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Academic year: 2021

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Michel Foucault

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▪ Negli anni Sessanta Foucault svolge l’analisi delle forme di discorso che porterà alla stesura del testo Le parole e le cose (1966). Gli scritti di questi anni (Storia

della follia, Nascita della Clinica, Raymond Roussel, Le Parole e le Cose e Questo non è una pipa) convergono soprattutto in quel punto d’incontro costituito da una

riflessione sul rapporto segno-linguaggio, sulla critica al dogmatismo antropologico e al pensiero dialettico, e sullo sviluppo della tematica del simulacro.

▪ In questi anni Foucault ricerca la possibilità di un pensiero altro rispetto agli ambiti discorsivi della psicologia, della psicanalisi, ma anche della fenomenologia e dell’esistenzialismo, nonché dell’ermeneutica, intesa come ascolto di un pensiero originario.

▪ In questi testi Foucault si concentra sul campo enunciativo, la sua attenzione è rivolta al campo di emersione degli enunciati, egli cerca di ripercorrere i continenti archeologici del nostro sapere attraverso i quali si sono distribuiti i rapporti di visibilità e di enunciazione. È interessato al modo in cui il ‘linguaggio si lega con lo spazio’, vale a dire a come il pensiero ha costituito le sue figure del sapere, a come ha creato i suoi spazi di plausibilità, a come ha potuto veder veri alcuni enunciati rifiutandone altri, a come ha visto, prodotto e riconosciuto come propri alcuni oggetti del sapere; a come ha accolto quali pertinenti alcune discipline, rifiutandone altre, ritenendone insostenibili altre ancora.

▪ Ne Le parole e le cose ritroviamo, nella parte che riguarda la trattazione dell’analitica della finitudine, precise ed esplicite critiche alla fenomenologia, al sapere che si articola attorno all’esperienza del vissuto, alle nuove metafisiche incentrate sull’idea di vita e sfociate nel vitalismo, o alle filosofie che ricercano la possibilità di fondare una ‘ontologia purificata’.

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FASE STRUTTURALISTICO-ARCHEOLOGICA

▪ L’obiettivo di Foucault è quello di indagare le “condizioni di possibilità” della comparsa delle scienze umane nella cultura occidentale. Lungo tale direzione, lo scandaglio archeologico, passando per le epoche rinascimentale e classica e per il riferimento ai codici che ne determinano l’assetto culturale, giunto all’epoca moderna, porta alla luce un nuovo prodotto discorsivo: l’UOMO.

«Nel corso del XVIII secolo è emerso un nuovo oggetto: l’uomo. L’uomo è apparso come oggetto di scienza possibile – le scienze umane – e, nello stesso tempo, come l’essere al quale ogni conoscenza è possibile. L’uomo apparteneva, dunque, al campo di conoscenze come oggetto possibile e, d’altra parte, era posto in maniera radicale nel punto di origine di ogni tipo di conoscenza. Soggetto di ogni genere di sapere e oggetto di sapere possibile. Una tale situazione ambigua, che potremmo chiamare la struttura antropologico-umanistica del pensiero del XIX secolo, è attualmente in corso di disfacimento».

▪ La polemica anti-umanista colloca Foucault nell’atmosfera culturale degli anni Sessanta, in quella “cultura non-dialettica” (anti-hegeliana e anti-sartriana) nell’ambito della quale egli incrocia un gran numero di compagni di strada: da Nietzsche a Heidegger, da Lévi-Strauss a Dumézil, da Lacan ad Althusser, da Barthes a Derrida, da Deleuze a Lyotard. ▪ Foucault dichiara in un’intervista del 1966:

«Bisogna cercare di scoprire la forma propria e assolutamente contemporanea di questo pensiero non dialettico. La ragione analitica del XVII secolo si caratterizzava essenzialmente per la sua referenza alla natura. La ragione dialettica del XIX secolo si è sviluppata soprattutto in riferimento all’esistenza, ovvero ai rapporti individuo-società, coscienza-storia, praxis-vita, senso-non senso. Mi pare che il pensiero non dialettico che si sta sviluppando attualmente non metta in gioco né la natura né la coscienza ma il sapere»

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Les mots et le choses, Éditions Gallimard, Paris 1966 Le parole e le cose, BUR, Rizzoli, Milano 1978

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Le parole e le cose , 1966

▪ Foucault descrive la frattura epistemologica che ha caratterizzato il passaggio dall’età classica a quella moderna. Il pensiero occidentale, risvegliatosi dal “sonno dogmatico” della metafisica, ricade in un nuovo sonno : quello “antropologico”. Foucault presenta Le parole e le cose come un’indagine sulla ‘episteme’ della cultura occidentale, intendendo per ‘episteme’ lo spazio a partire dal quale i saperi si costituiscono o, meglio, l’insieme di regole, l’ordine entro il quale le cose si danno alla conoscenza (pp. 5-14).

