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Perché non ho scritto nessuno dei miei libri

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Academic year: 2021

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Grandi autori contemporanei

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Grandi autori contemporanei

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Marcel BénaBou

Perché non ho scritto nessuno

dei miei libri

Traduzione di Laura Brignoli

isbn 978-88-99997-90-8

© Edizioni Theoria S.r.l.

Finito di stampare nel mese di dicembre 2018 presso MDF S.r.l., Ariccia (RM)

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Marcel BénaBou

Perché non ho scritto nessuno

dei miei libri

Traduzione di Laura Brignoli

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L’io in gioco

introduzione

a Perchénonhoscrittonessunodeimieilibri

Per chi abbia la vocazione alla scrittura, decidere di non scrivere nessuno dei propri libri è un’impresa che richiede un certo impegno e che, almeno in apparenza, sembrereb- be di natura diversa rispetto a quegli scritti che promettono di rivelare dei segreti di composizione letteraria.

L’esempio più conosciuto, e primo in ordine di tempo, è certamente quello di Raymond Roussel che, in Comment j’ai écrit certains de mes livres (1935), rivelava alcuni suoi procedimenti di scrittura, come è ormai noto dipendente da omofonie e altre parentele linguistiche. Ad esso è se- guito, molti anni dopo, Butor, che con il testo «comment se sont écrits certains de mes livres»1 suggeriva, con una sfasatura nello schema titolare rousseliano data dal cambio di soggetto, che i suoi libri si fossero in una certa misura scritti da soli. Sposta lievemente il focus Renaud camus,

1 Nouveau Roman: hier, aujourd’hui, Actes du colloque de cerisy-La-Salle, juillet 1971, Paris, collection 10-18, 1972, tome 2, p.243 ss.

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Introduzione

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scrivendo nel 1978 Comment m’ont écrit certains de mes livres: l’evidenza lapalissiana che vuole che siano i libri a fare lo scrittore trova qui un’applicazione praticamente let- terale. A chiudere il cerchio arriva calvino, primo oulipia- no italiano, con un testo scritto per il ventesimo numero della Bibliothèque oulipienne, nel 1982: Comment j’ai écrit un de mes livres2. Egli è l’unico, alla fine, a rivelare davvero il procedimento di composizione di una sua opera: Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Bénabou riconosce fin dall’esordio il suo debito verso Roussel, e nello specifico proprio verso quel testo, di cui riprende paradigmaticamente il titolo, come avevano fat- to, ma con ancora maggiore fedeltà, i successori. Alle frasi positive introdotte dall’avverbio “come”, Bénabou sosti- tuisce la negativa e l’avverbio “perché”, situandosi così fin dall’inizio sul piano del paradosso. il titolo strappa un sor- riso al lettore, perché la classica distinzione fra narratore e autore in questo caso non risolve l’aporia.

il paradosso è peraltro una figura molto amata da Marcel Bénabou, docente universitario di Storia Romana arrivato alla scrittura d’invenzione relativamente tardi: pubblica questo testo, il primo, nel 1986, all’età di 46 anni.

L’autore

È nato infatti in Marocco il 29 giugno 1939, nella comunità sefardita di Meknès, dove ha trascorso l’infanzia e l’adole- scenza. Ultimo figlio di una famiglia numerosa, ha vissuto serenamente i primi anni della sua vita, amato dai suoi ge- nitori e dai sette fratelli e sorelle. Egli esprime fin dalla pri-

2 Testo scritto originariamente in francese e tradotto in italiano solo nel 1995, pubblicato in Ruggero campagnoli (ed.), Oulipiana, napoli, guida, 1995.

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ma infanzia i suoi talenti, mostrando un carattere gioioso e facile che semplifica tutte le sue relazioni. Per ragioni geo- grafiche e sociali apprende da subito tre lingue: l’ebraico, il francese, l’arabo dialettale, delle quali afferra rapidamente l’uso nei diversi contesti. impara molto precocemente l’alfa- beto ebraico, la sorella lo introduce al latino e, constatate le sue innegabili doti intellettuali, viene poco a poco incaricato di essere l’artefice della risurrezione intellettuale della fami- glia. Dai suoi racconti, ma anche dall’assenza di conflitti nel- le sue opere, traspare l’immagine di una famiglia armoniosa, ordinata, in cui a ogni membro è assegnato il compito più coerente con le sue inclinazioni. Una sfumatura a questa fe- lice uniformità: la madre di Bénabou avrebbe voluto vederlo diventare un rabbino, una di quelle guide, gravide di infinita saggezza, che sanno mettere le proprie conoscenze al servi- zio della comunità ebraica. Di temperamento più leggero, più giocoso senza essere in alcun modo superficiale, Marcel porterà sempre con sé il rammarico di non aver realmente compiuto la volontà di sua madre e, soprattutto, di non aver avuto il tempo di mostrarle che il riscatto intellettuale della famiglia poteva essere ottenuto anche con la scrittura.

A 17 anni Marcel arriva a Parigi dove, dopo gli anni di preparazione, è ammesso all’École normale Supérieure, istituzione di privilegio che accoglie studenti particolar- mente dotati che devono completare gli studi prima di in- traprendere una carriera che generalmente li destina alle più alte posizioni intellettuali. Appassionato di storia anti- ca, diventa professore di Storia Romana all’Université Paris Vii, professione che esercita fino al 2001, quando si ritira per dedicarsi interamente all’attività di scrittore.

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Introduzione

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L’ouLipiano

non si capirebbe nulla della produzione di Bénabou senza conoscere il suo legame strettissimo con l’oulipo, l’ouvroir de Littérature Potentielle fondato nel 1960 dal matematico François Le Lionnais e dal letterato Raymond Queneau con l’intento di esplorare le potenzialità della lingua e produrre, tramite l’applicazione di precise contraintes, forme e strutture che consentano di prescindere almeno in parte dal concetto romantico di ispirazione. Lo scopo dell’oulipo consiste nel

«proporre agli scrittori nuove “strutture”, di natura matema- tica oppure inventare nuovi procedimenti artificiali o mecca- nici, contribuendo all’attività letteraria: supporti dell’ispira- zione, per così dire, oppure, in un certo senso, un aiuto alla creatività»3. gli oulipiani creano loro stessi queste gabbie, questi labirinti. Per qualche tempo il legame fra attività lu- dica e scrittura ha portato certi ambienti, anche in italia, a non prendere sul serio la produzione di questi autori, come se questo legame sciogliesse la necessità di un’altra relazione, ben altrimenti stretta: quella con il concetto di opera d’arte.

Ma la produzione di Perec, di Roubaud, e più recentemente di Le Tellier, Jouet e altri ha convinto anche i più scettici.

Dal 1970 Marcel Bénabou fa parte del gruppo, e l’anno successivo ne diventerà il “segretario definitivamente prov- visorio”, secondo la divertente formula ossimorica che usa- no loro stessi4. con Jacques Roubaud, Jacques Jouet, Harry

3 Raymond Queneau, «La littérature potentielle», in Bâtons chiffres et lettres, Paris, gallimard, 1965, p. 321, trad. it. «L’opificio di letteratura potenziale», in Segni, cifre e lettere e altri saggi, trad. giovanni Bogliolo, Torino, Einaudi, 1981, pp.56-73.

