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CAPITOLO II L’ERRORE NELLA RICERCA EPISTEMOLOGICA

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CAPITOLO II

L’ERRORE NELLA RICERCA EPISTEMOLOGICA

L’esame dell’errore in ottica epistemologica richiede di interrogarci circa i presupposti teorici di un ragionamento. Tale operazione mira alla comprensione della correttezza del ragionamento stesso, indipendentemente dagli oggetti cui esso si riferisce e dai dati su cui si basa.

Al fine di raggiungere tale risultato, abbiamo deciso di prendere in considerazione alcuni autori che si sono contraddistinti sul piano epistemologico della ricerca, mettendo in luce la definizione da loro elaborata del termine errore. In particolare, vedremo, esistono essenzialmente due prospettive che fondano epistemologicamente la riflessione: il fondazionalismo e il coerentismo. Entrambe, comunque, abbracciano l’antica convinzione che «la nostra conoscenza dovrebbe svilupparsi architettonicamente e dovrebbe essere organizzata all’interno di una struttura articolata che mostra le connessioni che uniscono le sue parti in un complesso integrato»1.

In seguito risulterà opportuno, alla luce di quanto emerso, tentare di stabilire i casi in cui, sia sul piano conoscitivo sia su quello morale, è possibile parlare di errore.

Infine, prospetteremo una modalità di ragionamento che tenti di costruire conoscenza movendo dal concetto stesso di errore o, per meglio dire, dalle conseguenze negative che da esso derivano.

1. L’errore secondo l’impostazione scientifica classica

Se ci poniamo come obiettivo la trattazione del tema dell’errore in chiave epistemologica, è necessario prendere le mosse dall’analisi dell’autore che, per primo, ha affrontato questo argomento secondo uno schema articolato, sebbene in modo implicito:

Aristotele.

Il filosofo greco elaborando una specifica ed innovativa teoria della conoscenza, ha sviluppato la propria ricerca secondo schemi di ragionamento ben determinati, individuati tramite regole considerate universali e, pertanto, indiscutibili. Ne consegue che ogni ragionamento irrispettoso di tali indicazioni cagiona un errore, individuabile in modo chiaro se siamo a conoscenza e sappiamo applicare con abilità le regole del gioco. La schematizzazione aristotelica, sebbene portatrice di innumerevoli pregi, fra i quali

1 N. RESCHER, Cognitive systematization. A system-theoretic approach to a coherentist theory of knowledge, Blackwell, Oxford, 1979, p. 4.

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l’elaborazione di una teoria della conoscenza basata su concetti universali e perciò applicabili in diversi campi del sapere, presenta alcuni problemi che, in parte, sono già stati individuati nel capitolo precedente e che saranno ripresi. Ciò nonostante, le riflessioni dello stagirita risultano essere la base dello sviluppo della cultura occidentale, la quale si distingue per la schematizzazione logica ed il tentativo di giungere alle regole universali che governano ogni scienza, tanto da poter sostenere che «il metodo metafisico è (…) il procedimento seguendo il quale l’uomo perviene alla Verità suprema o alle verità supreme»2.

Un procedimento di questo tipo rappresenta l’essenza del fondazionalismo. Infatti, il

«fondazionalismo classico divide le nostre convinzioni in due gruppi: quelle che hanno bisogno di supporto da altre e quelle che possono sopportarne altre senza aver bisogno loro stesse di supporto. Le ultime costituiscono le nostre fondamenta epistemologiche, le prime la sovrastruttura costruita su tali fondamenta»3. Risulta chiaro che l’inizio di ogni ragionamento poggia su alcuni capisaldi che sono ritenuti indiscutibili. Tramite i legami che si instaurano fra di essi si giunge a nuove verità, dedotte grazie all’applicazione di regole logiche centrate sul legame causale. Pertanto, «l’approccio fondazionalista alla conoscenza sostiene che ogni affermazione discorsiva (cioè ragionata) verso la verità richiede delle verità come punti di partenza»4. Tale discorso non riguarda solamente le scienze empiriche, per le quali la derivazione causale di una variabile dall’altra può essere verificata in modo sperimentale, ma anche quelle umane, all’interno delle quali «la comprensione morale è dipendente da ciò che pensiamo di sapere»5. In un’ottica di questo tipo le verità di partenza sono conosciute che intuizione e «ci sono due principali usi del termine “intuizionismo”. Da un lato, l’intuizionismo è concepito come un modello generale di teoria etica; dall’altro è un’epistemologia morale fedele alle caratteristiche di tali teorie»6. In ogni caso si rendono necessarie conoscenze prime sulla base delle quali derivare le successive e più complesse riflessioni.

Per addentrarci nella dottrina aristotelica, iniziamo da quella che, probabilmente, è la frase più nota del filosofo in questione: «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere.

Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi tendono alle sensazioni per se stesse,

2 G. REALE, Introduzione, in ARISTOTELE, Metafisica (trad. dal greco), Rusconi, Milano, 1993, p. XXX.

3 J. DANCY, An introduction to contemporary epistemology, Blackwell, Oxford, 1985, p. 53.

4 N. RESCHER, Cognitive systematization. A system-theoretic approach to a coherentist theory of knowledge, op. cit., p. 51.

5 M.U. WALKER, Naturalizing, normativity and using what “we” know in ethics, in R. CAMPBELL, B. HUTER (edts.), Moral epistemology naturalized, University of Calgary Press, Calgary, 2000, p. 75.

6 R. AUDI, Intuitionism, pluralism and the foundations of ethics, in S. SINNOT-ARMSTRONG, M. TIMMONS (edts.), Moral knowledge? New readings in moral epistemology, Oxford University Press, New York, 1996, p. 102.

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anche indipendentemente dalla loro utilità»7. Se non iniziassimo da questo punto non comprenderemmo appieno le riflessioni di Aristotele, che si pongono su di un piano particolare, dato che non ricercano il sapere utile alla vita pratica di ogni giorno ma alla soddisfazione di quella curiosità per il misterioso che dovrebbe caratterizzare ogni essere umano. In tal senso l’autore greco viene attratto da quella che potremmo definire la domanda fondamentale della ricerca: perché avviene un certa cosa? La ricerca della verità, pertanto, diviene l’individuazione delle cause che conducono ad un evento. Questa via, però, «ha un carattere ambivalente: facile in un senso, è difficile in un altro. La facilità di tale ricerca va ricondotta al fatto che non esiste nessuno che non sia capace di cogliere la verità, almeno in misura parziale»8. Risulta interessante tentare di comprendere le ragioni per cui ogni persona, entro un certo grado, può avventurarsi con successo nella direzione della conoscenza. La possibilità di partire da alcune considerazioni per dedurne logicamente altre non è un fatto scontato e necessario. Affinché ciò avvenga si devono avere a disposizione alcuni principii generali che fungano da regole del gioco, grazie alle quali potersi muovere con sicurezza fra le possibilità che la situazione offre. Secondo Aristotele «è preferibile (…) assumere principii in numero minore e finiti»9, ma l’autore non riteneva corretto, come faceva la maggioranza dei filosofi a lui antecedenti o contemporanei, considerare come principii fondanti i contrari. In realtà, lo stagirita riteneva necessario ma non sufficiente assumere tali principii come primi. Secondo la sua opinione, infatti, essi dovevano necessariamente essere accettati, poiché se vi fosse un solo principio questo si scontrerebbe con la realtà dei fatti, la quale mette in evidenza come di ogni cosa ne esiste anche l’opposta. Ecco che i principii devono essere almeno due, ma se fossero solo quelli non potremmo spiegare l’esistenza di tutte quelle realtà intermedie a loro. Al fine di giustificare queste ultime dobbiamo accettare l’idea di un terzo principio, definibile come sostrato. Dalle riflessioni di Aristotele, «apparirà evidente a quanti prendono in esame la cosa, che anche le sostanze – e tutto ciò che si dice in senso assoluto -, divengono a partire da un certo sostrato»10. Pertanto, siamo giunti ad osservare, sebbene per sommi capi, come il nostro autore giustifichi l’esistenza di tre principii fondamentali. Dobbiamo sottolineare un fatto importante per rispondere alla domanda che ci eravamo posti poc’anzi. I principii non si trovano negli oggetti della realtà che osserviamo ed analizziamo, «il principio non si trova in ciò che è prodotto, ma nel

