Indice
Introduzione 4
CAPITOLO I
DESCRIZIONE DI UNA BATTAGLIA
Il calcio come linguaggio universale 10
Il calcio come social problem 13
Il derby nichilista 17
Oltre il panico sociale 20
Nel campo della storia: il calcio delle origini 22
Verso la modernità 24
Nascita del football 25
Panem et circenses? 26
Il calcio come forma di rituale 29
Descrizione di una battaglia 31
Calcio e civilizzazione 37
Play e game 41
CAPITOLO II
IL CALCIO COME GENERE DI CONSUMO
La calcistizzazione delle masse 45
Il governo del calcio: il “colpo di stato” della FIGC 48
Calcio, industria e pubblicità 49
Minuto per minuto: la radiocronaca di Nicolò Carosio e l’esordio televisivo 52
Totocalcio 56
La nascita del tifo 59
Il fenomeno del tifo organizzato 61
Gli hooligans, mito e terrore del calcio inglese 66
I primi gruppi ultras in Italia 73
Ultras e nuovi movimenti sociali 81
CAPITOLO III
I CONFLITTI DEL CALCIO MODERNO
Un'officina del potere 102
La trasformazione delle maglie in business 102
All seater stadium 104
Commodification: le nuove categorie di spettatore 107
Mentalità supporter e disincanto flâneur 110
Pay tv: il crollo del monopolio della televisione pubblica in Europa 113
Stadio Italia: le riforme degli anni '90 114
Il dispositivo berlusconiano 117
L'Italia come il Milan 120
Il calcio on demand 123
I conflitti dietro l'immagine 128
La rivolta contro il calcio moderno 136
La nuova strategia: l'autonomia da Stato e mercato 145
Le leggi speciali 151
Acab 156
La tessera del tifoso 180
Gli stadi di proprietà 185
CAPITOLO IV
LIVORNO SIAMO NOI 197
Un certo sguardo 199
Un rito d'iniziazione 203
Una domenica all'Armando Picchi nei “lunghi” anni '80 205
Le Brigate Autonome Livornesi 218
Un'avanguardia ultras 230
Millenovecentonovantanove 241
Fino all'ultimo bandito 249
Controluce 262
Generazione post-fordista 273
La crisi nella trasmissione dei saperi 277
Conclusioni 294
Introduzione
Da tempo il calcio ha venduto la sua popolarità. Si è fatto, inevitabilmente, industria e spettacolo: oggi tanti guardano e pochi giocano, come in una versione rovesciata del panopticon originario di Bentham. E' diventato un genere di consumo che, felicemente abbinato al linguaggio televisivo, catalizza l'attenzione distaccando fisicamente il pubblico dallo spettacolo. In Italia, il progressivo svuotamento degli stadi è seguito a un lungo processo di selezione che ha portato alla rottura di un dispositivo che fino a qualche decennio fa poneva al centro di ogni evento una ritualità di massa. Come sostiene Debord nel suo “La società dello spettacolo”, quanto più l'esperienza deperisce e si degrada sul piano reale, tanto più la sua messa in scena spettacolare è chiamata a offrirne un surrogato seducente e potente. Il movimento è direttamente proporzionale: più la qualità reale perde vigore più si incrementa lo splendore apparente della sua immagine e si nasconde l'annullamento effettivo dell'esperienza.
L'oggetto della ricerca è appunto l'indagine dei mutamenti del rito calcistico fino all'avvento del cosiddetto “calcio moderno”, una nuova fase caratterizzata da un afflusso inedito di capitali che ha modificato più che in passato gli assetti del calcio e della sua fruizione, ora prevalentemente televisiva. Un processo accompagnato da una serie di riforme che hanno favorito la privatizzazione e la commercializzazione della merce-calcio e predisposto la nascita di un pubblico orientato al consumo, “rieducando” chi continua a considerare il gioco una sorta di “bene comune”.
La nuova forma spettacolare e “moderna” necessita di un'analisi che tenga conto dei cambiamenti cui il rito calcistico è andato incontro e che, a parte rare eccezioni, non è ancora stata affrontata in modo sistematico dalla letteratura del settore, anche per il suo sviluppo relativamente recente. Anche uno dei testi di riferimento per l'analisi del rito calcistico, “Descrizione di una battaglia” di Alessandro Dal Lago, fondamentale anche per la realizzazione di questa ricerca, per ammissione dello stesso autore nella prefazione alla seconda edizione, dice ben poco della nuova dimensione, subordinata alle esigenze della televisione.
L'allentamento della fase esperienziale diretta del pubblico non si deve ridurre a un solo dato quantitativo: a cambiare è soprattutto la qualità dello spettatore, che ha subito a partire dagli anni '90 un processo di selezione produttiva, volto a ridimensionare o
espellere dagli stadi quelle soggettività eccedenti, spesso identificate negli ultras delle curve. Portatori di una conflittualità sostanzialmente simbolica, i tifosi organizzati riflettono in forme evidenti le inquietudini che soggiaciono la “messinscena di una battaglia”, metafora che sembra aderire puntualmente alla situazione di una partita di calcio. Sui tifosi legati alla vita di curva si è concentrata negli anni una prolifica attività legislativa, che ha individuato in essi il nemico interno al nuovo ordine sociale degli stadi. La stampa e l'opinione pubblica riconoscono questa metafora dominante e la evocano di continuo, ma ne negano la legittimità attraverso una lettura dello sport e dei processi di socializzazione dei giovani edulcorata e avulsa dalla struttura sociale. Proprio alla questione dell'elevata conflittualità legata al gioco la ricerca tenta di offrire una risposta che dia conto della profondità dell'argomento, che si intreccia con il riconoscimento del calcio come dispositivo antropologico di conflitto. Una posizione che differisce da quella sostenuta dalle retoriche degli organi di governo del calcio (e di parte dell'opinione pubblica), che lamentano da sempre l'esistenza di conflitti che si sovrapporrebbero a un gioco puro.
Il lavoro cerca di dare una lettura dei conflitti del calcio riattivando un percorso storico in termini sociali, politici e antropologici, evitando di ridurre l'analisi a questioni di ordine pubblico ed aprendo un punto di osservazione sul calcio che tenga conto della sua dimensione di fatto sociale totale. L'analisi si pone infatti in modo critico rispetto a versioni ufficiali e forme di sapere consolidate e avallate dai media, egemoni nella narrazione del calcio, e fa proprio lo sguardo della metodologia etnografica, che presuppone essenzialmente metodi empirici basati su osservazione e descrizione, la valorizzazione delle voci soggettive dei protagonisti della ricerca e l'uso di analisi documentaria (interviste, storie di vita, materiale audiovisivo e sonoro).
Lo studio teorico dell'evolversi e del mutare del rito nel calcio è supportato dalla ricerca sul campo relativamente a una vicenda specifica: la forte conflittualità che a Livorno per circa un quinquennio (fine secolo - inizio anni 2000) ha avuto come fulcro lo stadio. La tesi si compone di quattro capitoli. Il primo capitolo offre un'analisi storica della natura del calcio volta a mostrare, nei suoi caratteri originari, l'associazione di questo sport al rito, il suo processo di civilizzazione e la sua particolare predisposizione al conflitto.
In quanto sport di squadra, si configura come una forma di attività collettiva che condensa e trasfigura significati sociali profondi che rimandano alla messinscena di una battaglia; si associa immediatamente al sentimento di appartenenza a un gruppo-comunità e alla rappresentazione del conflitto. Il richiamo alla battaglia si esprime in una dimensione rituale e perlopiù performativa, ma è parte integrante del gioco.