4 L’incarico, relativo ai giorni dispari, è condiviso con Paul Fournel, “Se- gretario provvisoriamente definitivo” nei giorni pari (camille Bloomfield,

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Mathews, olivier Salon, Hervé Le Tellier e altri oulipiani anima fin dagli esordi le varie manifestazioni pubbliche e soprattutto, dal 1997, i cosiddetti “jeudis de l’oulipo”, le riunioni mensili del giovedì durante le quali un pubblico sempre più numeroso e informato assiste divertito alle acro- bazie di questi funamboli del verbo.

Va detto che la nozione di vincolo, restrizione (contrainte in francese), assume contorni diversi nelle diverse opere degli oulipiani: solo Perec – che per sua stessa ammissione voleva evitare di ripetersi – aveva saputo differenziare la sua produ- zione facendo ricorso a numerose restrizioni, da quelle verbali (come il lipogramma o il monovocalismo) a quelle matemati- che (come la struttura del doppio quadrato latino della Vita istruzioni per l’uso), passando dalla combinatoria (Penser/

Classer). gli altri generalmente diversificano meno la loro pro- duzione; così se dei matematici come Braffort e Roubaud sono portati per natura e formazione ad applicare alle loro opere vincoli di natura matematica, un umanista come Bénabou, dal sapere vastissimo orchestrato fra multilinguismo e multicultu- ralità, predilige invece restrizioni di tipo linguistico.

unautobiografiaparadossaLe

Per sua stessa ammissione, Bénabou è incapace di scrivere senza imporsi delle contraintes più o meno stringenti attorno alle quali riesce a strutturare le sue opere. nonostante l’ap- parenza – la prosa di Bénabou è sempre molto scorrevole – Perché non ho scritto nessuno dei miei libri non trasgredisce questo principio. Al punto che, volendo uniformare il titolo di quest’opera a quelli da cui ha tratto ispirazione, si potreb-

Raconter l’Oulipo (1960-2000), Paris, champion, 2017, p.332).

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be formulare così: “comment le jeu a écrit tous mes livres”

(come il gioco ha scritto tutti i miei libri), laddove il termine

“jeu” si fa carico di una scrittura che ingloba anche, per le virtù dell’omofonia, il “je”, l’io dell’autore. Per quanto para- dossale, questa infatti nasce sotto il segno dell’autobiografia.

non è un caso se uno specialista della letteratura intimistica come Philippe Lejeune ha dedicato un capitolo di un suo libro proprio a Pourquoi5. come afferma claude Burgelin6 l’autobiografia di Marcel Bénabou registra una differenza fondamentale rispetto alle altre opere dello stesso genere: se è arrivato a scrivere i due testi autobiografici Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres e Jacob, Ménahem et Mimoun, Une épopée familiale, non è per conoscersi meglio, né per espiare una colpa, né per narcisismo, né per qualche altro motivo di tormento personale. Lui si sente piuttosto un figlio del Li- bro, e ciò che l’ha animato è proprio la volontà di scrivere un’opera capace di contenere tutto, la sua storia, ma insieme anche la storia della sua famiglia, e della doppia, anzi tripla eredità culturale di cui si fa portavoce che non è avulsa dal- la storia dell’ebraismo né dall’evoluzione culturale dell’oc- cidente. Questo sogno di totalità alla Mallarmé, che deriva dalla sua educazione e dal contesto culturale d’origine, dalle aspettative famigliari e dal bagaglio culturale accumulato, si è rivelato tuttavia castrante in un primo momento. il modello a cui aspirava – non alieno dall’idea di sacralità da cui prende le mosse – ha dovuto confrontarsi da una parte con un ideale di perfezione che ne decreta l’irrealizzabilità; dall’altra con la

5 Philippe Lejeune, «L’autobiocopie», in Les Brouillons de soi, Paris, Seuil, 1998, pp.13-25.

6 claude Burgelin, «Marcel Bénabou’s paradoxical autobiography», SubStance, vol. 28, n.2, issue 89, 1999, pp.41-46.

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mole delle opere già scritte, che spesso distillavano il suo ide- ale di scrittura. incapace per tutte queste ragioni di redigere l’opera all’altezza delle sue aspettative, ha ripiegato sull’unica soluzione possibile: raccontare l’impossibilità dell’impresa, senza rinunciare a descrivere ciò che avrebbe dovuto esse- re. così, in questo libro di un centinaio di pagine, riflette in modo divertente e autoironico sulla sua spinta verso la scrit- tura da una parte, e sul freno potente che gli impedisce di at- tuare i suoi propositi dall’altra: in primo luogo quella cultura vertiginosa, quel sapere storico, letterario e artistico di cui vorrebbe dar conto (e ci riesce!) senza cedere a una pacchia- na ostentazione. Ma ogni pagina che racconta l’atteggiamen- to dello scrittore mancato e le ragioni del suo insuccesso è al contempo una riflessione sulla sua esecuzione, una metanar- razione costante che enuncia dei principi (o dei divieti) messi in atto (o trasgrediti) in quella stessa pagina7.

in più di un’occasione8 Bénabou ha parzialmente suggeri-

7 così, per esempio, inizia il capitolo 1 della “Prima pagina”: «Per comin- ciare, una frase molto corta. Mezza dozzina di parole, non di più: parole semplici, giunte per prime, o quasi». come si nota, la “mezza dozzina di parole” è proprio quella della frase precedente. Altrove, tuttavia, una finis- sima sovradefinizione orienta il senso verso il contrario di ciò che si afferma:

«J’ai voulu pour y parvenir me limiter à des décors pris dans la nature, à des éléments puisés au coeur du concret» (p.31). il cuore del termine concret, in francese, è omofono di “on crée”. con ogni evidenza, quindi, i paesaggi o le ambientazioni descritte nel seguito della frase non sono affatto tratti dalla natura, ma dalla natura “qu’on crée”, cioè che si crea, inventata.

8 Marcel Bénabou, «Entre Roussel et Rousseau, ou contrainte et confession», in Bénabou, Jouet, Mathews, Roubaud, Un art simple et tout d’exécution, Belval, circé, 2001, pp.69-93; «Le comment du Pourquoi», Cahiers d’études maghrébines, «Les Séfarades du Maghreb», n.19, 2004, tome 2, pp.363-368; si veda anche, sul sito dell’oulipo, «Quelques clefs pour Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres», <http://oulipo.net/fr/quelques-clefs-pour-pourquoi-je- nai-ecrit-aucun-de-mes-livres>.

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to il metodo di composizione di questo libro, che deve molto al gioco verbale, in particolare al gioco costruito su una serie di dislocazioni foniche a partire da una frase di reminiscenza inequivocabilmente proustiana: «Longtemps, j’ai rêvé de vrais chefs d’œuvre» (a lungo ho sognato veri capolavori). in virtù dell’omofonia fra “des chefs-d’oeuvre” e “déchets d’oeuvre”

(scarti), e di un lieve slittamento sillabico, essa diventa: “Long- temps, j’ai ravaudé des déchets d’œuvre”. Vi appare dunque l’idea di una scrittura come rabberciatura (ravauder) composta di scarti (déchets). concetto che trova una singolare consonan- za con una certa idea della letteratura, quella che, operando una dislocazione fonica del termine “Littérature” si legge come

“lis tes ratures”, oppure “lie tes ratures”. La letteratura come lettura (“lis” leggi) o legame (“lie” lega) finalmente trovato fra le proprie cancellature (ratures). il libro, dunque, si configura come un tessuto di progetti abortiti, una composizione etero- clita di elementi non utilizzabili in altro modo.