7 ARISTOTELE, Metafisica (trad. dal greco), I, 980a, 21-25.

8 A. JORI, Aristotele, Mondadori, Milano, 2003, p. 261.

9 ARISTOTELE, Fisica (trad. dal greco), I, 4, 188a, 17.

10 ARISTOTELE, Fisica (trad. dal greco), I, 7, 190b, 3-4.

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producente»11. Questa tesi è di fondamentale importanza poiché ci permette di comprendere l’universalità dei principii, che si palesano come comuni a tutte le persone e, proprio per questo, validi a livello generale. Se, una volta conosciuti i principii, potremo dedurne regole, dobbiamo antecedentemente renderci conto che «Aristotele aveva posto l’accento sull’intuizione come imprescindibile punto di partenza della deduzione»12. Il processo conoscitivo, pertanto, prende le mosse da un fatto che si oppone alle regole della logica e che, di conseguenza, si consegna all’irrazionale, a ciò che non è giustificabile né sostenibile con argomentazioni basate sul nesso esistente fra causa ed effetto. Un lavoro di questo genere, vale a dire la comprensione dei principii, è compito della metafisica, così come, «d’altro canto, alla metafisica spetta anche lo studio degli assiomi o principii della dimostrazione. Questi, infatti, valgono per tutti gli esseri, sicché l’indagarli è compito di chi studia tutto l’essere»13. Prima di osservarli con attenzione è necessario ricordare che il filosofo «distingue tra sensibilità ed intelletto e li considera come due principii diversi dell’anima umana mettendoli fra loro in un rapporto di determinabile e determinante. Anche per Aristotele l’intelletto o ragione è l’istanza necessaria e determinatrice»14. Ciò nonostante va sottolineato il ruolo necessario e fondamentale della sensibilità, che si palesa come il mezzo che ci permette di entrare in contatto con il mondo delle cose, dal quale parte il processo conoscitivo. Non è un caso che nel famoso dipinto di Raffaello Sanzio, “La Scuola di Atene”, vengano contrapposti in discussione Platone mentre indica il cielo con l’indice della mano destra e tiene sotto braccio il “Timeo” e Aristotele che, con il palmo della stessa mano, punta la terra e regge l’”Etica”.

Se, come vedremo fra poco, è vero che l’errore è presente solo nel giudizio, il quale per Aristotele è un’attività prettamente razionale, è altrettanto reale per lo stagirita che «gli errori che nascono in connessione con i sensi comuni sono solitamente dovuti alla distanza, ma ogni giudizio riguardante le proprietà di una cosa a distanza sembra coinvolgere l’inferenza intellettuale»15. Ecco, quindi, che la sensibilità diviene il primo gradino da affrontare, certamente non quello che ci permette di raggiungere la meta, ma quello che ci avvia nella giusta direzione. Ciò «risulta possibile in quanto la sensazione reca in sé un elemento di universalità: certo è una cosa particolare quella che viene

11 A. GIORDANI, Il problema della verità: Heidegger vs Aristotele, Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 145.

12 G. REALE, Introduzione, op. cit., p. XXXII.

13 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 274.

14 H. SEIDL, Sintesi di etica generale: coscienza, libertà e legge morale, Città Nuova, Roma, 1994, pp. 31-32.

15 L.W. KEELER, The problem of error from Plato to Kant, Pontificiae Universitatis Gregorianae, Roma, 1934, p. 33.

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percepita, ma in essa sono colti percettivamente i caratteri che l’accomunano ad altre»16. L’errore che lo riguarda può essere valutato come uno sbaglio nella percezione di un dato che non dovrebbe essere rilevato, poiché si pone fuori dal raggio di azione dello strumento di rilevazione; è questa una possibile prima definizione di errore in Aristotele. L’autore, lungo la scala che porta alla conoscenza, individua quattro gradi che devono essere affrontati in sequenza, affinché il processo si sviluppi in modo corretto. «Il primo di tali gradi è costituito dalla sensazione (aisthesis), o percezione, che è conoscenza di una realtà sensibile particolare, conseguita mediante uno o più dei cinque sensi, ed è propria di tutti gli animali. Segue la memoria (mneme), posseduta solo da alcuni di questi, che è la capacità di conservare, attraverso i ricordi, l’immagine dell’oggetto percepito anche in assenza di esso. Il terzo grado di conoscenza è dato dall’esperienza (empeiria), definita come l’unità di molti ricordi dello stesso oggetto e posseduta, oltre che dall’uomo (la conoscenza dell’”esperto”, appunto), solo da un numero limitatissimo di animali. Ad un livello ancora superiore sono l’arte (techne) e la scienza (episteme), le quali costituiscono un genere di conoscenza nettamente diverso rispetto ai precedenti, giacché mentre questi hanno tutti per oggetto il particolare, quelle hanno per oggetto l’universale»17. Si può notare da ciò come la schematizzazione aristotelica tenda a passare da un livello particolare, circoscritto ad una situazione specifica, per giungere ad uno universale, il quale permetta di comprendere le regole fondamentali che governano gli eventi. Queste regole possono essere considerate, perciò, come le cause prime di tali eventi, quelle dalle quali scaturisce ogni singola situazione. Per giungere alla comprensione della realtà dobbiamo cogliere i nessi necessari che la caratterizzano e per il filosofo greco sono quattro. Secondo il suo parere, infatti, «le cause vengono intese in quattro significati differenti. (1) In un primo senso, diciamo che causa è la sostanza e l’essenza: infatti, il perché delle cose si riduce, in ultima analisi, alla forma: e il primo perché è appunto una causa e un principio; (2) in un secondo senso, diciamo che causa è la materia e il sostrato;

(3) in un terzo senso, poi, diciamo che causa è il principio del movimento; (4) in un quarto senso, diciamo che è causa quella opposta a quest’ultima, ossia lo scopo e il bene: infatti questo è il fine della generazione e di ogni movimento»18. Queste cause avevano già trovato una loro prima collocazione nella “Fisica”; in tale opera il filosofo si era posto come obiettivo di «ricercare da fisico il “perché”, cioè la materia, la forma, il motore, il fine»19.

16 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 109.

17 C. ROSSITTO, Metafisica, in B. ENRICO (a cura di), Aristotele. Logica, Fisica, Cosmologia, Psicologia, Biologia, Metafisica, Etica, Politica, Poetica, Retorica, Laterza, Bari, 1997, p. 205.

18 ARISTOTELE, Metafisica, I, 983a, 26-33.

19 ARISTOTELE, Fisica, I, 8, 191b, 14.

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Una volta comprese le tipologie di legame che intercorrono fra gli eventi, diviene conseguente rendersi conto che la logica aristotelica si svilupperà necessariamente come

«una teoria generale della deduzione o inferenza»20, intendendo con tale definizione il fatto che si tenterà di derivare da alcuni dati considerati cause altri dati considerati conseguenze necessarie e pertanto inevitabili. Sarebbe corretto sottolineare alcune differenze che Aristotele considerava esserci fra i termini inferenza, deduzione e sillogismo, ma tale distinzione non è necessaria al raggiungimento del nostro fine, vale a dire l’identificazione del concetto di errore nell’autore ora in questione, perciò tralasceremo tale specificazione pur nella coscienza della sua esistenza.

