MASSIMO GIULIANI SIONISMO E STATO DI ISRAELE
NELL’OPERA TO MEND THE WORLD DI EMIL L.FACKENHEIM
Forse nessun passo della grande opera di Emil Fackenheim To Mend the World, per la quale all’epoca della sua traduzione e curatela in italiano non trovai nessun titolo più adatto del sem-plice ma ben noto termine ebraico Tiqqun. Riparare il mondo – si noti, riparare e non redimere o salvare – nessun passo, dicevo, riflette il sionismo e la visione teologico-politica di Fackenheim meglio di questo, che si trova nella V parte: Conclusioni, par. 3:
Restituire il trono del giudizio, usurpato dal dottor Mengele, a Dio – afferma l’autore di To Mend the World nel contesto di una riflessione sullo Yom Kippur qui inteso come Giorno del giudizio divino – è di-venuta una necessità per gli ebrei… E dal momento che questa restitu-zione sarebbe un gesto impotente senza uno Stato ebraico, siamo co-stretti a concludere che se nel nostro tempo non ci fosse nessuno Stato
di Israele, sarebbe una necessità religiosa, con o senza l’aiuto di Dio, crearlo. Senza tale Stato, la fine dell’ebraismo della galut sarebbe an-che la fine dell’ebraismo intero. La nostra generazione ha aperto – ha
dovuto aprire – una nuova pagina nella storia, non solo degli ebrei ma anche dell’ebraismo [corsivo dell’autore].1
È ovvio che siffatto ‘tipo di sionismo’ è profondamente radi-cato nella complessa riflessione di questo filosofo-teologo ebreo sulla Shoah, riflessione iniziata nel fatidico 1967 e giunta a ma-turazione, per così dire, nei primi anni Ottanta. Questo radica-mento è un’ottica e ha un significato che i sionismi classici, pre-seconda guerra mondiale, sia politici (da Herzl a Weizman e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
1 E.L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo, trad. it. di M. Doni, a cura di M. Giuliani, Medusa, Milano 2010, p. 280.
Ben Gurion) sia culturali e/o spirituali (da Achad Ha’am a Buber), e persino quelli religiosi non potevano avere. Anzi, non tanto ha quanto dà un significato nuovo all’impresa sionista, che alla luce della Shoah si tinge di una valore religioso diverso. A ben leggere questo passo nel suo contesto e nel framework dell’intera opera fackenheimiana si scopre che la dimensione religiosa – espressa dal dovere di ripensare lo stesso Yom Kip-pur alla luce dell’esperienza di Auschwitz, qui evocata dalla maligna figura del dr. Mengele – non è la chiave delle vicende storiche e dunque della necessità di uno Stato ebraico, ma all’in-verso, è lo Stato che assume un senso religioso, e dunque teolo-gico, a partire dall’esperienza della Shoah, a partire dalla storia del popolo ebraico. In ciò sta la differenza più profonda anche dal sionismo religioso, divenuto così diffuso e popolare in Israe-le come in diaspora nei più recenti decenni.
Ma perché, possiamo ancora chiedere, questa dimensione storica, il novum della Shoah – e dico novum e non unicum a ra-gion veduta – è l’alveo e il motore di significato dello stesso sionismo religioso? La risposta che si evince dalla riflessione di Fackenheim è: perché nella Shoah l’ebraismo intero e la stessa alleanza tra Dio e il popolo ebraico sono stati messi in discus-sione e hanno corso il rischio di scomparire.