Il calcio, in quanto rituale, possiede in essenza tratti che attengono a un processo di civilizzazione e ne ospita tutte le contraddizioni. La trasformazione del gioco in sport, ovvero “il processo di sportivizzazione”, ha fatto da ponte tra gli aspetti più selvaggi del gioco e la dimensione normativa dello stesso; è l’esito di un percorso che ha permesso il mantenimento entro forme razionalizzate e moralmente tollerabili dell’espressione originaria di un rito. Sin dalle origini il termine “sport” non è stato però applicato solo a chi lo praticava: il ruolo degli spettatori nel tempo è stato centrale nella riaffermazione della divisione amico/nemico e lo stadio è diventato il contenitore simbolico di un rituale bellico, confine e barriera nei confronti del pieno dispiegamento di un’ostilità. Con l’avvento della società industriale il processo di civilizzazione traccia un perimetro di comportamenti “produttivi” che vanno a garantire allo Stato il monopolio della violenza e della definizione dell’ordine. Pur ridimensionata nel suo protagonismo, la comunità ha continuato a prendere parte attivamente al gioco, collocandosi sugli spalti degli stadi e nutrendosi di appendici estetiche che ne hanno rafforzato l'aggregazione e la comunanza.
I conflitti del calcio emergono sostanzialmente da una contraddizione profonda di questo processo di civilizzazione, che il calcio assume fin dalle sue origini: la distinzione antropologica tra play e game. Al play attiene il gioco libero, selvaggio, con regole tacite e non scritte, che perennemente ridiscute l'autorità del game, al quale si riferisce la grammatica normativa dello sport, le sue regole e le sue istituzioni. Il processo di sterilizzazione delle condotte sportive non ha infatti impedito il riaffiorare di comportamenti appassionati e violenti, evidenziando una relazione critica tra le due cornici. La violenza fa infatti parte della società e il calcio non è solo uno sport, ma uno specchio “deformato” della società. L’equazione è semplice e disarmante. Il tema è dunque attuale, perché il calcio con ogni probabilità continuerà a produrre conflitti, a meno che non si verifichi un mutamento delle sue cornici normative.
«Quando un gioco è importante per miliardi di persone cessa di essere semplicemente un gioco». La massima di Simon Kuper accompagna il percorso di questo lavoro nell'esplorazione dei grandi mutamenti intervenuti con l’avvento del calcio moderno, che si distingue per l'immissione massiccia di capitali e forme nuove di accumulazione capitalista.
In questa parte, che occupa il secondo capitolo, l'indagine affronta l'avvento del calcio in Italia e tutte le fasi che precedono la svolta “moderna”. Decenni che non esulano da processi di burocratizzazione del gioco, dall'interesse di fattori economici o da forme di spettacolarizzazione degli eventi, ma la cui funzione sembra operare, più che verso una disaffezione al rito come sarà in seguito, una sua socializzazione più profonda nell'intera penisola. Il campionato unificato, le prime radiocronache, l'abbinamento della pubblicità al calcio, l'interesse della grande imprenditoria alla gestione delle società calcistiche, la nascita del tifo, prima spontaneo, poi organizzato, l'avvento degli ultras, la comparsa del calcio nella tv pubblica, l'affermazione del gioco d'azzardo correlato alle partite (il Totocalcio) disseminano una sorta di calcistizzazione di massa della società.
Il terzo capitolo muove dai passaggi decisivi per la commodificazione dell'evento calcistico, ovvero per la sua centratura sul mercato, che saranno osservati in un confronto con quanto avvenuto in precedenza in Inghilterra. Individuati in alcuni passaggi significativi vengono qui affrontati i cambiamenti assorbiti già nei decenni precedenti e che mettono il calcio in relazione con i dispositivi di potere, socialità e consumo del capitalismo contemporaneo.
In particolare, la ricerca si concentra sull'evoluzione del tifo organizzato in Italia, che nella sua specificità di movimento ultras, concentra su di sé l'elaborazione della retorica del nemico interno allo spettacolo calcistico. Il processo di civilizzazione moderno insito nel rito influenza infatti inevitabilmente anche il tifo. Man mano che si assiste ai primi ricambi generazionali e allo scioglimento di alcuni gruppi storici si verificano nuove forme di socializzazione nel mondo ultras. In mezzo ai tanti cambiamenti di un'epoca che si affaccia al postfordismo e si accompagna a una disgregazione più accentuata dei rapporti sociali, lo stadio che aveva continuato a caratterizzarsi come un
luogo di esasperazione delle identità conflittuali, diventa funzionale alle nuove esigenze marcate dal protagonismo delle tv private. I fenomeni di repressione da parte delle forze dell'ordine, una volta formalizzato il disconoscimento del rito autonomo dei tifosi da parte di Stato, mass media e mercato, si fanno sempre più frequenti e sono supportati da una prolifica legislazione che produce normative, che gli autori stessi, considerano ai limiti della costituzionalità. Si assiste così a una crisi generazionale che, insieme alla commercializzazione del gioco del calcio, conduce alla fine del rito autonomo: il rito nel calcio moderno è parte integrante dello spettacolo o a rischio espulsione. Una condizione che diventa chiarissima negli stadi di ultima generazione.
Con il quarto capitolo la ricerca passa allo studio di un caso specifico, che chiarisce ed esplicita i presupposti teorici della ricerca stessa. Come anticipato, si tratta dell'analisi della marcata conflittualità sviluppatasi intorno allo stadio a Livorno negli anni tra la fine del 1999 e l'inizio degli anni 2000.
In una città preda delle conseguenze della deindustrializzazione, che vede svanire gli spazi fisici tradizionali sui quali si sviluppava la potenza di partiti e sindacati di sinistra, riemergono in forme inattese e in spazi considerati fino a quel momento innaturali contenuti che sembravano destinati agli archivi. In primo luogo, la tifoseria organizzata viene egemonizzata da formazioni che si richiamano esplicitamente alla sinistra radicale, attraverso un apparato simbolico che evoca le esperienze del socialismo novecentesco. Compaiono allo stadio bandiere dell’Unione Sovietica e vessilli delle esperienze ritenute più aderenti ai principi dell’ideologia comunista; attraverso striscioni, spesso polemici, si affrontano sia questioni inerenti lo stadio sia problematiche cittadine. Lo stadio, in breve tempo, diventa “la nuova piazza”, un dispositivo dove ricomporre territorialmente e socialmente “un’idea di popolo”.
Ma le novità non si fermano a una produzione simbolica inattesa. In un contenitore immutato nei suoi processi di trasmissione di saperi (regolazione della vita cittadina attraverso la direzione locale di partito, sindacato, stampa) irrompono contenuti ormai dati per dissolti, che al contrario risultano sovraesposti in quel circuito calcistico che porta all’eccesso il potere sociale delle immagini. Attraverso l'uso di tecniche etnografiche, esplicitate nella sezione dedicata alla metodologia, si è inteso far emergere il protagonismo di una comunità - una generazione postfordista che esercita
un forte fascino sul mondo giovanile - che rivendica una visione autonoma della ritualità ultras e l’appartenenza a una tradizione cittadina di pratiche e saperi che, attraverso lo stadio e la piazza, vuole riprendere e innovare.
Sottoposto alle critiche dei soggetti politici, al disappunto delle istituzioni, alla caccia alla streghe della stampa e alla repressione delle forze dell’ordine, il movimento dei tifosi subisce una sorta di disconoscimento pubblico delle proprie azioni, ma darà la misura di una rottura nel processo di riproduzione sociale dei comportamenti che sta maturando nella “vita seria”.
Capitolo I
DESCRIZIONE DI UNA BATTAGLIA
Il calcio come linguaggio universale
Il calcio è spesso descritto come un idioma universale del nostro tempo. La semplice riproducibilità delle sue regole di base ha infatti permesso al gioco di disseminarsi agilmente in ogni angolo del pianeta. Una qualità ben documentata, ad esempio, nel volume dedicato al calcio dall’editore di arte visive Phaidon, realizzato selezionando tra migliaia di immagini della nota agenzia fotografica Magnum. Giornalista sportivo e autore dell’introduzione, Simon Kuper fa notare come il calcio compaia continuamente nei lavori della Magnum, sebbene negli oltre cinquant’anni di attività i fotografi dell'agenzia non abbiano mai pensato di occuparsene direttamente.
[…] rovistando negli archivi durante la fase di preparazione di questo volume, sono saltate fuori 4000 immagini in qualche modo legate al calcio, scattate nel tentativo di documentare la furia di un monsone, l’Islam, le manifestazioni di protesta in Albania, o anche semplicemente cani. Lo spettro è ampio quanto l’orizzonte della Magnum […] un’agenzia associata ai grandi eventi – le guerre, Robert Capa ucciso da una mina, lo studente cinese che sfida i carri armati in piazza Tien An Men – eppure il calcio è un suo tema fondamentale, non un semplice hobby1.