D’altro canto si è trattato, per lui, di attribuire dei signi- ficati diversi a frasi semanticamente codificate: scrivere su una pagina bianca, per esempio, può rimandare all’evidenza lapalissiana dell’atto stesso della scrittura su un supporto in- tonso. oppure può rimandare a scrivere su, cioè a proposi- to di, quelle pagine bianche che, da bambino, sottraeva alla riserva di un suo fratello più grande – come racconta nel capitolo “L’ordine delle parole”.

Scrivere sui libri che non ha scritto significa così parlare dei libri che non è stato lui a scrivere, ma che, per contenu- to, sensibilità e persino “stile”, avrebbero potuto uscire dal- la sua penna. il capitolo intitolato “Le bon usage” racconta della bulimia con cui il narratore si nutriva dei libri più di- sparati, che andava scovando fra i bouquinistes della Senna e con cui instaurava relazioni intense, al punto da immagi-

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narsi compagno degli eroi della letteratura. Ma se in quel capitolo i rimandi letterari sono espliciti, nel resto dell’opera essi sono intessuti più finemente nel filo narrativo, al punto da rischiare di passare inosservati. il lettore dovrebbe infatti avere le stesse conoscenze dell’autore per coglierne ogni sfu- matura. Potremmo dire che questa, come ogni grande ope- ra, richiede l’intervento di una serie di commentatori prima di poter svelare tutto il suo implicito.

Fare di ogni pagina, di ogni frase persino, un concentrato di intertesti, calembour, pastiches, narrazione e metanarra- zione: è questa la soluzione che adotta per superare l’im- passe dell’ambizione smisurata. Ma non si creda che il risul- tato finale sia davvero una rabberciatura, un assemblaggio un po’ sommario di frasi pensate per altri scopi. il libro in questione è anzi solidamente strutturato, secondo un princi- pio compositivo evidente nella ripartizione dei capitoli: tre parti, formate ciascuna di tre capitoli, e separate da pagine dialogate in cui l’autore si rivolge direttamente al lettore, sia in apertura che in chiusura, e altrettanto nei due momenti di pausa. A queste due forme – dialogo e narrazione – van- no aggiunte le citazioni in esergo, che non sono semplici complementi ai capitoli, ma vanno a disegnare una precisa struttura chiasmatica nella successione dei capitoli. All’eser- go d’apertura corrisponde infatti una citazione finale, posta dopo l’“Addio al lettore”; i tre capitoli centrali contengono nell’ordine 4-5-4 citazioni, mentre i primi tre capitoli, che ne contengono 1-2-5, e gli ultimi tre 5-1-2, spezzano la li- nea chiasmatica centrale, con un clinamen9 atto a creare una

9 il clinamen è una deviazione dalla rigorosa applicazione di una restrizione:

«le clinamen […] est la variation que l’on fait subir à une contrainte [… ] c’est-à-dire la liberté que l’on prend par rapport à une contrainte»; george

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corrispondenza fra la “Prima pagina” e l’“Ultima parola”.

La struttura concentrica (concentrazionaria?) del chiasmo viene così interrotta da quell’atto che, pur nel rispetto del- la regola, sancisce in modo inequivocabile la libertà dello scrittore. Libertà che si manifesta anche nella scelta delle citazioni: accanto a cioran, chamfort, Pascal e altri classici, francesi e non, troviamo un enigmatico Mallursset che altri non è che la crasi fra Mallarmé e Musset, e l’alessandrino citato (“Sur le vide papier sont les chants les plus beaux”) in realtà sono i due emistichi tratti l’uno da Mallarmé: «Sur le vide papier que la blancheur défend», in Brise marine, e l’altro da Alfred de Musset: «les plus désespérés sont les chants les plus beaux. Et j’en sais d’immortels qui sont de purs sanglots», in La nuit de mai. Le citazioni in esergo ac- compagnano i capitoli assecondando la curva fallimentare che essi disegnano, ma non senza suggerire l’importanza dell’architettura del testo.

come si può notare, nell’atto di spiegare tutte le ragioni che ci sono per non scrivere il libro, Bénabou ha realizzato un libro estremamente costruito. La regola del tre, numero decisamente ricorrente nel percorso culturale del nostro autore10, manifesta già qui la sua importanza. Essa sarà ripresa in modo più o meno esplicito in altre opere, per esempio nella sua Épopée familiale, costruita attorno alle tre figure ancestrali di Jacob, Menahem e Mimoun; o ancora nella struttura di Écrire sur Tamara11.

Perec, Entretiens et conférences II, Joseph K., 2003, p.316.

10 Ricordiamo che la sua formazione linguistica è avvenuta in tre lingue. A questo proposito, si veda quanto dice Bénabou stesso in «Quelques clefs pour Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres», op. cit.

11 Mi permetto di rinviare al mio saggio: «Le narrateur multiple dans Écrire sur Tamara de Marcel Bénabou», in Vittorio Fortunati ed Elisabeth Schulze- Busacker (ed.), Par les siècles et par les genres – Mélanges en l’honneur de

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il fallimento del suo progetto di scrittura viene costan- temente negato sia dalla solidità della struttura, sia da un altro elemento, forse ancora più importante: è innega- bile che in questo libro vengano evocati tutti i libri che Bénabou non ha scritto; tuttavia non si è lontani dal vero affermando che a questa frase manca un avverbio: vi evoca infatti tutti i libri che, nel 1986, non aveva ancora scrit- to, ma che avrebbe scritto in seguito. È così che il lettore che conosce la sua produzione ulteriore vi ritrova, non solo in nuce, ossia come vago accenno a una tematica co- stante e caratterizzante la sua scrittura, ma in modo ben più preciso, sotto forma di riferimento a dei progetti, la descrizione degli altri romanzi che poi ha effettivamente portato a termine e pubblicato. E qui, a mio parere, sta l’aspetto straordinario di questo metaromanzo: ritrovarvi non delle vaghe allusioni, ma dei riferimenti precisi a ciò che Bénabou avrebbe scritto anni più tardi, rende la sua produzione singolare. ne parla a chiare lettere nel secon- do capitolo di “Prima pagina”, laddove riassume esplici- tamente due storie che rimandano l’una all’Épopée, l’altra a Jette ce livre avant qu’il soit trop tard12. L’accenno a que- st’ultima è ancora più esplicito laddove viene evocato il suo «doppio ispirato – quel fantasma costruttore di frasi che blocca malignamente i [suoi] lavori per dettar[gli] le sue trovate – arriva solo alle (rare) ore che ha scelto, scrive (al massimo) tre paginette e poi se ne va». il riferimento al personaggio di Sophie di Butta questo libro finché puoi

Giorgetto Giorgi, Paris, classiques garnier, collection “Rencontres”, n.78, 2014, pp.89-102.

