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Il problema del linguaggio come filo conduttore attraverso la filosofia di Nietzsche

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Academic year: 2021

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Indice

Parte prima

3

Il linguaggio come tropo e come doxa

3

Capitolo primo: I primi scritti sul linguaggio

3

Il linguaggio come realtà dinamica all’origine della conoscenza 3 Indizi sull’origine e la natura del linguaggio in Vom Ursprung der Sprache 7 La teoria tropica del linguaggio a partire dalla Darstellung der antiken Rhetorik 13

Capitolo secondo: linguaggio e antropomorfismo

21

Il linguaggio semplificante e la conoscenza identificante 21

Il potenziale critico-decostruttivo della teoria tropica del linguaggio per una genealogia del

pensiero. 25

Linguaggio e filosofia come arte e come doxa 31

Parte seconda

35

Il linguaggio: doxa o epistème?

35

Capitolo terzo: Linguaggio e conoscenza fra Über Wahrheit und Lüge e Die

Fröhliche Wissenschaft

35

«Siamo nella nostra rete, noi ragni»: sul rapporto tra sensazione e linguaggio nella costruzione

della conoscenza 35

Linguaggio, società e verità in Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne 39 Linguaggio e fondazione della conoscenza in Über Wahrheit und Lüge 46 Linguaggio, gnoseologia e scetticismo fra Über Wahrheit und Lüge e Menschliches

Allzumenschliches 50

Errore, genealogia evoluzionistica, verità: «la vita non è un argomento». 58

Capitolo quarto: linguaggio e nichilismo fra Die fröhliche Wissenschaft e Götzen

Dämmerung

64

Il linguaggio come dimensione intersoggetiva nell’aforisma 354 di Die fröhliche wissenschaft 64

1) Il pensare cosciente come pensare linguistico 64

2) La teoria del prospettivismo 68

3) Linguaggio, prospettivismo e livellamento 72

«La “ragione” nel linguaggio». 74

1) Il linguaggio prima del linguaggio nel Cratilo di Platone 74

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(3)

Il tema del linguaggio come filo conduttore

attraverso il pensiero scettico di Nietzsche

Parte prima

Il linguaggio come tropo e come doxa

L’uomo è soprattutto un animale giudicante; ma nel giudizio si celano le nostre credenze più antiche e costanti, alla base di ogni giudicare c’è un ritener vero e un asserire, una certezza che qualcosa sia così e non altrimenti, che

proprio qui l’uomo abbia veramente “conosciuto”. Che cosa è ciò che in ogni giudizio viene inconsciamente creduto vero?1

Capitolo primo: I primi scritti sul linguaggio

Il linguaggio come realtà dinamica all’origine della conoscenza

Vielleicht würde ein gefühlloser Dämon von alledem, was wir mit stolzer Metapher „Weltgeschichte“ und „Wahrheit“ und „Ruhm“ nennen, nichts zu sagen wissen, als diese Worte:

„In irgend einem abgelegnen Winkel des in zahllosen Sonnensystemen flimmernd ausgegoss’nen Weltall’s gab es einmal ein Gestirn, auf dem kluge Thiere das Erkennen erfanden. Es war die hochmüthigste und verlogenste Minute der Weltgeschichte, aber doch nur eine Minute. Nach wenigen Athemzügen der Natur erstarrte das Gestirn, und die klugen Thiere mußten sterben. Es war auch an der Zeit: denn ob sie schon viel erkannt zu haben, sich brüsteten, waren sie doch zuletzt, zu großer Verdrossenheit, dahinter gekommen, daß sie alles falsch erkannt hatten. Sie starben und fluchten im Sterben der Wahrheit. Das war die Art dieser verzweifelten Thiere, die das Erkennen erfunden hatten.“

Dies würde das Loos des Menschen sein, wenn er eben nur ein erkennendes Thier wäre; die Wahrheit würde ihn zur Verzweiflung und zur Vernichtung treiben, die Wahrheit, ewig zur Unwahrheit verdammt zu sein2.

Forse un demone insensibile non saprebbe dire altro di tutto ciò che noi chiamiamo, con stupenda metafora “storia del mondo” e “verità” e “gloria”, se non queste parole:

“In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero 1 «Der Mensch ist vor Allem ein urtheilendes Thier; im Urtheile aber liegt unser ältester und beständigster Glaube versteckt, in allem Urtheilen giebt es ein zu Grunde liegendes Fürwahr-halten und Behaupten, eine Gewißheit, daß Etwas so und nicht anders ist, daß hierin wirklich der Mensch „erkannt“ hat: was ist das, was in jedem Urtheil unbewußt als wahr geglaubt wird?» (NF 1886, 4 [8]).

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della storia del mondo, ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Era anche tempo: difatti, sebbene si vantassero di aver conosciuto molto, alla fine avevano scoperto, con grande riluttanza, di aver conosciuto tutto falsamente. Essi perirono, e morendo maledissero la verità. Così accadde a quei disperati animali che avevano scoperto la conoscenza”.

Tale sarebbe la sorte dell’uomo se egli fosse soltanto un animale conoscente; la verità lo spingerebbe alla disperazione e all’annientamento; la verità di essere condannato eternamente alla non verità.

Se c’è qualcosa che colpisce in un passo come questo, è innanzitutto la maestria letteraria con cui è composto. Attraverso quell’intreccio di narrazione e riflessione filosofica che lo caratterizza, esso riassume in se molti dei tratti tipici di quel complesso stile nietzschiano che, visto nel suo insieme, a stento può definirsi semplice prosa. Uno di questi tratti, certamente in questo caso il primo a saltare agli occhi, è la curiosa cornice narrativa attraverso cui Nietzsche introduce a ciò che chiama «il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo», il minuto in cui «in un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari, […], animali intelligenti scoprirono la conoscenza». Ancor più curioso è che questa narrazione ci sia proposta come il punto di vista di un demone privo di sentimenti («ein gefühlloser Dämon») che, di fronte ad una vicenda come quella della scoperta della conoscenza ad opera degli uomini, nient’altro saprebbe affermare se non che, «sebbene si vantassero di aver conosciuto molto, alla fine avevano scoperto, con grande riluttanza, di aver conosciuto tutto falsamente». Immagini di questo tipo, fortemente letterarie e forse, secondo il parere di alcuni, inadatte all’esposizione di un contenuto filosofico, abbondano nell’opera di Nietzsche e ne costituiscono un tratto decisamente singolare. Per fare solo un altro paio di esempi, si pensi alla parabola dell’uomo folle nell’aforisma 125 di Die

fröhliche Wissenschaft, o alla ricorrenza dell’immagine del demone nell’aforisma 341 della stessa

opera in cui viene annunciato per la prima volta il pensiero dell’eterno ritorno. Le si ritenga adeguate o meno a veicolare un contenuto filosofico, è proprio dietro queste immagini che si nascondono spesso i motivi più centrali della speculazione del filosofo di Röcken. Nel caso di questo passo tratto da Über das Pathos der Wahrheit, lo sguardo del demone senza sentimenti che osserva un evento quale la scoperta della conoscenza, può esser messo in relazione al freddo sguardo nichilistico che, soltanto qualche anno più tardi, a partire dalla pubblicazione di

Menschliches Allzumenschliches, Nietzsche vedrà incarnato dal pensatore che pratica la «filosofia

storica, […], il più recente di tutti i metodi filosofici»3, una figura che più sinteticamente potremmo

definire come il filosofo genealogista la cui tecnica di indagine è una sorta di «chimica delle idee e die sentimenti»4. Sia ben chiaro, non c’è dubbio sul fatto che la ricostruzione dell’origine della

conoscenza proposta dal demone in questione faccia apparentemente il contrario di quanto la genealogia, come raffinato metodo di analisi storica, dovrebbe fare secondo la brillante caratterizzazione datane da Foucault. L’atteggiamento del demone sembra infatti l’opposto di un «attardarsi sulle meticolosità e sui casi degli inizi»5 e il paragone fra le due figure potrebbe in tal

senso apparire quanto mai azzardato. Eppure, benché la ricostruzione proposta dal demone non possa definirsi propriamente genealogica, il suo “atteggiamento intellettuale” ha molto a che fare con quello del genealogista. In qualche modo il suo gelido sguardo senza sentimenti, che con