▪ Sono due essenzialmente le fratture che Foucault mette in luce:

quella che ha segnato l’inizio dell’età classica – tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo equella che ha caratterizzato il passaggio dall’età classica all’età moderna – a cavallo tra il XVII e il

XIX secolo.

Analizza, dunque, tre configurazioni epistemologiche: quella dell’età rinascimentale, quella dell’età classica e quella dell’età moderna – nella quale siamo ancora immersi.

▪ Interessante notare l’utilizzo della metafora dell’Altro : pag. 14.

Già nella Prefazione a Storia della follia (1961) Foucault scriveva: “Si potrebbe fare una storia dei limiti, di questi gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, con i quali una cultura rifiuta qualche cosa che sarà per essa l’Esterno (Extérieur); e, nel corso della sua storia, questo vuoto scavato, questo spazio bianco attraverso il quale essa si isola la designa quanto i suoi valori”. In Le parole e le cose egli riprende la metafora: “la storia della follia sarebbe la storia dell’Altro (Autre) – di ciò che, per una cultura è interno, è interno e, nello stesso tempo, estraneo, e perciò da escludere (al fine di scongiurarne il pericolo interno) ma includendo (al fine di ridurne l’estraneità); la storia dell’ordine delle cose sarebbe la storia del Medesimo (Même) – di ciò che, per una cultura, è a un tempo disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare entro identità” (pag. 14).

▪ Perché il metodo assunto per la ricerca è archeologico:

Come risulta dallo stesso sottotitolo (Un’archeologia delle scienze umane), si tratta per Foucault di capire quali siano state le condizioni che hanno reso possibile il costituirsi dell’uomo quale oggetto di sapere positivo. Nelle prime pagine viene subito delimitato il campo d’indagine. Non si tratta di fare una storia delle idee o delle scienze, ma piuttosto un’archeologia (archéologie) che sia in grado di portare alla luce l’a

priori storico (a priori historique) a partire dal quale conoscenze e teorie sono state possibili, il campo

epistemologico, l’episteme “in cui le conoscenze, considerate all’infuori di ogni criterio di riferimento al loro valore razionale o alle loro forme oggettive, affondano la loro positività” (pag. 12).

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▪ L’archeologia è qui intesa come storia delle condizioni di possibilità delle conoscenze, “narrazione” in cui devono apparire le configurazioni che hanno dato luogo alle varie forme della conoscenza empirica (pp. 10-13). In un’intervista rilasciata nell’anno della pubblicazione del libro, il filosofo precisa che con il termine “archeologia” intende designare un campo di ricerca il cui oggetto è costituito dal sapere implicito (savoir implicite) che rende possibile la comparsa delle teorie, delle opinioni e delle pratiche all’interno di una determinata società in una data epoca.

▪ Sull’episteme:

Foucault si concentra su una divisione storica precisa - prodotto del metodo archeologico - per descrivere non solo come i diversi saperi locali, che noi chiamiamo discipline, si sono determinati a partire dalla costituzione di nuovi oggetti che sono emersi in un dato momento, ma come questi diversi saperi locali dal punto di vista orizzontale e trasversale, disegnano o definiscono una configurazione, coerente. Questa configurazione non è necessariamente unica, unitaria, ma deve essere coerente. Simile configurazione è precisamente quello che Foucault chiama episteme. Foucault, in più occasioni, afferma di non voler imporre un marchio generale su un periodo – un’episteme concepita come costante e tradotta in un secondo tempo nella diversità delle discipline – ma di dar conto della diversità dei discorsi disciplinari precisamente perché è dentro questa diversità che viene a galla una coerenza che ne è la condizione di possibilità. Foucault, attraverso il metodo archeologico, non legge le differenze su un fondo di unità – un’unità intesa come episteme – ma individua la possibilità di definire qualcosa come un’episteme a partire dal gioco delle differenze.

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▪ Dentro il concetto di archeologia c’è, come ricorda Foucault, una duplice implicazione.