12 Pubblicato in italia da Aracne nel 2009 con il titolo Butta questo libro finché puoi.

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è palese: di fatto questo personaggio non è solo la fidan- zata del protagonista, ma rappresenta, a livello metaro- manzesco, l’incarnazione della fonte della sua scrittura13, quel sapere (Sophia) enciclopedico che sta alla base dei suoi libri.

Entrambi sono preceduti da un altro esempio di eroe possibile, la cui «storia potrebbe raccontare il ritorno alla vita di un uomo che, nella sua giovinezza, senza aver com- messo alcun crimine, senza essere stato oggetto di alcun procedimento penale, si è imprigionato da solo in una gab- bia robusta (vent’anni di reclusione e di silenzio); avendo coscienziosamente scontato la sua pena fino al termine fis- sato, osa infine rimettere in discussione l’intima sanzione e cerca di ricostruirne le oscure premesse». Le implicazioni metanarrative di questo atteggiamento sono precisamen- te quelle degli oulipiani, che «costruiscono da soli il la- birinto da cui cercano di uscire». Purtroppo con la tra- duzione si perde l’omofonia fra “peine” (pena) e “pêne”

(chiavistello), e cioè quel pezzo mobile della serratura che viene azionato da una chiave: l’allegoria, come afferma il narratore nel paragrafo successivo, è lampante e concerne l’esistenza, per ogni libro dell’autore, di una “chiave” che consenta la decodifica della sua macrostruttura.

L’opera si configura dunque come un atto creativo istan- taneo, un colpo di bacchetta magica che avrebbe fatto sca- turire tutto un mondo, un mondo che il suo autore avrebbe deciso di consegnare al lettore poco a poco. così si può affermare che anche in questo senso l’opera soddisfa il so- gno di totalità che sta alla base della scrittura bénaboliana.

13 Si veda la postfazione in Marcel Bénabou, Butta questo libro finché puoi, trad. Laura Brignoli, Aracne, Roma, 2009, pp.165-172.

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Eppure, è il paradosso la sua cifra identificante. non a caso vi si citano esplicitamente Diderot (Ceci n’est pas un conte) e Magritte («ceci n’est pas une pipe»). conviene tut- tavia stabilire opportunamente ciò che differenzia queste due opere dal titolo rematico14. nel caso di Magritte, come è noto, si tratta di mettere l’accento sul fatto che il quadro non è una pipa, ma la rappresentazione di una pipa, e di spostare quindi l’attenzione dal referente reale alla sua raffigurazio- ne, dalla realtà all’arte.

nel caso di Diderot, il titolo rematico rinvia invece alla pretesa veridicità del contenuto raccontato in forma di dialogo. Ceci n’est pas un conte è quindi doppiamente una non-novella, per la forma (dialogo con un interlocutore che interviene ponendo domande e obiezioni) e per il contenu- to, che rimanda a fatti autentici. Laddove Magritte astrae la sua opera d’arte dalla realtà, sottolineando il carattere non referenziale della pipa, Diderot compie l’operazione contraria, insistendo sulla non-finzionalità, sull’autenticità della vicenda.

come collocare quindi l’operazione di Bénabou, che rin- via ad entrambi? il paradosso, già palese nel titolo, diventa addirittura doppio, soprattutto per il fatto che, all’interno del capitolo “Titolo”, viene indicato un nuovo titolo, remati- co questa volta, che avrebbe ben potuto essere scelto al posto dell’attuale: «ceci n’est pas un livre», «questo non è un libro».

in effetti, questo non è un libro nel senso tradizionale del ter- mine – né è forse il libro ideale che Bénabou avrebbe voluto scrivere – ma è un insieme di libri, sia per la ricchezza del suo tessuto intertestuale, sia per la presenza delle sue stesse ope-

14 Sulla definizione dei titoli si veda gerarde genette, Seuils, Paris, Seuils, collection “Poétique”, chap. «Les Titres – Fonctions».

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re ulteriori e anche, non ultimo, per la condensazione delle forme che esso racchiude: è – e insieme non è – un romanzo, un saggio, una metanarrazione, una narrazione, un’opera di invenzione, e al contempo una descrizione di fatti autentici.

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Dopo tutto ciò che è stato appena osservato sul lavoro di Marcel Bénabou, è ora opportuno collocarlo all’interno di uno specifico panorama culturale, che lo ha generato e che consente di spiegarne la portata. Arrivato alla scrittura nar- rativa negli anni ’80, dopo una lunga gestazione, ha assimi- lato e vissuto dall’interno le esigenze del nuovo clima cultu- rale iniziato dopo la guerra, a partire dagli anni ’60. Questo periodo che ha fatto esplodere i semi di una discussione sulla cultura nel suo complesso è iniziata molto tempo pri- ma ed è stata finalmente portata agli estremi. La discussione riguarda principalmente la necessità imperativa di relativiz- zare tutto e in modo radicale. Questo ovviamente interessa tutte le arti e tutte le scienze. La letteratura assimila questo clima filosofico, che mette in discussione le stesse basi della conoscenza occidentale: la riflessione non riguarda la co- noscenza in sé, ma la struttura della conoscenza, mostra la relatività del sistema e, specialmente, la sua incapacità di fornire una spiegazione del reale che sia definitiva, inconte- stabile e senza “resti”. Alla ricerca della “verità”, compren- diamo che prima di arrivare a questo punto è importante riflettere sui mezzi usati, e alla fine scopriamo che sono solo mezzi peculiari di un’epoca e di uno stato di conoscenza, e quindi relativi come la conoscenza che consentono. Pen- satori come Barthes, Derrida, Foucault hanno ridefinito il ruolo e i limiti del pensiero occidentale, dimostrando che tutto ciò che è conoscibile non è il reale in sé, né un’imma-

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gine della realtà, ma un’immagine di cultura che guida le scelte e la forma del conoscibile. La conoscenza, il linguag- gio che si suppone lo esprima, sono solo sistemi tautologi- ci che non consentono una rappresentazione del reale, dal quale sono irrimediabilmente separati.

inevitabilmente, questo clima culturale ha un effetto sull’ambito strettamente letterario, che, a dire il vero, aveva già mostrato fin dal secolo precedente una marcata atten- zione verso questo non-luogo in cui la letteratura riflette su se stessa: punto estremo del discorso in competizione con la narrativa, del predominio del discorso sulla narrativa, la scrittura diventa, da Flaubert in poi, una narrativa del di- scorso, e il prodotto letterario diventa meno produttore di un senso della realtà, a sua volta inconoscibile, che riflessio- ne sul fatto stesso di raccontare.

narrativizzare il discorso, di per sé, non è irrilevante. La critica ci ha abituati a pensare che la letteratura moderna sia caratterizzata da una ripetizione di se stessa generata dall’at- to di designarla. Questa ripetizione è incontestabile nei con- fronti di alcuni autori, come Robbe-grillet, ad esempio, che scelse di condurre questa ripetizione alla vertigine dell’indi- cibile, dell’indescrivibile. Secondo Michel Foucault, tuttavia, la letteratura autoreferenziale implica l’opposto di una inte- riorizzazione: implicherebbe piuttosto la designazione di un vuoto, essendo questo vuoto lo spazio che permette, appun- to, alla parola letteraria di svilupparsi a partire da se stessa.