3 MM 1. 4 MM 1.

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freddezza constata come, visto secondo il filtro della deludente cosmologia moderna, il solenne fenomeno della conoscenza non abbia in realtà niente di speciale (infondo, «dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire»6), contiene in nuce

l’atteggiamento del genealogista che ride della «solennità dell’origine»7. Inoltre, il fatto che

l’oggetto di riflessione del demone sia proprio la conoscenza, può considerarsi una ragione capace di legittimare curioso accostamento. Esso è infatti tutt’altro che casuale. Proprio la messa in questione della conoscenza, della sua grandezza come impresa umana, della sua veridicità come sguardo dell’uomo sul mondo, è infatti al centro dell’atteggiamento critico che caratterizza il genealogista. In questo senso, l’intera riflessione di Nietzsche può esser vista come uno sforzo di critica nei confronti della conoscenza, della cultura e della storia e infine dunque del pensiero stesso. Il suo metodo consisterebbe in una critica genealogica o, se si preferisce, in una genealogia critica, in altre parole da un’indagine storica dotata di particolari caratteristiche, all’interno della quale decostruzione vale come critica e viceversa. In uno dei primi passi in cui Nietzsche tematizza il metodo genealogico, lo si vede descritto come una

entstehungsgeschichte des Denkes, […], dessen Resultat vielleicht auf diesen Satz hinauslaufen dürfte: Das, was wir jetzt die Welt nennen, ist das Resultat einer Menge von Irrthümern und Phantasien, welche in der gesammten Entwickelung der organischen Wesen allmählich entstanden, in einander verwachsen <sind> und uns jetzt als aufgesammelter Schatz der ganzen Vergangenheit vererbt werden, — als Schatz: denn der Werth unseres Menschenthums ruht darauf8.

storia della genesi del pensiero, il cui risultato potrebbe forse compendiarsi in questa proposizione: ciò che noi ora chiamiamo il mondo, è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato – come tesoro: perché il valore della nostra umanità riposa su di esso.

In questo passo si può osservare proprio quanto si è sopra accennato, ovvero come l’indagine genealogica si riferisca innanzitutto alla conoscenza e al pensiero e sia perciò essenzialmente una «storia della genesi del pensiero» che, scavando in profondità, rinviene i tratti menzogneri da cui è scaturita la conoscenza e in base a cui, ciò che è noto come mondo, finisce per essere smascherato come il risultato di una miriade di errori e fantasie. Ma conoscenza e pensiero sono al centro dell’indagine genealogica non solo, e non tanto, in quanto ne costituiscono in se stesse l’oggetto privilegiato. Essa può infatti rivolgersi anche all’analisi di altre realtà, come ad esempio quella della morale. Ad ogni modo però, la genealogia concepisce ogni realtà che va a indagare, non come un oggetto in sé di cui dovrebbe rinvenire un’origine in quanto fondamento o essenza, bensì come un’interpretazione o meglio, come il risultato di un avvicendarsi di interpretazioni che, stratificatesi nel tempo, hanno dato vita all’immagine apparentemente statica dell’oggetto in questione9. Suo 6 PW p. 88.

7 FOUCAULT M., Op cit. 8 MA 16

9 «Perché Nietzsche genealogista rifiuta, almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che esterno, accidentale e successivo. Ricercare una tale origine è tentare di ritrovare quel che era già, lo stesso di un’immagine esattamente adeguata a sé; è considerare avventizie tutte le peripezie che hanno potuto aver luogo, tutte le astuzie e tutte le simulazioni; è cominciare a togliere tutte le maschere per svelare infine un’identità originaria. Ora, se il

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compito è quindi rintracciare l’insieme dei movimenti costituenti quel sottofondo dinamico che, cristallizzatosi, ha poi dato vita a tale apparenza di staticità10.

Questa «Storia della genesi del pensiero», compie dunque lo sforzo di portare in luce quel che si trova all’origine della conoscenza e che, sebbene si possa esser tentati di definire in termini di

struttura, tenendo conto di quanto si è appena detto, si è invece tenuti ad indicare come un insieme complesso di forze che, configuratesi poi in una forma apparentemente unitaria ed in sé coerente, ha

assunto i tratti di ciò che all’uomo è noto come conoscenza. Rimane allora da definire in che cosa consista, al di là delle tante metafore e delle astrazioni formali, questo insieme di forze che si rinverrebbe analizzando genealogicamente il fenomeno della conoscenza e più in generale quello del pensiero. La tesi che s’intende avanzare è che tale insieme di forze, tale sottofondo dinamico,

sia costituito dal linguaggio. Questo lavoro si pone allora come un tentativo di dimostrazione di tale

tesi, tentativo che non potrà prescindere da un lungo percorso necessario a definire il contorno teorico e, successivamente, le conseguenze filosofiche, in essa implicati. Indicando qui il linguaggio come un “complesso insieme di forze”, non ci s’illude infatti di aver in qualche modo iniziato a chiarirne la natura, ma soltanto di aver almeno indicato, sebbene soltanto attraverso una semplice visione d’insieme, quale sia il suo posto all’interno della riflessione nietzschiana.

Benché tutte le argomentazioni necessarie a sostegno della tesi or ora avanzata siano ancora tutte da formularsi, in questo paragrafo introduttivo si è per lo meno iniziato a mostrare come la questione del linguaggio giochi per Nietzsche un ruolo teoretico essenziale, giacché esso è concepito come luogo di scaturigine della conoscenza e, in realtà, del pensiero stesso. Inoltre si è con ciò fornito anche un indizio importante al fine di evitare rischiosi fraintendimenti. Come sarà infatti mostrato in seguito11, leggendo alcuni passi dell’opera di Nietzsche si potrebbe esser tentati

di definire il linguaggio come una struttura sorreggente l’edificio della conoscenza e del pensiero12.

Si mostrerà tuttavia13, come il concetto di struttura non risulti affatto adeguato alla descrizione di

ciò che si trova all’origine del linguaggio, al momento del suo sorgere primordiale. Tale concetto si svelerà invece essere applicabile a quello che rappresenta, semmai, soltanto uno stadio di stabilizzazione piuttosto avanzato delle forze sotterranee che lo animano. Strada facendo, verranno dunque esplicitate le ragioni che ci spingono fin da adesso a far ricorso all’astratto modello descrivente il linguaggio come un complesso insieme di forze. Sarà infatti mostrato come, malgrado il suo carattere indefinito e formale, un modello simile si presti alla definizione di una realtà come quella del linguaggio, poiché concretizzabile al momento opportuno nei differenti ed eterogenei aspetti che ne costituiscono le molteplici dimensioni.

genealogista prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestar fede alla metafisica, cosa apprende? Che dietro le cose c’è “tutt'altra cosa”: non il loro segreto essenziale e senza data, ma il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee. La ragione? Ma è nata in modo del tutto del ragionevole, - dal caso» (FOUCAULT M. Op cit. pp. 31-32).

10 «Se interpretare, fosse mettere lentamente in luce un significato nascosto nell'origine, solo la metafisica potrebbe interpretare il divenire dell'umanità. Ma se interpretare è impadronirsi, attraverso violenza e surrezione, di un sistema di regole che non ha un significato essenziale in sé, ed imporgli una direzione, piegarlo ad una volontà nuova, farlo entrare in un gioco e sottometterlo a nuove regole, allora il divenire dell'umanità è una serie di interpretazioni. E la genealogia deve esserne la storia» (FOUCAULT M. Op cit).

11 INSERIRE DEI RIMANDI AL MOMENTO OPPORTUNO.

12 «In quanto ha creduto per lunghi periodi di tempo nelle nozioni e nei nomi delle cose come aeterne veritates, l'uomo ha acquistato quell'orgoglio col quale si è innalzato al di sopra dell'animale: egli credeva veramente di aver nel linguaggio la conoscenza del mondo. […]. Anche la logica poggia su premesse a cui nulla corrisponde nel mondo reale» (MA I, 11, 21).

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Indizi sull’origine e la natura del linguaggio in Vom Ursprung der Sprache

Il punto di partenza per lo sviluppo del programma tracciato, è costituito da uno scritto intitolato

Vom Ursprung der Sprache (1869-1870)14. Si tratta di un testo, tanto breve quanto ricco di spunti,

posto da Nietzsche come introduzione ad un corso di grammatica latina tenuto all’università di Basilea e che insieme alla raccolta di appunti sulla retorica antica intitolata Darstellung der antiken

Rhetorik (1872-1874)15 e l’inedito Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne (1873), va a

costituire il primo di una triade di scritti tutti dedicati espressamente alla questione del linguaggio. La cosa è di particolare interesse giacché, nelle opere pubblicate di Nietzsche, il tema del linguaggio più che emergere come motivo centrale, tende semmai a costituire un “sottofondo teorico” sul quale si erigono quelli che Heidegger in Der europäische Nihilismus definisce i cinque titoli capitali del pensiero di Nietzsche16.