La prima riguarda il concetto di arché - un’arché stranamente non più concepita come principio, come origine, come inizio, o come comando; eppure intesa anche nell’accezione di potere. Come pensare allora un’archeologia, cioè un’arché senza origine e problematizzarne il suo rapporto al potere? Da lì l’idea che il lavoro di Foucault sui saperi è immediatamente un lavoro sul potere; oppure, per essere ancora più precisi, non tanto una riflessione sul potere quanto una riflessione sui poteri, perché ogni sapere è un potere, ogni presa di parola in nome di un sapere è una presa di potere – il potere in sé non esiste come istanza omogenea e unitaria, si afferma sempre attraverso una molteplicità di rapporti.

Accanto a quello di arché l’altro termine implicato dietro il concetto di archeologia è quello di archivio. Foucault definisce l’archivio come quel materiale storico che ci permette d’essere paradossalmente ciò che noi siamo oggi: perché porre la questione della storicità degli oggetti del sapere significa di fatto problematizzare la nostra appartenenza a un regime discorsivo e ad una configurazione di potere. L’archivio dice l’incontro con le figure del potere, narra di esistenze prese dentro dispositivi ai quali noi, ancora oggi apparteniamo, ed è questa vicinanza che permette agli archivi del passato di parlare al presente, e a noi che li leggiamo, di farne lo strumento di un’analisi del presente. Dentro l’archeologia, c’è dunque già l’idea di quello che Foucault chiamerà in seguito, con un termine preso in prestito a Nietzsche, la genealogia.

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L’episteme moderna.

La nascita dell’uomo…e la sua stessa dissoluzione!

▪ Foucault nota come l’uomo sia un’invenzione recente e di breve durata. La cultura antica e cristiana non conosceva tanto l’uomo, meno che mai l’umanità, quanto l’individuo, il singolo, al più la persona. Gli individui erano vincolati a un destino irripetibile di vita e di morte, erano nature caduche o immortali a seconda delle prospettive.

▪ La “nascita dell’uomo” va intesa in senso epistemico. Che l’uomo sia un’invenzione recente vuol dire che in precedenza non esisteva la peculiare figura dell’uomo come soggetto-oggetto di scienza. Infatti, puntualizza Foucault, solo quando l’analisi delle ricchezze divenne economia, la storia naturale biologia, la riflessione sul linguaggio filologia, ovvero solo quando alla semiologia (rinascimentale) della somiglianza e a quella (classica) della rappresentazione subentrò la semiologia (moderna) dell’autonomia, esclusivamente allora – all’interno dello strappo ormai prodottosi tra parole e cose – “apparve” l’uomo.

▪ L’uomo, di recente invenzione, è un risultato dell’iniziativa kantiana e, suo malgrado, ne è una conseguenza: quest’uomo è da intendere come lo sforzo o il tentativo costante di mediazione tra l’incondizionatezza dell’a priori e la contingenza dell’ordine fenomenico. In questo senso l’uomo acquisisce una radicale centralità dimettendo l’impersonalità della rappresentazione, propria della prima modernità, a vantaggio della sua storicità. L’a priori sviluppa una tendenza alla riduzione, tende in sostanza a ricondurre a sé l’intero; l’in sé, al contrario, sviluppa una tendenza a mantenersi nell’estraneità: da qui lo sforzo tremendo dell’unificazione e questo sforzo si attua nel tempo. Questo sforzo è il soggetto umano e, più propriamente, l’uomo fatto soggetto.

▪ L’uomo non era mai stato soggetto in tale forma: l’individuo viene caricato del peso del trascendentale, peso che mai gli era toccato, e in ciò viene trasformato. Per altro verso, il trascendentale si formula come sforzo e nello sforzo si limita e accade come finitudine. In questa circostanza, soggetto trascendentale e uomo storico vengono a sovrapporsi e a coincidere: l’individuo deve assumere il ruolo del tutto funzionale del trascendentale e farsi carico dell’unità del molteplice; l’unità trascendentale, a sua volta, si formula concretamente come sforzo, come attività e termine di mediazione tra storia e verità. Data la centralità dell’uomo, che cosa è dunque quest’uomo?

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▪ Foucault fa coincidere la dissoluzione dell’a priori con l’estinzione del soggetto trascendentale. Quest’evenienza teorica è stata battezzata e ha preso un nome: morte del soggetto o morte dell’uomo. Ne Le parole e le cose Foucault dà conto della modernità in tal senso: essa accade come l’epoca della filosofia della rappresentazione. Questa filosofia dissolve ogni individuale sostanza nella rappresentazione che si ha di essa. Le cose esistono in quanto si manifestano – ossia come idee – e sono contrassegnate dalle parole che le nominano.