Creata nel 1947 da fotografi formati durante la seconda guerra mondiale e provati dai costi umani del conflitto, l’agenzia insegue l’idea di un mondo fondato «sulla fratellanza internazionale2». Non a caso, il primo progetto collettivo della Magnum è
intitolato Le persone sono persone in tutto il mondo, e significativa è stata la presenza di molte fotografie dell'agenzia alla mostra Family Man, allestita al MoMa nel 1955, in piena continuità con lo spirito di riconciliazione diffuso all’epoca. Per Kuper, «nella grande famiglia umana il calcio rappresenta un’esperienza universale3» e
imprescindibile, così diffusa da apparire come «una necessità umana4». Il volume,
1 AAVV, Magnum Calcio, Phaidon Press Limited, 2003, Londra, pp. 5-6. 2 Ivi, p. 6.
3 Ibidem. 4 Ibidem.
includendo immagini di luoghi e situazioni assai differenti, sembra perseguire la finalità del primo progetto della Magnum, ribadendo che “il calcio è il calcio”, sia esso giocato ai piedi del muro di Berlino, come in un campetto ricavato all’interno di una piattaforma petrolifera o su un radura sovrastata dai cavi di trasporto del manganese in un villaggio del Gabon. Per quanto possano sembrare tra loro distanti o imperscrutabili questi luoghi, l'universalità del calcio velocizza socialmente la produzione di emozioni, rappresentando la chiave d’accesso per renderli familiari al nostro sguardo. Il volume esprime in sintesi la forza di radicamento universale del linguaggio calcistico, un aspetto che ha portato il gioco a essere lo sport più seguito al mondo e «certamente quello che ha sviluppato più capacità mitopoietiche5».
Sono pochi gli argomenti che occupano più spazio della chiacchiera calcistica nella vita odierna, un'abitudine incoraggiata dalla stampa e soprattutto dalla crescente offerta di calcio giocato e parlato in televisione, dove le partite, a pagamento o in chiaro, sono un appuntamento quasi quotidiano, al pari delle infinite trasmissioni di commento. Del resto, l'esplosione quantitativa della domanda di calcio, nella sua versione moderna, ha saputo mobilitare ingenti risorse e una spasmodica attenzione dei mezzi di comunicazione di massa. Michael Real, analizzando il rapporto tra sport e informazione, ha evidenziato la principale trasformazione avvenuta lungo il secolo diciannovesimo: la partecipazione amatoriale con finalità ricreative è stata trasformata dal dispiegamento, intorno all'evento sportivo, dei più raffinati mezzi tecnologici, volti alla valorizzazione in chiave consumistica dello spettatore6.
In ambito italiano, il rapporto tra sport e informazione conferma la grande attenzione per le cronache agonistiche. La stampa di settore risulta particolarmente letta, seguita e diffusa, e in alcuni periodi ha potuto contare su quattro quotidiani nazionali (La gazzetta
dello sport, Il corriere dello sport, Tuttosport e Stadio). È Alessandro Campi a rilevare il
dato in una puntata di Rai Storia in cui sottolinea come il ruolo della stampa sportiva, presente in tutti paesi, assuma in Italia una caratteristica particolare: «si parla moltissimo di sport ma poi di sport se ne fa molto poco, gli italiani amano andare allo stadio, seguire lo sport stando a casa o appunto attraverso i giornali. L’Italia è un paese dove si leggono pochi quotidiani ma moltissimo la stampa sportiva e questa è
5DAL LAGO A., Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna, Il Mulino, 1990.
6 REAL M., Mediasport Technology and the Commodification of Postmodern Sport in WENNER L., Mediasport,
sicuramente una stranezza7». Un altro aspetto evidenziato dal giornalista è il ruolo del
linguaggio della stampa sportiva, «che ha travalicato il suo ambito ed è diventato egemone nel modo di parlare degli italiani, per esempio è diventato egemone all’interno della stessa politica. Le metafore sportive-calcistiche vengono molto utilizzate nella discussione politica. Se seguite una qualunque tribuna politica avete spesso l’impressione di aver di fronte una conversazione, una discussione da bar sport. Ci si confronta sul piano politico come se si fosse dei tifosi8».
Il debordare delle espressioni calcistiche nel linguaggio politico, per Giorgio Triani, è parte di quel fenomeno «di calcistizzazione della politica che procedeva al passo di quella più generale che investiva la società italiana degli anni Ottanta e che scaturiva dal crescente peso sociale ed economico dello spettacolo calcistico, capace [...] di offrirsi come modello di una contesa in cui erano chiare le ragioni del contendere e dunque le appartenenze, i ruoli e gli obiettivi9». Nel suo saggio sul rapporto tra calcio e politica,
Triani scorre in rassegna una serie di titoli giornalistici, a volte in apertura di quotidiani non sportivi, che rappresentano a suo parere l'esigenza della società di rispondere, attraverso le forme espressive e comportamentali del calcio, a un'identità nazionale frustrata e disorientata dalla crisi della rappresentanza partitica.
Meglio Rossi [il centravanti azzurro] che morti, titolò “l'Unità” un articolo del sociologo
Franco Ferrarotti e in quel riprendere un celebre slogan della sinistra (o, capovolto, della destra) si manifestava appunto il completo, radicale rovesciamento di senso che aveva sempre regolato il rapporto fra politica e spettacolo calcistico. Innanzitutto il fatto che la prima non era più capace di produrre e regolare entusiasmi e tensioni collettive, in secondo luogo il riversarsi delle identità negate dalla politica in ambito sportivo. Il calcio come surrogato dell'identità nazionale frustrata e come risposta alla crisi della rappresentanza partitica10.
Per Triani, l'importanza del fenomeno risiede nella stabilizzazione del suo carattere.
7 CAMPI A., Gli italiani e la stampa sportiva, RAI STORIA, trasmissione on line. Disponibile sul web:
http://www.raistoria.rai.it/articoli/gli-italiani-e-la-stampa-sportiva/12372/default.aspx
8 Ibidem.
9 TRIANI G., La politica nel pallone, Caffè Europa, rivista on line, 1999. Disponibile sul web:
http://www.caffeeuropa.it/attualita/58attualita-calciopolitica.html
[…] non più una parentesi, un delirio di folla carnevalesco, ma invece uno stabile trasferimento di aspettative, valori e comportamenti da un piano all'altro. Dimostrato dal fatto che le feste del tifo negli anni Ottanta sono diventate un tratto costante delle domeniche calcistiche e della vita nazionale. Nello stesso tempo in cui le forme espressive e comportamentali tradizionalmente proprie della lotta politica (parole d'ordine, slogan e battimani ritmati e cantati, bandiere e striscioni) si sono trasferite sulle gradinate degli stadi11.
Nella sua forma contemporanea il calcio ha saputo quindi imporsi come un genere di consumo profondamente inserito nel linguaggio ordinario, scritto e televisivo, e in questo senso, insieme alla sua capacità di generare processi di appartenenza, arriva ad assumere per il proprio pubblico la veste di bene comune12.
Il calcio come social problem
Genere di consumo, bene comune, strumento di rielaborazione del linguaggio della vita ordinaria, il calcio, circolando copiosamente nella sfera dell’opinione pubblica e nei
media mainstream, incontra però non pochi problemi di “codifica”. Mentre restano rare
le occasioni in cui il fenomeno è trattato dal punto di vista sociale e culturale, ampio spazio è dedicato all'aspetto della violenza dei tifosi; e questo non tanto come fattore specifico, quanto piuttosto come elemento la cui condanna morale «trascina con sé tutte le culture, i codici e le manifestazioni quotidiane dei comportamenti da stadio13». Poco
si è riflettuto sulle metafore dominanti nel calcio e sui motivi che inducono una quantità così elevata di persone a partecipare agli eventi calcistici - «un'occasione pressoché unica nella nostra società di partecipare a un evento eccezionale14» - fermandosi al
diffuso pregiudizio normativo che riduce il calcio a ciò che dovrebbe essere, occultando in definitiva ciò che è15.