«Senza lo Stato, la fine dell’ebraismo della galut – afferma Fackenheim – sarebbe anche la fine dell’ebraismo intero». Que-st’affermazione si illumina alla luce di due convinzioni, di due pensieri fissi. Il primo è che la Shoah o the Holocaust, come si dice in prevalenza nel mondo anglosassone ancora oggi, è un evento senza precedenti – non unico ma senza precedenti, e questa distinzione terminologica ha la sua importanza – e ha cambiato il senso teologico e le condizioni storiche della galut ossia dell’esilio di Israele tra le nazioni. Anzi, ha semplicemente posto, e in maniera definitiva, la parola fine a questo «ebraismo della galut». E se in passato esso riuscì, forte della propria auto-comprensione religiosa tradizionale, a sopravvivere alle calun-nie, alle espulsioni forzate, alla miseria dei ghetti e persino ai
grandi pogrom di cui fu vittima per secoli, oggi esso è o sarebbe del tutto insufficiente e incapace di fronteggiare il rischio che viene dall’esterno, il rischio minaccioso dello sterminio. Infatti,
l’Olocausto, che abbiamo già visto essere senza precedenti anche solo in quanto evento storico, si mostra essere senza precedenti anche in quanto minaccia alla fede ebraica, e il giudaismo della galut è ora in-capace di farvi fronte.2
Il secondo pensiero, quasi una definizione, è la sgradevole verità storica con cui si deve oggi – dice Fackenheim – rispon-dere all’eterna domanda: chi è ebreo, prima ancora di spiegare cosa significhi esserlo. E la risposta sarebbe: «Un ebreo oggi è uno che, al di là di un accidente storico – il fatto che Hitler per-se la guerra – sarebbe stato ucciso o non sarebbe nato».3
Nel-l’originale questa frase è in corsivo, e quindi va presa come molto significativa per chi l’ha scritta. È una definizione pro-blematica, naturalmente, lontana sia dall’halakhà sia dall’otti-mismo della volontà che ispira, in positivo, la vita ebraica quo-tidiana. Nondimeno, quel po’ di verità che contiene, almeno da un punto di vista storico, inquieta, non può non inquietare, per-ché fa dipendere quest’identità non solo da un datum empirico, storico appunto, e non da un fatto o da una ‘verità’ religiosi; lo fa dipendere infatti dal più grande degli antisemiti, più grande persino del perfido Aman, Hitler, la cui sconfitta è qui definita alla stregua di un ‘accidente della storia’. Ma questa definizione, potremmo obiettare a nostra volta, non è già una “vittoria po-stuma concessa a Hitler”? Lasciare che sia il nazismo – e non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
2 E.L. Fackenheim, Olocausto, trad. it. e cura di M. Giuliani, Morcelliana, Brescia 2011, p. 31. Per un approfondimento del concetto di galut, esilio e/o diaspora, sul piano teorico e sul piano reale, si veda: Y.H. Yerushalmi, Verso
una storia della speranza ebraica, Giuntina, Firenze 2016, pp. 63ss.; S.
Tri-gano, Il tempo dell’esilio, Giuntina, Firenze 2010 [orig. fr. 2005].
3 E.L. Fackenheim, Tiqqun, p.248. Cfr. anche ivi: «Se non fosse per un caso fortuito, noi, gli ebrei di oggi, saremmo stati uccisi o non saremmo mai nati. Noi non siamo un resto santo, siamo un resto accidentale. Per quanto possiamo desiderare di evadere da tale fatto crudo, questo è il nucleo della definizione di identità ebraica oggi» (p. 257).
solo la Shoah – a definire l’identità ebraica non equivale forse a violare la santità delle vittime oltre la santità del patto e del-l’elezione di Israele come popolo di Dio (genitivo soggettivo)? Non è una domanda che il nostro filosofo-teologo lasci ine-spressa o inesplorata; essa viene presa di petto, infatti, là dove tenta di immaginare un’Europa, anzi un mondo forgiato dai ‘va-lori’ (fra virgolette) dei nazisti, nel caso in cui
per sventura, Hitler avesse vinto la guerra. Ma per fortuna egli la per-se; perché allora, riflettendo sull’identità ebraica, scomodare lo spettro della sua vittoria? […] Semplicemente perché mimetizzare, ignorare, ‘superare e oltrepassare’ [à la Hegel] l’oscuro passato per il bene di una felice e sicura autocoscienza ebraica del futuro è impossibile. Empiricamente, a dire il vero, questo è possibile: il fenomeno esiste da ogni parte. Ma moralmente e religiosamente, filosoficamente e uma-namente, è un’impossibilità.4
Questa impossibilità è un altro nome della cesura, del trau-ma, dell’irredimibile/irreparabile/imprescrittibile che la Shoah è stata a tutti i livelli: da quello religioso a quello filosofico. L’ebraismo non fa eccezione: anche per gli ebrei si tratta di una frattura e una frantumazione che non possono essere ‘misurate’ con metri ordinari o ‘pensate’ – e tanto meno metabolizzate – con categorie tradizionali. E questo va accettato, anche se va «contro noi stessi», sostiene Fackenhein, ossia contro la nostra stessa identità ebraica.