Se torniamo sulla strada appena abbandonata, dobbiamo introdurre dei nuovi concetti per proseguire il viaggio intrapreso. Affinché da premesse si possano trarre conseguenze, è necessario che vi siano regole che guidano il ragionamento, principii della dimostrazione. Questi sono il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso.

Il primo viene presentato dall’autore secondo due formulazioni classiche. La prima dice che è impossibile che uno stesso attributo appartenga e non appartenga alla medesima cosa nello stesso tempo sotto lo stesso rispetto; la seconda sostiene che è impossibile a chiunque credere che una stessa cosa sia e non sia. In entrambi i casi, comunque, non varia il significato. È stato osservato che «il principio in questione costituisce una legge sia dell’essere, sia del pensiero che pensa l’essere. Il principio di non contraddizione è la condizione necessaria per apprendere e dimostrare qualsiasi cosa e rappresenta, pertanto, il principio di tutti gli altri assiomi»21. Non mancarono, da parte di altri pensatori contemporanei ad Aristotele, i tentativi di negare tale assioma, ma lo stagirita si difese utilizzando una tattica al tempo considerata innovativa ma estremamente efficace. Aristotele, infatti, non cercò motivazioni a favore della propria tesi, ma mise in evidenza come ogni tentativo di scardinare l’assioma richiedesse l’utilizzo dell’assioma stesso. Questa linea di difesa fu intrapresa soprattutto in quanto, proprio perché un assioma, il principio di non contraddizione si doveva porre come punto di partenza, altrimenti, se avesse avuto motivazioni a suo sostegno, quelle sarebbero divenute i principii primi. Vedremo poi come il filosofo giustificò l’identificazione degli assiomi.

Il secondo assioma di riferimento, quello del terzo escluso, recita che non è possibile che fra i due contraddittori ci sia un termine medio; è invece necessario o

20 M. MIGNUCCI, Logica, in B. ENRICO (a cura di), Aristotele. Logica, Fisica, Cosmologia, Psicologia, Biologia, Metafisica, Etica, Politica, Poetica, Retorica, op. cit., p. 47.

21 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 275.

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affermare o negare di un oggetto uno solo dei contraddittori, qualunque esso sia. Alle repliche l’autore greco risponde «con procedimento analogo a quello utilizzato nella dimostrazione elenctica del principio di non contraddizione, costringendoli ad assegnare un significato alle parole di cui si avvalgono»22. Ora, identificate queste regole per il ragionamento, sarebbe possibile procedere alla deduzione di nuove nozioni, ma abbiamo tralasciato la giustificazione dell’identificazione di questi due principii. Aristotele illustra ciò negli “Analitici Secondi”, utilizzando le seguenti parole: «La conoscenza scientifica e l’intuizione sono sempre veri, e poiché nessun altro genere di conoscenza è più esatto di quella scientifica tranne che l’intuizione, e d’altra parte i principii sono più noti delle dimostrazioni, e poiché ogni conoscenza scientifica si costituisce argomentativamente, non vi può essere conoscenza scientifica dei principii, e poiché non vi può essere conoscenza scientifica tranne che l’intuizione, l’intuizione deve avere per oggetto i principii. (…) Allora, se non abbiamo alcun altro genere di conoscenza vera oltre alla scienza, l’intuizione sarà principio della scienza»23. Ecco che i principii di non contraddizione e del terzo escluso sono frutto dell’intuizione, abilità certa ed indimostrabile secondo i classici schemi di ragionamento, vale a dire secondo il principio di causa ed effetto. Una volta identificati questi, è possibile procedere all’elaborazione di quel particolare processo conoscitivo che Aristotele definisce con il nome di sillogismo. Questo termine «è la parola moderna che designa quel gruppo di inferenze di cui Aristotele ha fatto la teoria e alle quali egli pretende di ricondurre ogni altra deduzione corretta»24. Dobbiamo però sottolineare che la necessità del legame esistente tra i termini in gioco

«non può essere interpretato dall’implicazione materiale (…). Le indicazioni fornite da Aristotele alla definizione di sillogismo conducono a pensare che egli concepisse la sequela come un rapporto di causa-effetto»25.

In effetti, egli sosteneva che il sillogismo fosse, essenzialmente, un ragionamento perfetto che si svolge secondo regole precise e che permette di giungere ad una nuova nozione prima sconosciuta, «conseguenza necessaria dell’antecedente»26. Lo stesso filosofo metteva in evidenza questo concetto nei “Topici”, dicendo che il sillogismo è: «un discorso (ossia un ragionamento) in cui, posti alcuni dati, ne risulta di necessità qualcosa

22 Ibidem, p. 277.

23 ARISTOTELE, Analitici Secondi (trad. dal greco), II, 19, 100b, 6-12.

24 M. MIGNUCCI, Logica, in B. ENRICO (a cura di), Aristotele. Logica, Fisica, Cosmologia, Psicologia, Biologia, Metafisica, Etica, Politica, Poetica, Retorica, op. cit., p. 76.

25 M. MIGNUCCI, Introduzione, in ARISTOTELE, Gli Analitici Primi (trad. dal greco), Luigi Loffredo Editore, Napoli, 1969, p. 50.

26 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 75.

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di diverso da essi, precisamente in virtù di quelli che sono posti»27. Affinché sia efficace, quindi, il ragionamento non deve essere di stampo tautologico, vale a dire che la conclusione alla quale si giunge, benché derivi da specifiche premesse, deve aggiungere qualche nozione, precedentemente sconosciuta, al discorso. Pertanto il sillogismo deve seguire, come già accennato, uno schema particolare. Precisamente, esso si compone di

«tre termini, uniti a due a due in tre proposizioni elementari, ognuno dei quali ricorre due volte. Uno dei termini ha la funzione di mediare fra gli altri due: si tratta del termine medio.

Gli altri due sono gli estremi»28. Assume notevole importanza il termine che si interpone fra gli estremi, vale a dire quello medio, dato che esso ricopre il compito primario di

«connettere le predicazioni, se è vero che si deve avere un sillogismo concludente al rapporto di questo termine con quest’altro»29.

Non illustreremo in questa sede le tre tipologie di figure che caratterizzano il sillogismo, non sarebbe di utilità alla nostra ricerca. È, invece, utile proporre ed analizzare brevemente la distinzione che il pensatore greco realizza fra sillogismo perfetto ed imperfetto. Lo stagirita definisce «sillogismo perfetto quello che non ha bisogno di nessun’altra cosa oltre a quelle assunte perché sia manifesta la necessità, imperfetto invece quello che ha bisogno di una o più cose, che sono necessariamente implicate dai termini posti, ma che non sono di fatto assunte nelle protasi»30. Inoltre, possiamo affermare che «quelli perfetti sono identificati con i sillogismi della prima figura, quelli imperfetti con i sillogismi della seconda e della terza figura»31. Ogni tipo di sillogismo, comunque, conduce alla conoscenza certa, dato che consiste in un processo dimostrativo;

al contrario, la conoscenza per sensazione che, come già accennato, si riferisce ad una specifica situazione, non può che riferirsi al particolare ed essere estranea alla generalizzazione del dato ottenuto. Su queste premesse si può comprendere la differenza che Aristotele evidenzia fra conoscenza (epistéme) e opinione (dóxa). «Mentre infatti la conoscenza ha per oggetto il necessario, l’opinione verte sul contingente, ossia su ciò che è vero ma potrebbe essere falso, e su ciò che è falso ma potrebbe essere vero»32.

A questo punto possiamo affermare di avere toccato con sufficiente attenzione i punti della teoria aristotelica per noi maggiormente interessanti. Siamo partiti dalla constatazione che il fine dell’uomo è la conoscenza, la cui costruzione diviene l’attività

27 ARISTOTELE, Topici (trad. dal greco), I, 1, 100a, 25-27.

28 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 76.