Dal Lago ricorda che quella che viene pomposamente chiamata public opinion è soprattutto la rete del pregiudizio e degli stereotipi, puntualizzando che «non significa
11 Ibidem.
12 PORRO N., Sociologia del calcio, Roma, Carocci, 2008, p.52.
13 CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), Stadio Italia. I conflitti nel calcio moderno, Firenze, la Casa Usher, 2010,
p.251.
14 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.38.
15 DE BIASI R.,Un Il tifo calcistico, in DAL LAGO A., DE BIASI R. (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione
che in questa rete circolino informazioni vere o semplicemente plausibili. E non si tratta nemmeno di informazioni “false”. Si tratta piuttosto di un’alterazione di dimensioni, dell’ignoranza dei contesti, di una manipolazione raramente deliberata, ma “necessaria”, delle proporzioni tra gli eventi, cioè di meccanismi che obbediscono alla logica quantitativa e qualitativa della semplificazione16».
Tra i miti dell'opinione pubblica rientra ad esempio la “violenza calcistica”. Un mito moderno che ha a che fare con la retorica della verità: «un discorso che pretende e poi assume un valore fattuale17». Esiste certamente una violenza sociale nel calcio, ma si
agita in un terreno culturalmente complesso che fa da sfondo a episodi prevalentemente ritualizzati, «spesso modesti, sporadicamente gravi18»; esiste però anche una retorica
della violenza che non consiste solo nel denunciarla, ma nel nutrirsi del suo mito: i media spettacolarizzano le azioni dei tifosi ma ne negano la legittimità, rafforzando l'immagine dello stadio come scenario di eventi pericolosi, ma soprattutto, non forniscono di quei gesti un'appropriata prospettiva, lo sfondo, le giuste dimensioni, aspetti «ritagliati e congelati in stereotipi19».
La dimensione del calcio come campo di investimenti emotivi, sociali e politici, nel quale oltre agli stessi media, appare con una certa ridondanza l'operato di imprenditori e istituzioni, sembra subire un giudizio ambivalente nel momento in cui anche gli spettatori, e in particolare il popolo delle curve, vogliono conquistarsi una porzione rilevante in un contenitore che porta all'eccesso «il potere sociale delle immagini20» .
In particolare, la concezione secondo cui il calcio è stato irregimentato come disciplina sportiva e quindi reso immune dalle ambivalenza emotive rende ancora più severo ed esasperato il giudizio degli addetti ai lavori sulle tensioni che si sprigionano intorno ad esso. Un meccanismo ambivalente che in realtà rivela che il calcio è oggi uno spettacolo interpretato da professionisti su cui avvengono investimenti materiali, emotivi e simbolici di massa: «un fenomeno sociale costitutivamente produttore di tensione21». La
visibilità sociale del calcio sovraespone però gli atti di violenza e rende palese la sproporzione tra eventi e notizia: gli incidenti, anche i più trascurabili, subiscono
16 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.156. 17 Ivi, p.155.
18 Ivi, p.41.
19 LIPPMANN W., Public Opinion, New York, Macmillan, 1960, p.156 (trad. it. Opinione pubblica, Milano, Comunità,
1963).
20 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.40. 21 Ivi, p.37.
l'amplificazione dai media. La violenza calcistica è quindi un mito sociale in quanto relativo alla dimensione sfuggente dell'opinione pubblica, il cui agire è spesso avulso dalla crescita quantitativa di un fenomeno o da una sua indagine in profondità, ma riflette il tasso di preoccupazione intorno ad esso, assegnando a tali astrazioni un valore morale. Al comportamento dei media mainstream è dedicata la riflessione di Silvano Cacciari. Ammettendo un conflitto antropologico nel calcio, Cacciari illustra come i media tentino continuamente di appropriarsi del centro disciplinare dell’attenzione sociale; «vista la convergenza storica tra media mainstream e istituzioni della civilizzazione» mostra a che punto risulti «comprensibile come attraverso i grandi media non si faccia informazione sul tifo ma si ritualizzi la legittimità di un solo attore in campo, quello istituzionale22». In questa dinamica, il calcio si trova a essere un
dispositivo centrale per accogliere le passioni collettive e allo stesso tempo modellarle attraverso una codifica sociale realizzata dai media sulle esigenze di governo della società. Riallacciandosi ai processi evolutivi di questo fenomeno, Cacciari afferma che «l’assunzione del calcio entro il modello di disciplinamento e di messa a produzione dei comportamenti individuali dato dalla civilizzazione comporta quindi una sua complessiva regolamentazione, entro i canoni delle buone maniere (il fair play) e la sua immissione in una forma di governamentalità23 (delle società e delle istituzioni dello
sport) entro l’ormai consolidato fenomeno del monopolio statuale dell’ordine pubblico24»
A questo accennato intreccio tra narrazione e codificazione di gesta sportive e protagonismi del pubblico occorre aggiungere una riflessione sul ruolo delle scienze sociali. Come già accennato, il calcio è uno sport tra i più vulnerabili nei confronti dei comportamenti conflittuali e su questo social problem, rappresentato essenzialmente dal comportamento dei tifosi organizzati, si è attivata in modo quasi esclusivo la curiosità sociologica. Un esempio alquanto paradigmatico sull'approccio delle scienze sociali ai conflitti del calcio è offerto dal paragrafo che Umberto Galimberti dedica agli ultras nel suo libro L’ospite inquietante, insieme di saggi nel quale l’autore affronta il rapporto tra i giovani e il nichilismo. Parafrasando Nietzsche, il filosofo presenta l’ospite nelle vesti
22 CACCIARI S., Immersi nel gioco, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.252.
23 Con il termine governamentalità si intende quella specifica «arte del governo» che attraverso un insieme di
«istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche» assicura la presa in carico delle popolazioni e garantisce il «governo dei viventi» in FOUCAULT M., La governamentalità, «Aut-aut», 167-168, 1978, p.28.
di un nichilismo che si aggira tra i giovani, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella le spinte vitali verso i nuovi orizzonti e intristisce le loro passioni. Resi inespressivi da un analfabetismo emotivo, i giovani appaiono pervasi dallo spaesamento, da condotte irrazionali in ogni tappa del loro percorso. Il nulla a cui aspirano li accomuna in una generazione nichilista, nella quale Galimberti individua i topoi delle più inquietanti condotte sociali nel rifiorente terrorismo politico, nella frivolezza programmatica, nella sociopatia, nel rifiuto della socialità, e pone al primo posto la violenza dei ragazzi dello stadio. I tifosi sono il punto più alto del disordine sociale: per Galimberti, seppur non sia l’unica, «quella degli stadi è la violenza più emblematica25». Così scrive l’autore:
con i loro passamontagna calati, perché la violenza è codarda, con i loro fumogeni che annebbiano l’ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro bombe-carte che uccidono. […] L’analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione. La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, e perciò si sfoga nell’anonimato di massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. La violenza da stadio, infatti, non ha creatività e lascia poco spazio alla fantasia. E dal momento che è ripetitiva e qualitativamente identica, l’unica variazione può essere solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e, con la dose, l’euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una nuova sovranità illimitata e di un’assoluta libertà dal peso morale e dal vincolo sociale. La caratteristica rituale della violenza nichilista dei ragazzi dello stadio rende questa violenza diversa dall’insurrezione o dal tumulto che, avendo di mira uno scopo, si placa quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è senza scopo, la violenza nichilista si compie con annoiata indifferenza, prorompe senza motivo e interesse e, per effetto della ritualità del suo compiersi, non necessita di alcuna decisione. Vivendo esclusivamente per la prosecuzione di se stessa, la violenza nichilista traduce la barbarie in normalità26.