And yet, e tuttavia. Questa congiunzione avversativa – quasi ossimorica ed eminentemente ebraica – diventa qui essenziale ed esistenzialmente dirimente: e tuttavia, leggiamo in To Mend the World, «è impensabile che la rottura abbia la meglio… Così tale impensabilità suscitò in me l’urgenza del 614esimo precetto ossia la voce imperativa che viene da Auschwitz, che vieta all’ebreo post-Olocausto di dare a Hitler una vittoria postuma».5
Nell’intuizione e formulazione originarie, questa voce
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4 Ivi, p. 249. 5 Ivi, p. 251.
comanda gli ebrei, religiosi e secolari, di non abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz ma di continuare ad operare… La voce di Au-schwitz comanda l’unità ebraica… L’ebreo religioso che ha udito la voce del Sinai deve continuare ad ascoltare quando ode la voce impe-rativa di Auschwitz. E l’ebreo non religioso, che da tempo ha dimenti-cato la voce del Sinai ma che ora ode quella di Auschwitz, non può servirsi di questa voce come di un mezzo per distruggere quattromila anni di testimonianza credente ebraica.6
Quest’intuizione, formulata nel 1967, trova conferma e svi-luppo quindici anni dopo là dove Fackenheim riflette sulla nuo-va pagina di storia – il ritorno a Sion degli ebrei e la rinascita di uno Stato ebraico – pagina che porta il nome antico e sempre-verde di ‘sionismo’. Riflettendo in particolare sulla guerra di Yom Kippur, scrive:
L’attacco a sorpresa [contro Israele] costrinse i soldati israeliani a cor-rere confusamente dalle case e dalle sinagoghe ai furgoni, alle mac-chine e a ogni veicolo che li avrebbe portati rapidamente alle loro uni-tà [militari]. Fu là e allora che alcuni anziani, da qualche parte a Geru-salemme, interruppero le loro preghiere, corsero in strada e strapparo-no delle pagine dai loro libri di preghiera per darle ai soldati in parten-za. Questi uomini religiosi non esitarono a mutilare i loro libri sacri; e da parte loro i soldati, religiosi e laici che fossero, non esitarono ad accettare quel dono. A Yom Kippur alcuni combatterono perché altri potessero pregare; e alcuni pregarono perché altri potessero combatte-re. Entrambe le frasi sono vecombatte-re. Ma solo se stanno insieme.7
Storicamente autentico o meno che sia l’aneddoto in sé, il suo messaggio e la sua morale costituiscono quella che Jan Assmann chiama una «memoria culturale» e sembrano fondare il senso del sionismo di Fackenheim: davanti all’imperativo sa-cro e non negoziabile della sopravvivenza, cade – deve cadere – tra gli ebrei ogni divisione ideologica e resta – deve restare – so-lo l’unità profonda dell’’am Israel. Tutta la riflessione sulla Shoah non solo tende a, ma è illuminata da questa convinzione. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
6 E.L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia, Queriniana, Brescia 1977, pp. 116-118.
Leggiamo nel già citato saggio Olocausto, che risale a metà de-gli anni Ottanta:
Il popolo ebraico è passato attraverso l’anti-mondo nazista della mor-te: dopo tale esperienza, secondo qualsiasi criterio religioso o laico, la vita ebraica va valutata in maniera più alta della morte ebraica, anche se questa fosse per amore del Nome divino. Il popolo ebraico ha espe-rito l’esilio in una forma più orribile di quanto avesse mai immagina-to, oltre ogni incubo apocalittico; dopo tali eventi, porre fine all’esilio [la galut] significa esprimere una volontà di vita e una fedeltà alla vita che, prese insieme, danno una nuova dimensione alla stessa pietà. Il prodotto di tale fedeltà – lo Stato ebraico – è ancora fragile, e in con-flitto con un mondo che, quando non è apertamente ostile, fatica co-munque a capire.