▪ Tali parole devono essere disposte secondo un ordine e all’ordine del discorso corrisponde lo stato delle cose, che non può essere altrimenti guadagnato se non dall’esposizione chiara e distinta dell’ordine stesso, o più propriamente dagli schemi di ordinamento che costituiscono i saperi. L’uomo, dunque, come entità individuale e storica è dissolto nel sistema delle rappresentazioni che lo contengono come momento: meglio, l’uomo viene inglobato nelle grandi funzioni del rappresentare, del parlare, del classificare, dello

scambiare, e così avanti.

▪ Il soggetto trascendentale, come i moderni lo intendono, è dunque un sistema di ordinamento, e la catena ben ordinata dei segni dà conto dei significati. Cartesio per primo ha dissolto le sostanze individuali – e le forme sostanziali corrispondenti – nell’universalità dell’ordine e perciò ha reso, in prima istanza, irrilevante l’individualità empirica a vantaggio dell’unità trascendentale. Lo sforzo dei moderni fu quello di ridurre gli oggetti alle idee: la sintassi ben ordinata dei segni doveva dare conto di tutti i significati in modo tale che gli oggetti dovessero interamente corrispondere ai discorsi, senza alcuna eterogeneità rispetto a essi.

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Analitica della finitudine

▪ La nascita dell’uomo è segnata da quattro “segmenti teorici” che costituiscono quello che Foucault definisce il “quadrilatero antropologico”.

1. In primo luogo abbiamo l’“analitica della finitudine”. L’uomo è dominato dal linguaggio, dal lavoro e dalla vita: la finitudine dell’uomo affiora dunque nella positività del sapere ma, allo stesso tempo, è ciò a partire da cui soltanto tale positività può apparire. I modi di essere del linguaggio, del lavoro e della vita, infatti, ci sono dati rispettivamente dal nostro pensiero parlante, dal nostro desiderio e dal nostro corpo. Nel XVII e XVIII secolo il limite dell’uomo emergeva a partire da un rapporto con l’infinito: ci si interrogava sull’uomo alla luce di una verità assoluta. A partire da Kant avviene un mutamento di prospettiva, poiché l’infinito non è più dato e non rimane che la finitudine. L’uomo si costituisce quale figura della finitudine all’interno di una cultura che “pensa al finito a partire dal finito stesso”.

2. Il secondo elemento del ‘quadrilatero’ è costituito dalla figura dell’uomo quale

allotropo (doppione) empirico-trascendentale, ossia quale essere in cui viene

acquisita la conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza. Siamo in presenza di una “duplicazione empirico-critica con cui si tenta di far valere, in quanto fondamento della propria finitudine, l’uomo della natura, dello scambio e del discorso”. Ma in quanto tale l’uomo non può mai darsi nella trasparenza del cogito. Infatti, si chiede Foucault, come può l’uomo identificarsi con la vita, la cui forza oltrepassa l’esperienza che egli ne fa? Come può identificarsi con il lavoro, le cui leggi si impongono a lui come forze estranee? Come può, infine, identificarsi con il linguaggio, la cui genesi e articolazione egli non è in grado di dominare?

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3. Nella modernità, dunque, il pensiero si articola sull’“impensato” – il terzo segmento teorico – zona oscura che è, allo stesso tempo, “esterna e indispensabile” all’uomo: dal punto di vista archeologico, l’uomo e l’impensato sono contemporanei. L’intero pensiero moderno, nota Foucault, è volto a “pensare l’impensato”.

4. L’ultimo dei segmenti teorici è il “rapporto con le origini”. È evidente come tale rapporto, lungi dal ricondurre l’uomo a un’identità pacificata, rimandi a dimensioni che lo precedono e che egli non è in grado di padroneggiare. Nell’incessante tentativo di ritornare all’origine, il pensiero scopre dunque che l’uomo “non è contemporaneo di ciò che lo fa essere”.

«La modernità comincia quando l’essere umano si mette ad esistere all’interno del suo organismo, nel guscio della sua testa, nell’armatura delle sue membra, e in mezzo a tutta la nervatura della sua fisiologia; quando si mette a esistere nel cuore d’un lavoro il cui principio lo domina e il cui prodotto gli sfugge; quando infine colloca il proprio pensiero nelle pieghe d’un linguaggio tanto più vecchio di lui» (Le parole e le cose, pag. 342)

Quanto esposto costituisce l’a priori storico all’interno del quale sono potute emergere le scienze umane, le quali sono, per l’appunto, “analisi che si estendono tra quello che l’uomo è nella sua positività (essere che vive, lavora, parla) e quello che consente a questo essere medesimo di sapere (o cercar di sapere) ciò che è la vita, in cosa consistono l’essenza del lavoro e le sue leggi, e in che modo può parlare”. Nello spazio che apre la possibilità di tali “scienze” l’uomo, lungi dal conoscere la sua apoteosi, finisce per scomparire: egli, infatti, si trova da sempre determinato da sistemi che non può dominare.