25 GALIMBERTI U., L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2007, p.137-139. 26 Ibidem.
E’ evidente che applicando i caratteri della patologia all'esperienza dei tifosi, Galimberti chiuda di fatto ogni visione più complessa del fenomeno27. Dalla sua visione è assente
un'indagine qualitativa dei conflitti del calcio e non si esprime sulle modalità simboliche dell'agire collettivo né sulle differenti razionalità tattiche dei tifosi come delle istituzioni. Rappresentata come sfrenata, muta e acritica, l'azione dei tifosi è evocata al solo fine di delegittimarla, arrivando a parlare di disturbo mentale di chi compie atti di violenza. Un approccio, quello di Galimberti, già visto nella breve trattazione sui media, che oscura i significati profondi del calcio e la cultura degli spettatori, insieme ai codici e le manifestazioni che quell’universo esprime. Gli esempi di questa letteratura sono molti e, come sottolinea Cacciari partendo dall’analisi di Un antropologo nel pallone di Bruno Barba, essa è «destinata a essere recensita e utilizzata dal media mainstream come scienza della separazione tra calcio puro e “violenti” che non c’entrano nulla con il football giocato che è passione per la vita. Ecco quindi come un’allegra letteratura colta sul calcio finisce per essere usata come strumento di legittimazione dell’animalizzazione dei comportamenti da stadio e del riconoscimento di un’unica razionalità e sensibilità in campo, quella delle forme governamentali28». Questo tipo di
filone sociologico sembra essere in qualche modo la riserva discorsiva a cui attingono i media mainstream, le cui successive rielaborazioni vanno ad alimentare pericolose dichiarazioni di senso comune e verità stereotipate. Vediamone un esempio.
Il derby nichilista
In Italia, una della vicende che negli ultimi anni ha più di altre alimentano le “litanie” sugli eccessi intorno al calcio, escludendo dal dibattito qualsiasi elemento interpretativo, è relativa ai fatti del derby tra Salernitana e Nocerina. Tre giorni prima di quello che storicamente è un incontro che genera grandi aspettative tra i tifosi, il prefetto di Salerno
27 «La complessità è un modo di interpretare la realtà che presuppone principi e concetti costitutivi non confondibili
con le pericolose dichiarazioni di senso comune; insegna ad osservare la realtà attraverso rigorosi sistemi di nessi e relazioni che legano sempre la realtà al suo osservatore. La scoperta della complessità riguarda l’intera tradizione epistemologica occidentale. Rimanda ad un clima complessivo denso di inquietudine, ad un ethos, [direbbe Amsterdamski] all’interno del quale la storia del nostro pensiero scientifico si sviluppa; rimanda alla messa in discussione dell’unicità epistemologica e della dominanza delle cosiddette scienze dure. Rimanda ad un nuovo modo di pensare che riconosca il reale e il possibile non come dati immutabili, ma come costruzioni mai definitive e dipendenti anche dalle nostre scelte; [un nuovo modo di pensare] che tratti l’incertezza non come il peggior nemico, ma come il migliore alleato». DE MENNATO P., Nuovi modelli di apprendimento nelle scienze della salute per
rispondere alla complessità delle cure, relazione al XIV° congresso SIPEM di Rimini.
decide di vietare la trasferta agli ospiti, dopo che il Comitato di analisi per la sicurezza delle manifestazioni sportive (CASMS) ha classificato la partita come «connotata da alti profili di rischio». La decisione comporta la vendita dei biglietti ai soli residenti nella provincia di Salerno, con esclusione dei residenti nei comuni di Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Roccapiemonte, Castel San Giorgio, Siano e Pagani. Solo per la provincia di Salerno era stata stabilita la messa in onda in chiaro della partita sui canali Rai. L’immediata risposta dei tifosi ospiti è affidata a un comunicato dei gruppi organizzati della curva:
In merito alla vergognosa decisione di vietare la trasferta allo stadio Arechi ai sostenitori nocerini, la Curva Sud pretende di essere messa a conoscenza dei seguenti punti: perché una volta reperiti i pullman, ritenuti unica necessaria condizione per l’effettuarsi della trasferta, con ancora 5 giorni disponibili prima della gara, tale atto viene adesso invece bollato come tardivo? Come mai nell’impianto salernitano sono state disputate ripetutamente in passato gare dall’elevato rischio senza inibizione alcuna alle tifoserie ospiti? Perché se la gara presenta realmente un rischio cosi elevato di incidenti non viene disputata a porte chiuse ma ne vengono discriminati soltanto i tifosi ospiti? Perché per mesi e mesi si è voluta fingere l’intenzione di far giocare questo incontro, mentre poi nei fatti si è data palese dimostrazione di volere ostacolare ed impedire ad ogni costo la presenza nocerina sugli spalti? Per noi questa decisione è discriminante, indecente, iniqua ed inaccettabile, e confligge contro ogni principio di giustizia ed uguaglianza, nonché rende praticamente nullo il valore del concetto di tessera del tifoso. Se esistesse un organo di giustizia davvero sovrano e imparziale abilitato a giudicare chi di norma è giudicante, anche la prefettura di Salerno dovrebbe essere chiusa e subire svariati turni di squalifica per discriminazione territoriale!!! Domenica presto o tardi arriverà… e dinanzi a una decisione che va contro ogni forma di giustizia e razionalità… che sarà sarà… tutti… come non mai… aduniamoci!!! Avanti curva sud, avanti Nocera29.
A poche ore dal match, un gruppo di tifosi molossi si presenta - minacciosamente, secondo alcune ricostruzioni - nella sede del ritiro pre-partita della Nocerina chiedendo ai calciatori di non scendere in campo. Arrivati allo stadio, i calciatori rossoneri avrebbero comunicato all’arbitro la volontà di non giocare perché scossi dal colloquio coi propri tifosi, contrariati per le restrizioni subite in vista della trasferta a Salerno.
Convinti dal Questore e dalla società, i giocatori accettano di fare comunque il loro ingresso in campo, ma quello che segue si rivela una vera e propria farsa. Dopo pochi minuti di gioco il tecnico della Nocerina sostituisce tre elementi, esaurendo da subito la possibilità di fare nuovi cambi. Nel giro di un’altra manciata di minuti cinque giocatori della squadra lamentano infortuni tali da dover abbandonare il terreno di gioco. La Nocerina rimane in 6 e, seguendo la regola che prevede un minimo di 7 giocatori per squadra, al 22’ minuto l’arbitro si vede costretto a concludere in anticipo la partita. Appreso l’esito del derby, gli ultras della Nocerina scendono immediatamente in piazza a Nocera Inferiore per festeggiare. Più di un centinaio di tifosi ha raccolto l’invito diramato attraverso i social network e si è radunato in piazza Diaz, intonando cori e sventolando bandiere.
Oltre all’attivazione di un’inchiesta della Procura contro ignoti per i reati di “violenza privata” e “manifestazione non autorizzata” e un’inchiesta della FIGC ai danni della A.S.G. Nocerina per “illecito sportivo”, il derby-farsa ha prodotto una notevole quantità di interventi a mezzo stampa nella maggior parte dei casi concordi sulla netta condanna del comportamento dei tifosi molossi e sulla necessità di liberare un calcio ostaggio della violenza dei tifosi30. Etichettando la disponibilità alla violenza come risultato di
impulsi arbitrari e irrazionali o erigendola all’azione di bande di delinquenti che si nascondono dietro i colori e la presunta fede calcistica31, gli autori degli articoli ricostruiscono l’episodio in un’acritica visione dei comportamenti da stadio. Obiettivo tra l’altro dichiarato nell’intervento che segue, per certi versi esemplare di un certo rapporto che si è andato sviluppando tra i costruttori dell’opinione pubblica e gli studiosi dei fenomeni sociali:
Non è il caso di avventurarsi in trattati sociologici, non ne vale neppure la pena. Chi sono, perché sono così, di cosa si nutrono gli ultrà. Ora non conta. Conta un po' di più ragionare su cosa si dovrebbe e potrebbe fare per scongiurare giornate come quella segnata dalla mortificante resa di Salerno: club, giocatori, Stato, tutti messi alla berlina da dieci, venti, cento, trecento persone, in grado però di comandare. Ogni volta che si tocca il fondo,
30 REVELLO E., La partita “ostaggio”. Spunti di riflessione sul caso Salernitana-Nocerina, Sport & Legge – il blog di
Gazzetta dello Sport, 16 novembre 2013. Disponibile sul web:
http://sportelegge.gazzetta.it/2013/11/16/la-partita-ostaggio-spunti-di-riflessione-sul-caso-salernitana-nocerina/ FOSCHINI G., MENSURATI M., Palla prigioniera. Il calcio in ostaggio, Repubblica, 12 novembre 2013.
