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Le questioni di rito nel nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti - Judicium

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F

ILIPPO

M

ARIA

G

IORGI

Le questioni di rito nel nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti*

*Intervento al Convegno del Consiglio Nazionale Forense “Le tutele dei licenziamenti nella Legge Fornero”, Roma 24 maggio 2013

Una delle tematiche più controverse sollevate dal nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti introdotto dalla legge 92/20121 è quella delle conseguenze dell’errore nella scelta del rito.

Ovviamente, si tratta di una problematica che si pone ogni qualvolta si abbia la presenza di riti differenziati ratione materiae e che non appare risolta in maniera uniforme neppure all’interno del codice di rito, ove si rinvengono norme che a volte affermano, a volte escludono, che la correttezza del rito costituisca un presupposto processuale.

Nell’ambito della disciplina del procedimento sommario di cognizione, ad esempio, il 2° comma dell’art. 702 ter cpc prevede che, qualora la domanda proposta con ricorso ex art. 702 bis debba essere decisa dal tribunale in composizione collegiale o dal giudice di pace (che l’art. 702 bis cpc esclude dall’ambito di applicazione di tale rito), il ricorso sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile.

Questa scelta, tuttavia, non risponde affatto ad un principio generale dell’ordinamento2, come è comprovato già solo dal fatto che la problematica è risolta in modo del tutto opposto nel rito del lavoro dagli artt. 426 e 427 cpc. La prima norma ha riguardo all’ipotesi in cui una causa riguardante «uno dei rapporti previsti dall’art. 409 cpc» ovvero un rapporto di lavoro, sia stata introdotta con il rito di cognizione ordinario e prevede che il giudice «fissa con ordinanza l’udienza di cui all’articolo 420 e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria». La seconda norma, con riferimento al caso inverso, ovvero all’ipotesi in cui una causa iniziata nelle forme del rito del lavoro «riguarda un

1 Per un più ampio esame del nuovo rito, si vedano, se si vuole, i capitoli 10-12 da me scritti all’interno di AA.VV. a cura di F.M.GIORGI, «La Riforma del Mercato del Lavoro – Aspetti sostanziali e processuali», Jovene 2013.

2 Contra Trib. Roma, Est. Nunziata – Or d.za 14.1.2013 nel proc. R.G. 29222/2012 in www.giuslavoristi.it, Sezione Regionale Lazio, Osservatorio legge 92/2012 – Novità di dottrina e giurisprudenza nel Lazio.

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rapporto diverso da quelli previsti dall’art. 409 cpc», prevede che il giudice, se competente, disponga la regolarizzazione tributaria degli atti, e, in caso contrario, fissi un termine per la riassunzione con il rito ordinario.

Ovviamente, la problematica degli effetti dell’errore nella scelta è risolta dagli artt. 426 e 427 cpc escludendo che la correttezza del rito costituisca presupposto processuale, ma con esclusivo riferimento all’alternativa tra rito ordinario di cognizione e rito lavoristico.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha in varie occasioni affermato che l’opzione di escludere che la correttezza del rito costituisca un presupposto processuale costituisce un’esplicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo cui fine primario di questo è la realizzazione del diritto delle parti di ottenere risposta nel merito3.

Questa opzione ha ora trovato cittadinanza anche nella recente disciplina c.d. di riduzione e semplificazione dei riti civili, che ha previsto che i procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale sono ricondotti ad uno dei tre modelli previsti dal codice di rito, costituiti: dal rito ordinario, dal rito sommario di cognizione e dal rito del lavoro.

Il D.Lgs. 1.9.2011 n. 150, all’art. 4, in evidente contrapposizione alla soluzione alternativa di adottare una pronuncia di inammissibilità, ha introdotto l’obbligo del giudice di provvedere al mutamento del rito - naturalmente con riferimento ai procedimenti rientranti nell’ambito di applicazione del decreto stesso - anche quando la scelta si ponga tra il rito del lavoro e quello sommario di cognizione.

Sugli effetti dell’errore nella scelta, nel nuovo rito non si rinvengono specifiche disposizioni. E’ evidente che la problematica riguardi essenzialmente i rapporti con il rito del lavoro.

Si impone, quindi, innanzi tutto, il quesito in ordine alla applicabilità ai rapporti tra nuovo rito e procedimento lavoristico degli artt. 426 e 427 cpc. Sembra si debba escludere che tali norme siano applicabili tout court (ovvero in via diretta), considerata la diversità della fattispecie da esse regolata (che, come detto, ha riguardo alla scelta tra rito ordinario di cognizione e rito del lavoro) rispetto a quella qui presa in esame.

3 Principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità; cfr. da ultimo Cass. Sez. IIa, 23.5.2012 n. 8177; Cass. SS.UU. 6.3.2009 n. 5456; etc.

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Diversi commentatori ed una parte rilevante delle prime pronunce giurisprudenziali (almeno per quanto emerge dall’Osservatorio sugli uffici giudiziari romani della Sezione Laziale dell’AGI - Associazione Giuslavoristi Italiani) hanno, tuttavia, ritenuto che tali disposizioni, così come l’art. 4 del D.Lgs. 150/2011 siano utilizzabili in via analogica4.

Tale affermazione appare condivisibile. Come è noto, l’applicazione analogica, la cui utilizzabilità anche alle norme processuali è pacifica in giurisprudenza5, consente di colmare le lacune normative mediante l’applicazione di una norma dettata per un caso simile in altro procedimento, previa verifica della compatibilità della disposizione con la ratio e le finalità cui è ispirato il procedimento da integrare.

Innanzi tutto, depone in favore dell’applicazione analogica nell’ambito del rito Fornero delle norme sopra citate, la gravità delle conseguenze che si potrebbero ricollegare a pronunce di inammissibilità in presenza di un regime decadenziale caratterizzato dal termine brevissimo per la proposizione del ricorso ex art. 18 S.L. di cui all’art. 6 legge 604/66.

L’atto giudiziario inammissibile non impedisce la decadenza

Va, infatti, ricordato che, per espresso disposto dell’art. 2964 cod.civ., alla decadenza non si applica l’efficacia interruttiva riconosciuta all’atto giudiziario dall’art. 2945 cod.civ.