Ed ecco il paradosso: se si fa un libro che racconta tutti gli altri libri, è esso stesso un libro oppure no? Deve rac- contarsi esso stesso come se fosse un libro fra gli altri? E se non si racconta, che cosa può essere, esso che aveva in progetto di essere un libro, e perché omettersi nel suo

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stesso racconto, dal momento che deve raccontare tutti i libri? La letteratura comincia quando questo paradosso si sostituisce a questo dilemma; quando il libro non è più lo spazio dove la parola prende figura (figure di stile, fi- gure di retorica, figure di linguaggio), ma è il luogo dove i libri sono tutti ripresi e consumati: luogo senza luogo in quanto custodisce tutti i libri passati in questo “volume”

impossibile che va catalogando il suo mormorio fra tanti altri – dopo tutti gli altri, prima di tutti gli altri15.

Da questa temperie culturale emerge il primo libro di Bénabou, di cui questa pagina sembra la precisa descrizione.

suLLatraduzione16

La traduzione ideale di un testo letterario dovrebbe consiste- re nella creazione di un oggetto estetico che abbia una forza espressiva paragonabile a quella del testo di partenza17. Per questo il concetto di fedeltà al testo originale appare quanto meno insufficiente. La traduzione deve essere capace anche

15 Michel Foucault, “Le langage à l’infini”, Tel Quel, aut. 1963, ripreso in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1984, pp.112-113.

16 Questo romanzo è stato tradotto una prima volta da Aldo Pasquali nel 1991 e pubblicato dalla casa editrice Theoria. il traduttore, che usa un linguaggio elegante, spesso con scelte stilistiche molto felici, ha purtroppo ignorato completamente tutto il sostrato oulipiano del testo. È per questo che si è resa necessaria una nuova traduzione, sollecitata dallo stesso Bénabou.

17 Marianne Lederer, Fortunato israël (ed.), La liberté en traduction, Actes de Colloque. International tenu à L’E.S.I.T. les 7, 8, 9 juin 1990, Paris, Didier Érudition, collection “Traductologie”, n.7, 1991. Si vedano anche: Fortunato israël, «Souvent sens varie – Le traducteur face à l’instabilité du sens», in Ma- rianne Lederer (ed.), Le sens en traduction, caen, Lettres modernes Minard, 2006, pp.11-20; Fortunato israël, «Pour une nouvelle conception de la tra- duction littéraire: le modèle interprétatif», Traduire n.190-191, La Traduction littéraire, Paris, Société Française des Traducteurs, décembre 2001, pp.9-18.

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di trasmetterne il valore artistico, cioè di cogliere e rendere quella funzione estetica garantita dalla polifonia e dalle rela- zioni intertestuali. E la funzione estetica, in un testo letterario, non è mai distinta dalla forma nella quale il testo si esprime.

Per questo non basta cogliere il messaggio globale dell’opera, ma bisogna essere sensibili ai suoi sensi nascosti e capaci di completare un’espressione criptica affidandosi alla propria competenza. Esiste tutto un lavoro prelimina- re da fare sul testo per comprendere il più possibile i suoi significati, determinare i legami dell’opera con il suo conte- sto, cogliere il senso preciso della sua originalità.

nel caso di un’opera come il primo metaromanzo di Mar- cel Bénabou, tutto questo è complicato dal rapporto stret- tissimo che l’autore instaura fra i contenuti dell’opera e la consistenza fonica delle parole. Bénabou stesso non ne fa mistero: ne parla volentieri, sia nelle interviste, sia nelle con- ferenze in cui gli viene chiesto di illustrare il suo metodo di lavoro. Egli indica delle tracce, delle piste, ma resta lungi dal fornire le chiavi della sua scrittura, né, ovviamente, si attarda a spiegare i meccanismi ludici che giustificano le sue scelte.

Eppure questi sono importantissimi, perché non di rado non si limitano al microcontesto, ma stanno alla base della com- posizione di intere pagine e capitoli. Viceversa, accade spesso che certe invenzioni ludiche che informano la macrostruttura vengano poi declinate a livello della frase, la quale si arricchi- sce così di giochi verbali che non andrebbero mai ignorati.

Uno di quelli che usa con maggiore costanza è per esempio la firma parafonica, che consiste nella disseminazione delle sil- labe del suo nome nelle parole di una frase, ma non andran- no ignorate le dislocazioni foniche, i riferimenti intertestuali, la plurisemanticità e la scomposizione sillabica dei termini.

Accanto a tutto ciò, si aggiunge la necessaria attenzione al

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ritmo della frase: naturalmente quest’ultimo aspetto non è una peculiarità della scrittura oulipiana. È nel ritmo che si annida lo stile di ogni autore, sempre. nel caso di Bénabou tuttavia l’andamento ritmico di una frase può essere porta- tore di un’informazione supplementare, che va oltre la cifra dell’autore. È questo il caso, per esempio, del riferimento intertestuale che si nasconde dietro il pastiche, o dell’alessan- drino intessuto nella frase. ignorarlo può compromettere il senso globale; così per esempio nell’invito: «surtout ne pas laisser fuser l’alexandrin»18, «in specie non lasciare sfuggire il martelliano». come si vede, quell’imperativo è trasgredito dal ritmo della frase che lo enuncia. Se si è scelto di tradurre

«alexandrin» con «martelliano», cioè il doppio settenario, è nell’intento di obbedire al principio traduttivo di base che è stato adottato, e cioè quello dell’equivalenza culturale.

consideriamo come primo esempio il meccanismo di base della scrittura del romanzo, legata alla dislocazione fonica di littérature: “lis tes ratures” o “lie tes ratures”19.Questa indi- cazione di metodo, certamente utilissima al commentatore, sarà fruibile solo in parte dal traduttore a meno che non sap- pia poi cogliere con precisione tutti quei passaggi in cui la

18 Marcel Bénabou, Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres, Hachette, 1986.

il numero di pagina posto di seguito alla citazione si riferisce all’edizione PUF del 2002.

19 «Per esempio, ho potuto dotarmi di un metodo di lavoro che si fonda sulla dislocazione fonica di una parola o di un dato enunciato. Sono state delle «va- riazioni omofoniche» a partire dalla parola ‘littérature’ che mi hanno suggerito le sequenze: ‘leggi le tue cancellature’ (dal verbo leggere) e ‘lega le tue cancel- lature’ (dal verbo legare) ad aver generato tutto un capitolo di Pourquoi…, intitolato Accorpamenti». Marcel, Bénabou, «Du Livre aux livres, ou du rôle de la nostalgie dans la formation d’un écrivain», Revista.doc «Nostalgie et rêve européen», iX, n.6, 2008. Si veda anche: «Le comment du Pourquoi».