31 VULPIS M., La farsa Salernitana-Nocerina, nuovo schiaffo all’immagine del calcio italiano, Formiche, 10
spostando il limite della vergogna, il calcio spende fiumi di parole: indignate prima, severe poi. Mai più, si dice, prima di aspettare la vergogna successiva. Uno dei pochi fatti, in mezzo al coro vociante dei venditori di fumo atteggiati a supermanager, era stato proprio quell'inasprimento delle sanzioni contro la violenza verbale da stadio, che voleva recepire le indicazioni dell'Uefa che, guarda un po' che coincidenza, ha scelto “respect” come sua parola d'ordine. Non vale la pena, ancora, stabilire quanto fossero giuste o ingiuste quelle regole. È assai più importante ricordare perché il calcio italiano le abbia cambiate così di fretta: semplicemente, non ha avuto la forza di combattere la guerra scatenata dagli ultrà contro il sistema che le aveva prodotte32.
In questo esempio il contributo dei media determina un’ulteriore frattura rispetto a quell’approccio alla complessità richiesto nell’analisi dei fenomeni sociali. Il sistema di informazione in questo caso evita deliberatamente l’approccio “sociologico” «come se rappresentasse un insulto33». La netta cesura verso le forme di alterità a un governo del
calcio, che esclude dalla cornice del tifo una parte fondamentale per riaffermare l'eterna partita amico/nemico tra tifosi e impone la sua linea utilitaristica là dove la posta in gioco è elevata sul piano simbolico, offre legittimità unicamente all'attore istituzionale della contesa, amplificandola con la richiesta di uno stato d’eccezione («non vale la pena, ancora, stabilire quanto fossero giuste o ingiuste quelle regole»). Il timore verso l'approccio sociologico è connesso alla paura che l’analisi di un fenomeno possa diventare un processo di giustificazione: si ignora che «da oltre un secolo, le radici stesse delle correnti correnti sociologiche principali si danno nella separazione dall’analisi delle dinamiche sociali dai giudizi di valore34».
Oltre il panico sociale
Emerge un quadro supportato in maniera paradossale da contributi che da un lato si autorappresentano come “imparzialmente” scientifici e dall’altro rifuggono gli strumenti delle scienze sociali che, ai loro occhi, sembrerebbero rallentare gli sforzi di chi vuole operare concretamente contro chi devia le norme governamentali. A vent’anni di distanza dalla pubblicazione del testo La produzione della devianza, nel quale Dal Lago
32 PONTANI A., La degenerazione del tifo non trova ostacoli, Repubblica, 10 novembre 2013.
33 DAL LAGO, op. cit., 1990, p.155.
34 NIQUE LA POLICE, Magliette a strisce, teddy boys e black bloc. Dall’epica popolare al moral panic, Senza Soste
si proponeva di tracciare una genealogia del concetto di devianza a partire da alcune suggestioni foucaultiane, l’autore ribadisce il ruolo di un certo ordine discorsivo:
sono convinto, oggi come ieri, che i discorsi sociologici (e criminologici) sulla devianza non debbono essere trattati tanto come ipotesi scientifiche su certi aspetti della realtà sociale, quanto e soprattutto come dispositivi che costruiscono il proprio oggetto in base a strategie che hanno a che fare con il potere.
Cosa comporta una rappresentazione mediatica che evita ogni approfondimento sociologico, rendendo egemone l’aspetto della violenza sulla totalità del sistema culturale del calcio, senza peraltro indagare origini, motivazioni e trasformazioni del fenomeno? Sicuramente una delle conseguenze è la diffusione di panico (anche morale) che ne accompagna la percezione. Per Dal Lago, oltre a una complessiva sovraesposizione del “teppismo calcistico” in quanto associato a uno spettacolo «visibile e costoso come il calcio», l’aumento del panico è «probabilmente legato a un altro fattore, relativo alla memoria storica. Negli anni 1968/77 la società italiana ha conosciuto una violenza sociale e politica, soprattutto tra i giovani, diffusa e capillare. Dall’inizio degli anni ’80 si è affermata probabilmente l’illusione che, come si augurava De Gaulle nel suo famoso discorso televisivo dopo i fatti del maggio ’68, “la ricreazione [fosse] finita”. Insomma, è il mito di una società pacificata che predispone gli osservatori sociali al panico35».
Su questa falsa riga, anche il mito di un calcio pacificato predispone gli osservatori al panico. Ciò che infatti sembra mancare a tutti i discorsi che fondano il senso comune sul calcio e i suoi conflitti, di cui sono stati presentati alcuni esempi, è prima di tutto un’analisi della dimensione antropologica del gioco. In un contesto egemonizzato dal racconto dei media e dall’opinione pubblica, incline a una condanna morale dei fatti che non lascia ulteriori spazi di interpretazione, è opportuno indagare e riscoprire costantemente il processo storico, e la letteratura che nel tempo ha tentato di indagare in modo più profondo sulla natura inquieta del calcio e dei suoi protagonisti.
Nel campo della storia: il calcio delle origini
Ogni contesto storico ha assegnato ai giochi e agli sport una funzione irripetibile. Sembrerebbe pertanto rischioso tracciare una continuità tra realtà separate da millenni o anche solo da poche decine di anni. Fatta questa premessa, operare una sorta di viaggio a ritroso - e per grandi passaggi - nella comparsa dei giochi a palla può mettere in luce elementi che, seppur supportati da una struttura sociale costantemente in evoluzione (e di conseguenza a una riformulazione dei giochi stessi), non sono completamente avulsi alla forma attuale: il ruolo del pubblico, l'antagonismo esasperato, l'impunità rituale dell'evento, ma sopratutto la sua metafora dominante.
Fin dall’età precolombiana, l’esistenza di giochi con la palla è documentata nell’America Centrale. Anche nella Grecia e nella Roma antiche sono state individuate pratiche sportive o parasportive che prevedevano l’impiego di una palla.
Un remoto antenato di quello che è oggi il football moderno sarebbe stato però ideato in ambienti cinesi, all’alba della civilizzazione dal mitico Huangdi, “l’imperatore giallo”. In realtà, abbiamo notizia di acrobati e giocolieri che, durante l’impero di mezzo (2000 anni or sono), si esibivano a pagamento in prestazioni di abilità che è difficile ricondurre alla nostra idea di sport competitivo. In epoca Han, fra il 206 a.C. e il 220 d.C., si praticava invece il cuju, traducibile alla lettera come spingere il pallone con il piede. Nel cuju il campo di gioco, quadrangolare, a formare una gabbia con un foro al centro, sembra richiamarsi alla città-palazzo, al tempio degli antenati ed estensivamente all’idea di terra quadrata.
Giochi con la palla sono poi documentati tra le popolazioni di eschimesi nella Groenlandia, gli Inuit: consistevano nella disputa tra due squadre che cercavano di calciare il pallone oltre la linea avversaria, secondo il modello dei giochi territoriali che prevedono appunto la simbolica invasione dello spazio altrui. Altre documentazioni hanno rivelato la presenza del gioco presso i nativi del Nordamerica e nella regione australiana del Victoria.
Già da questi esempi si attesta che il gioco del calcio si configura come la riproposizione rituale di una battaglia per lo spazio, la celebrazione di un’occupazione di terra.
Più abbondanti sono le informazioni sull’età medievale e in epoca moderna: tra il XIV e il XV secolo si attesta la codifica della soule, gioco praticato prevalentemente in territori oggi a sovranità francese (Bretagna, Normandia, Piccardia). La soule e le sue varianti erano giochi strutturati su una commistione di rugby (in prevalenza) e di calcio: appartenevano a contesti sociali urbani ed erano spesso praticati durante il carnevale o in particolari ricorrenze.