4 In senso favorevole all’applicazione analogica, si v. in dottrina G.BENASSI,La Riforma del mercato del lavoro: modifiche processuali, in Il lav. n. giur. 2012, 8-9, 753; P.SORDI,L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, Relazione svolta nell’incontro di studio «La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012, n. 92»

organizzato dal CSM – Roma 29.31 ottobre 2012, pag. 37; si v. anche, se si vuole, F.M.GIORGI,La Riforma del Mercato del Lavoro – Aspetti sostanziali e processuali, Jovene 2013, 356 e ss.In senso contrario, v. L.DE ANGELIS,Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in WPCSDLE“MASSIMO D’ANTONA”.IT152/2012,16, il quale, tuttavia, osserva che gli artt. 426 e 427 cpc «disciplinano i rapporti tra diversi riti a cognizione ordinaria», argomento che appare idoneo ad escludere l’applicazione diretta e non quella analogica. In chiave esclusivamente dubitativa, C.CONSOLO D.RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali sui licenziamenti individuali, in Il Corr. Giur. 6/2012, nota 29, pag. 735.

In giurisprudenza, si vedano: Trib. Roma Est. Pucci Ord.za 31.10.2012 nel proc. R.G. 28555/12; Trib.

Roma Est. Falato – Ord.za 12.11.2012 nel proc. R.G. 25977/2012; Trib. Roma Est. Sordi – Ord.za 28.11.2012 nel proc. R.G. 30520/2012; Trib. Roma Est. Leone – Ord.za 21.2.2013 nel proc. R.G.

36692/2012; Trib. Roma Est. Cosentino – Ord.za 25.2.2013 nel proc. R.G. 40458/2012; tutte in www.giuslavoristi.it, Sezione Regionale Lazio, Osservatorio legge 92/2012 – Novità di dottrina e giurisprudenza nel Lazio.

5 Si cfr., da ultimo, tra le innumerevoli, Cass., sez. VI, 2.3.2012 n. 3338; Cass., sez. I, 12.7.2011, n.

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Non è sostenibile che la proposizione, nel termine previsto dalla norma, di un ricorso giudiziale purchessia sia idonea ad impedire la decadenza a sensi dell’art.

2966 cod.civ.6.

Persino nel caso di estinzione del giudizio ritualmente proposto, la giurisprudenza ritiene che il mero ricorso al giudice non abbia efficacia impeditiva, in quanto «la proposizione della domanda giudiziale è un evento idoneo ad impedire la decadenza da un diritto, non in quanto costituisca la manifestazione di una volontà sostanziale, bensì in quanto instaura un rapporto processuale diretto ad ottenere l’effettivo intervento del giudice ai fini di una pronuncia di merito»7.

L’affermazione di tale principio spiega perché la giurisprudenza ritenga, invece, idonea ad impedire la decadenza la proposizione della domanda avanti a giudice incompetente. In questa ipotesi, infatti, «gli effetti conservativi del termine decadenziale sono … in funzione della translatio iudicii, che consente di configurare la riassunzione davanti al giudice competente come prosecuzione del rapporto processuale precedentemente instaurato davanti al giudice incompetente, con ciò appunto valorizzando l’iniziale atto introduttivo cui il rapporto, nella sua unitarietà, quindi, si ricollega»8.

Non sembra, infine, possa trovare applicazione in via analogica l’art. 59 della legge 69/2009, che, al 2° comma, nei casi di pronuncia declinatoria della giurisdizione, fa «salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio». Come ogni altra norma in materia di decadenza, tale disposizione è di stretta interpretazione ed inapplicabile per analogia.

L’esportabilità del «principio» di mutamento del rito

L’accoglimento, da parte dell’ordinamento, della regola relativa alla translatio iudicii persino nell’ipotesi di accertato difetto di giurisdizione è, tuttavia, dimostrativo

6 In questo senso, invece, senza peraltro motivare, v. Trib. Milano 23/25.10.2012 in causa R.G.

10856/12 in Cassazione.net 2012.

7 Così Cass. Sez. II, 18.1.2007 n. 1090; cfr. Cass. Sez. Va 8.6.2000 n. 7801; Cass. Sez. Ia, 14.4.1994 n.

3505; Cass. Sez. IIIa 9.3.1993 n. 2813; per l’inidoneità dell’atto di citazione nullo o la cui notifica sia nulla, v. Cass. Sez. IIa 7.11.2008 n. 26827.

8 Così Cass. Sez. Ia 23.3.2000 n. 3473.

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della vigenza di quel principio, di elaborazione giurisprudenziale9, che esclude che, a fronte dell’errore della parte nell’individuare il procedimento da seguire, in assenza di esplicita previsione in tal senso (quale quella contenuta nel già citato 2° comma dell’art. 702 ter cpc), al giudice sia consentito definire il processo con una pronuncia di rigetto in rito, principio che, come detto, ha trovato ulteriore conferma nella disciplina di semplificazione dei riti civili.

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011, in dottrina si è ipotizzata la sopravvenuta inapplicabilità del 2° comma dell’art. 702 ter cpc ai rapporti tra rito del lavoro e rito sommario di cognizione10, poiché, se si ritenesse che l’obbligo di mutamento del rito da sommario a lavoristico riguardi le sole controversie specificamente disciplinate dal D.Lgs. 150/2011, la norma sarebbe di dubbia costituzionalità avendo introdotto una disparità di trattamento priva di giustificazione tra procedimenti soggetti alla medesima disciplina11.

Questo rilievo è quanto meno utile a rafforzare la possibilità di ricorrere in via analogica all’art. 4 D.Lgs. 150/2011 al fine di risolvere gli errori connessi alla scelta tra rito ordinario del lavoro e nuovo rito per la impugnazione dei licenziamenti, se si considera che la natura sommaria di quest’ultimo, soprattutto con riferimento alla

9 V. precedente nota 3.

10 In dottrina, come è noto, si è venuto formando un largo consenso in favore della incompatibilità tra il rito sommario di cognizione e quello lavoristico e della applicazione del disposto del citato 2° comma dell’art. 702 ter cpc. Si v. V.BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 325; CARRATTA,Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 139; DALFINO,Sull’inapplicabilità del nuovo procedimento sommario di cognizione alle cause di lavoro, in Foro it. 2009, V, 392; DITTRICH, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. Proc. 2009, 1586; PORRECA, Il procedimento sommario di cognizione: un rito flessibile, in Riv. trim. dir. Proc. civ., 2010, 825 e ss.; LUISO,Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. It., 2009, I, 1568; ARIETA, Il rito semplificato di cognizione, in www.judicium.it; CAPONI,in BALENA,CAPONI,CHIZZINI,MENCHINI,La riforma della giustizia civile, Torino 2010, art. 702 bis cpc; LUPOI,Sommario (ma non troppo), Riv. trim. dir. Proc.

civ., 2010, 1230; MENCHINI, L’ultima idea del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, Corr. Giur. 2009, 1027; PORRECA, Procedimento sommario di cognizione e rito del lavoro: profili di incompatibilità strutturale e funzionale in materia locatizia, in Giust. Civ. 2011, 11, 2721; TALLARO, Rito sommario e controversie locatizie: osservazioni da parte dell’utente del servizio giustizia, in Giur. Merito, 2011, 1250 e ss.