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▪ «L’antropologia – scrive Foucault – in quanto analisi dell’uomo ha avuto,

senz’altro, una funzione costituente nel pensiero […]» Leggi pag. 366 Le

parole e le cose

Secondo Foucault, la filosofia si è troppo a lungo assopita in questo

sonno antropologico che è divenuto un nuovo dogmatismo. Le categorie

gettate nel tempo perdono l’incondizionatezza del loro valore e la verità

perde il suo profilo assoluto. Il cogito, trasformatosi in sforzo, diviene

punto di mediazione tra empirico e trascendentale: il pensiero non è più

auto trasparente, ma è denso di storicità. L’uomo è una complicazione e

soprattutto non è più da considerarsi come un che di immediato e di per sé

noto, ma come una risultante. In proposito Foucault scrive:

• «Per il fatto di essere un allotropo empirico trascendentale […]» Leggi Le

parole e le cose pp. 346-349. […]

Non si dà più un soggetto di verità, ma la verità dei soggetti, da intendere

come organizzazione diffusa di saperi, come proliferazione di ordini

discorsivi, come attivazione di procedure disciplinari, di norme, di doveri,

di divieti, di forme di vita. L’uomo ha vita breve perché lo sforzo di

mediazione non attinge un punto assoluto di fusione, ma si discioglie

costantemente in queste unità frammentate: sono queste che di volta in

volta danno profilo ai soggetti, ed essi esistono e agiscono all’interno di

tali unità.

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▪ «Dal momento in cui ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni

esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica

dell’uomo, è presa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme

formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque,

l’uomo cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari

tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in

fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può

descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana».

▪ Questa dissoluzione dell’uomo-soggetto trova il suo esito più emblematico

nel dominio del linguaggio, in cui è apparso finalmente chiaro che «chi

parla» non è l’individuo ma la «Parola stessa». Se la nascita dell’uomo è

scaturita dal venir meno del legame che, nell’età classica, univa le cose e le

rappresentazioni, ossia dalla frantumazione del linguaggio, ora questo

linguaggio frantumato sembra a Foucault sul punto di ricomporsi in unità e

di riprendere il suo antico rilievo, segnando, con ciò stesso, il destino e il

tramonto dell’uomo.

▪ Se l’uomo «non è che un’invenzione recente, una figura che non ha

nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere» (Le parole e le

cose, pag. 14), si può prevedere che, con il cambiamento delle disposizioni

epistemiche, egli finirà per essere cancellato «come sull’orlo del mare un

volto di sabbia» (Le parole e le cose, pag. 414)

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Tra visibile e rappresentabile

▪ L’ “assenza dell’uomo” dall’episteme classica trova, secondo Foucault, la sua figurazione emblematica nel dipinto realizzato da Velázquez Las Meninas. In questo dipinto egli scorge «una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica» in quanto tutti gli elementi del quadro sono dati in rappresentazione, comprese le funzioni della rappresentazione medesima di tali elementi, non esclusa quella del pittore.

▪ Foucault prende le Damigelle d’onore come esempio di una rappresentazione delle modalità classiche della rappresentazione stessa. Il nucleo dell’analisi è costituito dal fatto che il quadro raffigura il pittore all’opera, mentre sta dipingendo un ritratto della coppia dei sovrani che però non è visibile se non nello specchio che ne rimanda l’immagine sfocata dallo sfondo.

▪ Quello che noi vediamo è un gruppo di personaggi (l’infanta Margarita, due damigelle d’onore ai suoi fianchi, la nana di corte e il nano) entrato nello studio del pittore a osservare Filippo IV e Marianna d’Austria in posa per un ritratto ufficiale. ▪ Velázquez ci fa assistere alla rappresentazione di ciò che sta dietro al suo atto di

rappresentare. Il soggetto del quadro reale (il gruppo delle damigelle e dei nani di corte) è messo in posizione preminente rispetto al soggetto del quadro ufficiale che il pittore sta eseguendo, e che possiamo dedurre solo dall’immagine riflessa sullo sfondo. Le gerarchie della corte sono invertite: l’infanta, le damigelle e i nani sono in primo piano, la coppia regale è appena visibile.