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medesima dislocazione fonica viene riproposta, per esempio laddove l’attività letteraria definita come una

contradiction entre ce que l’activité littéraire – rut (ou ruse) impudiquement étalé(e) – peut avoir de réjouis- sant, voire de franchement hilarant […]20.

contraddizione fra ciò che l’attività letteraria – rarità let- ta e impudicamente messa in mostra – può avere di spi- ritoso, se non addirittura di francamente esilarante […].

Se la letteratura è «rut» non è tanto per la parte di ispi- razione («estro» appunto) che tradizionalmente comporta, ma piuttosto perché quella sequenza (invertita) di grafemi è contenuta nel termine stesso. Tradurre il senso sarebbe per- ciò un controsenso, tanto più che è ben noto quanto tutta l’attività dell’oulipo sia nata proprio per dimostrare che la letteratura necessiti di una sicura padronanza del mezzo lin- guistico più che dell’ispirazione, e approvi una sua colloca- zione sul versante dell’artigianato. individuato questo gioco, al traduttore resterà il compito di proporre un termine del quale il lettore possa cogliere la parentela con la parola di partenza: “letteratura” appunto.

Ancora più evidente è il resto della frase:

[…] (car écrire, à bien y regarder, qu’est-ce d’autre que tracer des lettres et puis rire?), et ce qu’elle peut au contraire comporter de lugubre, car, loin de servir de rempart contre la peur de mourir, elle ne sait don-

20 Marcel Bénabou, Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres, PUF, 2002, p.69.

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ner de la vie qu’un très macabre reflet, dans la mesure où – qu’elle crie ou qu’elle rue, qu’elle râle ou qu’elle lutte – elle est tributaire des mots dont chacun porte la mort sans en avoir l’air21.

[…] (perché per redigere non abbisogna forse ridere?) e ciò che contrariamente può comportare di lugubre, perché, lungi dal servire come difesa contro la paura della morte, sa dare della vita solo un macabro riflesso, nella misura in cui che urli o che sbuffi, che contesti o combatta ogni motto porta un morto se non erra.

nei due casi, i due aspetti letterari che Bénabou inten- de mettere in luce dal punto di vista contenutistico sono il versante comico e quello tragico della produzione arti- stica. Ma non è affatto secondario al senso il modo in cui viene espresso questo contenuto: se “éc-rire”, contiene

“rire”, cioè la parola “scrivere” contiene la parola “ridere”, e “mot” (parola) è “morto” senza la R, ciò significa che il senso dipende in stretta misura dall’evidenza materiale del linguaggio. È perciò indispensabile che il traduttore trovi un modo per ricreare nella lingua d’arrivo la stessa stret- tissima connessione tra forma e fondo: l’idea, il concetto, è perfettamente omogeneo alle parole usate per esprimerlo.

A questa difficoltà che si riscontra praticamente in ogni pagina ne va aggiunta un’altra, anch’essa caratteristica del- la scrittura di Bénabou: i riferimenti eruditi che spaziano in ogni direzione della cultura umanistica e non solo nella letteratura oulipiana, ovviamente rappresentata con grande

21 Ibidem.

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abbondanza. coglierli tutti è impresa impossibile. Anche perché spesso, come ha avuto modo di osservare Philippe Lejeune, il suono familiare di una frase rimanda non a una citazione vera e propria, ma al prodotto della sua decanta- zione. Un sintagma come «la blancheur qui l’assiège»22 («il candore che l’assedia») sembra proprio Mallarmé. Ma in nessun punto della produzione mallarmeana si ritrova tale e quale, poiché esso è il risultato del passaggio nella mente di Bénabou non di un poema particolare ma della poesia del poeta simbolista, o di un ulteriore gioco su di essa23.

Prendiamo la frase seguente:

avec la connivence d’un compère exquis – un compère expert et qui n’allait pas tarder à devenir un maître –, j’en venais certains jours à faire surgir, du fond d’une mai- son de curé délicieusement désuète (encore parée pour- tant de toutes ses grâces au milieu d’un brillant enclos de végétation) une solide troupe de travailleurs coude à coude, et même à ne plus voir, en une page fameuse, dans les lettres du blanc que les blancs de la lettre24.

non è immediato il riferimento alla scrittura dell’opera Presbytère et prolétaires da parte di lui e Perec (le cui silla- be sono dislocate in “compère expert, compère exquis”). Si intitola così il dossier P.A.L.F., Produzione Automatica di Letteratura Francese, che prende in considerazione la ma- niera per trasformare in racconti semplici frasi anche mol-

22 Ivi, p.26.

23 capita anche che Bénabou citi integralmente un passaggio, ma in quel caso lo segnala, come a p.46 dove, in corsivo, cita un passaggio tratto da Faux pas di Maurice Blanchot.

24 Marcel Bénabou, op. cit., p.119.

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to note. «Le presbytère n’a rien perdu de son charme ni le jardin de son éclat» è la frase enigmatica che si ritrova nel Mystère la chambre jaune, un romanzo di gaston Leroux, forse il più noto giallista francese, e la cui soluzione conduce alla risoluzione del mistero. insieme all’altra (“proletari di tutto il mondo unitevi”), costituisce la base di Presbytère et prolétaires. nessuno dei due termini appare però tale e qua- le in Pourquoi: Bénabou vi ha sostituito la loro definizione, applicando quella contrainte designata col nome di «littéra- ture définitionnelle»25. Traducendo si sarebbe potuto appli- care la stessa restrizione, ma con l’accordo dell’autore si è invece preferito rendere un poco più esplicito il gioco per il lettore italiano, facendo ricorso ai due traducenti letterali, per quanto il primo sia un termine di uso ormai esclusiva- mente regionale nel suo significato di residenza del parroco:

con la complicità di opere eclettiche – opere eclatanti che presto dovevano imporsi come esempi – certi giorni riuscivo a tirar fuori dal fondo di un presbiterio delizio- samente desueto (eppure ancora ornato di ogni grazia in mezzo a un luminoso giardinetto) una solida schiera di proletari, e persino a non vedere più, nelle lettere del bianco di una pagina famosa, che i bianchi della lettera.

non di rado l’autore, non accontentandosi del riferimen- to erudito, non rinuncia a sviluppare le potenzialità del suo significante. È il caso di un passaggio del capitolo “il libro unico”, in cui tratta il tema del silenzio, e cita Rimbaud, Hölderlin e nietzsche come suoi modelli:

25 oulipo, Abrégé de littérature potentielle, editions Mille et une nuits, 2002, pp.21-23.

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Rien de déshonorant après tout à débuter par où ceux- là avaient choisi de finir (le Harar, peut-être, n’est pas seulement le lieu d’une fuite, mais l’occasion d’un vé- ritable redoublement d’art)26.

niente di disdicevole, dopotutto, nel cominciare là dove quelli avevano scelto di finire (forse Harar non è soltanto il luogo di una fuga, ma l’occasione che ha l’arte di ampliarsi, raddoppiando il suo principio).