In giurisprudenza, a fronte di un orientamento maggioritario che esclude la compatibilità tra i due riti (v. Trib. Modena, sez. II, 17.1.2013, in Jurisdata; Corte d’appello Reggio Calabria 1.3.2012 in Jurisdata; Corte d’appello Lecce 16.3.2011, in F.It. 2012, 3, 912; Tribunale Torre Annunziata 10.2.2010 in F.It. 2010, 6, 1958; Trib. Modena, sez. II, 18.1.2010, in Giur. Merito 2010, 10, 2453; F.It.

2010, 3, 1015; etc), si è formato anche un orientamento minoritario favorevole alla applicabilità del rito sommario anche alle controversie di lavoro (v. Trib. Lamezia Terme, ord. 12.3.2010, in F.it. 2011, I, 941).

11 In questo senso, v. A.QUATTROCCHI, Il mutamento del rito - I nuovi processi civili speciali, in Italia Oggi, serie speciale, n. 19/2011, 42.

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seconda fase, sembra improntata a finalità di concentrazione e semplificazione conformi a quelle che connotano il rito sommario di cognizione.

La conversione dell’atto viziato

Un’ultima notazione di carattere generale: non ogni errore nella scelta del rito è potenzialmente foriero di nullità, con la conseguente esigenza di una pronuncia di inammissibilità o di mutamento del rito in presenza di una norma che lo facoltizzi.

In tutti i casi nei quali la difformità dell’atto non sia tale da incidere sul suo scopo, il giudice, prima ancora di ipotizzare la necessità di mutare il rito, deve valutare se ricorrano i presupposti per ritenere ammissibile la conversione dell’atto viziato a sensi degli artt. 156 u.co. e 159 u.co. cpc.

Piena applicazione a tali disposizioni è stata offerta dalla giurisprudenza, quando ha ritenuto possibile la conversione:

- della citazione in ricorso e viceversa, avendo l’atto raggiunto il suo scopo, per tale dovendosi intendere il fatto che «il convenuto sia evocato in giudizio senza pregiudizio dei suoi diritti di difesa»12;

- della riassunzione, effettuata con ricorso (anziché con comparsa) semprechè tempestivamente notificato13;

- dell’impugnazione principale in incidentale, qualora siano rispettati i termini entro i quali vanno effettuate notificazione e deposito dell’atto secondo la disciplina delle impugnazioni incidentali14;

- dell’atto di appello proposto nel rito del lavoro con atto di citazione, anziché con ricorso, a condizione che l’iscrizione a ruolo avvenga nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza o, in difetto di questa, nel termine di cui all’art. 327 cpc15.

In tutti questi casi, la ragione comune cui ascrivere la conversione dell’atto difforme dallo schema imposto dalla norma, anziché la declaratoria della sua nullità, è

12 Così Cass. Sez. III 21.1.2005 n. 1289 in tema di opposizione a cartella esattoriale proposta con ricorso anziché con atto di citazione.

13 Così Cass. Sez. Ia, 1.9.1995 n. 9217.

14 Così Cass. Sez. IIIa, 25.8.1999 n. 8906.

15 Cfr. Cass.Sez. Ia 23.6.1992 n. 7687; Cass. Sez. Lav. 5.6.1981 n. 3638; Cass. Sez. IIIa 13.5.1980 n.

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stata ritenuta il fatto che l’atto viziato avesse i requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto valido.

Non sembra si possa dubitare dell’applicabilità al nuovo rito di tali principi, anche alla luce dei quali si può procedere all’esame delle principali problematiche sulle questioni di rito di possibile verificazione nelle varie fasi del nuovo procedimento.

Impugnazione ex art. 18 S.L. proposta con ricorso ex art. 414 cpc

Una prima questione di frequente verificazione attiene al rito applicabile ad un ricorso che si dichiari proposto ex art. 414 cpc, e contenga (soltanto) una domanda di impugnazione del licenziamento che comporti l’applicazione dell’art. 18 S.L..

Da quanto in precedenza esposto emerge che ad un ricorso contenente siffatte domande dovrebbe immediatamente seguire l’applicazione da parte del giudice del rito Fornero.

Anche se nelle intenzioni del ricorrente vi era la proposizione di un ricorso soggetto alle norme del rito del lavoro, se si afferma il carattere necessario ed indisponibile del nuovo rito16, ciò non può che obbligare anche il Giudice ad applicare quest’ultimo, rispettando, quindi, nel procedimento (dal contenuto del decreto in poi) le prescrizioni dei commi 48 e ss. dell’art. 1 della legge 92/2012.

16 Propendono per la natura «necessaria» del nuovo rito, anche in considerazione della ritenuta possibile efficacia di giudicato dell’ordinanza conclusiva della prima fase: L.DE ANGELIS,Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working Papers CSDLE “Massimo D’Antona”.it – 152/2012, w.w.w.lex.unict.it, 11; G.PACCHIANA PARRAVICINI, Il nuovo art.18 St.Lav.:

problemi sostanziali e processuali, in Mass. Giur.lav., 2012, 755; P.CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 158/2012, 16; F.P.LUISO, La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, in Judicium 2012, p. 6 e ss., il quale osserva che il nuovo rito «tutela anche la parte che ha torto»; P.SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, Relazione svolta nell’incontro di studio «La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n. 92» organizzato dal CSM a Roma il 29- 31 ottobre 2012, pag.5. Quest’ultimo autore ipotizza, tuttavia, la ammissibilità di una «comune intesa»

tra le parti, per «”saltare”, per così dire, la prima fase del giudizio di primo grado». Si v. anche, se si vuole, F.M.GIORGI,op. cit., Jovene 2013, 302 e ss. Sembrano, invece, escludere l’obbligatorietà della fase sommaria, in coerenza con la ritenuta esclusione dell’efficacia di giudicato dell’ordinanza, C.CONSOLO D.RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Il Corr. Giur. 6/2012, 735. Va anche segnalato che, valorizzando l’arresto giudiziario della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto ammissibile la proposizione di un procedimento per antisindacalità (che è stato ritenuto presentare una certa analogia con quello introdotto dalla legge 92/2012) omettendosi la fase introduttiva di natura sommaria, la Sezione lavoro del Tribunale di Firenze, all’esito di una riunione tenutasi il 17.10.2012, ha diffuso un dattiloscritto con il quale ha manifestato la propria preferenza per l’«opzione interpretativa» favorevole alla «facoltatività del rito».