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▪ La posizione dei sovrani è la stessa che abbiamo noi in quanto osservatori, esterni al quadro, ma in un certo senso trascinati in esso: «Ciò che guardano tutti i personaggi del quadro sono ancora i personaggi ai cui occhi essi vengono offerti come una scena da contemplare. Il quadro nella sua totalità guarda una scena per la quale esso a sua volta è una scena». Da qui la posizione paradossale dei due sovrani: «In mezzo a tutti questi volti attenti, a questi corpi addobbati, essi sono la più pallida, la più irreale, la più compromessa di tutte le immagini», ma nello stesso tempo, proprio perché sono ritirati in una invisibilità essenziale, essi «ordinano intorno a sé tutta la rappresentazione ed è verso di essi che tutti volgono i loro sguardi».

▪ Il sovrano Filippo IV, che è il punto, in cui si focalizzano le coordinate della tela, non viene riprodotto se non di riflesso: «il re appare in fondo allo specchio, in quanto appunto non appartiene al quadro». Questo significa che il soggetto, nell’episteme classica, finisce per sfuggire alla propria rappresentazione e per configurarsi come una specie di fuori-quadro. […] la rappresentazione si autogiustifica completamente, eludendo l’azione del soggetto.

▪ Ciò che domina la rappresentazione visiva, ne fissa il senso e veicola la fruizione, è ciò che dalla tela appare assente. La scrittura parla di ciò che è assente nel quadro – e che il codice figurativo stesso espunge.

▪ Eppure, per stessa ammissione di Foucault:

«il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe in vano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice: altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi». (Le parole e le cose, pag. 23)

▪ Se vogliamo «mantenere aperto il rapporto tra il linguaggio e il visibile», allora bisogna «parlare a partire dalla loro incompatibilità e non viceversa». Bisognerebbe, una volta riconosciuta l’incongruità tra linguaggio e visione, mantenerla come punto-limite di un discorso che si articolerebbe proprio a partire da quella incongruità di fondo. Si tratterebbe di collocarla in un non-detto, un non-dicibile che proprio in quanto tale permetterebbe di dire, di proferire comunque parole a proposito di ciò che si offre allo sguardo. (Cfr. Le parole e le cose, pp. 24-25) «Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede».

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Il ruolo dello spettatore

▪ Lo spettatore è legato alla rappresentazione che ha luogo sulla scena del quadro per mezzo di una rete di segni che nascono dal quadro stesso, che attraversano lo spettatore e sembrano convergere verso un punto che Foucault qualifica come «incerto» perché invisibile. Punto ideale e nello stesso tempo funzionale. Punto «inevitabile», come dice Foucault. Punto necessario, poiché costituisce la condizione della rappresentazione che si ordina e si svolge a partire da esso.

▪ «Il quadro nella sua totalità guarda una scena per la quale esso a sua volta è una scena» (Le parole e le cose, pag.27). Lo spazio aperto dalla rappresentazione è, per principio,

scisso: perché vi sia «quadro», nell’accezione classica del termine, bisogna che la scena

dipinta sia staccata dal suo doppio frontale, che il luogo immortalato dal quadro si sviluppi nella parte anteriore del piano di proiezione, in direzione dello spettatore che si troverà così sullo stesso piano dei personaggi che lo occupano.

Il soggetto nel quadro

▪ Il soggetto è eliso dal dispositivo messo in atto dalle Meninas. Ed eliso tre volte, poiché «soggetto» deve intendersi in questo caso in tutti i sensi – anch’essi classici – della parola: che si tratti del soggetto che costituisce la materia del quadro di cui lo spettatore vede soltanto il rovescio, dell’autore delle Meninas, che non ha potuto dipingere il quadro che vediamo se non assentandosi dal posto che vi occupa, o dello spettatore stesso, davanti al quale la scena si svolge senza che egli si reperisca immediatamente in quanto tale.

▪ Questa elisione era per Foucault necessaria perché la rappresentazione potesse darsi come rappresentazione pura, libera dal rapporto che la vincolava.

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Don Chisciotte della Mancia di

Miguel de Cervantes

opera in due volumi 1605, 1615

▪ Il personaggio di Don Chisciotte «è fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose. (Le parole e le cose, pag. 61). Errante poiché errata nel tentativo di rintracciare nel mondo la somiglianza con i paradigmi narrativi cavallereschi che lo generano in quanto personaggio. Il mancato reperimento della somiglianza tra scrittura e cose spinge all’avventura incessante, e alla deviazione folle del volere ascrivere la non-somiglianza all’incantesimo di maghi malvagi, ripristinando così la conformità con la scrittura.