29 ARISTOTELE, Gli Analitici Primi (trad. dal greco), I, 23, 41a, 11-14.

30 ARISTOTELE, Gli Analitici Primi (trad. dal greco), I, 1, 24b, 22-26.

31 M. MIGNUCCI, Introduzione, op. cit., p. 51.

32 A. JORI, Aristotele, op. cit., p. 105.

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fondamentale dell’esistenza. Da tale presupposto possiamo comprendere che un primo errore lo si ha quando non ci si attiva in questa opera, disperdendo le proprie energie nel tentativo di raggiungere traguardi non degni della natura umana. È per questo che Aristotele ritiene incapace di controllo coloro che si lasciano sedurre dal piacere offerto dal tatto e dal gusto, vale a dire quelli meno nobili. Il filosofo afferma che «rimproveriamo chi ne è sopraffatto, e diciamo che è incapace di controllo e di disciplina, perché è dominato dai piaceri peggiori»33. L’errore, pertanto, coincide con il mancato raggiungimento del fine che dovremmo conseguire, e questo vale per ogni ente in relazione alla propria natura.

Ogni qual volta accade ciò sarà riconoscibile una causa che ha portato a tale situazione.

Lo stesso pensatore greco afferma ciò quando, nella “Fisica”, dice che: «Vi sono degli errori anche nelle cose che sono prodotte dall’arte; così, ad esempio, il grammatico non ha scritto correttamente, e il medico ha somministrato male la medicina. È perciò evidente che la stessa cosa è possibile anche nelle cose che sono secondo natura. Se dunque nelle cose che sono secondo tecnica, ciò che è fatto correttamente, è fatto in vista del fine;

e nelle cose che presentano degli errori, anch’esse sono fatte in vista del fine, ma lo hanno mancato; allora, allo stesso modo avverrà nelle cose naturali, e i mostri sono un errore del conseguimento del fine»34. Secondo quanto detto possiamo giungere a sostenere che, proprio per la sua specifica natura, l’uomo erra quando compie passi non corretti lungo il cammino del processo conoscitivo. Tali passi falsi derivano da una scorretta applicazione delle regole del ragionamento, utilizzate secondo criteri fallaci o in casi ad esse non opportuni. Al contrario, non vi può essere errore nei principii fondamentali, dato che sono intuiti e non identificati tramite la logica di causa ed effetto. La logica, se è vero che fonda la scienza, è altrettanto vero che apre la strada all’errore, derivante dalla discrepanza che si viene a rilevare tra le idee elaborate dall’uomo e ciò che si verifica in natura, tanto da poter evidenziare che «la causa delle difficoltà della ricerca della verità non sta nelle cose ma in noi»35. L’errore è, pertanto, l’elemento che rende vana la validità di una teoria, benché Aristotele riconosca che da presupposti scorretti si possa giungere a conclusioni valide. L’errore richiede che quello specifico sapere venga rifondato, dato che è stata dimostrata l’assurdità delle motivazioni che affermavano una certa tesi. Esso, insomma, evidenzia l’incapacità del ricercatore di leggere i fatti nel modo corretto e, di conseguenza, si offre come metro di giudizio dell’abilità di ricerca di una persona.

33 ARISTOTELE, Problemi (trad. dal greco), XXVII, 949b, 10-13.

34 ARISTOTELE, Fisica, II, 8, 199a, 33-b4.

35 ARISTOTELE, Metafisica, II, 993b, 8-9.

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L’ampio spazio dedicato all’analisi del pensiero dello stagirita si giustifica sulla base del fondamentale apporto che egli offre sul piano epistemologico; le idee di Aristotele rimarranno, per la maggior parte, il quadro di riferimento fondamentale per oltre duemila anni di storia della scienza. L’idea di poter procedere con certezza nella ricerca, sulla base di assiomi e schemi di ragionamento determinati, evitando così l’errore, rimarrà costante fino al XX secolo d. C., quando altri autori, vedremo presto quali, la negheranno e la considereranno una semplice utopia.

Il secondo autore che ci sembra interessante analizzare, per quanto concerne l’impostazione scientifica classica, è Cartesio.

Il lasso temporale che separa quest’ultimo da Aristotele è di notevole spessore, ma la scelta di non far riferimento a pensatori che si interpongono fra i due deriva dal fatto che sul piano epistemologico Cartesio è il primo, dopo lo stagirita, ad essersi cimentato con impegno. Ad una prima e superficiale analisi della teoria cartesiana, può sembrare che l’impostazione e le riflessioni effettuate dallo studioso francese siano incredibilmente simili a quelle del filosofo greco. Dopo esserci addentrati con attenzione nelle questioni per noi interessanti, vedremo che i due, nonostante condividano un’impostazione di fondo assai simile, giungono a conclusioni piuttosto divergenti, in particolar modo per quanto concerne il tema dell’errore.

Il primo concetto con il quale dobbiamo scontrarci per comprendere l’impostazione filosofica cartesiana è quello di dubbio. Esso, infatti, è la molla che mette in allarme ed attiva la curiosità dell’autore, tanto da spingerlo al tentativo di rifondare l’intero impianto del sapere, partendo da un nucleo forte ed indiscutibile per giungere, seguendo uno schema e delle regole bene precise, ad elaborare un metodo applicabile ad ogni specifico campo della scienza.

La prima domanda che Cartesio si pone riguarda l’attendibilità delle nozioni sulle quali basiamo i nostri giudizi. In effetti, qualsiasi ragionamento, anche il più corretto, perde la propria validità se i termini sui quali riflette sono portatori, in primis, di dati fallaci che compromettono l’intero prosieguo del discorso. Tale impostazione ci potrebbe condurre alla tentazione di dubitare di ogni cosa, con l’intrinseco rischio di non poter avere alcun riferimento fisso dal quale dar avvio alla rifondazione del sapere. Questo rischio è però presente solamente nel momento in cui consideriamo il dubbio come un atto irrazionale, come una paura che ci assale ogni volta che dobbiamo riflettere su un dato. Secondo il filosofo francese, all’opposto, dobbiamo porci nell’opposta prospettiva e ritenere

«anch’esso un atto della nostra ragione (…), e non può essere determinato solo da un

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fatto, non può essere cioè un mero atto “irrazionale”. (…) Ogni “oggetto” sottoposto al dubbio, e ogni facoltà soggettiva di conoscenza di quell’oggetto, saranno respinti come

“falsi”, o come ingannevoli, solo dopo avere ricevuto una razionale giustificazione della loro dubitabilità»36. L’irrazionalità consiste proprio nel fatto di attribuire ad un evento che ha riferimenti particolari una validità universale. Questa estensione di valore non ha ragioni che la sostengano e, pertanto, non dovrebbe mai avvenire.

Se la ragione giustifica la dubitabilità, in realtà, non giustifica il dubbio. Vediamo il perché e in che senso possiamo affermare ciò. La ragione, grazie agli strumenti logici di cui dispone, può stabilire con esattezza se un’idea, una percezione o, più in generale, un dato siano corretti. Pertanto, il dubbio non ha ragione d’esistere. Già in prima battuta una mente preparata ed allenata dovrebbe distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. La mente, però, non è solo intelletto, ma anche volontà. Vedremo poi che, infatti, è quest’ultima a generare l’errore. Pertanto, «se la “mens” fosse solo intelletto, giova ripeterlo, non vi sarebbe errore, e non vi sarebbe quella capacità di dubitare di cui l’errore è in qualche modo il maiueta»37. Il dubbio dovrebbe scomparire o, tutt’al più, limitarsi ad essere una questione relativa, ristretta al tempo necessario al fine di analizzare la questione. Esso può persistere nel ragionamento solamente nel momento in cui accettiamo di discutere una questione a partire da dati incerti, che accettiamo anche se non dovremmo. Su queste questioni dovremmo attentamente evitare di imbatterci, tanto che Cartesio sostiene sia «meglio non studiare mai, che occuparsi di oggetti a tal punto difficili, che, non essendo in grado di distinguere le cose vere dalle false, siamo costretti ad ammettere cose dubbie come certe»38. È per questo che il primo errore lo si ha quando si sceglie di esprimere giudizi in riguardo a ciò di cui si dovrebbe tacere. Per questo possiamo affermare «che la percezione dell’intelletto deve precedere sempre la determinazione della volontà. E in questo uso non retto del libero arbitrio è quella

“privazione” che costituisce l’essenza dell’errore»39.