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In questa ipotesi, non emergono profili di inammissibilità della domanda da pronunciarsi, perché il principio di libertà delle forme (art. 121 cpc) e quello di conservazione degli atti (artt. 156 e 159 cpc) impongono al giudice di non attribuire alcuna rilevanza alla volontà del ricorrente di vedere attuato un rito diverso da quello ora imposto dalla legge.

Non può dubitarsi, d’altronde, del fatto che un ricorso contenente domande di impugnazione del licenziamento formulato rispettando le prescrizioni di cui all’art.

414 cpc abbia anche i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo che si prefigge l’atto disciplinato dal comma 48 dell’art. 1 della legge 92/2012.

Basti il rilievo che tale atto deve rispettare soltanto i requisiti minimi imposti dall’art. 125 cpc.

La scelta del rito non costituisce, d’altronde, oggetto del potere di disposizione delle parti. Inoltre, appare decisivo il rilievo che l’indicazione della norma processuale ritenuta applicabile non rientra tra i requisiti prescritti ai fini della validità ed efficacia dell’atto.

La dottrina ha ripetutamente evidenziato che il controllo sul rito deve essere effettuato d’ufficio dal giudice in limine litis e svincolato dalla volontà di chi agisce in giudizio, anche alla stregua di un accertamento di fatto allo stato degli atti, dovendo comunque evitarsi che la scelta del rito sia effettuata dall’attore, essendo il giudice investito del potere-dovere di qualificazione giuridica della res in judicium deducta 17 e dovendo escludersi che l’errore di scelta del rito comporti di per sé solo (in assenza di un pregiudizio processuale per l’altra parte) la nullità degli atti compiuti con tale rito 18.

*.*.*

A questa ricostruzione non potrebbe opporsi che il mutamento del rito a sensi dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011 comporterebbe l’applicazione anche del 5° comma di questa norma e, quindi, la necessità di accertare le “preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento”, ovvero del rito del lavoro, esponendo entrambe le parti a conseguenze decadenziali ben più gravi rispetto a quelle derivanti

17 Così TARZIA, Manuale del proc.d.lav. 1980, 225; A.PROTO PISANI, Controversie in materia del lavoro, 58 e ss.

18 Cfr. Cass. Sez. Lav. 24.12.1997 n. 13038.

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da una pronuncia di inammissibilità, che consente la riproposizione integrale della domanda.

In realtà, la fattispecie sopra descritta non integra neppure mutamento del rito, bensì mera conversione del ricorso ex art. 414 cpc in ricorso ex art. 1 comma 48 l.

92/2012. Inoltre, nell’ipotesi in cui la variazione del rito venga disposta solo all’udienza, nel contraddittorio delle parti, con ordinanza di mutamento, in applicazione del 1° comma dell’art. 4, le eventuali preclusioni e decadenze che si possa ritenere si siano verificate a seguito delle rispettive costituzioni in giudizio, non sollevano particolari perplessità, quanto meno sotto il profilo dell’affidamento riservato dalle parti all’applicazione di una disciplina processuale diversa da quella appropriata, salva l’ipotesi che l’errore nella adozione del rito sia imputabile al giudice, anziché alla scelta del ricorrente.

In quest’ultimo caso, evidentemente, non potrà essere negata la rimessione in termini. Nell’ipotesi di erronea opzione per l’ordinario rito lavoristico ad opera del ricorrente, ove questi abbia omesso alcuni degli elementi prescritti dall’art. 414 cpc, quali la produzione dei documenti e la articolazione dei mezzi istruttori, potrà solo imputare a sé stesso la scelta. Nel caso del convenuto, si potrebbe osservare che ugualmente l’eventuale omissione non sia incolpevole, laddove, dall’esame del ricorso e del decreto notificati emerga inequivocabilmente l’originaria adozione del rito ordinario.

Va, infine, dato conto delle aspre critiche che sono state riservate dalla dottrina al 5° comma dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011, disposizione accusata di esporre il convenuto alle conseguenze pregiudizievoli degli errori dell’attore, sì da affermarne l’applicabilità solo a quest’ultimo19.

Domanda estranea al nuovo rito proposta con ricorso ex art. 1, comma 48 legge 92/12

Non esattamente simmetrica a quella sopra indicata è la soluzione del caso inverso a quello sinora preso in esame, che si ha nell’ipotesi in cui una domanda

19 Così F.COSSIGNANI, Note sul mutamento del rito ex art. 4 D.Lgs. n. 150/2011, in Giur.it., 2012, 1387.

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estranea all’ambito di applicazione del nuovo rito sia proposta con ricorso dichiaratamente promosso a sensi del comma 48 dell’art. 1 della legge 92/2012.

In questo caso, non sembra ipotizzabile la mera conversione dell’atto introduttivo mediante adozione da parte del giudice del decreto appropriato. A ciò osta la mancanza nel ricorso promosso a sensi dell’art. 1 comma 48 legge 92/2012 di alcuni degli elementi prescritti dall’art. 414 cpc.

Il giudice potrà, pertanto, provvedere soltanto in udienza, nel contraddittorio delle parti, al mutamento del rito ex art. 4, 1° comma D.Lgs. 150/2011 e adottare i provvedimenti di cui al terzo comma di detta norma, ovvero la fissazione dell’udienza ex art. 420 cpc con assegnazione di un «termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria».

In questo caso, l’ipotetica applicazione del 5° comma dell’art. 4 D.Lgs. n.

150/2011 non può produrre alcun effetto in quanto il rito Fornero, erroneamente seguito sino al mutamento del rito, non prevede, nella prima fase, specifiche ipotesi di preclusione o decadenza.

Deve essere mutato il rito anche a fronte di un errore nella qualificazione della domanda?