È ad Harar che Rimbaud decise di trascorrere gli ultimi anni della sua vita, ma, guarda caso, dal punto di vista delle sonorità [aRaR] il toponimo potrebbe trascriversi come “art art”, cioè appunto un “redoublement d’art”.

certe ambiguità del testo spesso si fondano sulla pluri- semanticità dei termini. A volte accade che, grazie alla vici- nanza di italiano e francese, si riesca a mantenere la stessa ambiguità nella traduzione. Quando la parentela etimologi- ca non ci viene in soccorso, va fatta una scelta. ne troviamo più di un esempio nel capitolo “il libro unico”, dove si tro- vano espressioni come questa:

D’ailleurs multiplier les expériences, c’était aussi prendre une sorte d’assurance. J’allais avoir ainsi de quoi nourrir l’œuvre à venir. Elle ne se serait pas gagée sur un simple fatras de fantasmes infantiles, elle aurait pour couverture un véritable trésor fait des trébuchan- tes espèces du vécu27.

26 Marcel Bénabou, op. cit., p.75.

27 Ivi, pp.66-67.

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Peraltro moltiplicare le esperienze significava anche farmi una specie di assicurazione. in questo modo avrei avuto di che nutrire l’opera futura. non si sa- rebbe fondata su una semplice farragine di fantasmi infantili, avrebbe avuto come garanzia un vero tesoro di sonanti varietà di vissuto.

il termine “espèces” significa “specie” ma anche “mo- neta, denaro liquido” ed è questa l’isotopia prevalente nell’intero paragrafo, attivata da termini quali “assurance”,

“gagée”, “couverture”, “trésor”, “trébuchantes” (che si riferisce alla frase idiomatica “espèces sonnantes et trébu- chantes”). Per mantenere l’isotopia del denaro, impossibile con il primo traducente di “espèces”, e al contempo il riferi- mento alla frase idiomatica, si è rivelato opportuno sostitui- re trébuchantes (cioè letteralmente traballanti, incerte) con sonanti, come nell’espressione “moneta sonante”. L’inevita- bile perdita dell’altro senso di “espèces” (specie, varietà) va purtroppo messa in conto.

Più spesso (va ammesso), non ci è stato possibile ripete- re il calembour, né permettere al lettore italiano di cogliere un riferimento presente nel testo francese in virtù del suo significante, anche se è proprio dal significante che scatu- risce il resto della frase, talora anche il suo ornamento stili- stico. nella frase «j’ai vécu plusieurs années des souvenirs de mon enfance comme d’autres vivaient jadis des dividen- des de leur capital»28 il parallelismo è generato dalla silla- ba “sou” (soldo) di “souvenir”; o ancora laddove si dice che “le silence était devenu une arme”, non può sfuggire

28 Ivi, p.81.

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la prossimità fonetica fra “silence” e “six lances” ed è in questo senso che il silenzio si fa arma. Per un momento si è pensato di sfruttare la prossimità fra calma e arma; ma il concetto di silenzio è diverso, e andava mantenuto come tale, rinunciando al gioco.

È palese qui il riutilizzo delle espressioni idiomatiche, molto amate da Bénabou e dagli scrittori oulipiani. Pen- siamo per esempio alla plaquette n.182 della Bibliothèque oulipienne intitolata Premier mai unitaire, in cui Bénabou descrive un’adunanza di lavoratori usando per ciascun grup- po il maggior numero possibile di idiotismi legati al campo semantico della professione considerata. Ma più divertente è laddove i modi di dire subiscono leggere modifiche; un esempio gustoso si trova ancora nel capitolo “il libro uni- co”: «s’y mouvoir comme un poison dans l’eau». La fre- quentazione delle opere degli oulipiani basta a escludere che “poison” sia un banale refuso per “poisson”. Ma allora si affaccia il problema della sua traduzione, che può essere affrontato solo distaccandosi dalla lettera del testo, per ri- produrre il suo meccanismo che ha introdotto una parono- masia per modificare il modo di dire: “muoversi al suo inter- no leggero come un libello”. È in questo modo che Bénabou trasforma le frasi fatte, quegli aforismi spesso ritriti, esausti dall’essere stati troppo usati, in qualcosa di nuovamente vi- tale, che costringe il lettore a riflettere sul significato di una frase e a finire per attribuirle un significato totalmente diver- so29. Perché solo per lui, che sa usare in modo così creativo gli avanzi, i residui, “tutto il resto è letteratura”.

29 citiamo a questo proposito la frase che conclude il capitolo “Accorpa- menti”: «la botte di giobbe e il letame di Diogene», in cui l’inversione delle attribuzioni costringe il lettore a un momento di riflessione.

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La potenzialità di un’opera come questa, che si misura anche (per quanto non solo, naturalmente) sulla compren- sione dei molteplici livelli in cui funzionano i giochi di pa- role e intertestualità, è destinata a un lungo corso. La sua traduzione, inevitabilmente, meno. concordo infatti con isabelle collombat, laddove sostiene che le pluripotenzialità di un testo si sviluppano nel tempo: epoche diverse saranno in grado di rendere attuali significati del testo presenti fin dall’inizio in modo potenziale. Al contrario la traduzione, dovendo spesso risolvere le ambiguità, non potrà che co- gliere una di queste potenzialità e fissarla per sempre30. E, nel caso di un’opera come questa, sarà già un’impresa essere riusciti a tradurre un buon numero di impliciti del testo.

Risulta evidente come per Bénabou il mondo stesso sia vissuto come un linguaggio e il linguaggio come un gioco in cui l’aspetto ludico, tuttavia, non basta a nasconderne la destrutturazione. Destrutturare il linguaggio, per molti oulipiani, Perec in testa, significa costringere il lettore a riflettere sulla sua (in)adeguatezza a dar conto di un mondo devastato dalla tragedia della Shoah. nel caso di Bénabou vi emerge piuttosto la volontà di mostrare da una parte come la più lieve scorrevolezza non sia priva di profondità laceranti, dall’altra come queste ultime potrebbero ricom- porsi nella forma ideale di un libro mai scritto.

Laura Brignoli

30 «[…] sa pluripotentialité se développant avec le temps. Au contraire, la traduction fige une et une seule actualisation possible de la virtualité de l’ori- ginal. Elle résout l’ambiguïté, choisit une voie au détriment d’autres options et répond à des normes temporelles, caduques par excellence», isabelle col- lombat, «L’oulipo du traducteur», Semen, n.19, 2005, consultato il 5 settem- bre 2018. <http://journals.openedition.org/semen/2143>.

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bibLiografiaseLettiva:

operedi MarceL bénabou

Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres, Hachette, 1986;

2a edizione: Presses Universitaires de France, 2002; 3a edi- zione, Paris, Seuil, 2010

Jette ce livre avant qu’il soit trop tard, Seghers, Paris, 1992; Butta questo libro finché puoi, trad. Laura Brignoli, Roma, Aracne, 2009

Jacob, Ménahem et Mimoun. Une épopée familiale, Paris, Seuil, 1995

Destin d’un couteau, Les “guère épais”, Édition Plu- rielle, 1998

Résidence d’hiver, illkirch, Le Verger éditeur, 2001 Écrire sur Tamara, Paris, Presses Universitaires de Fran- ces, 2002

L’appentis revisité, nouvelles, collection “Monde à part”, Paris, Berg international, 2003

De but en blanc, un monologue en polychromie véritable, Paris, Au crayon qui tue, 2009

Anthologie de l’Oulipo, collection “Poésie”, Paris, galli- mard, 2009 (in collaborazione con Paul Fournel)

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Bibliografia

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bibLiografiacriticasu Pourquoijenaiécritaucundemes livres

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conscio del fatto che la definizione iniziale del mio soggetto dovesse essere al contempo corta e con una potenzialità talmente ricca da fare in modo che tutti gli elementi dell’opera dipen- dessero solo da essa, l’ho cercata a lungo; la prima frase di Belphégor mi ha richiesto anni.