La volontà, la quale coincide con la libertà, si mostra come la possibilità di non seguire le indicazioni offerte dalla ragione, come entità a sé, capace di dirigere l’atto sulla base di motivazioni differenti da quelle addotte dalla ragione. Oltre all’atto la volontà, cosa che in questo frangente ci interessa più direttamente, può muovere il giudizio e in esso si palesa come «possibilità (…) di negare il vero, l’assoluto: ciò è inerente alla sua stessa

36 P. RODANO, L’irrequieta certezza. Saggio su Cartesio, Bibliopolis, Napoli, 1995, p. 33.

37 Ibidem, p. 139.

38 CARTESIO, Regole per la guida dell’intelligenza (trad. dal latino), Bompiani, Milano, 2000, p. 145.

39 CARTESIO, Meditazioni metafisiche (trad. dal latino), Laterza, Bari, 1997, p. 99.

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natura di attività libera. Ma la possibilità di negare il vero, l’assoluto, è imperfezione (…) la forma della volontà è per l’appunto la forma dell’imperfetto»40. Questo aspetto è prettamente umano e divide la persona da Dio. Quest’ultimo, infatti, non può avere la possibilità di scegliere indifferentemente una cosa o l’altra, dato che ciò comporterebbe la possibilità di optare per la via errata, fatto assolutamente inconcepibile per un essere perfetto. La volontà si muove, in parte, sull’onda della «libertà di indifferenza»41 che si contrappone a quell’aspetto, apparentemente più umano, coincidente con la ragione. La persona, pertanto, si caratterizza secondo questa duplice via, ragione e volontà, che identifica la vera natura umana. Ciò che, invece, si oppone alla piena realizzazione dell’uomo è il «vivere a lungo sotto il dominio dei nostri istinti e dei nostri precettori»42, poiché essi possono essere portatori di false verità sebbene apparentemente certi delle loro idee. L’istinto, in particolar modo, si sottrae alla verifica della ragione e ci lega al dato empirico che tendiamo ad assumere come vero e, come già accennato, ad elevare a regola universale.

Al mondo dell’esperienza fisica è legato, di conseguenza, il primo contatto con l’errore, dato che «l’esperienza delle cose è spesso fallace, mentre la deduzione, ovvero la pura inferenza di una cosa da un’altra, può certamente venire omessa, se non la si vede, ma non può essere fatta male da un intelletto anche appena appena razionale»43. Certo l’esperienza concreta è, spesso, la prima che ci fa supporre connessioni fra gli eventi e ci induce ad elaborare abbozzi di teorie. Da queste elaborazioni Cartesio prende la dovuta distanza, tanto da affermare di non fidarsi «quasi mai delle prime idee che mi vengono in mente»44. Ne consegue che la conoscenza si può ottenere per una via che esula dall’esperienza e che si fonda sul fondamentale legame di causa ed effetto, ma non solo.

Possiamo scorgere, infatti, che per il filosofo francese hanno valore scientifico sia la deduzione sia l’intuizione, benché a quest’ultima sia riservato un posto di privilegio. Essa indica «non la mutevole attestazione dei sensi, o il giudizio fallace di un’immaginazione che fa collegamenti sbagliati; ma il pensiero così pronto e distinto di una mente pura e attenta, che su ciò che comprendiamo non rimanga proprio nessun dubbio; ovvero, il che è lo stesso, il pensiero non dubbio di una mente pura e attenta, che nasce dal solo lume della ragione, e, essendo più semplice, è più certo della stessa deduzione, la quale pure,

40 G. GALLI, Il problema dell’errore in Cartesio, Regia Università, Cagliari, 1932, p. 62.

41 Ibidem, p. 91.

42 CARTESIO, Discorso sul metodo (trad. dal francese), Laterza, Bari, 1988, p. 19.

43 CARTESIO, Regole per la guida dell’intelligenza, op. cit., p. 151.

44 CARTESIO, Discorso sul metodo, op. cit., p. 91.

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tuttavia, non può essere fatta male dall’uomo»45. La più importante di tutte le intuizioni, quella dalla quale può svilupparsi di conseguenza il sapere, coincide con la comprensione dell’uomo come essere pensante (cogito ergo sum). «Infatti, nonostante che sia formulata come un qualsiasi sillogismo, “penso dunque sono”, tale proposizione non è un ragionamento, ma una pura intuizione»46. Essa, pertanto, fa sì che l’uomo colga se stesso nella sua essenza, la quale diviene una verità incontrovertibile dalla quale procedere poi con la costruzione del sapere. Tale idea, centrale in Cartesio, rappresenta un punto di svolta nella storia della filosofia. Questa, che per secoli era stata fondamentalmente scienza dell’essere, diviene, prima di tutto, dottrina della conoscenza o, se preferiamo, gnoseologia. L’essere è raccolto nel suo pensiero e questo è tutto ciò che ci preme sapere in riguardo a tale argomento. Così come è stato intuito l’essere, vale a dire come idea chiara e distinta, vanno intuite le altre idee fondamentali. Tale atto di identificazione avviene tramite un’abilità che il filosofo denomina lumen naturale, cioè «la facoltà di accesso agli assiomi (o, stoicamente, “nozioni comuni”, o, agostinianamente, “verità eterne”), e cioè di proposizioni classicamente concepite come non suscettibili, ma in compenso neppur bisognose, di dimostrazione»47.

Una volta intuite le idee si potrà proseguire applicando ad esse lo strumento della deduzione. Con tale termine Cartesio non intende necessariamente il passaggio logico da un’idea generale ad una particolare alla prima collegata in modo necessario. Quello che definisce la deduzione è, in realtà, la necessità del legame fra termini in questione che, però, possono procedere anche dal particolare all’universale. A tal fine, d’altra canto, si rende necessario un principio assoluto che garantisca il prosieguo del ragionamento dato che la filosofia, in ragione di quanto detto, per il filosofo francese «vuole essere scienza formale e come tale deduzione da principii supremi, ancora: la filosofia, se è completa, vuole essere deduzione da un unico principio supremo»48. In effetti, se è vero che l’uomo si percepisce come essere pensante e da se stesso dà avvio alla conoscenza, nasce spontanea la domanda relativa alla validità della sua capacità deduttiva. In altre parole:

come possiamo essere certi delle regole che governano il nostro ragionare? Non potrebbero essere errate e, pertanto, portarci a conclusioni assolutamente incoerenti rispetto alle loro premesse? La garanzia della nostra abilità deduttiva ci viene data dall’intuizione dell’idea di Dio. Egli, in quanto essere assolutamente perfetto, ci deve aver

45 CARTESIO, Regole per la guida dell’intelligenza, op. cit., p. 157.

46 G. REALE, D. ANTISERI, La filosofia nel suo sviluppo storico, La Scuola, Brescia, 1988, p. 200, Vol. 2.

47 S. LANDUCCI, La mente in Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 18.

48 R. LAUTH, Descartes. La concezione del sistema della filosofia, Guerini e Associati, Napoli, 2000, p. 71.

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dato delle facoltà conoscitive che, se utilizzate nel modo corretto, ci devono garantire il risultato del nostro ragionamento. Se così non fosse vorrebbe dire che Dio ci ha ingannato, attribuendoci delle facoltà apparentemente attendibili ma, in realtà, erronee.

