le dita. Il proverbio va tradotto così: «una mano imbelletta l’altra». Tutto ciò a proposito di quanto costituisce il conforto e il consolo del soldato.18

13 Ivi, p. [?].

14 Lettera del 19 ottobre 1916, p. [?]. 15 Lettera del 31 ottobre 1916, p. [?]. 16 Lettera del 6 dicembre 1916, p. [?]. 17 Lettera del 26 giugno 1917, p. [?].

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Poi rivendica senza orgoglio, ma con fermezza, la propria scelta di rinunciare ai gradi, per fare autentica esperienza di quella guerra che nessuno, se non il soldato semplice, può davvero dire di aver vissuto:

nessuna fantasia potrà mai vedere e sentire la guerra da lontano. Per poterci leggere la poesia infernale che vi corre, è necessario pagare un biglietto d’ingresso. Un semplice biglietto da soldato. I giornalisti i poeti che vi ci arrivano in automobile prima e dopo l’azione, son come viaggiatori che visitano una città fra un treno e l’altro. Non veggono altro che superfici battute da falsa luce. Meno, molto meno che niente. Gli stessi ufficiali sono esclusi da buona parte della vista e della comprensione della guerra. Il soldato può risalire alto fino a loro, ma loro non possono scendervi: sono fuori d’intimità. Il soldato non somiglia affatto al fantoccio eroico descritto dai giornalisti e né parlano né si muovono così, ma valgono infinitamente di più. Di più, a dismisura. Il soldato è al di là della propria individualità e personalità. È ciò che è come razza e come istinto. È due cose: un miserabile ed un superuomo. Se fossero dei dettagli guai!, ma i soldati sono un «insieme» […].

E adesso cambiamo parola.

Io seguo la mia stella: qualche giorno fa il mio comandante mi voleva proporre aspirante sottotenente e mi voleva persuadere a accettare. Dovetti dire no. Ciascuno segue il proprio solco. Non che io faccia ciò che voglio, ma ciò che son costretto a fare.

Sento che se vivrò, come mi canta la mia certezza, avrò veduto. Un mondo da esprimere, e tempo bastante dinanzi per il dopo guerra.19

In quel dire di no, nel seguire il proprio solco senza ribellarsi, è il momento più alto dell’esperienza umana e letteraria di Buratti. Il sentimento etico del dovere – dovere senza senso e senza scopo, ma non per questo meno cogente – accomuna Domenico ai soldati poveri e ignoranti che sono con lui al fronte. Buratti non narra gesta eroiche, ma la paziente accettazione del destino, portata avanti con testarda e sublime pazienza: e in questo davvero è semplice tra i semplici. Del resto, la guerra, la guerra in trincea, non è fatta di imprese eroiche individuali: è esperienza collettiva. Il coraggio, la resistenza che sono necessari per affrontarla fanno del soldato il vero superuomo dei tempi moderni; ma questo statuto sublime del soldato non può prescindere dalla sua condizione di miserabile. Il soldato è un superuomo perché è miserabile: non perché compie gesta sublimi, ma perché nella sua miseria, nel freddo, nella fame, nel fango, nel pensiero della morte imminente, affronta con abnegazione e senza cedimenti il proprio destino.

Raccontare la guerra dall’esterno è molto peggio che non raccontarla, perché significa tradirla. Nel contrapporre l’unica scrittura autorizzata, quella di chi ha visto in prima persona e può testimoniare, alla retorica dei giornalisti, Buratti fa eco ai lamenti di tanti soldati della prima guerra mondiale: ma il proposito di dedicare gli anni del dopoguerra al racconto della propria visione ne fa non solo l’unico histor autorizzato, ma quasi il profeta di un viaggio di verità alle radici prime dell’esistenza umana, nella sua miseria e nudità. Poco importa che, poi, il progetto non venga realizzato: il carteggio resta.

Ma l’interesse delle lettere inviate da Domenico Buratti a Vittoria Cocito non è soltanto un interesse storico-documentario. Ho già avuto modo di osservare che per Buratti scrivere lettere è un bisogno vitale: il carteggio è composto da 330 invii in meno di cinque anni. Non è (o almeno non è soltanto) un’esigenza di ordine pratico, accentuata dalla lontananza: anche se ovviamente gli invii si infittiscono nel momento in cui Buratti viene mandato al fronte. È un altro modo – un modo privilegiato, anzi – di vivere la propria esperienza artistico-intellettuale. Non ho dati precisi: ma credo che almeno metà delle lettere tratti di argomenti artistici, letterari, culturali in genere. I riferimenti alle opere altrui, ai libri letti, alle esposizioni d’arte, agli articoli su rivista sono costanti: e grande è il merito della curatrice, che con pazienza e intelligenza si è impegnata a decifrarli, riandando sempre (quando ciò era possibile) alle edizioni d’epoca, quelle che Buratti aveva in mano: e nella stessa prospettiva tengo a segnalare anche l’acutissimo e paziente ricorso alle fonti coeve, dai giornali ai documenti sul funzionamento delle poste durante la grande Guerra, ai 19 Ivi, p. [?].