E prosegue, sempre nel medesimo saggio, ribadendo quel che abbiano ascoltato all’inizio:
Vi sono molte ragioni per le quali [lo Stato di] Israele è divenuto il centro del popolo ebraico nella nostra epoca, e non ultimo perché tale Stato è indispensabile al giudaismo futuro. Se sull’onda dell’Olocau-sto non fosse già sorto uno Stato ebraico, sarebbe una necessità reli-giosa (seppure, con legittimo timore, una quasi-impossibilità politica) crearlo ora.8
In uno scritto del 2001 Fackenheim ribadì che «Il cuore di ogni autentica risposta all’Olocausto – che sia religiosa o laica, ebraica o non ebraica – è un fattivo impegno a garantire l’au-tonomia e la sicurezza dello Stato di Israele».9 È nella stessa
prospettiva che nel 1987 aveva già scritto, nel volume What is Judaism?: «Durante l’Olocausto la speranza messianica è stata uccisa, ma lo Stato di Israele dopo l’Olocausto l’ha resuscita-ta».10
In diversi passaggi del suo opus magnus, sembra in effetti che l’esistenza odierna dello Stato di Israele sia un elemento co-stitutivo non solo dell’identità ebraica contemporanea ma anche !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
8 E.L. Fackenheim, Olocausto, pp. 35-36.
9 Cit. in D. Patterson, Emil L. Fackenheim. A Jewish Philosopher’s
Re-sponse to the Holocaust, Syracuse University Press, Syracuse, NY 2008, p.
125.
delle categorie per pensare tale identità. La dimensione teologi-co-politica dell’esistenza statuale ha infatti permesso la resurre-zione o meglio la restauraresurre-zione e il riscatto, oltre che della spe-ranza messianica, delle stesse antiche riposte halakhiche alla domanda sull’identità ebraica.
And yet, e tuttavia, tanto quella speranza quanto le categorie tradizionali del pensare ebraicamente non possono ignorare d’ora in avanti che si tratta, appunto, non di una palingenesi ma di un tiqqun ossia una restaurazione o una riparazione dell’infranto. Per questo, mentre esalta il coraggio e la volontà dei sopravvissuti nel prendere in mano il proprio destino e nel costruirsi una nuova casa, la propria casa, in terra di Israele, il filosofo ricorda che
Il tiqqun che chiamiamo Israele è frammentario. Questo fatto non ha bisogno di essere spiegato, perché è riportato quasi quotidianamente nei giornali. Il potere dello Stato è debole, come lo è lo Stato stesso. […] Limitato verso l’esterno, esso è limitato anche verso l’interno: non può prevenire la conflittualità. Non può nemmeno garantire ai suoi cittadini ebrei una cultura o un’identità ebraiche forti. L’ebraismo della galut è finito; ma non c’è mai fine alla galut, dentro e fuori lo Stato di Israele.11
Qui v’è traccia non solo della consapevolezza che, all’ester-no, i nemici di Israele e dello Stato di Israele esistono e sono reali e hanno strumenti per distruggere vite ebraiche; v’è traccia e allusione anche al fatto che neppure dall’interno si può dormi-re sicuri, perché la galut – intesa come Mizraim [l’Egitto], il ri-schio dell’avodà zarà [l’idolatria] e persino la voglia di assimi-lazione, di fuga e di jeridà, la ‘discesa’, qui intesa come cifra dell’anti-’aljià, la ‘salita’ in terra d’Israele – è una costante ten-tazione dentro ogni ebreo e dentro ogni comunità ebraica, figu-rarsi se non esiste dentro la realtà di uno Stato ebraico. L’esilio è una condizione storica ma anche esistenziale e spirituale, la-scia qui intendere il filosofo. Nondimeno, questo rischio o me-glio al plurale i rischi che rendono frammentario e fragile il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
tiqqun non ne intaccano la sua dimensione di processo straordi-nario e unico, di miracolo (per usare una categoria à la Jehudà Halevi, in contrapposizione all’approccio à la Maimonide12).
Afferma a questo punto Fackenheim:
Che cosa è dunque questo tiqqun? È Israele stesso. È lo Stato fondato, mantenuto e difeso da un popolo che, come si pensava un tempo, ave-va perduto le arti della politica e dell’autodifesa per sempre. È la pian-tumazione e la riforestazione di una terra che, come sembrava un tem-po, era irrimediabilmente arida e desertica. È un popolo adunato da ogni angolo della terra su un territorio che, come dicevano un tempo gli esperti, era davvero troppo piccolo. È una lingua viva che, come temevano anche gli amici una volta, era morta e sepolta. È una città ricostruita che, come riteneva il consenso universale, era destinata a rimanere una sacra rovina. In tutto ciò e grazie a tutto ciò vediamo – a difesa del resto accidentale e dopo una morte senza precedenti – una celebrazione unica della vita.