▪ Avventura e devianza sono i tratti della continua erranza. Tuttavia, fa notare Foucault, lo scacco di Don Chisciotte non rimane fissato in questa discrepanza incolmabile. Esso subisce uno sviluppo, che prevede un familiare fenomeno di sdoppiamento e ripiegamento:

Eppure il linguaggio non è divenuto del tutto impotente. Detiene ormai nuovi poteri, che gli sono propri. Nella seconda parte del romanzo Don Chisciotte incontra personaggi cha hanno letto la prima parte del testo e che riconoscono in lui, uomo reale, l’eroe del libro. Il testo di Cervantes si ripiega su se medesimo, sprofonda nel proprio spessore, diventa per sé oggetto della propria narrazione. La prima parte delle avventure svolge nella seconda la funzione assunta all’inizio dai romanzi di cavalleria. (Le parole e le cose, pag. 63)

▪ Don Chisciotte si perde nei segni, in quei testi d’avventura con i quali si sente coincidere, dai quali non può prendere le distanze, differenziarsi, perché è uguale a quei segni che sembrano descriverlo alla perfezione. È lui stesso ad esser fatto “a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera […]. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo […]” (Le parole e le cose, pag. 61)

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▪ Don Chisciotte deve dimostrare che quei segni corrispondono alle cose, che sono il mondo che descrivono, che sono e dicono il vero. Inconsapevole, fuori tempo, de-situato, il cavaliere non sa che i segni del linguaggio si sono staccati dalle cose, non somigliano più a ciò che nominano. La sua avventura finisce per restare tutta interna al linguaggio, alla relazione che le parole intrecciano tra loro in una sorta d’implosione che le rende incapaci di dire, di significare.

▪ Foucault farà derivare dal Don Chisciotte due ‘personaggi’: il pazzo ed il poeta.

• Il pazzo è colui che si è «alienato nell’analogia. È lo sregolato burattinaio del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre […] inverte tutti i valori e tutte le proporzioni, perché crede continuamente di decifrare dei segni: per lui gli orpelli fanno un re […] non vede ovunque che somiglianze e segni della somiglianza». Le parole e le cose, pag. 64

• Il poeta è colui che si mette all’ascolto dell’ ‘altro linguaggio’, quello senza parole né discorso, della somiglianza” (ibidem)

▪ Si delineano – nella diversità – due figure che esprimo, attraverso la loro relazione inconsueta con il linguaggio, la complessità del dialogo con il mondo, con l’altro. Che si alimentano delle immagini per trasformarle nel delirio e nella poesia, che sottraggono alla parola la sua funzione, la sua vocazione ad essere scambiata.

▪ Da Le parole e le cose, pp. 62-64: «Don Chisciotte è la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura. […]»

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▪ La pazzia va qui intesa non come malattia, ma come ‘devianza’ costituita e alimentata, come funzione culturale indispensabile. «Il pazzo è divenuto, nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge. […] All’altro estremo dello spazio culturale, ma vicinissimo per la sua simmetria, il poeta è colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse. […] Di qui indubbiamente, nella cultura occidentale moderna, il fronteggiarsi della poesia e della follia. Ma non è più il vecchio tema platonico del delirio ispirato. È il segno di una nuova esperienza del linguaggio e delle cose. […] Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono, il pazzo carica tutti i segni di una somiglianza che finisce per cancellarli. Situati sull’orlo esterno della nostra cultura e vicinissimi alle sue divisioni essenziali, essi si ritrovano così, l’uno e l’altro, in quella ‘situazione al limite’ – posizione marginale e profilo profondamente arcaico – in cui le loro parole incessantemente trovano il loro potere d’estraneità e la risorsa della loro contestazione».

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IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO: LA SPARIZIONE DELL’UOMO

▪ Con l’emergere dell’essere del linguaggio l’uomo è destinato a perire, dal momento che “siamo condotti nel posto indicato da Nietzsche e da Mallarmé allorché il primo aveva chiesto: ‘Chi parla?’ e l’altro aveva veduto scintillare la risposta nella Parola stessa”. (da Le parole e le cose, pag. 409). Il linguaggio è un sistema anonimo in cui non c’è posto per il soggetto donatore di senso. Foucault precisa che il problema del linguaggio si pone, oltre che nella riflessione formale, anche nella letteratura.

▪ La letteratura apre uno spazio in cui sparisce il soggetto scrivente: “è la scoperta del ‘c’è’ (il y a ). C’è un si impersonale (Il y a un on)”, dell’esistenza anonima del linguaggio, un linguaggio da “parole senza voce”.

▪ In quanto contrassegnato dall’esperienza del “di fuori”, il linguaggio letterario non può più essere ricondotto alle categorie di opera e di autore. L’opera, infatti, è un modo di “parlare per non morire”, di proteggere il soggetto dalla morte garantendogli l’immortalità. In quanto tale essa è intrinsecamente connessa alla figura dell’autore, la cui individualità essa mira a conservare.