La tematica del mutamento del rito in questa seconda ipotesi non è, tuttavia, questione di così semplice soluzione se ci si pone il seguente quesito:

- l’obbligo di disporre la variazione del procedimento ricorre anche nei casi in cui il giudice ritenga che l’adozione del rito Fornero da parte del ricorrente derivi da un errore nella qualificazione della domanda di impugnazione del licenziamento, che sia stata impropriamente ricondotta al disposto dell’art. 18 S.L. ?

- o, invece, in questi casi, il giudice deve rigettare nel merito la domanda (ex art. 18 S.L.), considerato che ciò non impedirà all’attore di riproporre con il rito giusto (quello ordinario del lavoro) la domanda diversa (diversamente qualificata), atteso che il giudicato di rigetto si formerà soltanto sulla domanda così come era stata originariamente qualificata?

Tra le ipotesi concretamente verificatesi e che hanno sollevato l’interrogativo che precede, possono indicarsi, esemplificativamente:

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- il caso (estremamente frequente) in cui venga proposta una domanda di impugnazione del licenziamento chiedendo le pronunce a contenuto meramente indennitario di cui ai commi 5 e 6 prima parte del novellato art. 18 S.L. e, all’esito della costituzione del convenuto, ovvero, del tutto, dell’istruttoria, emerga la carenza del requisito dimensionale, con conseguente applicabilità, ai fini della liquidazione di un’indennità risarcitoria, soltanto dell’art. 8 l. 604/66;

- il ricorso di una lavoratrice madre licenziata prima del 18 luglio 2012 da datore di lavoro carente del requisito dimensionale con il quale si propone una domanda di impugnazione del licenziamento, adducendo la nullità del licenziamento per difetto di colpa grave ed invocando il primo comma dell’art. 18 S.L., norma inapplicabile ratione temporis, anziché gli effetti di diritto comune che la giurisprudenza riconduceva alla violazione dell’art. 54 d.lgs. 151/2001 20.

In realtà, a ben vedere, in entrambe queste due ipotesi non dovrebbe porsi una questione di rito, se si considera che le pronunce che potrebbero essere emesse (e che, nel regime «ante Fornero» sarebbero state adottate dal giudice anche d’ufficio, in quanto ritenute in rapporto di «continenza» rispetto alla più ampia domanda di «tutela reale»21) appaiono «fondate sugli identici fatti costitutivi» per gli effetti di cui al comma 48 dell’art. 1 legge 92/12.22

20 Su questa fattispecie concreta, si vedano (in www.giuslavoristi.it - sez reg.lazio 2012) due pronunce del Trib. Roma Sez. lavoro che pervengono a soluzioni contrapposte: Ord. 31.10.2012 nel procedim.

R.G. 28555/12 che ha disposto il mutamento del rito e Ord. 31.10.2012 nel procedim. R.G. 27852/12, che ha respinto il ricorso.

21 Il riferimento è a quella giurisprudenza di legittimità che ha ammesso la modifica (anche in appello) della domanda di tutela reale in domanda di tutela obbligatoria per l’appunto sul presupposto dell’identità di causa petendi e di continenza del petitum della seconda rispetto alla prima: si v. Cass., sez. lav., 11.9.1997, n. 8906, che ha rilevato che «nell’identità del presupposto giuridico (illegittimità del licenziamento) e materiale (difformità tra fatto contestato e fatto posto a base del licenziamento ed inquadrabilità del fatto contestato in altra ipotesi disciplinare sanzionata conservativamente), la domanda proposta in appello, avendo un petitum (riassunzione ex art. 8[l.604/66]) costituito da un minus nei confronti della domanda di reintegrazione e rientrando pertanto nella topografia dell’iniziale domanda, non era inammissibile innovazione»; Cass., sez. lav., 9.9.1991, n. 9460: «La "causa petendi"

della domanda di tutela, sia "reale" (ex art. 18 l. n. 300-70) che "obbligatoria" (ex art. 8 l. n. 604-66), contro il licenziamento "illegittimo" è identica, essendo costituita, per entrambe, dalla "inefficacia" (ai sensi dello art. 2 l. n. 604-66) oppure dalla "annullabilità" o "nullità" (ai sensi degli artt. 1 e 3 e, rispettivamente, 4 della stessa l. n. 604-66) del licenziamento impugnato. Diverso è, invece, il

"petitum", che - nella "tutela reale" - è costituito dall'ordine di reintegrazione e dalla condanna al risarcimento del danno (ai sensi dell'art. 18 l. n. 300-70), mentre - nella "tutela obbligatoria" - si risolve nella condanna alla riassunzione oppure, alternativamente, al risarcimento del danno (ai sensi dell'art. 8 l. n. 604-66). Muovendo da tale premesse, questa Corte ha negato, - in ipotesi di domanda iniziale di

"tutela obbligatoria" e di accoglimento della successiva istanza di "tutela reale" -, la configurabilità sia della "mutatio libelli" vietata (art. 420 c.p.c.), trattandosi invece di mera "emendatio" (v. Cass. n. 5339- 77), che del vizio di extrapetizione (ex art. 112 c.p.c.: vedi Cass. n. 1654-80), ma ha ritenuto, tuttavia, improponibile, per la prima volta in cassazione (v. Cass. n. 3118-74), la richiesta di "tutela reale" in

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In ogni caso, anche ad essere di altro avviso rispetto alla individuazione delle domande «fondate sugli identici fatti costitutivi» cui ha riguardo il citato comma 48 dell’art. 1 legge 92/2012, in queste ipotesi, laddove si ritenga che la domanda non rientri nell’ambito di applicazione del nuovo rito, la ritenuta impossibilità per il giudice di scrutinare la domanda e di adottare qualsiasi provvedimento con il rito Fornero, non implica necessariamente:

- né che la domanda debba essere ritenuta infondata nel merito, perché, in applicazione del principio secondo il quale iura novit curia, la mera invocazione di

applicazione dello "ius superveniens" (art. 18 l. n. 300-70). A maggior ragione, deve ritenersi rispettosa del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), ad avviso della Corte, la pronuncia di "tutela obbligatoria" a fronte di domanda - che risulti, comunque, inaccoglibile - della

"tutela reale". Evidente risulta, infatti, il rapporto di "continenza" tra la più ampia domanda di "tutela reale", - volta ad ottenere la reintegrazione ed il risarcimento (commisurato, quantomeno, alle retribuzioni percipiende, e, comunque, non inferiore a cinque mensilità: v. per tutte, Corte Cost. n. 2 e 6-86, Cass., sez. un. civ., n. 2768-85, e sez. lav. n. 5645-89, 6293-88, 5222-38, 1592-88, 8889-87) -, e la domanda di "tutela obbligatoria", che si risolve nella "riassunzione" oppure - alternativamente - nel risarcimento del danno entro i limiti stabiliti contestualmente (art. 8 l. n. 604-66).»; Cass., sez. lav., 11.9.2003, n. 13375, che ha escluso che abbia violato l’art. 112 cpc la sentenza che, accertata l’inefficacia del licenziamento per difetto di forma scritta ed escluso la sussistenza del requisito dimensionale, nonostante la mera formulazione di domande ex art. 18 S.L., abbia adottato una pronuncia di condanna al pagamento delle retribuzioni maturate sulla base del diritto comune, in quanto «omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella di cui all’art. 18».