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regolamenti per l’assegnazione delle licenze. Osserva lo stesso Buratti, nella lettera del 23 agosto 1916: «Nella vita […] succede assai spesso che una melodia altrui, una strofe si inserisca nella nostra poesia-vita di un giorno. Ed è così che una reminiscenza certe volte può onestamente e a buon diritto entrare nell’opera più nostra».20 Ma ancora più fitti sono i riferimenti alle opere proprie e di Vittoria, per cui diventa indispensabile spiegare i quadri attraverso le lettere e le lettere attraverso i quadri: e un ulteriore elogio e ringraziamento allora si impone, quello agli eredi, che hanno offerto una disponibilità e una collaborazione quali raramente è dato incontrare. Così, il carteggio testimonia il rovello di un artista sempre in lotta con sé stesso per superare le incertezze, gli scoramenti, le delusioni: severo fino all’eccesso verso le proprie debolezze, e aperto invece a riconoscere la bellezza e i successi altrui, di Vittoria, ovviamente, ma anche di tanti altri artisti contemporanei. Attesta fasi di elaborazione dei versi precedenti alla pubblicazione in rivista o in volume (e il lavoro sull’opera poetica di Buratti è altro lavoro da fare, per restituire anche da questo punto di vista dignità ad un’esperienza tutt’altro che marginale ed epigonica).

Così, quella semplicità di cui prima si parlava si rivela in Buratti non un dato acquisito, naturale, ma una faticosa conquista, condotta innanzi tutto contro sé stesso. Le stesse lettere sono spesso segnate da correzioni e ripensamenti: e lo stile di questo epistolario è quanto di meno immediato sia dato immaginare. Colpisce, su tutto, un lessico composito, in cui forme letterarie e arcaizzanti sono accostante al linguaggio contemporaneo o addirittura a linguaggi tecnici: ma senza che mai si crei attrito, senza alcun gusto dello shock verbale, nella volontà semmai di armonizzare e unire gli opposti. Sembra quasi impossibile che frasi di questo genere siano state scritte in trincea, con l’acqua che penetra attraverso le fessure della tenda e affiora dal fango, mentre si attende la partenza per il combattimento in prima linea:

Mancano appena i primissimi piani, che con il tempo e ora uguali avrei ritrovati come allora. Sembro un ragazzo contrito per non aver assistito alla più bella rappresentazione cinematografica che potesse sognare. Lettera interrotta: riprendo dopo alcune ore, e per poco. Non anche le 6, ed è già scurissimo. Piove sopra la tenda, soltanto; stanotte ci starò sotto. Lo stamburare dell’acqua sui teli tesi, è la sola musica che ogni tanto posso udire ancora.21

È un epistolario sul quale è difficilissimo intervenire in sede editoriale, perché molte forme che sembrano dovute a frettolosità, a trasandatezza, a casualità, si rivelano in realtà frutto, nel corso della trascrizione e della lettura, di precisa scelta: e bene ha fatto, allora, Eliana Pollone, nell’adottare soluzioni fortemente conservative, anche in casi in cui per altri autori si sarebbe proceduto ad interventi di normalizzazione.

Colpisce – per quanto non sorprenda, in un pittore – la sensibilità cromatica e paesistica, per cui le parole si fanno vere e proprie pennellate: una sensibilità che si manifesta innanzi tutto in un’attenzione estrema, quasi metereopatica, ai fenomeni atmosferici, ai ritmi della luce e delle stagioni. Gli esempi si incontrano ad ogni apertura di pagina; qui mi limito a uno, dalla lettera del 29 settembre 1914: «Un settembre senza soavità melanconiche. Giorni aspri di vento. Cieli freddi e taglienti, a lama di coltello. Ma c’è mio fratello che dall’estremo confine orientale mi parla con voce d’amore delle snelle friulane con occhi azzurri da far dimenticare il cielo più sereno».22

Ma più interessante è come questa lettera finisce, con un’equazione decisiva per Buratti: «Amore = guerra. Bellezza!». Non c’è, soltanto, l’indicazione dei tre ambiti fondamentali dell’epistolario, quelli riassunti dalla curatrice nel titolo Parole d’arte, d’amore e di guerra: c’è la percezione e la volontà di dar espressione ad un grumo primordiale, intimamente percorso da contrasti laceranti eppure coerente, in cui risiedono l’essenza stessa e la bellezza della vita. Bellezza è l’altra parola chiave dell’epistolario, insieme con semplicità (spesso – come in questo caso – nella forma dell’esclamazione): e l’intimo legame che le unisce è evidente nella lettera del 1 agosto 1913, con la celebrazione della «bellezza primordiale, eroica della montagna –, delle cose di quando 20 Lettera del 23 agosto 1916, p. [?].