Prima di passare all’analisi del testo è bene soffermarsi su una considerazione preliminare. Come dimostrato da Claudia Crawford in un eccellente studio intitolato The Beginnings of

Nietzsche’s Theory of Language, molti passi di questo breve scritto sull’origine del linguaggio

costituiscono spesso citazioni (talvolta quasi letterali, talvolta un po’ rimaneggiate) da un testo molto importante per la formazione filosofica del giovane Nietzsche, ovvero dalla Philosophie des

Unbewußten pubblicato da Eduard von Hartmann nel 186817. È questa un’opera che, come risulta

evidente dal titolo, ruota attorno ad un motivo piuttosto innovativo all’interno del contesto filosofico di fine ottocento, in cui d’altronde non si è ancora verificata la dirompente diffusione della cosiddetta “rivoluzione psicoanalitica”: si tratta dell’idea d’inconscio. Non stupisce che un’idea simile desti l’interesse di un atipico lettore di Schopenhauer qual è il giovane Nietzsche. Come infatti documentato ampiamente da Crawford, la lettura di Hartmann risulta centrale in quanto va a movimentare il quadro filosofico da cui trae spunto la riflessione del giovane filologo, andando ad imprimere una direzione innovativa in primis alla suggestione di una volontà irrazionale che egli trae da Die Welt als Wille und Vorstellung. Se già in quest’ultima è infatti rinvenibile un’embrionale idea d’inconscio, la lettura di Hartmann apre a Nietzsche la strada per una definizione di tale concetto, più sobria e libera dall’ingombrante contorno metafisico in cui rimane inevitabilmente impigliata finché permanente nella sua veste schopenhaueriana. Inoltre, in un capitolo significativamente intitolato “Das Unbewußte in der Entstehung der Sprache”, è lo stesso Hartmann a porre in luce il potenziale teorico del concetto d’inconscio rispetto ad una riflessione che si concentri sul problema della genesi del linguaggio. Grazie ad Hartman dunque, al momento del suo primo cimentarsi con la questione, Nietzsche può far conto su un concetto piuttosto

14 Per maggiori informazioni riguardo alla datazione vedi A Critical Commentary on Nietzsche’s “On the Origin of

Laguage”.

15 Sulle incertezze relative alla datazione di questo testo si veda il paragrafo dedicato adesso e anche la nota.

16 Con questa espressione Heidegger si riferisce ai celebri motivi della riflessione nietzschiana: il nichilismo, la trasvalutazione dei valori, la volontà di potenza, l’eterno ritorno e il super uomo (HEIDEGGER M. Il nichilismo

europeo, Adelphi, Milano, 1994, pp.563-474).

17 Per un’analisi approfondita del rapporto tra Nietzsche e Hartmann si rimanda a CRAWOFRD C, The Beginnings of

Nietzsche’s Theory of Language, De gruyter, Berlin-NewYork, 1988 (pp. 17-21), in cui l’autrice, oltre a mettere in

luce l’importante ruolo giocato da Hartmann nella formazione filosofica di Nietzsche, esegue una ricostruzione della corrispondenza tra alcuni passi dello scritto Vom Ursprung der Sprache e la Philosophie des Unbewußten. In questo lavoro si riporterà il passo di Hartmann al quale Nietzsche si riferisce soltanto se effettivamente necessario ad una più approfondita comprensione del testo. Mostrare tutte le corrispondenze risulterebbe d’altronde eccessivo all’interno di un lavoro come quello presente che non rivendica una natura filologica, nonché per altro faticoso e superfluo per il lettore.

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innovativo e fecondo nonché, all’interno della cultura tedesca della seconda metà dell’ottocento, ancora libero, benché non per molto, dall’egemonia del modello freudiano.

Tornando adesso al contenuto dello scritto Vom Ursprung der Sprache, i temi che esso affronta sono essenzialmente due: da un lato la questione concernente proprio l’origine del linguaggio; dall’altro quella relativa al legame tra linguaggio e pensiero cosciente.

Ecco come Nietzsche, nell’incipit dello scritto e poi in un passo successivo, affronta la prima questione:

Altes Räthsel: bei Indern Grieghen bis auf die neuste Zeit. Bestimmt zu sagen, wie der Ursprung der Sprache nicht zu denken ist.

Die Sprache ist weder das bewußte Werk einzelner noch einer Mehrheit. I. Jedes bewußte Denken erst mit Hülfe der Sprache möglich. […].

Für die Arbeit eines Einzelnen ist sie viel zu komplicirt, für die der Masse vuel zu einheitlich, ein ganzer Organismus. Es bleibt also nur übrig, die Sprache als Erzeugniß des Instiktes zu betrachten, wie bei den Bienen – den Ameisenhaufen usw. Instinkt aber ist nicht Resultat bewußter Überlegung, nicht bloße Folge der körperlichen Organisatio, nicht Resultat eines Mechanismus, der in das Gehirn gelegt ist, nicht Wirkung eines dem Geiste von außen kommenden, seinem Wesen fremden Mechanismus, sondern eigenste Leistung des Individuums oder einer Masse, dem Charachter entspringend. Der Instinkt ist sogar eins mit dem innersten Kern eines Wesens. Dies ist das eigentliche Problem der Philosophie, die unendliche Zweckmäsigkeit der Organismen und die Bewußlosigkeit bei ihrem entstehen.18

Antico mistero: presso gli antichi indiani ed i greci fino ai tempi più recenti. Porta a dire come l’origine del linguaggio19 non20 sia da pensarsi.

Il linguaggio non è né il prodotto cosciente di un singolo né di una maggioranza. I. Ogni pensiero cosciente possibile innanzitutto grazie all’aiuto del linguaggio. […].

Per il lavoro di un singolo esso è troppo complicato, per quello delle masse troppo uniforme, un intero organismo. Resta soltanto di considerare il linguaggio come risultato dell’istinto, come riguardo alle api – al formicaio ecc. L’istinto però non è risultato di una riflessione cosciente, non è la mera conseguenza dell’organizzazione corporea, non è il risultato di un meccanismo posto nel pensiero, non è l’effetto di qualcosa che giunga allo spirito dall’esterno, un meccanismo estraneo alla sua essenza, bensì il prodotto più proprio dell’individuo o delle masse scaturente dal carattere21. L’istinto è addirittura tutt’uno con il più intimo nocciolo di un essere. Questo è il problema effettivo della filosofia, l’infinita finalità degli organismi e l’assenza di coscienza al loro sorgere.22

18 US. Una parte del passo è ricalcata da Hartmann: «Für die Arbeit eines Einzelnen ist der Grundbau viel zu complicirt und reichhaltig, die Sprache ist ein Werk der Masse, des Volkes. Für die bewusste Arbeit Mehrerer aber ist sie ein zu einheitlicher Organismus. Nur de Masseninstikt kann sie geschaffen haben, wie er im Leben des Bienenstockes, des Thermiten- und Ameisenhaufens waltet» (HARTMANN E., Philosophie des Unbewußten, Verlag von Wilhlelm Friedrich, Leipzig). «Per il lavoro di un singolo la costruzione è troppo complessa e variegata; la lingua è il lavoro della massa, del popolo. Per il lavoro cosciente di molti essa è però un organismo troppo uniforme. Solo l’istinto della massa può averla creata, al modo in cui esso domina nella vita dell’alveare, nel termitaio e nel formicaio» (traduzione mia).

19 La lingua tedesca non dispone, a differenza della lingua italiana, di una sfumatura semantica capace di distinguere tra lingua e linguaggio. Entrambi i concetti sono espressi in tedesco mediante il termine “Sprache” che dev’essere opportunamente tradotto con “lingua” o “linguaggio” in base al contesto in cui si trova. Essendo quello in questione uno scritto di natura filosofica, si ritiene opportuno tradurre il termine “Sprache” con “linguaggio”, in quanto esso indica qui un concetto astratto piuttosto che una lingua specifica.

20 Corsivo mio.

21 Il sostantivo “Charachter” potrebbe venir reso qui anche come natura.

22 Poiché tale scritto non è stato ancora tradotto nell’edizione critica italiana delle opere di Nietzsche, la traduzione eseguita è mia. Visto si riporta anche il testo in lingua originale, si è optato per una traduzione abbastanza letterale. Una traduzione alternativa è proposta da Marco Carassi in CARASSAI M. (a cura di), Linguaggio e verità, Nietzsche

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Come si vede, Nietzsche esclude l’idea di un’origine cosciente del linguaggio, sia essa addebitata alla capacità creativa di un singolo (cosa che non potrebbe dar ragione della grande complessità interna del prodotto), sia essa addebitata alla capacità creativa di una moltitudine (cosa che invece non risulterebbe conciliabile con l’uniformità del prodotto). Il motivo di questa esclusione sembra piuttosto chiaro: giacché il pensiero cosciente non può prescindere dall’articolazione linguistica, il linguaggio non può evidentemente presupporre ciò di cui deve costituire la condizione di possibilità23. Poiché, argomenta Nietzsche, il linguaggio appare come «un

intero organismo», l’unica alternativa rimanente, capace di spiegarne la genesi, è pensarlo come il prodotto di un istinto. Come provato dalla corrispondenza testuale con la Philosophie des

Unbewußten24, l’acuta idea di considerare il linguaggio come il prodotto di un istinto è mediata da

Hartmann. Nietzsche si rende conto di come questa trovata hartmanniana sia in grado di spiegare la genesi di qualcosa di estremamente complesso, senza attribuirla al lavoro di un pensiero cosciente. Se infatti animali come le api e le formiche possono dar vita a costruzioni così complesse come l’alveare o il formicaio, guidate dalla sola cecità dell’istinto, perché non dovrebbe ritenersi possibile che anche il linguaggio sia infondo un prodotto istintuale? Si tratta di un’idea eccezionalmente avanzata e di cui Nietzsche coglie subito la profonda portata antimetafisica ed antiteleologica. Attribuendo la genesi del linguaggio ad un operare istintuale, Nietzsche vede infatti risolversi l’antinomia kantiana della Kritik der Urteilskraft25:

Die richtige Erkenntniß ist erst seit Kant geläufig, der in der Kritik der Urteilskraft die Teleologie in der Natur als etwas Tatsächlich anerkannte, andererseits die wunderbare Antinomie hervorhob, daß etwas zweckmäßig sei ohne ein Bewußtsein. Dies das Wesen der Instinkt.