Ciò, però, non può essere. Se fosse così, infatti, Dio si mostrerebbe come essere maligno ed ingannatore ma tale fatto comporterebbe la perdita della sua perfezione e la conseguente impossibilità di venire chiamato Dio, essere supremo e perfetto per eccellenza. A questo punto, grazie all’intuizione delle idee dell’uomo come essere pensante e di Dio come garante delle nostre facoltà, sappiamo esattamente da dove deve iniziare la rifondazione del sapere ed abbiamo la certezza della validità della nostra ricerca. Il dubbio è stato debellato ed il lavoro del filosofo può proseguire sicuro.

Per far ciò si deve individuare un metodo d’analisi basato su regole essenziali e chiare, che consentano di individuare i dati utili alla ricerca e di elaborarli senza commettere passi falsi. Cartesio elabora tale teoria nel “Discorso sul metodo”. Il metodo individuato, proprio grazie alle regole di cui si avvale, avanza la «pretesa di conoscenza universale in virtù della certezza che istituisce e che lo istituisce»49. Esso rappresenta la bussola che ci indica quale sia la strada da seguire ed instaura un processo che, man mano avanza, accresce la sua efficacia ed suoi benefici, tanto da poter affermare che esso, «estendendo la capacità dello spirito, fa crescere il potere dell’intelletto»50. Il nostro studioso, in prima battuta, individua un numero piuttosto elevato di regole ma poi, ritenendo tale fatto pedante, di difficile applicazione e ridondante, riduce l’apparato metodologico a sole quattro regole che, però, devono essere seguite con grande scrupolo.

Esse recitano così: «la prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale (…); la seconda era di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminavo in quante più parti era possibile (…); la terza di imporre ai miei pensieri un ordine, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili (…); l’ultima era di fare, in ogni occasione, enumerazioni tanto complete, e rassegne così generali da essere sicuro di non dimenticare nulla»51. Questi quattro strumenti di lavoro rappresentano la struttura della ricerca, di ogni ricerca in qualsiasi campo, dato che per Cartesio «tutte le scienze non sono altro che sapere umano, che rimane sempre uno e identico, per diversi che siano gli oggetti a cui viene applicato»52. Se tralasciamo di effettuare alcuna critica alle regole del metodo, questione estranea alla nostra ricerca, e consideriamo tali regole come vere e

49 F. BONICALZI, L’ordine della certezza. Scientificità e persuasione in Descartes, Marietti, Genova, 1990, p. 36.

50 Ibidem, p. 31.

51 CARTESIO, Discorso sul metodo, op. cit., pp. 25-27.

52 CARTESIO, Regole per la guida dell’intelligenza, op. cit., p. 141.

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sufficienti per ottenere la certezza della nostra analisi scientifica, possiamo comprendere, ancora meglio di quanto già accennato, che l’errore non risiede nel giudizio a causa della sua imperfezione nell’analisi delle questioni che ci si presentano dinnanzi; al contrario, «il merito di Cartesio è nell’aver posto l’errore come giudizio e appunto per ciò come atto di volontà; nell’aver posto il principio dell’errore nella volontà, intellettualizzando la volontà nel giudizio»53. Ciò sta a significare, fondamentalmente, che per il filosofo francese si verifica l’errore a causa della volontà quando questa si intromette nel giudizio, dato che l’errore è una realtà riferibile solo a quest’ultimo ambito. Pertanto, un giudizio diviene errato quando la volontà impone la sua elaborazione benché non siano rispettate con attenzione tutte le regole del metodo individuate. Proprio in questo senso l’errore deve essere interpretato come causato dalla volontà ma nell’ambito del giudizio. Tale non scrupolosa considerazione delle regole deriva dalla sete di conoscenza dell’uomo, la quale fa sì che la volontà «come libera tensione all’infinito (…) si presenta innanzitutto come la facoltà dell’andar oltre, dell’eccedere i limiti, e in particolare quei limiti che, nella mens, sono rappresentati dall’intelletto e dalle leggi che necessariamente lo regolano»54.

Ora che abbiamo compreso cosa sia l’errore nella filosofia cartesiana, non ci resta che fare alcune riflessioni sulle differenze o somiglianze fra l’autore francese ed Aristotele.

Entrambi i filosofi considerano l’accrescimento della conoscenza come un fatto di deduzione logica o inferenza, cioè ritengono che da dati di partenza se ne possono ricavare di nuovi necessariamente collegati e dipendenti dai primi. Tale processo, se eseguito nella maniera corretta e se si parte da dati veritieri, non può portare che alla verità. Sia lo stagirita sia il francese partono da conoscenze di fondo che vengono intuite e che, pertanto, sono indimostrabili ed indiscutibilmente vere. La differenza fra i due si rivela nella concezione del metodo della ricerca e, conseguentemente, nella concezione dell’errore che ne deriva. Aristotele attribuisce alla struttura sillogistica stessa la possibilità di giungere a nuova conoscenza, semplicemente a partire dai principii individuati come fondamentali. Cartesio, all’opposto, oltre a delle regole da seguire con scrupolo, ritiene necessari, ogni qual volta si dà avvio ad un ragionamento, dei contenuti di per sé certi dai quali partire. Ancora più radicalmente, Cartesio «esprime propriamente il concetto che, ai fini dell’acquisizione di nuove verità, l’applicazione delle forme sillogistiche a determinati contenuti materiali del sapere non produce nessun risultato gnoseologicamente apprezzabile»55. Il sillogismo, secondo il francese, ricopre un ruolo di semplice verifica

53 G. GALLI, Il problema dell’errore in Cartesio, op. cit., p. 53.

54 P. RODANO, L’irrequieta certezza. Saggio su Cartesio, op. cit., p. 140.

55 P. COSENZA, Sillogismo e concatenazione nelle Regulae di Descartes, Tempi Moderni, Napoli, 1984, p. 6.

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logica della deduzione; non è utile, perciò, al fine concreto di quella. In seconda battuta Cartesio rivedrà, in parte, queste sue idee, rivalutando la funzione della schematizzazione del ragionamento, benché «non mancano nelle Regulae passi che rivelano una netta avversione per il formalismo logico»56. Infine e di conseguenza, possiamo notare che in Aristotele l’errore si presenta come la differenza fra ciò che viene affermato e ciò che è in realtà; tale discrepanza può derivare da diverse cause, tutte di stampo logico, vale a dire indicanti un nesso di causa e effetto, e tutte evitabili. L’errore può, pertanto, essere sempre evitato oppure rilevato e corretto. Per Cartesio l’errore passa dal piano dell’intelletto a quello della volontà che interviene nel giudizio quando quest’ultimo, a causa dell’incertezza dei dati in suo possesso, non dovrebbe venire espresso. Si può sinteticamente affermare che «il “non-ancora-saputo” aristotelico diviene con Descartes il

“da-non-sapere”, nei termini di un divieto che assurge a sapere in virtù del metodo»57. Entrambi gli autori, tuttavia, sono accomunati, a livello epistemologico, dall’idea di potere fondare la ricerca scientifica secondo un metodo certo che, se applicato con precisione, garantisce di evitare l’errore e giungere alla verità. L’errore, secondo l’impostazione scientifica classica, si palesa come l’indicatore dell’invalidità del processo che ha condotto all’elaborazione di una teoria, la quale deve necessariamente essere rifondata, dato che diverge dalla realtà dei fatti.