▪ A partire dal XIX secolo la letteratura, che fino a quel momento era stata una forma profondamente istituzionalizzata del discorso, si ritaglia uno spazio di autonomia rispetto agli altri tipi di linguaggio, diventa una sorta di “controdiscorso”, una parola “anarchica”, “senza istituzione”, capace di minare gli altri discorsi risalendo dalla funzione rappresentativa del linguaggio a quel suo “essere grezzo” rimosso a partire dal XVI secolo.

▪ Per Foucault il problema non è quello dell’adeguazione del linguaggio ad un oggetto, bensì il contrario: l’autonomia dell’oggetto nonostante la rassicurante – e solo apparente – messa in discorso. Da lì l’idea di andare alla ricerca – nel linguaggio, e successivamente in altri campi di ricerca – della possibilità di distruggere dall’interno l’egemonia del significante sulla quale poggia tutta la struttura epistemica moderna. Nel linguaggio, Foucault va in cerca di qualcosa che sarebbe una vera differenza, qualcosa che indicherebbe il fuori – ma non il linguaggio al limite –; la denuncia del potere abusivo della ragione – ma non la disragione.

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▪ In una intervista del 1977, Foucault dichiara (riferendosi alla letteratura a lui contemporanea):

«La letteratura fa […] parte di questo grande sistema di costrizione mediante il quale l’Occidente ha obbligato il quotidiano a mettersi in discorso; essa vi occupa però un posto particolare: accanita com’è a cercare il quotidiano al di sotto di esso stesso, a superare i limiti, a svelare brutalmente o insidiosamente i segreti, a spiazzare regole e codici, a far dire l’incofessabile, essa tenderà quindi a mettersi fuori legge o almeno a farsi carico dello scandalo, della trasgressione e della rivolta».

▪ Cercare il “quotidiano al di sotto di se stesso”, il “pensiero che precede il sistema”: il compito dell’attuale filosofia e la funzione storica della letteratura, alla fine, coincidono, ponendosi ugualmente dalla parte di un infinito lavoro genealogico di smascheramento delle regole che presiedono alla formazione della norma e della verità. “Può darsi” – dice Foucault chiarendo il significato della consapevolezza – che questa posizione della verità “definisca lo spazio di un’esperienza dove il soggetto che parla, invece di esprimersi, si espone, va incontro alla propria finitudine e sotto ogni parola si trova rimandato alla sua propria morte”. Si tratta evidentemente di un’esposizione dal profondo contenuto politico, di un’esposizione alla sfera pubblica, un programma di incidenza su quella sfera a partire dalla diserzione delle regole che ne organizzano gli spazi di esperienza. A partire, in altre parole, dall’idea che la verità è un dispositivo di potere, un prodotto politico indispensabile a una più estensiva e capillare produzione sociale. Ed è l’esposizione – con Sade, Hölderlin, Flaubert, Mallarmé, Blanchot e Bataille – nella quale si producono i significati della letteratura.

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▪ “Mentre il favoloso non può funzionare se non in un’indecisione tra il vero e il falso, la letteratura invece si installa in una decisione di non-verità: si dà principalmente come artificio, ma impegnandosi a produrre degli effetti di verità riconoscibili come tali”.

▪ Filosofia e letteratura, al di là delle scelte di opportunità storica e delle opzioni tattiche, sono installate ai bordi dello stesso oggetto e al centro della medesima funzione: “fanno lavorare” la “non-verità” all’interno della verità, disertano la verità, rifiutano l’egemonia per incidervi. È un programma di radicalità politica, quello che adesso investe la letteratura e la filosofia, fuori dalla tradizionale allocazione dei saperi.

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Breve bibliografia di riferimento

• Michel Foucault, Le parole e le cose, BUR, 2009

• Michel Foucault, Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, 2005

• Michel Foucault, La volontà di sapere, Voll. 1°2° , Feltrinelli, 2006

• Michel Foucault, Storia della Follia, Rizzoli, 1963

• Michel Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, 1972

• Salvatore Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, 2005

• Judith Revel, Michel Foucault, un'ontologia dell'attualità, Rubbettino,

2003

• Duccio Trombadori, Colloqui con Foucault: pensieri, opere, omissioni

dell'ultimo maître-à-penser, Castelvecchi, 2005

• Fulvio carmagnola, a cura di, L'estrema prossimità. Cinque letture sulla

follia nell'opera letteraria, Mimesis, 2008

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