La giusta conoscenza è corrente a partire da Kant, che nella Critica del giudizio riconobbe la teleologia nella natura come come qualcosa di fattuale, ma d’altro canto mise in luce la meravigliosa antinomia, che qualcosa di conforme al fine sia privo di coscienza. Questa l’essenza dell’istinto.

La conclusione a cui giunge Nietzsche è chiara: l’ “essenza” dell’istinto sta nel suo riuscire a risolvere l’apparente contraddizione consistente nel fatto che, pur essendo un cieco impulso in sé

F., Castelvecchi, Roma, 2016.

23 A favore sostegno di questa posizione Nietzsche riporta un passo di Schelling (anch’esso in realtà trascritto direttamente dalla Philosophie des Unbewußten di Hartmann): «Da sich ohne Sprache nicht nur kein philosophisches, sondern überhaupt kein menschliches Bewußtsein denken läßt, so konnte der Grund der Sprache nicht mit Bewußtsein gelegt werden; und dennoch, je tiefer wir in sie eindringen, desto bestimmter entdeckt sich, daß ihre Tiefe die des bewußtvollsten Erzeugnisses noch bei weitem übertrifft. Es ist mit der Sprache, wie mit den organischen Wesen; wir glauben diese blindliges entstehen zu sehen und können die unergründliche Absichtlichkeit ihrer Bildung bis ins Einzelste nicht in Abrede ziehen». «Dal momento che non solo nessuna coscienza filosofica, ma in generale nessuna coscienza umana può essere concepita priva di linguaggio, non è possibile che a gettare il fondamento del linguaggio sia stata la coscienza. Anzi, quanto più profondamente penetriamo nella lingua, tanto più scopriamo che, nella sua profondità, essa oltrepassa di gran lunga il livello della creazione più cosciente. La situazione della lingua ricorda quella degli esseri organici: crediamo di ravvisare nella loro genesi un cieco processo, e tuttavia non possiamo non riconoscere fin nei minimi dettagli l’imperscrutabile intenzionalità della loro formazione» (SCHELLING F., Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica. Lezioni (1842), GRIFFERO T. (a cura di) Guerini Associati, Milano, 1998, p. 134).

24 Vedi la nota 22.

25 Sebbene il confronto con Kant attraversi tutta l’opera di Nietzsche, non è chiaro se e quanto Nietzsche abbia affrontato una lettura dirette delle opere del filosofo di Königsberg. La critica (di cui verranno riportati molti esempi) è comunque uniformemente d’accordo sull’individuare in Die Welt als Wille und Vorstellung di Schopenhauer, nella Geschichte des Materialismus di Lange e in Kant’s Leben und die Grundlagen seiner Lehre di Kuno fischer, i filtri fondamentali attraverso i quali Nietzsche ha assorbito il pensiero di Kant.

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privo di ragione, la sua azione costante, per quanto di fatto casuale (in quanto priva di un orientamento teleologico), è tuttavia capace di erigere costruzioni complesse come un alveare, un formicaio, o addirittura eccezionali come il linguaggio umano. Curioso è che il giovane Nietzsche, cresciuto in una famiglia molto religiosa con un padre pastore protestante, filologo classico di formazione, entusiasta lettore di Schpenhauer e presto fervente ammiratore di una contraddittoria figura come quella di Richard Wagner, ben prima della presunta svolta illuministica segnata da

Menschliches Allzumenschliches, dimostri una grande capacità di valorizzare i contributi forniti dal

pensiero scientifico del suo tempo (o dal pensiero scientifico-filosofico com’è il caso Hartmann o di Lange, sul quale si tornerà più tardi) e di assorbirne i contenuti per trasformali in strumenti speculativi funzionali alle sue riflessioni. Si tratta di un aspetto del pensiero di Nietzsche che merita di esser sottolineato con decisione, poiché alcuni degli strumenti teorici da lui rinvenuti nel dibattito scientifico ottocentesco andranno più tardi a costituire parte integrante di quel metodo genealogico che, come si è accennato nel paragrafo d’apertura, sta alla base della riflessione critico-genetica concernente proprio il linguaggio. Si vedrà dunque come, coerentemente con il programma delineato in Menschliches Allzumenschliches di una «filosofia storica, […], che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali»26, in Die fröhliche Wissenschaft Nietzsche applicherà

l’innovativo principio darwiniano della selezione naturale, al fine di tentare una genealogia evoluzionistica che getti una luce sul misterioso sorgere primordiale delle più fondamentali categorie logico-linguistiche27.

Rimane adesso da analizzare la seconda questione sopra accennata, ovvero quella relativa al legame tra linguaggio e pensiero cosciente. Per poterla inquadrare adeguatamente si parte dal seguente passo in cui compare una rimaneggiata citazione da Kant:

Die tiefsten philosophischen Erkenntnisse liegen schon vorbereitet in der Sprache. Kant sagt: “ein Großer Theil, viell. der größte Theil von dem Geschäfte der Vernunft besteht in Zergliederung der Begriffe, die er schon in sich vorfindet”. Man denke an Subjekt und Objekt; der Begriff des Urtheils ist vom grammatischen Satze abstrahirt. Aus Subjekt u. Predikat wurden die Kategorien von Substanz und Accidenz.

Le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già preparate nel linguaggio. Kant afferma: “una grossa parte, la maggior parte dell’attività della ragione, consiste nella scomposizione di concetti che egli (l’uomo) rinviene in se stesso”. Si pensi a soggetto e oggetto; il concetto di giudizio è astratto dalla frase grammaticale. Da soggetto e predicato vennero astratte le categorie di sostanza e accidente.

Il passo si apre con un’asserzione piuttosto forte e il cui significato rimane inevitabilmente oscuro per chi non conosca già le posizioni di Nietzsche in merito al linguaggio o non abbia presente il retroterra filosofico hartmanniano che egli ha in mente quanto lo scrive. Posta così infatti, quest’asserzione risulta chiaramente decontestualizzata.

Un primo chiarimento può essere allora tentato riconducendo quest’oscura sentenza al passo della Philosophie des Unbewußten a cui Nietzsche si ispira e da cui estrapola la (modificata) citazione kantiana:

26 «Die historische Philosophie […], welche gar nicht mehr getrennt von der Naturwissenschaft zu denken ist» (MA 1).

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Indem der Menschengeist in der Weltgeschichte zum ersten Male vor sich selber stutzt und anfängt zu philosophieren, findet er eine mit allem Reichtum von Formen und Begriffen ausgestattete Sprache vor sich, und „ein grosser Theil, vielleicht der grösste Theil von dem Geschäfte seiner Vernunft besteht in Zergliederungen der Begriffe, die er schon in sich vorfindet“28, wie Kant sagt. Er29 findet die Casus der Declination in Substantiv, Verbum, Adjectiv, Pronome, die Genera, Tempora und Modi des Vebums, und den unermesslichen Schatz fertiger Gegenstands- und Beziehungsbegriffe. Die sämtliche Kategorien, welche grösstentheils die wichtigsten Relationen darstellen, die Grundbegriffe alles Denkens, wie Sein, Werden, Denken, Fühlen, Begehren, Bewegung, Kraft, Thätigkeit etc., liegen ihm als fertiges Material vor30, und er hat Tausende von Jahren zu thun, um sich nur in diesem Schatze unbewusster Speculation zurecht zu finden.31

Si vede come la teoria sostenuta da Hartmann, consista essenzialmente nell’idea che l’uomo trovi già in se stesso dei concetti fondamentali che, sedimentati nel linguaggio, andrebbero a costituire un grande tesoro in cui giace l’inconscio potenziale speculativo della mente umana. Sulla base di questa teoria, Crawford spiega le ragioni che condurrebbero Hartmann a modificare la citazione kantiana: «Hartmann can transpose “concepts of object” into “concepts which it32 already find in

itself” because he believes that the concept of object is only possible upon the precondition of the already unconscious forms of language itself. […]. Hartmann is implying that Kant’s a priori Forms can be understood as proceeding out of the conscious ready-made forms of grammar which lie in human beings and which provides the predetermined direction of conscious speculation»33.