22 L’art. 1, comma 48 legge 92/2012 prevede che «con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 … salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi». La dottrina si è immediatamente divisa nell’interpretazione di questa disposizione tra chi ha ritenuto che la stessa implichi che, mentre le domande ex art. 18 S.L. devono essere obbligatoriamente proposte con il nuovo rito, quelle che presentino la medesima causa petendi (intesa in senso generico, ovvero con esclusivo riferimento alla esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed ad un recesso illegittimo) rispetto alle domande di impugnazione del licenziamento fondate sulla norma statutaria, ma che possono presentare differenze negli altri elementi (parti o petitum) sono facoltativamente proponibili con il rito Fornero (P.SORDI, op. cit., 12 e ss.; F.M.GIORGI, op.cit., 328 e ss.) e chi, sembrando attribuire rilevanza esclusiva alla causa petendi, ha affermato che «ipotizzare che vi possano essere domande “diverse” fondate su “identici fatti costitutivi” è un nonsense … Se i fatti costitutivi sono identici, la domanda è necessariamente identica» (così .P.LUISO,La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, in Judicium, 2012, 7; cfr. P.CURZIO,Il nuovo rito per i licenziamenti, WP C.S.D.L.E.

«Massimo D’Antona».it – 158/2012, 11; A.GUARISO,Nuovo rito sul licenziamento e d.lgs. 150/2011:

spunti di riflessione, in Riv. Crit. D.L.P.eP., 2/2012, 309).

Questa duplicità di orientamento si è riprodotta anche nelle prime pronunce giurisprudenziali. Si cfr., in favore della estensione facoltativa del nuovo rito, Trib. Roma Est. Sordi – Ord.za 28.11.2012 nel proc. R.G. 30520/2012; Trib. Roma Est. Cosentino – Ord.za 25.2.2013 nel proc. R.G. 40458/2012;

Trib. Roma Est. Armone – Ord.za 19.12.2012 nel proc. R.G. 30499/12; Trib. Roma Est. Pucci – Ord.za 29.1.2013 nel proc. R.G. 39535/12; in favore dell’orientamento contrapposto, cfr. Trib. Roma Est.

Casola 21.2.2013 nel proc. R.G. 31887/12; questa pronuncia esclude l’applicabilità dell’estensione del rito anche alle domande in rapporto di continenza rispetto a quelle ex art. 18 S.L., affermando che il cit. comma 48 dell’art. 1 legge 92/2012 opererebbe solo nel caso di litispendenza e che «la differenza anche solo quantitativa dei petita genera una differenza strutturale tra le azioni, che, come tale, esclude comunque il rapporto di identità imposta dalla legge n. 92»; tutte le pronunce possono essere lette in www.giuslavoristi.it, Sezione Regionale Lazio, Osservatorio legge 92/2012 – Novità di dottrina e giurisprudenza nel Lazio.

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una norma diversa da quella applicabile alla fattispecie non la rende di per sé inaccoglibile;

- né che la domanda stessa possa essere dichiarata inammissibile solo perché proposta con un rito diverso da quello che l’ordinamento le assegna, se si ritiene che l’errore nella scelta del rito non è un presupposto processuale.

Sembrerebbe, quindi, che anche in questi casi sia corretto ipotizzare il mutamento del rito.

Al fine di ritenere applicabile l’obbligo di mutamento del rito anche in queste ipotesi è necessario, tuttavia, porsi un altro quesito, ovvero:

- se l’individuazione del rito debba avvenire sulla base delle prospettazioni di fatto e di diritto contenute negli atti introduttivi;

- o sulla base di un’autonoma valutazione e qualificazione giuridica della fattispecie da parte del giudice, per quanto inidonea a pregiudicare la decisione di merito della causa.

Se si considera, come già ricordato, che il giudice è sempre investito del potere- dovere di individuare la norma e di attribuire la corretta qualificazione giuridica alla res in iudicium deducta, non si può che optare per la irrilevanza della prospettazione attorea.

Anche questa precisazione non risolve, però, definitivamente il problema. Va, infatti, chiarito se tale autonomo controllo da parte del giudice debba essere effettuato:

- solo in limine litis ed allo stato degli atti;

- o se possa essere ripetuto all’esito dell’istruzione e prima della decisione.

In quest’ultimo senso si è più volte espressa la migliore dottrina che, nell’affrontare queste tematiche soprattutto a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 426 e 427 cpc, ha osservato che «a differenza della competenza, le norme sul rito sono norme sul procedimento e come tali possono (anche se non necessariamente) per definizione condizionare il contenuto della decisione di merito: pertanto, il principio di legalità impone che esse siano rispettate al momento della decisione di merito …: di qui l’esigenza che il rito sia individuato anche sulla base della qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia così come emerge al termine dell’istruzione» e che, quindi, «il controllo da parte del giudice non può avvenire in qualsiasi fase del processo ma solo in limine litis sulla base di una valutazione allo stato degli atti e ad

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istruzione esaurita sulla base della valutazione globale delle risultanze della causa»;

corollario di tale affermazione è che anche «la revoca della relativa ordinanza possa avvenire solo ad istruzione esaurita sulla base di una valutazione globale delle risultanze di causa»23.

Di contrario avviso sembra essere la giurisprudenza che ha spesso affermato doversi «avere riguardo al contenuto della domanda»24 ed ha escluso l’operatività dell’art. 427 cpc, qualificando però la questione come di competenza e rilevando che

«il giudice non può esaminare il merito della controversia per desumerne la propria incompetenza a qualificarla» e che, «ove, in accoglimento dell’eccezione del convenuto, si riconosca insussistente il rapporto di lavoro subordinato affermato dall’attore, è tenuto non a dichiarare la propria incompetenza, ma a rigettare la domanda»25.