2. L’errore secondo gli orientamenti scientifici contemporanei

Il vero punto di svolta rispetto agli autori appena analizzati e, quindi, rispetto all’impostazione scientifica classica si verifica all’inizio del XX secolo. Come già illustrato, potremmo considerare, anche se solo indicativamente, l’anno 1906 come la data più significativa di tale rivoluzione. In quell’anno Albert Einstein presentò al mondo i risultati delle sue ricerche, elaborati e contenuti nel celebre volume “La teoria della relatività ristretta”. Ora non ci interessano i contenuti di tale teoria e nemmeno ci importa comprendere le differenze che sussistono fra questa e la teoria newtoniana. Al fine della nostra ricerca è di notevole importanza sottolineare che l’esposizione della teoria del fisico tedesco era contraddistinta da un fatto ben specifico che la allontanava dalla presentazione e spiegazione di qualsiasi tesi di qualsiasi autore precedente. Einstein, infatti, oltre ad esporre le proprie idee e ad apportare esempi e casi sperimentalmente provati a sostegno di quelle, offriva al lettore esempi di situazioni che avrebbero potuto smontare l’impianto teorico proposto. È proprio quest’ultimo l’aspetto che, più di ogni altro,

56 Ibidem, p. 18.

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per quanto ci compete, ha rivoluzionato la storia recente dell’epistemologia scientifica.

L’autore in analisi, infatti, è stato il primo ad accettare che le proprie idee, pur vantandosi di essere scientifiche, potessero essere negate da un avvenimento; anzi, proprio tale possibilità assicurava loro la scientificità. Questi casi sono noti come i paradossi di Einstein, vale a dire eventi di difficilissima realizzazione ma non necessariamente impossibili. Il tedesco non era un filosofo della scienza, benché ci abbia lasciato alcuni scritti in tale direzione. Il suo lavoro, però, è stato uno dei punti fondamentali di partenza per le riflessioni di uno dei più grandi filosofi del XX secolo, Karl Raimund Popper. È proprio quest’ultimo, infatti, l’autore che più di ogni altro ha saputo rivisitare l’epistemologia scientifica ed assegnare all’errore un ruolo di fondamentale importanza all’interno della teoria della conoscenza. Il secondo autore che abbiamo deciso di affrontare in questa sezione del lavoro è Thomas Samuel Kuhn, estimatore del primo dal quale si discosta, però, in ordine alla realizzazione della scoperta scientifica e allo sviluppo della conoscenza.

Partiamo dall’analisi del primo autore, Popper.

Il filosofo austriaco, interessato fin dall’inizio della sua formazione universitaria alla teoria della conoscenza, conobbe immediatamente le idee di Einstein e fu particolarmente affascinato dall’aspetto precedentemente illustrato, vale a dire dalla coscienza dell’autore che le proprie tesi potessero essere smentite. Questo fatto comporta che l’autore tedesco

«cerca coscientemente l’eliminazione degli errori. Egli cerca di uccidere le sue teorie: è coscientemente critico delle sue teorie che, per questa ragione, egli cerca di formulare esattamente piuttosto che vagamente»58. Ciò deriva dalla comprensione che una teoria più è vaga, nel senso che tenta di comprendere infinite possibilità, minori indicazioni specifiche ed utili ci potrà offrire. È per questa ragione che Einstein tentò sempre di proporre tesi che avessero un ben preciso ambito di riferimento, che non si elevassero al grado di universalità, il quale veniva negato proprio dalla coscienza della possibilità che quelle potessero essere smentite. Per la prima volta nella storia della scienza, un autore non tenta di trovare le leggi che regolano l’universo ma, all’opposto, ricerca ed accetta i limiti del proprio lavoro, che si esime dalla superba pretesa di rappresentare il punto conclusivo della ricerca scientifica. Ancora di più, proprio il limite evidenziato avvalora la veridicità della teoria, dato che la circoscrive e, implicitamente, indica in quali campi non debba essere applicata.

57 F. BONICALZI, L’ordine della certezza. Scientificità e persuasione in Descartes, op. cit., p. 31.

58 K.R. POPPER, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (trad. dall’inglese), Armando Armando, Roma, 1975, p. 46.

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Un altro fatto che ha fortemente segnato la crescita culturale di Popper è stato l’attrazione e la conoscenza della teoria marxista59 e di quella psicanalitica. L’autore austriaco - Popper era nato a Vienna nel 1902 - notò che queste dottrine, all’opposto delle tesi di Einstein, tentavano di dare una spiegazione logica ad ogni quesito e, a tal fine, arrecavano continui esempi che avvalorassero quanto proposto. A queste significative esperienze, che il nostro filosofo fece in età giovanile, va aggiunto un problema che sin dai tempi dell’università interessò Popper: qual è la validità del processo induttivo nello sviluppo della conoscenza? Per dare risposta a tale quesito, il filosofo partì dagli studi di Hume, il quale già precedentemente si era interrogato in ordine a ciò. Esattamene come Hume, Popper affermò l’insensatezza del processo di induzione per giungere a scoprire nuove leggi scientifiche. Il giudizio negativo dell’autore austriaco deriva da una duplice ragione. La prima è di stampo prettamente logico, dato che egli sosteneva fosse

«inammissibile l’inferenza da asserzioni “verificate dall’esperienza” (qualunque cosa ciò possa significare) a teorie»60. La seconda deriva dalla convinzione che «l’idea dell’induzione per ripetizione deve essere dovuta a un errore - una specie di illusione ottica. In breve: non vi è nulla di simile all’induzione per ripetizione»61. Se la prima ragione nasce dall’idea non nuova, sul piano logico, che da ciò che è minore non si possa ricavare ciò che è maggiore, la seconda si basa sul ragionevole presupposto che per poter affermare una legge a partire da ciò che abbiamo visto in prima persona dovremmo necessariamente assistere, sia nello spazio sia nel tempo, a tutti gli avvenimenti di quel tipo, altrimenti avremo sempre il dubbio che esista anche un solo caso che vada contro quanto proposto e neghi, di conseguenza, quanto affermato. Nel quesito appena presentato e nella sua discussione si palesa uno dei due problemi fondamentali della riflessone popperiana iniziale e si nasconde quello immediatamente successivo. Questi sono i «due problemi fondamentali della teoria della conoscenza. Il primo, quello dell’induzione (…); il secondo, quello della demarcazione»62.

Per quanto concerne l’induzione abbiamo già esplicitato la posizione di Popper;

della demarcazione parleremo a partire da questo momento.

È utile iniziare, ricordando che con demarcazione l’autore intende circoscrivere il campo scientifico, così da differenziarlo da quello metafisico. Storicamente la scienza si

59 Per un’accurata conoscenza delle tesi dell’autore austriaco in riguardo a questo argomento si faccia rifermato al volume K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti (trad. dall’inglese), Armando Armando, Roma, 1996.

60 K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica (trad. dall’inglese), Einaudi, Torino, 1970, pp. 21-22.

61 K.R. POPPER, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, op. cit., p. 25.

62 R. CORVI, Invito al pensiero di Karl Popper, Mursia, Milano, 1993, p. 43.

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era appoggiata alla definizione che le veniva data dai positivisti prima e dai neo-positivisti più recentemente. Tutti questi sono definiti da Popper come verificazionisti o giustificazionisti della conoscenza. Essi «sostengono, approssimativamente, che tutto ciò che non può essere sostenuto da ragioni positive non è degno di essere creduto, e neppure di essere preso in considerazione. (…) I verificazionisti (…) esigono infatti che una credenza si accetti solo se può essere giustificata da prove positive, cioè solo se si può mostrare che è vera o, almeno, che è altamente probabile. In altre parole, esigono che accettiamo una credenza solo se possiamo verificarla o confermarla probabilisticamente»63. La definizione di scienza da questi proposta non poteva assolutamente essere presa in considerazione dal nostro autore, dato ciò che pensava dell’induzione. Ancora più complicata si fa la situazione quando poniamo l’accento sulla probabilità come criterio. Infatti, per quante osservazioni possiamo fare, esse non saranno mai che una infinitesima percentuale rispetto al numero complessivo degli eventi di quel tipo che si realizzano nella storia. Pertanto, il grado di verifica ricavabile dall’osservazione e dalla conseguente calcolabile probabilità che un determinato evento si ripeta tenderà sempre a zero. Ecco, quindi, che Popper giunge a negare il criterio neo-positivistico come utile alla demarcazione del campo scientifico. In particolar modo, afferma «l’errata teoria della scienza che aveva prevalso fin dai tempi di Bacone – la teoria secondo la quale le scienze naturali sono le scienze oggettive»64.