Si provi adesso a rileggere l’inizio e la conclusione del passo nietzschiano: «Le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già preparate nel linguaggio. […]. Si pensi a soggetto e oggetto; il concetto di giudizio è astratto dalla frase grammaticale. Da soggetto e predicato vennero astratte le categorie di sostanza e accidente»34. Grazie alla contestualizzazione fornita dal rimando al passo

hartmanniano, l’oscura sentenza nietzschiana di cui si sta cercando di chiarire il significato dovrebbe iniziare a chiarificarsi. Essa contiene, in nuce, ciò che emergerà esplicitamente attraverso l’analisi di altri testi in cui Nietzsche sviluppa la propria teoria del linguaggio, ovvero l’idea che l’apporto dell’uomo alla conoscenza sia da ricercarsi in una rete di concetti o categorie fondamentali35 che si annidano nel linguaggio stesso. In questo senso va letta la conclusione del 28 «Ein grosser Teil und vielleicht der größte von dem Geschäfte unserer Vernunft besteht in Zergliederungen der Begriffe, die wir schon von Gegenständen haben». «Gran parte, o forse la maggior parte della nostra ragione, consiste nella scomposizione dei concetti che già possediamo degli oggetti» (KANT I. Critica della ragion pura, COSTANTINO E. (a cura di), Milano, Bompiani, 2004).

29 Il soggetto è qui, in riferimento alla citazione precedente, “der Mensch”.

30 Corsivo mio. Vista la provata corrispondenza tra molti passi di Vom Ursprung der Sprache e Philosophie des

Unbewußten, si può ritenere pressoché scontato che proprio da questa frase Nietzsche abbia tratto ispirazione per la

sua asserzione «Die tiefsten philosophischen Erkenntnisse liegen schon vorbereitet in der Sprache». 31 HARTMANN E., Philosophie des Unbewußten, p. 255.

32 Crawford scrive “it” e non “he” perché si tira dietro un errore di traduzione presente nella versione inglese del testo di Hartmann a cui fa riferimento. Nella versione inglese infatti, il passo di Hartmann a cui ella fa riferimento è tradotto così: «It [reason] finds the cases of declension in the substantive, […]» (CRAWFORD C., Op. cit., p. 37). A porre la parola “reason” tra parentesi quadre è la stessa Crawford, che va così ad amplificare l’errore interpretativo compiuto dal tradurre inglese della Philosophie des Unbewußten. Come risulta evidente a chi abbia consultato la versione originale del passo hartmanniano («Er findet die Casus der Declination in Substantiv, […].») “Er” non può riferirsi al sostantivo “die Vernunft” ma soltanto (unica opzione) al sostantivo “der Mensch”. Questa sottigliezza non muta però il senso e la correttezza dell’interpretazione che Crawford propone del passo Hartmanniano, interpretazione che infatti si sceglie in ogni caso di abbracciare.

33 CRAWFORD C., Op. cit., p. 37-38. 34 US.

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passo: le categorie di soggetto e oggetto sono astratte dalla grammatica e ipostatizzate dalla filosofia; la stessa cosa vale per i concetti aristotelici di sostanza e accidente, il cui unico riferimento, ben lungi dall’essere ontologico, è meramente linguistico-grammaticale. Categorie come queste però, sono tutt’altro che passeggere nella storia della filosofia. Si può anzi affermare, che grandi rami della riflessione filosofica si siano costruiti ruotando attorno ad esse e che con ciò queste siano state elevate a potenti strumenti conoscitivi nonché talvolta a vere e proprie realtà ontologiche.

Grazie a questo primo chiarimento del denso passo tratto da Vom Ursprung der Sprache e alla prima breve incursione nella giovanile teoria linguistica nietzschiana che ciò ha occasionato, ci sono adesso sufficienti elementi per un secondo tentativo di chiarimento, più profondo ma al contempo anche più azzardato. Facendo leva sul rimando a Kant contenuto nel passo di Nietzsche che si è discusso e compiendo ciò che, all’attuale grado di approfondimento della sua concezione linguistica, potrà forse apparire un volo pindarico, si azzarda nel proporre la seguente interpretazione: quando Nietzsche afferma che «le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già preparate nel linguaggio», tenta di paragonare il ruolo che all’interno della sua riflessione gnoseologica (qui rimasta implicita) è svolto dal linguaggio, al ruolo che nella gnoseologia kantiana è svolto invece dal soggetto conoscente o per esser più precisi, dal sintetico a priori. FORSE BISOGNA TENER DI CONTO ANCHE DEL GIUDIZIO ANALITICO? MA IN QUESTO MODO NON BISOGNEREBBE CONSIDERARE ANCHE IL SINTETICO A POSTERIORI? D’ALTRONDE IL LINGUAGGIO C’ENTRA SEMPRE! RIFLETTERE. Forse invece non c’è bisogno di tirare in ballo anche i giudizi analitici a priori e quelli sintetici a posteriori, poiché le conoscenze in senso effettivo sono contenute solo nei giudizi sintetici a priori.

«Le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già preparate nel linguaggio» perché, come per Kant le categorie dell’intelletto e le intuizioni pure di spazio e tempo fondano la validità dei giudizi sintetici a priori, sottraendoli con ciò ad una impossibile fondazione empirica, così il linguaggio costituisce per Nietzsche il luogo in cui in cui si annidano i concetti, le categorie, gli schemi, i principi, nonché i pregiudizi, in base ai quali, all’interno della sua riflessione gnoseologica, ha luogo il costruirsi della conoscenza. Quel fondamento della conoscenza che Kant individua nell’ordine meraviglioso e pacificante delle dodici categorie e delle intuizioni pure di spazio e tempo, giace dunque per Nietzsche in un luogo diverso e meno astratto che è, per l’appunto, il linguaggio stesso.

Questo secondo tentativo di chiarimento solleva però una questione troppo centrale per poter essere sorvolata. Con lo spostamento del luogo di fondazione del linguaggio dal piano dell’intelletto e delle intuizioni pure a quello del linguaggio, ha luogo infatti qualcosa di filosoficamente molto importante: la possibilità di una fondazione della conoscenza vacilla. Se essa trovava infatti nella ragione kantiana un’ancora di salvezza rispetto allo scetticismo humiano, c’è da chiedersi se, con lo spostamento del suo luogo di fondazione dal piano del sintetico a priori a quello linguistico, non entri in crisi la stessa possibilità di parlare di “fondazione”. Più esplicitamente, bisogna porsi la domanda: può il linguaggio prendere sulle proprie spalle il ruolo di fondazione della validità a priori delle conoscenze scientifiche posseduto dalla ragion pura kantiana? La risposta a questa domanda non è in realtà un drastico un “si” o un drastico “no”. Attorno a questo quesito centrale sarà infatti da svilupparsi un discorso complesso il cui nocciolo è compendiabile in una seconda domanda: se è vero che il potenziale fondativo della ragione kantiana consiste nel suo costituire un’universalità

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Può dunque il linguaggio andare a costituire un’universalità intersogettiva capace di fare da fondamento alla conoscenza? In una prima fase, che va dallo scirto Vom Ursprung der sprache agli appunti intitolati Darstellung der antiken Rhetorik, Nietzsche sembra trarre dalla sua riflessione linguistica la conseguenza che il linguaggio, e con esso la conoscenza stessa, costituiscano una

doxa. Questa conclusione potrebbe dar l’impressione che la risposta alla domanda appena posta non

possa che essere decisamente negativa. Eppure, come sarà mostrato, senza aver neppure bisogno di operare un’inversione di rotta, la riflessione sul linguaggio emergente dalla fase più matura del pensiero nietzschiano, consentirà di trarre delle conseguenze, in un certo senso, opposte. Nel secondo capitolo verrà infatti dimostrato come lo sviluppo della teoria della conoscenza nietzschiana in termini prospettivistici, consenta di estrarre una concezione non doxastica del linguaggio e quindi anche della conoscenza stessa.