Nelle fattispecie prese in esame dalla giurisprudenza, generalmente riguardanti l’applicazione dell’art. 427 cpc, tuttavia, la questione del rito era strettamente connessa a quella della competenza; in secondo luogo, nei casi nei quali è stato disposto il rigetto con la motivazione della mancata prova della qualificabilità del rapporto come subordinato, ciò era effettivamente da ascriversi all’infondatezza nel merito della pretesa, che trovava il suo fondamento esclusivamente in relazione ad istituti tipici del rapporto di lavoro subordinato.

Nei casi qui in esame, viceversa, l’inapplicabilità dell’art. 18 S.L. alle fattispecie concrete non implica necessariamente l’infondatezza della domanda, bensì solo l’estraneità della controversia al nuovo rito.

Va, infine, segnalata l’esistenza di un ultimo problema da risolvere al fine di poter affermare che l’eventuale esistenza dei presupposti per il mutamento del rito dovrebbe essere valutata sia in limine litis che all’esito dell’istruttoria. Bisogna chiedersi se a ciò osti l’integrale applicazione dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011 e specificamente del suo secondo comma, che facoltizza al mutamento «non oltre la prima udienza di comparizione delle parti».

23 Così A.PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro, in F.it. 1981, V, 188 e ss. ; cfr. ANDRIOLI (AA.VV.), Le controversie in materia di lavoro, 1974, 136 e ss.

24 Così Cass. Sez. Terza, 17.6.1996 n. 5544.

25 Così Cass. Sez. Terza 3.3.2000 n. 2368.

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Va, tuttavia, rilevato che è ampiamente diffusa in dottrina una lettura della norma che consente al giudice di pronunciarsi persino in sede di decisione della causa, interpretando la prima udienza soltanto come termine di preclusione assegnato al convenuto per rilevare la questione26.

Non necessariamente, peraltro, l’applicazione in via analogica del 1° comma dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011 deve implicare l’estensione anche del suo secondo comma, considerato che nessun termine è previsto dagli artt. 426 e 427 cpc e che la disposizione di cui al cit. 2° comma – ove restrittivamente interpretata – appare di dubbia compatibilità con le questioni di rito connesse ai rapporti tra rito Fornero e processo del lavoro; in particolare considerando che tali questioni sono relative a controversie la cui sussumibilità nell’uno o nell’altro rito dipende da differenze solo di alcuni dei rispettivi fatti costitutivi; di talchè il perimetro di estensione dei due riti non è di agevole individuazione se non all’esito di accertamenti istruttori.

Alternativamente, se si ritiene che la prima udienza segni il limite invalicabile per il mutamento del rito, si deve anche concludere che, ove la questione di rito non sia risolta in tale momento (salva l’ipotesi di omessa pronuncia nonostante la sua tempestiva rilevazione), debba essere ritenuta improponibile, in quanto irrilevante nel prosieguo del giudizio.

Cumulo tra domande rientranti e non nel nuovo rito

Altro quesito di frequente proponibilità in ordine alle questioni di rito è quello riguardante l’individuazione dei provvedimenti da adottare qualora un ricorso contenga, oltre a domande ex art. 18 S.L., anche domande ulteriori di competenza del Giudice del Lavoro, ma estranee all’ambito di applicazione del nuovo rito.

26 V. S.IZZO, Mutamento di rito, in F.It. 2012, V, 85, la quale rileva: «Nonostante il tenore letterale, al contrario, non è possibile individuare in tale momento finanche il termine finale per la pronuncia dell’ordinanza. Tale conclusione – oltre ad essere del tutto stravagante rispetto al sistema – comporterebbe che il convenuto che avesse posto la questione senza avere avuto una risposta nella prima udienza, perderebbe con ciò il diritto a vederla risolta. La lettura più ragionevole, dunque, conduce a ritenere che la preclusione sia relativa soltanto all’eccezione, ben potendo però il giudice decidere su di essa in un momento successivo. Resta intesa l’impugnabilità per omissione di pronuncia della sentenza che nulla statuisse in merito all’eccezione». Cfr. A.CARATTA,La semplificazione dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Giappichelli, 2012, 76.

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Le considerazioni già svolte in ordine al rilievo che la mera conformità al rito prescritto dalla norma non possa costituire un presupposto processuale sembrano decisive anche in questo caso.

All’esito della costituzione del contraddittorio e quale che sia la originaria scelta del rito effettuata dal giudice con il decreto di fissazione dell’udienza, entrambe le domande, connesse solo soggettivamente, non sembra possano essere dichiarate inammissibili.

In questo caso, d’altronde, il mero cumulo di domande sottoposte a riti diversi non crea difficoltà di carattere pratico, ben potendo il giudice avvalersi del potere- dovere di adottare all’udienza di comparizione un provvedimento di separazione a sensi degli artt. 103, 2° comma e 104 cpc27.

Considerata la diversità dei due riti, va solo precisato che, per poter contestualmente provvedere alla separazione, anche in questo caso, il giudice sembra dover anche disporre il mutamento di rito delle domande che vengono separate, assegnando, quindi, i termini necessari per l’integrazione degli atti di causa con riferimento alle domande traslate nel rito lavoristico.

Non sembra, infine, che si possano adottare soluzioni diversificate solo in ragione del fatto che l’atto introduttivo faccia riferimento a norme del rito ordinario del lavoro (come l’art. 414 cpc) o a norme del nuovo rito (come l’art. 1 co. 48), perché, ove si ritenga applicabile il 1° comma dell’art. 4 D.Lgs. 150/2011, non se ne può desumere una disciplina diversa da quella che tale disposizione prevede, che non distingue le due ipotesi, ammettendo il mutamento del rito in tutti i casi in cui «una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste».

Che l’esercizio di un potere-dovere esercitabile anche d’ufficio dal giudice non possa essere condizionato dalla allegazione, ad opera delle parti, di un elemento meramente accessorio, è, infine, dimostrato dal fatto che non potrebbe ragionevolmente sostenersi che ad una soluzione diversa da quella sopra ipotizzata (separazione delle cause) si pervenga nell’ipotesi (insuscettibile di censure sotto il profilo formale) di mancata indicazione nell’atto introduttivo di ogni referente processuale.