E prosegue, con raro afflato sionista sia intellettuale che emotivo, direi quasi mistico:
È vero: tanto frammentario e precario è il grande tiqqun [di Israele] che molti non desiderano condividerlo, lo negano, lo distorcono e lo deridono. Ma le derisioni e le negazioni non hanno potere su coloro che sono stupiti e che sempre si stupiscono per il fatto che in questa, tra tutte le epoche storiche, il popolo ebraico è tornato – è stato fatto
tornare? – a Gerusalemme. La sua forza, quando manca, è rinnovata
dalla fede che nonostante tutto, a motivo di tutto, l’impulso dal basso susciterà un impulso dall’alto [corsivi dell’autore].13
Non sfugga, in questo passo, l’inciso in forma interrogativa: «è stato fatto tornare?». Donde viene tale interrogativo, se non dalla fede tradizionale, che credeva in e insegnava la Provvi-denza divina nella storia e che la Shoah ha messo a dura prova, se non smentito e contraddetto? Si allude qui a un Razon Eljion, una Volontà superiore, che, finite l’era e l’obbligazione dei tre
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12 Cfr. D. Hartman, Conflicting Visions: Spiritual Possibilities of Modern
Israel, Schocken, New York 1990, pp. 231-42.
giuramenti di cui parla il Talmud,14 avrebbe guidato il «resto di
Israele» ossia i sopravvissuti alla Shoah nella loro «patria vec-chio-nuova» (T. Herzl)? Il filosofo-teologo-rabbino non rispon-de, lascia queste domande aperte. Ma non a caso, subito dopo, celebra la forza della fede di quei sopravvissuti evocando un’altrettanto tradizionale dottrina qabbalistica – parte integran-te della qabbalà luriana – in virtù della quale l’azione (le mitzwot e le preghiere) dal basso, ossia del popolo rimasto fede-le al patto, non può non suscitare ossia far nascere una re-azione, una risposta dall’alto, ossia da Dio. Questi richiami ora in forma interrogativa ora in forma ottativa, come del resto la convinzione che datim [religiosi] e chilonim [laici] vadano con-siderarsi uniti, attestano che l’approccio di Emil Fackenheim sfugge alle categorie tanto dello storicismo quanto del miracoli-smo, ma resta aperto in modo olistico alla ricchezza di tutta la tradizione ebraica.
Ora, è un tratto distintivo e originale di To Mend the World che questa visione olistica e questa capacità di stupore, che ab-bracciano la nuova vita nello Stato di Israele, debbano includere anche una riflessione sul rapporto sionismo-cristianesimo, e più in generale sul dovere da parte dei non ebrei di essere sionisti e di sostenere Israele, perché non vi possono essere autentiche e sincere relazioni tra ebrei e cristiani senza il pieno riconosci-mento della centralità e dell’importanza dello Stato di Israele nell’identità ebraica contemporanea. Ecco il passo, forte e de-terminato, di Fackenheim:
A meno di non incorrere in un pervertimento teologico o antropologi-co [che negherebbe agli ebrei il dovere morale di cercare la sicurezza per i propri figli], il sionismo – l’impegno nella sicurezza e nella ge-nuina sovranità dello Stato di Israele – non è negoziabile. Né può
es-!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
14 Cfr. Talmud Babli, Ketubot 111: i tre giuramenti o scongiuri divini so-no: 1) che Israele non salga in terra d’Israele come un muro ossia in forma politica, 2) che il popolo ebraico in esilio non si ribelli al governo delle na-zioni; 3) che queste nazioni non opprimano o vessino Israele più del dovuto. Un commento in M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti
sere indebolito od offuscato nel dialogo con i cristiani. Anzi, il sioni-smo, così come appena definito, deve essere un impegno anche cri-stiano dopo Auschwitz. Non meno che gli ebrei stessi, anche i cristiani devono desiderare un’esistenza ebraica indipendente […] Senza sioni-smo, ebraico o cristiano che sia, lo Spirito Santo non può abitare nel dialogo tra ebrei e cristiani.15
E qualche pagina dopo, sempre in To Mend the World, il pensiero è ripreso e ulteriormente allargato in generale alle rela-zioni tra gli ebrei e il resto dell’umanità:
I cristiani dopo l’Olocausto devono essere sionisti a difesa non solo degli ebrei ma anche del cristianesimo stesso. E gli ebrei, dopo l’Olocausto, devono essere sionisti non solo a difesa di se stessi ma anche per tutto il mondo che quell’Olocausto ha conosciuto. […] Nel presente contesto la posta in gioco è il ruolo di uno Stato ebraico in una riparazione post-Olocausto delle relazioni tra ebrei e non ebrei. Una tale riparazione dopo l’Olocausto è necessaria: durante quei terri-bili eventi l’impotenza degli ebrei li poneva all’assoluta mercé dei nemici nazisti ma anche delle nazioni democratiche amiche, incitando l’assassinio tra i primi e solo tiepide opposizioni o suscitando totale indifferenza tra le seconde. Dopo l’Olocausto, il popolo ebraico deve a tutto il mondo il dovere di non incitare i suoi vizi […] continuando a tollerare l’impotenza. Senza uno Stato ebraico non ci potrebbe essere un tiqqun post-Olocausto delle relazioni tra ebrei e gentili, da entram-be le parti. L’uscita degli ebrei dall’impotenza, quando avviene, è sta-ta e continua ad essere un’impresa morale di porsta-tasta-ta storica universa-le.16
Pensieri simili si trovano anche in un altro originale pensato-re della Shoah e del sionismo, il rabbino neo-ortodosso Irving Itzchaq Greenberg, teorico della necessità del potere ebraico ma anche della sua costitutiva dimensione etica, e dunque dei di-lemmi etici che ogni potere e ogni stato pongono a chiunque – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
15 E.L. Fackenheim, Tiqqun, p. 241.
16 Ivi, p. 254. D’altra parte, contro ogni tentazione di chiusura dialogica da parte ebraica, Fackenheim avverte che «non condividere la riparazione delle relazioni tra ebrei e gentili vorrebbe dire rendere a Hitler una vittoria postu-ma. […] Un tiqqun della fiducia tra ebrei e gentili, genuino per quanto fram-mentario, è possibile da parte ebraica, qui e ora, perché un tiqqun corrispon-dente era già iniziato da parte dei gentili là e allora [ossia nella Shoah]» (ivi, p. 256).
individuo o istituzione – non abbia rinunciato alla propria co-scienza.17 Ma rinuncerebbe alla propria coscienza etica anche
chi ignorasse i rischi della mancanza di potere e di forza, che istigano gli istinti violenti dei prepotenti. Da qui la sorpresa e l’amarezza che troviamo in un breve testo di Fackenheim del lontano 1969 – poco più di vent’anni dalla fine della guerra e della Shoah – dove si constata come «l’antisemitismo non è morto neppure oggi». E aggiungeva con parole di sorprendente attualità, ma pronunciate quasi cinquant’anni fa, che «in Occi-dente – dove un aperto antisemitismo pare inaccettabile – esso nondimeno assume le forme di anti-sionismo, un anti-sionismo la cui vera natura si rivela ogni volta che solleva dubbi sull’esistenza o sulle sopravvivenza stessa dello Stato di Israe-le».18 Nessun irenismo dunque di sguardi e di aspettative, ma
grande realismo politico temperato dall’apertura religiosa, con-sapevole della posta in gioco non solo per lo Stato di Israele ma anche per tutto il popolo ebraico, la sua storia e la sua missione.
Vorrei concludere citando ancora David Petterson, che fu molto vicino a Emil Fackenheim negli ultimi anni della sua vita a Gerusalemme:
Appena Abramo ricevette la promessa della Terra di Israele, gli fu detto che le nazioni sarebbero state benedette attraverso i suoi figli, il popolo di Israele. Nell’èra del dopo-Shoah, non solo le nazioni hanno bisogno dello Stato di Israele – la cui stessa esistenza testimonia della verità della Torà – ma Dio stesso ha bisogno di uno Stato ebraico. E ciò è particolarmente vero ora, allorquando molti musulmani reclama-no la distruzione degli ebrei e del loro Stato – e dunque del Dio di Israele – paradossalmente proprio «in nome di Dio». Fackenheim aveva ben compreso e già anticipato anche questo pericolo.19
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17 Cfr. M. Giuliani, La giustizia seguirai. Etica e halakhà nel pensiero
rabbinico, Giuntina, Firenze 2016.
18 E.L. Fackenheim, What Price Relevance? An Intergenerational
Dia-logue, «Jewish Heritage», Fall 1969, pp. 28-29.