In conclusione di questo paragrafo, che ha rappresentato una prima incursione nella concezione linguistica di Nietzsche, si può dire che forse, seguendo il filo logico qui proposto, la domanda contenuta nel frammento posto in apertura del presente capitolo, comincia pian piano a ricevere una risposta:

Der Mensch ist vor Allem ein urtheilendes Thier; im Urtheile aber liegt unser ältester und beständigster Glaube versteckt, in allem Urtheilen giebt es ein zu Grunde liegendes Fürwahr-halten und Behaupten, eine Gewißheit, daß Etwas so und nicht anders ist, daß hierin wirklich der Mensch „erkannt“ hat: was ist das, was in jedem Urtheil unbewußt als wahr geglaubt wird?36

L’uomo è soprattutto un animale giudicante; ma nel giudizio si celano le nostre credenze più antiche e costanti, alla base di ogni giudicare c’è un ritener vero e un asserire, una certezza che qualcosa sia così e non altrimenti, che proprio qui l’uomo abbia veramente “conosciuto”. Che cosa è ciò che in ogni giudizio viene inconsciamente creduto vero?

Le «credenze più antiche e costanti» a cui allude Nietzsche in questo frammento, «ciò che in ogni giudizio viene inconsciamente creduto vero», consiste proprio in quella rete di concetti o categorie fondamentali di cui è composto il linguaggio nel suo aspetto più profondo, più antico, più radicalmente sedimentato nella mente dell’uomo, in quell’aspetto che Nietzsche, sulla scorta della filosofia hartmanniana, definisce inconscio. In questo senso l’uomo sarebbe allora «ein urtheilendes Thier». Se infatti la tradizionale definizione di “animal rationale” riflette una concezione dell’uomo come essere che si distingue grazie alla ragione, alla capacità speculativa, la definizione proposta da Nietzsche, senza voler affatto contrapporsi ad essa, tende semmai ad approfondirla. Essa rammenta che all’origine del pensiero sta il linguaggio; che la ragione stessa dunque, come meravigliosa elaborazione e raffinato prodotto del pensiero, può articolarsi solo linguisticamente e dunque mediante giudizi. L’essere un “animale razionale” ha per l’uomo il proprio fondamento nel fatto di essere, prima ancora, un “animale linguistico”, un essere che nel linguaggio e attraverso il linguaggio, affronta l’impresa disperata di afferrare le cose del mondo.

La teoria tropica del linguaggio a partire dalla Darstellung der antiken Rhetorik

Die Kraft, welche Aristoteles Rhetorik nennt, […], ist zugleich das Wesen der Sprache. 36 NF 1886, 4 [8].

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La forza che Aristotele chiama retorica, […], è al contempo l’essenza del linguaggio.

Se stando alla definizione aristotelica a cui rimanda Nietzsche, «la retorica è la dynamis capace di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto»37, allora il linguaggio

stesso è in qualche modo una dynamis38. Questa suggestiva definizione, lungi dal costituire il

rimando ad un’ennesima vuota astrazione, rappresenta invece uno dei momenti più chiari e concreti all’interno della disordinata e frammentaria speculazione nietzschiana sul linguaggio. Probabilmente ciò è dovuto anche in una certa misura alla natura dello scritto in cui questa definizione compare. Si tratta infatti di un insieme di appunti raccolti da Nietzsche come materiale per un corso sulla retorica antica che avrebbe dovuto tenersi all’università di Basilea, dove Nietzsche insegna come professore di filologia classica dal 1869 al 1878. Gli appunti, sintetici e piuttosto chiari al livello espositivo, portano il nome di Darstellung der antiken Rhetorik.

La mancanza di chiarezza sulla datazione, persistente all’attuale stato degli studi e che tende a far oscillare le diverse ipotesi in un arco temporale che va dal 1872 al 1874, non permette però di collocare con certezza questo insieme di appunti all’interno della cronologia degli scritti giovanili dedicati da Nietzsche al tema del linguaggio39. In particolare, risulta difficile stabilire con certezza

quanto la posizione in esso emergente possa legittimamente porsi in parallelo con quella, d’altronde per certi aspetti molto affine, espressa nell’inedito intitolato Über Wahrheit und Lüge in

aussermoralischen Sinne (1873). Ad ogni modo però, al di là di questi sottili problemi di natura

filologica, le ricerche mostrano come la distanza temporale che separa i due scritti non possa

37 ARISTOTELE, Retortica, I, 2. Il passo è citato da Nietzsche a p. 59 della DaR.

38 Come approfondimento sul tema del rapporto tra linguaggio e retorica in Nietzsche si vedano: EMDEN C. Nietzsche

on Language, Consciousness and the Body, Univerity of Illinois Press, Urbana and Chicago, 2005; DENAT C., To

speak in Images: The Status of Rhetoric and Metaphor in Nietzsche’s new Language, in CONSTANCIO J., BRANCO M. (a cura di) «As the Spider Spines. Essays on Nietzsche’s Critique and Use of Language», De Gruyter, Berlin-NewYork, 2012, pp. 13-39; Su questo si veda anche KOFMAN S., Nietzsche and Metaphor, LARGE D. (a cura di), The Athlone Press, London, 1993, (traduzione inglese di KOFMAN S. Nietzsche et la métaphore, Editions Galilée 1983). 39 Sulla datazione della Darstellung der antiken Rethorik non c’è ancora accordo nella critica. Una tradizionale linea

interpretativa della Nietzsche-Forschung data lo scritto intorno al 1872. A proporre tale datazione sono fra gli altri: Claudia Crawford nella sua grande monografia CRAWFORD C. The Beginnins of Nietzsche’s Theory of Language, De Gruyter, Berlin-NewYork, 1988, p. 199; MOST GELENN e FRIES THOMAS nel saggio Die Quellen von Nietzsche’s

Rhetorik-Vorlesung in BORSCHET., GARRATANA F., VENTURELLI A. (a cura di) «‘Centauren-Geburten’. Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim jungen Nietzsche», De Gruyter, Berlin-NewYork, 1994, p. 19; CELIN DEANT nel saggio

To speak in images in CONSTANCIO J., BRANCO M. (a cura di) «As the Spider Spines. Essays on Nietzsche’s Critique and Use of Language», De Gruyter, Berlin-NewYork, 2012, p. 18. Si sorvola adesso sulle varie argomentazioni riportate dagli autori a sostegno di tale proposta di datazione. L’unica informazione degna di nota è il fatto che Nietzsche legge nel 1872 il testo Die Sprache als Kunst di Gustav Geber, la cui influenza è anch’essa discussa, come sarà mostrato in seguito. Secondo gli autori sopra menzionati questo dato andrebbe a sostegno della loro ipotesi di datazione. Die Sprache als Kunst rappresenta infatti una fonte essenziale per la Darstellung der antiken

Rethorik. Tuttavia, e proprio per la stessa ragione, nell’introduzione all’edizione italiana dello scritto di Nietzsche

sulla retorica antica (AGGIUNGERE DATI BIBLIOGRAFICI) i due curatori (AGGIUNGERE I NOMI) propongono un’argomentazione differente: poiché Nietzsche prende in prestito i libro di Gerber nel 1872 dalla biblioteca dell’università di Basilea (come mostrato da Luca Crescenzi in Verzeichnis der von Nietzsche aus der

Universitätbibliotek in Basel entliehenen Bücher (1869-1879), in «Nietzsche-Studien», 23, 1994, p. 418), come

avrebbe potuto leggere un’opera di tali dimensioni in tempo per il semestre invernale dello stesso anno? In base a questa, e ad altre ragioni sulle quali adesso si preferisce glissare (rimandando all’introduzione alla già menzionata edizione italiana della Darstellung per ulteriori approfondimenti), i due curatori propongono la seguente ipotesi di datazione: la stesura degli appunti sarebbe iniziata nel semestre invernale dell’anno 1872/1873, in corrispondenza della lettura di Gerber, per esser poi conclusa soltanto nella primavera del 1874 in vista di un corso previsto per il semestre estivo dell’anno successivo, un corso intitolato proprio Darstellung der antiken Rethorik.

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comunque essere superiore ad un anno40. Inoltre, un accostamento dei due scritti oltre che legittimo

appare anche necessario visto che in entrambi l’idea portante è costituita dall’origine metaforica del linguaggio

Il capitolo della Darstellung der antiken Rethorik più rilevante per gli scopi di questo lavoro e al quale si farà dunque maggiormente riferimento è intitolato “Verhältniß des Rhetorischen zur

Sprache”. Qui Nietzsche, dopo aver esposto la propria concezione della retorica antica, avanza una

teoria riassumibile nell’idea secondo cui il linguaggio sarebbe dotato di una natura essenzialmente tropica. Le vie che conducono Nietzsche a questa curiosa conclusione sono due: da una lato la via della filologia, che lo guida attraverso un’interessante indagine sul significato della retorica nell’antichità; dall’altro una via più strettamente teoretica che, intrecciata alla prima, risulta decisiva per lo sviluppo di una “teoria del linguaggio” molto originale e soprattutto ricchissima di fondamentali conseguenze filosofiche.