Di tipo rurale erano invece i folkgames britannici che si svolgevano con selvagge partite in cui a fronteggiarsi era un numero indefinito di giocatori (anche tutto il villaggio poteva partecipare alla partita), in uno spazio mal definito (l’intero terreno tra due villaggi vicini) e con tempi sregolati di gioco (più giorni e più notti consecutivamente). Il contenuto della disputa era fortemente simbolico: una vescica di maiale o altri oggetti dovevano materialmente violare lo spazio difeso dalla folla avversaria, spesso delimitato dalle pietre miliari che indicavano i confini dei villaggi o dalla balconata della parrocchia. In queste occasioni il popolo riaffermava la propria identità, attraverso un tipico sistema di immagini e linguaggi espressivo-comunicativi, improntati su un ritorno alle origini, al “basso materiale corporeo”.
Il mob football era invece caratteristico dei contesti urbani. Per le strade, giovani bande si fronteggiavano sostenute da vere e proprie tifoserie che invadevano lo spazio di gioco con cavalli, carri, campanacci e coreografie. Un gioco ascrivibile a quei rituali allegorici tipici del mondo popolare, di stampo carnevalesco, in cui emergono in senso figurato la trasgressione e la sovversione delle norme, delle regole, e dei divieti religiosi e che permette di rovesciare le gerarchie sociali in un tempo delimitato.
Praticati dunque da tempo immemorabile sotto forme molto diverse e selvagge, questi antesignani del calcio furono proibiti dal podestà di Londra nel 1314 e rimasero fuorilegge e sotterranei fino al 1835, quando il cosiddetto Highway Act pur ribadendo il divieto del gioco nelle strade pubbliche lo rese possibile negli spazi recintati.
In Italia è il calcio fiorentino a emergere come precursore del moderno football. Inizialmente fu praticato da bande giovanili in competizioni poco strutturate e «ovunque fosse materialmente possibile», con particolare riguardo per le spaziose piazze della città di Firenze (Santo Spirito, Santa Croce, Santa Maria Novella). Adottato ben presto dall’aristocrazia cittadina, fu meticolosamente regolamentato e il suo svolgimento accompagnato da marcati elementi ritualistici. Le partite si disputavano su un terreno
sabbioso a perimetro rettangolare, avevano la durata di cinquanta minuti e nella versione classica prevedevano la presenza di ventisette Calcianti per squadra, abbigliati con sfarzose divise (denominate livree) e differenziati per ruoli come nelle odierne competizioni calcistiche. Il campo era diviso in due da una linea bianca e l’obiettivo dei calcianti era raggiungere il fondo campo avversario depositando la palla nella rete che lo delimita. Erano ammessi pugni, calci, spallate: in generale l’interdizione della violenza era scarsa, nonostante lo svolgimento del gioco fosse monitorato da un cospicuo numero di figure preposte a vigilare sul “pacifico” sviluppo dell’incontro. Accanto a quelle ufficiali, per un periodo, sono sopravvissute manifestazioni più estemporanee del gioco, ma sono finite presto nel mirino degli amministratori locali, preoccupati per il disturbo alla quiete pubblica.
Verso la modernità
Il calcio compie il passo decisivo verso la modernità nella Gran Bretagna vittoriana. Dopo aver rischiato la soppressione, come dimostra la ricca giurisdizione intenta a metterlo al bando (circa trenta fra editti reali e leggi locali fra il 1324 e il 1667), il calcio incontra il laboratorio adatto per avviare il processo di sportivizzazione: una risposta organizzativa alla crescente domanda sociale di football. Come spiega Nicola Porro, «il laboratorio che riuscirà a uniformare le regole del gioco, permettendo così l’estensione del raggio delle competizioni e omologandone progressivamente le stesse manifestazioni tecniche, sarà rappresentato dalle public school britanniche36». Le public
school sono istituzioni private, spesso con ambizioni elitarie, organizzate in classi
formate da dieci allievi, accompagnati da un tutor durante le attività sportive. «Di qui -fa notare Porro - la composizione a undici delle squadre di football». È in questo laboratorio che l’eredità dei folkgames, poi ripresa nella forma del calcio di strada espressa dal mob football, viene socialmente addomesticata e «comincia ad assumere il profilo di un moderno gioco di squadra. Un gioco tecnico, rigorosamente regolamentato e destinato a uno sviluppo per diffusione37». La nascente rivalità tra public school è tra
le cause più rilevanti del processo di standardizzazione di regole, tecniche e procedure del gioco. Nel 1840, da uno di questi istituti - il Winchester College - esce la prima
36 PORRO N., op. cit., 2008, p.21. 37 Ibidem.
attestazione di un gioco praticato con regole molto simili a quelle che saranno alla base della differenziazione formale con il rugby. Lo sviluppo del sistema ferroviario faciliterà i contatti e lo scambio di esperienze tra le varie scuole, nonché il radicamento di un insieme di regole condivise.
Nascita del football
Le prime regole del calcio furono formalmente discusse e approvate con l’accordo di quattro sedi universitarie (Eton, Harrow, Winchester e Shrewsbury) nel 1848 all’Università di Cambridge, contesto nel quale avvenne la separazione ufficiale dal rugby, che optava per una tipologia di gioco più fisica.
Circa quindici anni dopo quegli accordi nacquero le prime federazioni e nel 1888-89 si svolse il primo campionato inglese. Il gioco, inizialmente appannaggio delle classi alte, viste anche le condizioni materialmente difficili della classe lavoratrice britannica, «si diffonderà e radicherà in maniera complessivamente assai rapida, anche se per qualche decennio ancora il football conserverà una capacità di insediamento assai maggiore in alcuni contesti sociali e territoriali rispetto ad altri. In questa transizione si delinea quel cambio di paradigma sociale che tanto interesserà storici e sociologi38». Il mutamento
che Porro evidenzia è rappresentato dalla rapida diffusione del calcio tra la classe lavoratrice e dalla sua affermazione nei contesti urbani e industriali. È il rugby a rimanere appannaggio delle scuole d’élite, nonostante un radicamento «in subculture territoriali e professionali dove più significativa è la tradizione dell’amatorialità distintiva39».
Sul piano della codifica delle regole, il primo tentativo di uniformità fu promosso a Sheffield nel 1857, ma fino a circa il 1870 rimasero in vigore anche le regole di Cambridge.
La seconda metà dell’Ottocento è il periodo di maggior diffusione del calcio: commercianti e imprenditori esportano con i loro viaggi la cultura del football e nell’Europa continentale cominciano a prendere piede esperienze contenenti l’imprinting britannico. Non di poco conto sarà il ruolo dei porti, le cui banchine
38 PORRO N., op. cit., 2008, p.25. 39 Ibidem.
saranno spesso utilizzate dai marittimi inglesi come campi da gioco improvvisati, suscitando grande curiosità a livello internazionale.
Agli inizi del novecento la passione popolare per il calcio era tale che in Inghilterra le partite di cartello arrivavano ad ospitare fino a 100.000 spettatori, eventi non di rado costellati da incidenti, invasioni di campo, tentate aggressioni all'arbitro e ai giocatori. Violenze dal carattere spontaneo e correlate al gioco, che non alimentavano particolari inquietudini nelle istituzioni e nell'opinione pubblica.
Panem et circenses?
Con la separazione dal rugby, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, il calcio diventa la parte egemone dell’intrattenimento popolare e allieta le masse protagoniste del lavoro e della produzione nella rivoluzione industriale. A tal proposito occorre ricordare l'esistenza di una tradizione filosofica e sociologica ben radicata che ci invita a guardare con prudenza i grandi assembramenti sportivi e a considerare il calcio una pedina fondamentale di quel progetto di distrazione di massa dalle “cose serie” racchiuso nella formula panem et circenses.
Per Eco, ad esempio, «la società trova il suo equilibrio incoraggiando milioni di persone a parlare di sport. Purché non parlino d’altro, il che è molto comodo». Per altri, addirittura, la pratica e soprattutto gli spettacoli sportivi sarebbero «strumenti ideologici di Stato» incentivati per distogliere le masse oppresse dal loro fine liberatorio e imbarbarire culturalmente la società40.