La ricerca di un nuovo criterio, a questo punto, se non si poteva muovere nel senso della conferma sperimentale di quanto affermato, non poteva che andare nel senso della negazione dell’ipotesi sostenuta. L’idea del filosofo austriaco può apparire paradossale, ma dal momento in cui accetto che nessuna conferma può assicurare la verità della mia teoria deriva il fatto che ogni teoria che sostiene la propria assolutezza e l’impossibilità di essere negata si distacca dall’ambito delle scienze naturali, e quindi sperimentalmente verificabili, per approdare all’ambito metafisico, in cui le affermazioni, proprio perché distaccate dalla concretezza e basate su assiomi inconfutabili, non possono essere rifiutate sulla base dei fatti. Pertanto, secondo Popper la metafisica si caratterizza per l’impossibilità concreta di negare le teorie sostenute e, di conseguenza, le scienze naturali saranno definite dalla possibilità della negazione, sul piano pratico, delle affermazioni effettuate. Di conseguenza, «Popper contrappose al criterio di verificabilità elaborato dal Circolo di Vienna il proprio criterio di falsificabilità, inteso però come criterio di

63 K.R. POPPER, Scienza e filosofia. Cinque saggi (trad. dal l’inglese), Einaudi, Torino, 1969, p. 182.

64 K.R. POPPER, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale (trad. dall’inglese), Armando Armando, Roma, 1976, p. 82.

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demarcazione e non di significato»65, per il quale «un sistema (non tanto asserti teorici isolati, ma interi sistemi) è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza»66. Il criterio di falsificabilità, pertanto, si riferisce alle teorie scientifiche empiriche, non a quelle metafisiche, tanto che l’autore utilizza questi due termini, falsificabilità e empiricità, come sinonimi quando afferma che «una teoria si dice “empirica”

o “falsificabile” quando divide in modo non ambiguo la classe di tutte le asserzioni-base in due sottoclassi non vuote. Primo, la classe di tutte quelle asserzioni-base con le quali è contraddittoria (o che esclude, o vieta): chiamiamo questa classe la classe dei falsificatori potenziali della teoria; secondo, la classe delle asserzioni-base che essa non contraddice (o che permette). Possiamo formulare più brevemente questa definizione dicendo: una teoria è falsificabile se la classe dei suoi falsificatori potenziali non è vuota»67.

A questo punto del ragionamento comprendiamo meglio il forte impatto che ha avuto su Popper la conoscenza delle teorie di Einstein, da una parte, e delle idee psicanalitiche e marxiste, dall’altra. L’intuizione che il filosofo aveva avuto della sostanziale differenza fra le due si è resa chiara con l’elaborazione della teoria della falsificabilità, basata sulla soluzione del problema dell’induzione e della demarcazione. Grazie a ciò è stato possibile separare il campo scientifico da quello metafisico. L’errore appare in quest’ultimo campo come la negazione stessa della teoria proposta, come l’indicatore dell’insensatezza di un’affermazione; l’errore non è assolutamente compatibile con le relazioni che si ritiene sussistano fra le idee. Nel secondo caso, invece, l’errore, o meglio la sua possibilità, viene necessariamente richiesto, si svela come una conditio sine qua non della teoria scientifica.

La rivoluzione delle idee popperiana, per quanto riguarda il tema a noi caro, quello dell’errore, si snoda su due livelli. Il primo, l‘abbiamo appena visto, riguarda l’utilizzo dell’errore, all’interno della falsificabilità, come strumento di demarcazione. Il secondo lo vedremo fra poco, arrivandoci passo dopo passo. Quanto detto finora concerne solamente l’identificazione di una teoria come scientifica o metafisica, ma non dice nulla sulla sua validità. Pertanto, grazie alle informazioni a nostra disposizione, non potremmo scegliere fra due teorie riguardanti uno stesso quesito ma divergenti nelle soluzioni proposte. Per risolvere questo problema Popper ha proseguito nella direzione intrapresa. Se nessuna conferma sperimentale può innalzare il grado di veridicità di una teoria, forse lo potrà fare

65 R. CORVI, Invito al pensiero di Karl Popper, op. cit., p. 50.

66 S. GATTEI, Critica della ragione incerta. Introduzione al pensiero di Karl Popper, Società Aperta, Milano, 1997, p.

60. 67 K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 76.

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la resistenza ad un tentativo di confutazione. In sintesi, vedremo poi meglio come, più una teoria resiste ai tentativi di attacco più può essere considerata valida. Questa tesi può apparire strana ma d’altro canto, se rifiutiamo l’induzione, appare come l‘unico criterio possibile. Evidentemente esso non può dirci nulla di valido sulla correttezza o meno di una teoria; serve per realizzare un’ipotetica graduatoria delle teorie a disposizione circa uno stesso quesito, sulla base di quale, avendo resistito a controlli più accurati, può avvicinarsi con maggiori motivazioni alla realtà. Popper, per identificare questo procedimento, utilizza il termine corroborazione. Ne consegue che «un’ipotesi risulta più probabile, cioè più corroborata di un’altra, quando è stata sottoposta ad un maggior numero di controlli empirici che non l’hanno confutata»68; a ciò si lega l’ovvia considerazione che «a determinare il grado della corroborazione non è tanto il numero dei casi corroboranti, quanto piuttosto la severità dei vari controlli ai quali l’ipotesi può essere, ed è stata, sottoposta»69. Più in generale, pertanto, possiamo dire, utilizzando le parole dell’autore, che per grado di corroborazione di una teoria intendiamo «un conciso resoconto valutativo dello stato (ad un certo tempo t) della discussione critica di una teoria, riguardo al modo in cui risolve i suoi problemi (…). La corroborazione (o grado di corroborazione) è perciò un resoconto valutativo di prove passate»70. È evidente che, per giungere a questa nuova visione della scienza, «il legame tra conoscenza e giustificazione deve essere rotto. Ma se rompiamo quel legame, allora non è – o non completamente, o non esattamente – alzando i livelli di giustificazione che l’epistemologia distrugge la conoscenza»71.

Detto questo, possiamo cominciare ad avvicinarci al secondo livello sul quale si gioca l’errore. Esso, lo possiamo intuire, gioca un ruolo fondamentale nella valutazione di una teoria, dato che ne mette in luce i limiti e, se non viene rilevato in una successiva ipotesi, indica che questa ha fatto un progresso rispetto alla precedente, considerato il fatto che risolve un problema che prima la confutava. Per comprendere ancora meglio e più in dettaglio quanto detto, è necessario osservare il metodo scientifico studiato da Popper. Innanzitutto, il nostro autore parte da una posizione fondamentale. Secondo la sua opinione, la ricerca della verità circa un determinato argomento non dipende tanto dalla sete di conoscenza che contraddistingue l’uomo quanto dal suo involontario imbattersi in situazioni problematiche. Pertanto, «la ricerca scientifica (…) inizia sempre da problemi, da problemi pratici o teorici»72 e «procede da qui verso teorie in competizione,

68 R. CORVI, Invito al pensiero di Karl Popper, op. cit., p. 76.

69 K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, op. cit., p. 295.

70 K.R. POPPER, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, op. cit., p. 38.

71 D. LEWIS, Papers in metaphysic and epistemology, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 422.

72 D. ANTISERI, Karl Popper, Rubettino, Soveria Mannelli, 1999, p. 13.

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