Es giebt gar keine unrhetorische „Natürlichkeit“ der Sprache, an die man appellieren könnte. Die Sprache selbst ist das Resultat von lauter rhetorischen Künsten.41

Non c’è affatto alcuna naturalità del linguaggio, alla quale ci si potrebbe appellare: il linguaggio stesso è il risultato di una forte arte retorica.42

La constatazione dell’assenza di una «naturalità del linguaggio», rappresenta il vero e proprio punto di partenza della teoria linguistica nietzschiana. Per comprenderne il significato si rende necessaria una rapida incursione nella concezione di retorica proposta da Nietzsche. L’idea da cui muove la sua presentazione di quest’antica arte della parola è costituita dal differente giudizio con cui antichi e moderni si riferiscono ad essa:

Die außerordentliche Entwicklung derselben43 gehört zu den spezifischen Unterschieden der Alten von den Modernen: in neuerer Zeit steht diese Kunst in einiger Nichtachtung*, und wenn sie gebraucht wird, ist auch die beste Anwendung unserer Modernen nichts als Dilettantismus und Rohe Empirie. Im allgemeinen ist das Gefühl für das an sich Wahre viel mehr entwickelt: die Rhetorik erwächst aus einem Volke, das noch in mythischen Bildern lebt, u. noch nicht unbedingte Bedürfniß nach historischer Treue kennt.44

Lo straordinario sviluppo dello stesso appartiene delle differenze specifiche tra antichi e moderni: nei tempi più recenti quest’arte è oggetto di una qualche noncuranza** e quando la si usa, anche la migliore

40 Il saggio Über Wahrheit un Lüge (1873) cade infatti a metà dei due estremi all’interno dei quali oscilla la possibilità di datazione della Darstellung (1872-1874).

41 Darstellung der antiken Rhetorik, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, seconda sezione, quarto volume, GIORGIO COLLI e MAZZINO MONTINARI (a cura di), De Gruyter, Berlin – NewYork, 1995, p. 425. Di seguito abbreviato con la sigla DaR.

42 Anche nel caso della Darstellung der antiken Rhetorik, manca una tradizione all’interno dell’edizione critica italiana delle opere di Nietzsche e la traduzione è quindi mia. Una traduzione alternativa è proposta da CONCLUDERE.

43 Nietzsche si riferisce al titolo del paragrafo (“Begriff der Rhetorik”) di cui questa frase rappresenta l’apertura. * Die Abneigung drückt am stärksten Locke aus (Untersuchungen über den menschlichen Verstand III 10, 34): «Wir

müssen zugeben, das die ganze Redekunst, alle die künstliche und figürliche Anordnung der Wörter, welche die Beredsamkeit erfunden hat, zu nichts weiter dient, als unrichtige Vorstellungen zu erwecken, die Leidenschaften zu erregen, dadurch das Urtheil mißzuleiten und so in der That eine vollkommene Betrügerei sei» (nota di Nietzsche). 44 DaR p. 415.

** Questa ripugnanza è espressa nella maniera più radicale da Locke (LOCKE J. Saggio sull’intelligenza umana, III, 10, 34): «Dobbiamo concedere che tutta l’arte della retorica, a parte l’ordine e la chiarezza, tutte le applicazioni

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applicazione dei nostri moderni, non è nient’altro che dilettantismo e rozzo empirismo. In generale è molto più sviluppato il sentimento per il vero in se45; la retorica cresce in un popolo che vive ancora in immagini mitiche, e che non conosce ancora l’incondizionato bisogno nei confronti della fedeltà storica46.

In questo passo, con cui si apre la Darstellung der antiken Rethorik, il giudizio sulla retorica viene sfruttato come strumento di definizione per una dicotomia assai importante nella cultura tedesca del sette e dell’ottocento e che negli stessi anni risulta fra l’altro assolutamente centrale nella prima grande opera di Nietzsche, la Geburt der Tragoedie (1873): si tratta della dicotomia antichi/moderni. Il disprezzo di quest’ultimi per l’arte retorica è visto come il risultato dell’oblio nei confronti della «vera essenza del linguaggio», essenza che essi hanno dimenticato a causa del loro «molto più sviluppato sentimento per il vero in sé». Secondo il passo di Locke riportato in nota dallo stesso Nietzsche, tutto ciò che è retorica ed eloquenza conduce il giudizio fuori strada ed è perciò nient’altro che inganno.

Tuttavia, definire la retorica in questo modo, significa porre come presupposto la possibilità di una forma non mendace del linguaggio e quindi l’esistenza di una naturalità del linguaggio. La

Darstellung, che da questo punto di vista assume già un andamento genealogico, compie proprio lo

sforzo di decostruire questo presupposto e di porre le basi per una teoria linguistica il cui punto di partenza è costituito, al contrario, dall’idea che non esista alcuna naturalità del linguaggio

Seguendo lo sviluppo dell’intera opera del filosofo però, si può osservare come negli anni si faccia avanti con forza sempre maggiore l’esigenza di condurre quest’embrionale sforzo genealogico ad un livello più profondo, andando a mettere in questione il retroterra gnoseologico sul quale il suddetto presupposto si è venuto a formare. Questo retroterra gnoseologico si rivelerà compendiabile nel principio, già espresso nella Darstellung ma rimasto incompreso in tutta la sua portata filosofica, secondo cui presso i moderni «in generale è molto più sviluppato il sentimento per il vero in sé»47. A partire da Über Wahrheit und Lüge, questo “sentimento” comincerà a venir

connotato più chiaramente come fede metafisica e, in quanto tale, preso all’interno di quel generale percorso di smascheramento della metafisica stessa, di cui – erroneamente – la critica ha a lungo individuato il principio soltanto nel più tardo Menschliches Allzumenschliches (1878)48.

Sarà proprio scavando a fondo e dissotterrando le radici di questa fede metafisica nei confronti

della verità in sé, che la maestria del sospetto nietzschiana49 individuerà in essa il marchio della

cultura moderna e persino, in un opera come Götzen-dämmerung (1888), la vera e propria “ossessione filosofica dell’occidente”.

Parallelamente a questa critica genealogica, si verrà allora pian piano a definire una gnoseologia

antimetafisica tesa a controbilanciare il processo di smascheramento e a sostenere la teoria tropica

del linguaggio che inizia a definirsi proprio nella Darstellung. Questa teoria ridurrà dunque a mera fantasia il principio su cui si sorregge quel peculiare rifiuto dell’arte retorica che definisce i

artificiali e figurate della parola, che l’eloquenza ha inventato, ad altro non servono che a insinuare idee errate, a muovere le passioni, e con ciò a trarre fuori strada il giudizio; e perciò invero si tratta di perfetti inganni» (nota di Nietzsche).

45 Corsivo mio. 46 DaR p. 51. 47 DaR p. 51.

48 Sulla radicale rottura con la tradizionale scansione dell’opera di Nietzsche si veda il paragrafo “Linguaggio e

filosofia come arte e come doxa”.

49 Con la definizione di “maestri del sospetto” Paul Ricoeur si riferisce alle tre grandi figure di Marx, Nietzsche e Freud. (RICOEUR P., Il conflitto delle interpretazioni, traduzione di Balzarotti Rodolfo, Botturi Francesco, Colombo Giuseppe, Jaca book, Milano, 2007).

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moderni, ovvero l’idea che possa darsi un uso proprio, naturale e non metaforico del linguaggio. Quest'ultimo sarà svelato essere niente più che un convenzionale sistema di segni, la cui apparenza di naturalità è soltanto l’effetto formato dai giochi d’intreccio dei condizionamenti sociali e culturali cristallizzatisi nell’habitus linguistico.

Riportando adesso il discorso sull’analisi degli appunti dedicati alla retorica antica, si può vedere in che modo tutto ciò che si è appena detto inizi in essi a prendere forma:

Die Kraft, welche Aristoteles Rhetorik nennt, an jedem Dinge das heraus zu finden und geltend zu machen was wirkt und Eindruck macht ist zugleich das Wesen der Sprache: diese bezieht sich, ebensowenig wie die Rhetorik, auf das Wahre, auf das Wesen der Dinge.

La forza che Aristotele chiama retorica, di riuscire a scoprire e renderlo valido in ogni cosa, ciò che agisce e impressiona, è al contempo l’essenza del linguaggio. Questa si riferisce, altrettanto poco come la retorica, al vero, all’essenza delle cose50.

Oltre ad essere un arte, dedita alla manipolazione del discorso e con ciò alla manipolazione della verità stessa, la retorica rappresenta al contempo l’essenza stessa del linguaggio. Se così stanno le cose però, il linguaggio si rapporto ben poco all’essenza delle cose.