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l’uomo non era».23 La bellezza è anche nella contraddizione, nella violenza, nel dolore: «Qui la vita è un’orribile poesia bella bella!».24 Non posso fare a meno, a questo punto, di tornare su un altro nesso già citato poco sopra, ma sul quale non ho richiamato l’attenzione, quello riassunto nella formula «poesia-vita»: ecco, per Buratti poesia, cioè arte, e vita sono davvero una cosa sola. Siamo – mi sembra evidente – in un orizzonte di tipo vociano: e a quel contesto riconducono non soltanto il gusto del frammentismo, ma la profonda esigenza di moralità e le laceranti tensioni vitalistiche. L’epistolario documenta con chiarezza, del resto, quanto Buratti tenesse all’abbonamento alla «Voce», se ne parla ripetutamente con Vittoria proprio nei mesi più terribili sul fronte; né si deve dimenticare quanta attenzione il Buratti editore abbia riservato agli scrittori vociani.

Eppure, anche da questo punto di vista, non si può non notare come l’impressionismo e il frammentismo lirico vociani coesistano con altre istanze moderne, ma anche con una singolare, persino imbarazzante persistenza della tradizione (le «snelle friulane con gli occhi azzurri»25 sembrano muoversi tra Carducci e d’Annunzio). Lo stesso Buratti, nella lettera del 15 ottobre 1913, offre una definizione dello stile di Vittoria che è in realtà una definizione del proprio stile:

La sua lettera ultima di stile lirico-impressionista, robusta di cima a fondo, mi lascia capire che sta bene. È o sembra d’un discepolo del così detto lirismo sintetico: le stesse spezzature di sintassi. Si direbbe legga i giornali del gruppo futurista. Niente esagerazioni, ma la novità cara a costoro, vi si trova tutta quanta. Lei la conosce ignorandola. Segno dei tempi.26

Ancora una volta non si può fare a meno di sottolineare quanto Buratti sia aggiornato e consapevole delle novità letterarie: di lirismo sintetico Luciano Folgore comincia a parlare sui fogli futuristi nel 1912, e il manifesto Lirismo sintetico e sensazione fisica è del 1913. Ma è evidente che Buratti, usando quella definizione, la piega ad indicare altro rispetto alla poetica di Folgore: nel momento in cui rifiuta ogni esagerazione e accosta il «lirismo sintetico» a un robusto «stile lirico impressionista», contraddistinto dalle «spezzature di sintassi», attua una sintesi che quasi tutti in quegli anni avrebbero giudicato impossibile e inaccettabile tra istanze futuriste e vociane (si ricordi ad esempio la feroce stroncatura di Folgore da parte di Boine). È una tensione di carattere sintetico, quella che anima tutta l’esperienza di Buratti: sia che si tratti della percezione dell’intimo legame tra poesia e vita, sia che si tratti dell’ambizione di sperimentare e fondere tutte le forme di espressione artistica, sia che si tratti del gusto per una lingua composita e variegata, sia che si tratti dell’interesse per le più varie e anche opposte forme di sperimentazione.

Buratti non può – e non vuole – sottrarsi alla «necessità di vivere»;27 preferisce «vivere. Sia pure includendo nel vivere la probabilità di non vivere più»;28 riconosce nell’egoismo di Flaubert il suo opposto, un «bisogno di vivere dilatandosi».29 Anche se il significato e il valore di questo vivere si rivela soltanto nel momento dello sguardo, del distacco, del giudizio, della rappresentazione estetica (e anche questa, in fondo, è una sintesi tra il Futurismo e la «Voce»): «Vivere... Tutti sanno vivere, anche le bestie. Descrivere, no: descrivere è vedere, vederci meglio che si può; lo stesso che criticare»; «Non la vita che vive è la vera, ma quella che vediamo e sentiamo vivere».30

23 Lettera del 1 agosto 1913, p. [?], p. [?]. 24 Lettera del 7 novembre 1916, p. [?]. 25 Lettera del 29 settembre 1914, p. [?]. 26 Lettera del 15 ottobre 1913, p. [?]. 27 Lettera del 24 marzo 1915, p. [?]. 28 Lettera del 6 settembre 1916, p. [?].

29 Lettera del 30 settembre-2 ottobre 1917, p. [?]. 30 Lettera del 12 luglio 1916, p. [?].

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