L’uso strumentale del calcio come tipica modalità di preservazione del potere di individui o stati41 è una tesi che non manca di fornire argomentazioni. Si pensi
all’utilizzo per fini propagandistici e nazionalistici che il fascismo ha fatto delle vittorie dell’Italia ai campionati mondiali del ’34 e del ’38, duranti i quali la compagine italiana esibiva sulle maglie un fascio littorio ricamato e i giocatori, in alcune occasioni scesero in campo con una tenuta da gara completamente nera al posto del classico completo azzurro.
In tal senso, il caso forse più clamoroso è stato il Mondiale del 1978 giocato in Argentina (e vinto dalla selecion) appena due anni dopo che l’esercito aveva conquistato
40 BROMBERGER C., La partita di calcio. Etnologia di una passione, Roma, Editori Riuniti, 1999, p.137.
il potere con un colpo di stato. L’evento sportivo, ribattezzato “il mondiale della vergogna” fu l’occasione per la giunta militare di trovare l’appoggio e il silenzio della comunità internazionale e investire denaro (l’organizzazione costò svariate volte più di qualsiasi edizione precedente) ed energie per far sì che l’eco di una vittoria soffocasse il grido di migliaia di desaparecidos. Per raggiungere il suo scopo la giunta militare ingaggiò una società newyorchese di pubbliche relazioni e si adoperò per abbellire il paese: interi quartieri malfamati furono abbattuti e i suoi abitanti espulsi nelle province non toccate dall’evento sportivo; lungo la strada principale di Rosario fu invece costruito un muro, la cui parete fu ingentilita da dipinti raffiguranti case gradevoli per nascondere alla vista degli stranieri i quartieri più poveri della città. Prima dell’evento, l’operazione El Barrido portò alla sparizione giornaliera di circa 200 oppositori (o presunti tali) del regime. La vittoria dell’Argentina dalla quale la giunta attendeva benefici e consenso, irradiò anche le zone d’ombra del paese. La visibilità che l'evento e il titolo avevano offerto fu in parte conquistata dai soggetti fino a quel momento marginalizzati dalle iniziative del regime. Come ricorda Simon Kuper:
La giunta cercò di capitalizzare la gioia. […] Sembrava che il calcio fosse il nuovo oppio del popolo: date ai vostri sottoposti una Coppa del mondo e questi vi ameranno. Così sembrava, ma così non fu. “Argentina campeon” scrive Bayer in Futbol argentino, “ma la gioia non è gioia. È una sorta di esplosione di una società che è stata obbligata a restare in silenzio”. […] Le persone sanno pensare. Se sono povere, spaventate, e campioni del mondo, fa loro piacere essere campioni del mondo, e le indigna essere povere e spaventate”. Forse panem et circenses sono tutto ciò che il popolo desidera, ma, come fa notare Bayer, nel 1978 avevano un sacco di giochi e pochissimo pane. I tifosi non facevano nessuna associazione mentale tra la Nazionale e la junta. Acclamavano i giocatori e (almeno alcuni di loro) fischiavano il generale Videla quando compariva in uno stadio. Se avevano pensato di salvare il proprio posto investendo il denaro dell’Argentina nel calcio, erano stati ingenui.42
Pur considerando alcune delle motivazioni che vogliono il calcio manipolatorio e compensatorio, alla luce degli esempi è possibile affermare che club, competizioni o
singole partite43 si sono spesso rivelati potenti catalizzatori di rivendicazioni politiche
dal basso, creando talvolta un effetto boomerang contro chi pensava di egemonizzarne la narrazione ufficiale. A tal proposito, Bromberger afferma che «quando si tenta di decifrare le funzioni latenti e strumentali del calcio si scoprono processi instabili, contraddittori, restii a interpretazioni univoche e con effetti sul reale spesso più deboli di quanto si pensi. Né più né meno di qualsiasi altra persona, gli appassionati di calcio non sono né “idioti culturali”, né “fanatici alienati” incapaci di prendere le distanze in modo critico dal mondo che li circonda e che la loro passione imprigionerebbe nell’illusione44».
Un altro esempio “illustre” di analisi del rapporto tra gioco e potere, in particolare sull’uso “distraente” del dono, è offerto da Paul Veyne, che dissotterra i significati portanti delle relazioni antiche tra reggenti e corpo sociale. Sullo sfondo dell’antico impero romano, Paul Veyne ha mostrato come l’argomentazione di un utilizzo spoliticizzante dei giochi da parte della classe dirigente non regga a una seria analisi dei rapporti di potere e dei campi di forza che si fronteggiavano nel circo. Lo storico francese pone il problema dell’uso conflittuale dello spazio nei grandi circhi e anfiteatri in cui le istituzioni imperiali mettevano in scena i Ludi45. Nella sua analisi, ciò che si consuma nell’arena è un momento privilegiato di un complesso «dramma politico», che vede sempre l'imperatore, gli oligarchi e i plebei fronteggiarsi dentro una fitta trama di relazioni e scontri; un triangolo politico, sociale e sentimentale.
L’idea della spoliticizzazione solleva continue contraddizioni; comincia con l’idealizzare gli uomini, perché suppone che l’autonomia politica sia contenuta nella loro essenza, poi li ricaccia nella polvere, notando che basta proporre loro il circo per snaturarli; infine li riabilita imputando la loro alienazione alla bacchetta magica del tiranno. Per un sogno di autonomia politica, essa nega loro l’autonomia antropologica.46
Proprio l’inquieta antropologia descritta da Veyne mette in crisi il facile ricorso alla disillusione politica come topos ricorrente per spiegare l’aggregazione intorno a eventi
43 Emblematica la sfida tra Germania Ovest e Germania Est del 22 giugno 1974, terminata con la sorprendente vittoria
della squadra “socialista”. Un'impresa ben riassunta nell'articolo di Alessandro Colombini “Jurgen Sparwasser: la rivincita della Germania che viaggi in Trabant”. Disponibile sul web: http://zonacesarini.net/2015/03/07/jurgen-sparwasser-la-rivincita-della-germania-che-viaggia-in-trabant/
44 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.140.
45 VEYNE P., Il pane e il circo, Bologna, Il Mulino, 1984. 46 Ivi, p.77.
sportivi; la sua ricerca pone la necessità di problematizzare la tecnologia di potere, la «modalità della disciplina» in opera nel circo, nonché il protagonismo della plebe, le ambizioni dei patrizi, le cautele e l’esibizionismo dell’imperatore dentro il palcoscenico offerto dai giochi, che insieme contiene e dispiega ritualmente le relazioni tra gli attori sociali.
Il calcio come forma di rituale
Per alcuni studiosi il calcio è soprattutto un rito. Sulla questione, tuttavia, la letteratura sociologica ha offerto risposte discordanti. I più disparati eventi sociali vengono oggi infatti codificati attraverso il rito, cosa che crea non pochi oppositori a un uso ridondante della categoria. L’eventuale rifiuto di esaminare tali eventi attraverso il rito sarebbe in ogni caso carico di un retaggio che presuppone incompatibilità tra eventi della modernità ed espressioni simboliche dense, in quanto quest’ultime apparterebbero a un’età pre-scientifica.
Seppur prudente nei confronti della ritualomania, Bromberger ha criticato questa cesura verso alcuni fatti culturali connotati da caratteri rituali, ricordando che alcune di queste pratiche sono creazioni urbane e moderne. L’autore invita a non acuire una divisione tra eventi delle società tradizionali e moderne: non esisteva un evento completamente assoggettato a elementi religiosi prima, non si può parlare di pratiche interamente secolarizzate oggi. Per rafforzare la sua posizione, Bromberger riassume gli elementi strutturali che rituali religiosi e secolari condividono:
rottura con la routine quotidiana, quadro spazio-temporale specifico, scenario programmato che si ripete periodicamente in modo ciclico, parole proferite, gesti compiuti, oggetti manipolati al fine di ottenere un’efficacia extra-empirica che non si esaurisce nel concatenamento meccanico delle cause e degli effetti, configurazione simbolica che dà significato alla pratica rituale e ne garantisce il valore, instaurazione di un’antistruttura, affrancata dalle gerarchie ordinarie che dal tempo, un rango diverso a seconda della sua prossimità relativa all’oggetto della celebrazione e agli officianti.47