Ora, nell’affermazione di questa sostanziale distanza del linguaggio dalla verità e dall’essenza essenza delle cose, è presente un accenno allo sfondo gnoseologico su cui si muove la teorica linguistica che nella Darstellung inizia prendere a forma. In Über Wahrheit und Lüge il discorso concernente questo sfondo viene ripreso ed ampliato, nonché ricondotto ad un più ampio quadro filosofico sviluppantesi su basi kantiane:

Das „Ding an sich“ (das würde eben die reine folgenlose Wahrheit sein) ist auch dem Sprachbildner ganz unfasslich und ganz und gar nicht erstrebenswerth. […]. Wir glauben etwas von den Dingen selbst zu wissen, wenn wir von Bäumen, Farben, Schnee und Blumen reden und besitzen doch nichts als Metaphern der Dinge, die den ursprünglichen Wesenheiten ganz und gar nicht entsprechen51.

La «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata. […]. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie52.

Quel presunto riferimento ontologico del linguaggio che nello scritto sulla retorica antica rimane genericamente indicato come «essenza della cosa», riceve qui una più decisa caratterizzazione filosofica attraverso il rimando al concetto kantiano di cosa in sé. Malgrado tutti i suoi sforzi, il linguaggio non afferra mai l’in sé delle cose, la loro verità. Tale “in sé” rimane anzi al di fuori dell’orizzonte gnoseologico dell’uomo, al quale, nello sforzo di riferirsi linguisticamente alle cose, non rimane in mano niente «se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie». Ma se il linguaggio ha in fondo a che fare con niente più che delle metafore, bisogna allora abbandonare l’idea che esso metta l’uomo in diretta connessione col mondo. Al contrario, l’immagine del mondo che esso costruisce non è mai sovrapponibile a quella della realtà in sé

50 DaR p. 73. 51 WL.

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stessa, poiché, essendo il risultato di un gioco di costruzioni metaforiche a cui la verità continuamente sfugge, rimane irrimediabilmente antropomorfica ossia umana troppo umana.

Questa posizione, sulla quale Nietzsche insiste nella Darstellung e in particolare in Über

Wahrheit und Lüge assume però dei tratti problematici. Essa appare corretta finché Nietzsche

afferma che «non sono le cose ad entrare nella coscienza bensì il modo in cui ad esse teniamo fede, il pithanon»53 («nicht die Dinge treten ins Bewusstsein, sondern die Art wie wir zu ihnen stehen das

pithanon»). Fin qui siamo di fronte ad una variante della concezione per cui il “mondo è soltanto una rappresentazione che di esso si costruisce l’uomo”.

Ma quando nella frase immediatamente successiva l’autore scrive che «la completa essenza delle cose non viene mai afferrata»54 («das volle Wesen der Dinge wird nicht erfaßt»), oppure, come

nel passo sopra citato, che «non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie»55, ecco che viene in un luce una chiara incoerenza. La

problematicità di questa posizione consiste nel fatto che, presupposta la dicotomia kantiana fenomeno/cosa in sé, essa pretenderebbe poi di poter affermare l’esistenza di una sfasatura tra la rappresentazione umana del mondo e il “mondo in sé”. A rigore però, propria la presupposizione della dicotomia kantiana esclude la possibilità di constatare tale sfasatura. In base a tale dicotomia infatti, la cosa in sé risulta esclusa per definizione dall’orizzonte gnoseologico dell’uomo e con ciò inaccessibile. Finché ci si muove all’interno di questi confini teorici non è dunque concesso azzardare giudizi circa la possibilità ed eventualmente il grado di corrispondenza tra la rappresentazione umana del mondo e il “mondo in sé”. Su questo punto Nietzsche sembra colto da una qual certa pigrizia speculativa e finisce per lasciare la questione tutto sommato irrisolta.

Ora, pur non volendo in alcun modo discolpare l’autore da una simile negligenza, va rammentato come Nietzsche adotti talvolta uno stile che non segue con precisione il filo logico che ci aspetterebbe dall’argomentazione, perseguendo però nel farlo un determinato scopo. Detto altrimenti, bisogna tener presente che Nietzsche non può sempre venir preso alla lettera. Si tratta di un principio ermeneutico certamente molto pericoloso, poiché rischia di concedere all’interprete un poter eccessivo nello scegliere quando e quanto un passo debba essere interpretato in senso letterale oppure o no. Il problema si ritiene però ovviabile, richiamando il lettore, caso per caso, all’attenzione sulle ragioni che spingono ad interpretare un certo passo in maniera non letterale.

Nel caso in questione si avanza la seguente proposta di esegesi: Nietzsche insiste sull’idea che la rappresentazione umana del mondo sarebbe diversa dal “mondo in sé” (il che legittima infondo ad attribuirle un’ intrinseca, vera e propria, mendacia), poiché parlare di “diversità”, di “non corrispondenza” o addirittura di “falsità”, è un ottimo espediente stilistico al fine di rimarcare l’importanza della distinzione tra fenomeno e cosa in sé.

Detto questo, l’incoerenza persiste e non è affatto con ciò eliminata. Sembra però legittimo sostenere che essa non sia da rimproverare a Nietzsche in toto come pigrizia speculativa, poiché in parte spiegabile come risultato di un espediente stilistico che, sia ben chiaro, presenta il grosso limite di finire per privilegiare l’effetto a discapito della coerenza argomentativa56.

53 DaR p. 72. 54 DaR p. 72. 55 WL pp. 231-232.

56 Nel capitolo successivo, allorché ci si soffermerà sull’aforisma 354 di FW, ci s’imbatterà in un esempio molto più significativo di quanto si è adesso accennato. Vedi RIFERIMENTO.

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Sull’idea del mondo come antropomorfica costruzione linguistica si tornerà in seguito. Intanto premeva iniziare a porre in luce la stretta relazione che in Nietzsche lega teoria del linguaggio e teoria della conoscenza.

Adesso, si desidera però tornare ad approfondire il primo aspetto di questa relazione, andando a vedere come Nietzsche, nella Darstellung, affronti la questione dell’ormai scoperto carattere metaforico del linguaggio.

I più importanti mezzi artistici della retorica sono i tropi, cioè delle designazioni improprie. Tutte le parole, però, sono in sé e dall’inizio, in rapporto al loro significato, dei tropi57.

Se tutte le parole sono tropi e costituiscono di conseguenza delle designazione improprie, ecco allora dimostrato perché il presunto scarto tra un linguaggio proprio e uno improprio venga a saltare.

Ciò ha indotto alcuni interpreti a sostenere che, a questo punto, «nessuna genealogia è più possibile perché la retorica, e il linguaggio come retorica, mettono irrimediabilmente in crisi la possibilità stessa di risalire ad un evento scatenante. Se la genealogia dovesse esserci, essa sarebbe una genealogia infinita»58.

Quest'ultima è una posizione dalla quale si desidera prendere le distanze. Essa infatti non fraintende soltanto il significato del metodo genealogico, che d’altronde, benché centrale, non rappresenta lo specifico oggetto di studio di questo lavoro. Essa fraintende anche quello stesso concetto di linguaggio su cui si sta faticosamente cercando di fare luce. Riallacciandoci agli illuminanti insegnamenti di Foucault sul metodo genealogico discussi nel paragrafo precedente, ci ricordiamo di come, paradossalmente, «la genealogia s’oppone alla ricerca dell’origine»59, «perché

in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa», quando invece dietro le cose sta «il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee»60. La scoperta della natura retorico-tropica del linguaggio non è perciò da

vedersi come il frantumarsi delle possibilità del metodo genealogico. Si tratta al contrario, se si accetta il punto di vista foucaultiano, di un risultato del tutto conforme agli intenti programmatici del metodo genealogico stesso. Infatti, secondo la linea interpretativa sostenuta nel presente lavoro, il fatto che, come si legge nel passo poc’anzi citato, «la retorica, e il linguaggio come retorica, mettono irrimediabilmente in crisi la possibilità stessa di risalire ad un evento scatenante»61, ha

proprio a che fare con le difficoltà, accennate nel paragrafo precedente, di definire il sorgere del linguaggio in modo essenziale e di pensare che, nell’attimo del suo scaturire, possa rinvenirsi qualcosa di già definito e strutturato. Scavando indietro nel tempo alla ricerca di quell’attimo, piuttosto che in una salda struttura logico-concettuale, ci s’imbatte in una forza retorica estranea alla verità che agisce attraverso metafore, e il cui uso univoco e codificato, lungi dall’essere un assoluto, è qualcosa di storicamente divenuto: è, ancora una volta, un semplice habitus linguistico

La forza della retorica è allora ben più che una semplice tèchne; essa è l’operare inconscio che genera il linguaggio:

57 DaR 75

58 Così si esprimono i curatori nell’introduzione all’edizione italiana di NIETZSCHE F., L’arte della parola, TOMATIS F., TAFURI S, DI CHIARA A. (a cura di) cit.

59 FOUCAULT M., Op. cit., p. 30. 60 FOUCAULT M., Op. cit., p. 31. 61 FOUCAULT M., Op. cit., p.

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