J. Benda, La jeunesse d’un clerc

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PERcHÉ non Ho ScRiTTo nESSUno DEi MiEi LiBRi

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aLLettore

Le prime righe di un libro sono le più importanti. non sa- ranno mai abbastanza curate. critici e lettori professionisti confessano spudoratamente di giudicare un’opera dalle sue prime tre frasi: se non sono di loro gradimento, interrom- pono la lettura e affrontano con sollievo il libro seguente.

È questo capo pericoloso che hai appena doppiato, letto- re. E siccome a questo punto non potrò più fingere di igno- rare la tua presenza, mi sia concesso di inchinarmi al tuo coraggio, al tuo spirito d’avventura. Stai per lanciarti nella lettura di un’opera sconosciuta affidandoti all’unica guida di un insolito vessillo, del quale non è dato sapere di quale mercanzia sia l’insegna. c’è in questo una forma di audacia che si poteva credere caduta in disuso.

È pur vero – e ciò non significa in alcun modo sminuire i tuoi meriti – che in questo caso i rischi assunti non sembra- no enormi: l’opera è di dimensioni modeste e, per quanto poco tu abbia avuto l’occasione di frequentare le produzio- ni dell’oulipo, il nome che appare in copertina potrebbe non esserti sconosciuto.

Ma forse è proprio questo a costituire il pericolo per te.

chissà in quale odissea ti si vuole trascinare? A ogni buon conto, permettimi di darti qualche rassicurazione e dissipa- re possibili malintesi.

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Marcel Bénabou

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Senz’altro penserai che, per quanto alto possa essere il nu- mero dei libri (di ogni categoria, dal libello di poche pagine alle più voluminose enciclopedie) prodotti da più di settemi- la anni (una stima se non altro di massima ci sarà certamente in qualche opera specializzata), è quanto meno irragionevole pretendere di fondare la propria singolarità sul semplice fat- to che non si sia contribuito personalmente in alcun modo a questa produzione sempre rinascente; in una parola, non aver scritto alcun libro non dovrebbe essere sufficiente, ai tuoi occhi, a definire un uomo, ma nemmeno a mortificarlo.

nessuno, credo, potrà mettere in dubbio questo fatto.

E tuttavia, se si riduce il campione di riferimento, laddove si considerino non più gli uomini e la loro diversità, ma un gruppo più ristretto – per esempio la cerchia di amici, di rela- zioni, di conoscenze entro cui ciascuno di noi si pone e di cui tiene in conto il giudizio – le cose appaiono sotto una luce di- versa. in un ambiente in cui scrivere, e soprattutto pubblica- re libri, è non solo un’attività ma anche un valore (e talvolta l’unico che resta alla fine di un totale fallimento), si rischia di apparire singolari escludendosi dalla corsa. E questa singola- rità merita di essere analizzata: che irriti, commuova, rallegri o addolori, non manca di suscitare nelle persone a noi più vicine degli interrogativi che non è possibile ignorare.

Per rispondervi, esiste un certo numero di percorsi che non ho alcuna intenzione di intraprendere. Eccone un in- ventario non esaustivo:

– esaltare i meriti dell’orale rispetto allo scritto;

– denigrare il linguaggio, gettare discredito sulle parole, affliggersi per l’impossibilità-di-qualsiasi-forma-di-comuni- cazione;

– poggiare sull’inesprimibile, difendere il silenzio come valore supremo;

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43 Perché non ho scritto nessuno dei miei libri

– celebrare la vita, il corpo a corpo con il reale, come su- periori alla scrittura;

– ricamare sui temi dell’astensione-preferibile-all’azione o sull’inutilità-di-agire-in-un-mondo-destinato-comunque-al- la-distruzione-e-alla-morte.

Se non ho scritto nessuno dei miei libri, non è certo per- ché sogno di farla finita con la letteratura; non ho scelto la sterilità come forma di realizzazione né l’impotenza come modo di produzione. non desidero distruggere nulla. Al contrario, sono ben deciso a rispettare le leggi del mondo dei libri.

così, c’è una regola non scritta che vuole che gli scritto- ri, e a maggior ragione i non-scrittori, non pubblichino le loro non-opere. Altrimenti gli editori, che già non sanno cosa fare dei mucchi di manoscritti che ricevono, verrebbe- ro travolti da un’ondata di fondi di cassetto. E si ammette anche in generale, e senz’altro per le stesse ragioni, che bi- sogna essere morti (e – almeno un po’ – famosi) per avere diritto un giorno alla pubblicazione dei propri scritti ine- diti: ammassi di note, progetti, riflessioni che chiunque si occupi di scrittura non può evitare di accumulare per tutta la vita, materiale appena abbozzato che attende di trovar posto in un’opera ventura.

Si tratta di due regole a cui non desidero affatto contrav- venire, con nessun genere di espediente. il che non significa comunque che non cerchi di costruire un modello capace di spiegare, con il linguaggio di un rigoroso determinismo, le ragioni per le quali dovrei non aver scritto.

Questo libro, se arriverà alla fine, sarà il prodotto di una gara di velocità fra diversi «dèmoni» (ovviamente in senso socratico); quelli del dubbio e dell’ironia avranno, all’ultimo minuto, ceduto il passo a quelli della serietà e della fiducia.

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Marcel Bénabou

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Ma per il momento, io sono solo lo spettatore di questa gara e non so neppure quale sia il concorrente da incoraggiare.

L’autore

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titoLo

il libro è l’oggetto amplificato del titolo, o il ti- tolo amplificato. il testo del libro inizia con la spiegazione del titolo, e così via.

novalis Perché non ho scritto nessuno dei miei libri. Per molti la frase avrà un suono provocatorio: non ci sarà, dietro la ripresa e la riformulazione di un titolo tanto famoso, il presuntuoso de- siderio di affermare una parentela, o addirittura (sacrilegio!) una identificazione (almeno nel procedimento) con Raymond Roussel? Se così fosse, sarebbe puerile. Una cosa era rivela- re, mezzo secolo fa, in un’enigmatica confessione postuma, alcuni (ben pochi, a dire il vero) segreti di fabbricazione di un’opera che aveva avuto il tempo di affascinare o incuriosire i suoi lettori (e che lettori!); certamente tutt’altra cosa è pre- tendere oggi di interessare un pubblico indifferente, spiegan- do perché dei libri di cui nessuno aveva mai sentito parlare (per ovvi motivi) non avessero mai visto la luce del giorno.

E la sola sostituzione del perché al come basterebbe a se- gnalare, agli occhi delle persone serie (che nel mondo della letteratura sono legioni, come tutti sanno), l’inutilità di ogni tentativo di accostamento.

Ma se non è una provocazione, sarà dunque un paradosso,

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