27 In questo senso, rispetto al cumulo di domande soggette a riti diversi in materia locatizia, cfr.

A.PROTO PISANI,Rapporti tra competenza, rito e merito nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro), in F.It. 1981, V, 185 e ss.

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La soluzione che precede, in ordine alla separazione delle cause ed al mutamento del rito, non contrasta con la ipotizzabile declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale (che, alla stregua dell’art. 1 comma 56 legge 92/12, il nuovo rito sembra ritenere proponibile solo nella fase di opposizione28), perché la proposizione di una domanda riconvenzionale nella fase sommaria non costituisce una mera ipotesi di adozione di un rito diverso da quello previsto dalla norma, bensì l’esercizio di una facoltà non consentita alle parti in questa fase. Non a caso, con riferimento alla domanda riconvenzionale, la Riforma ha espressamente previsto la separazione (che, evidentemente presuppone il contestuale mutamento del rito), laddove la domanda non sia esaminabile con il nuovo rito, solo nella fase di opposizione.

La fase di opposizione

Per quanto riguarda eventuali domande estranee all’ambito di applicazione del nuovo rito (che saranno generalmente soggette al rito lavoristico) sulle quali il giudice si sia erroneamente pronunciato con l’ordinanza conclusiva della prima fase, va, innanzi tutto, chiarito che anche alla fase di opposizione troverà preliminarmente applicazione il principio di ultrattività del rito, che imporrà al soccombente con l’ordinanza, relativamente a tali domande estranee all’ambito di applicazione del nuovo rito, di proporre ricorso in opposizione, onde evitare che su di esse si formi il giudicato29 e di instare, quindi, per la loro trattazione separata; quest’ultima, ovviamente, trattandosi di questione di rito, potrà essere disposta dal giudice anche

28 Su questa problematica, si v., se si vuole, F.M.GIORGI, op. cit., 359 e ss.

29 Così come un’eventuale pronuncia ex art. 18 S.L. emessa con sentenza in un procedimento svoltosi nelle forme del rito del lavoro (omettendo, quindi, la fase sommaria) dovrà essere impugnata con ricorso in appello proposto ex art. 433 cpc. Del tutto consolidato è, infatti «il principio dell’apparenza, per il quale il regime di impugnazione della sentenza e di conseguenza anche le norme relative al computo dei termini per impugnare, vanno individuati in base alla qualificazione che il giudice a quo abbia dato all’azione proposta in giudizio», così Cass. Sez.VIa, 11.1.2012, 171; cfr. Cass. Sez. Lav.

9.11.2010 n. 22738, che richiama il principio per cui «il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della controversia, indipendentemente dalla esattezza della relativa valutazione, e perciò detto rito costituisce per le parti criterio di riferimento anche ai fini del computo dei termini per la proposizione dell’impugnazione»; cfr. Cass. Sez. Lav. 9.2.2009 n. 3192; Cass. Sez.

Lav. 27.11.2007 n. 24649; Cass. Sez. Ia, 7.5.2002 n. 6523.

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d’ufficio (sempre a condizione che l’opposizione ricada anche sulle domande estranee al nuovo rito30).

In questa fase, il mutamento del rito non sembra foriero di particolari problemi, attuandosi, di fatto, ove intervenga alla prima udienza, con la mera separazione delle cause (considerata l’identità di disciplina degli atti introduttivi nei due procedimenti e l’impossibilità che si verifichi la violazione del termine a comparire, atteso che l’art.

415 cpc prevede un termine minimo di trenta giorni tra la notifica del ricorso e l’udienza di discussione, mentre il combinato disposto dei commi 52-53 dell’art. 1 l.

92/2012 prevede un termine di quaranta giorni). Ove si ritenga che la separazione possa essere adottata anche nel prosieguo del giudizio, questa evenienza potrebbe al più imporre provvedimenti con i quali si disponga l’interrogatorio libero delle parti ed il tentativo di conciliazione o il rinnovo di mezzi istruttori (sempre che si ritenga che la deformalizzazione del nuovo rito nella fase di opposizione incida su questi adempimenti).

L’ordinanza, così come nella fase sommaria, non potrà che essere adottata sulla base della qualificazione giuridica dell’oggetto delle domande da separare, che non può essere rimessa alla mera prospettazione del proponente, bensì alla autonoma valutazione operata dal giudice allo stato degli atti. Rispetto a tale qualificazione, ovviamente, l’ordinanza ha natura provvisoria, come tale è revocabile ex art. 177 cpc e non è impugnabile in Cassazione né con il regolamento di competenza ex art. 42 cpc, né ex art. 111 Cost. 31.

Il reclamo

Di particolare interesse pratico, in considerazione delle incertezze derivanti dalla lacunosità della disciplina del precedente grado che individua l’ambito oggettivo e quello soggettivo di applicazione del nuovo rito è la soluzione del quesito relativo alla applicazione dell’art. 439 cpc, che prevede che, ove si ritenga che, nel precedente

30 Ciò a meno di ipotizzare un improbabile effetto devolutivo automatico al giudice dell’opposizione di tutte le questioni decise con l’ordinanza.

31 Cfr. Cass. Sez. Lav. 18.9.2007 n. 19345 a proposito di una ordinanza di mutamento del rito disposta in appello ex artt. 427 e 439 cpc ed impugnata in Cassazione ex art. 111 Cost. E’ interessante rilevare che, pur dichiarando inammissibile il ricorso per difetto di contenuto decisorio, la S.C., nella pronuncia, sembra criticare l’ordinanza della Corte territoriale nella parte in cui «motiva la rimessione al primo Presidente con le risultanze del processo, vale a dire con le acquisizioni di merito, piuttosto che con il contenuto della domanda, il quid disputatum, che determina la competenza», sembrando così parificare le questioni di rito con quelle di competenza.

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grado, siano stati commessi errori nella scelta del rito, trovano applicazione in appello gli artt. 426 e 427 cpc.

E’ del tutto ovvio che la questione non ha nulla a che vedere con l’ipotesi che avverso una sentenza di primo grado emessa a sensi dell’art. 1, comma 57 l. 92/2012 sia proposta impugnazione avanti alla Corte di Appello, omettendo la qualificazione di «reclamo» ed invocando l’applicazione del rito di cui all’art. 433 cpc. In tal caso, la sostanziale identità degli atti introduttivi e la irrilevanza della qualificazione nominalistica dell’atto stesso, induce a qualificare l’errore o l’omissione come una mera irregolarità. Potrà, viceversa, rilevare la diversità di termini a comparire da parte dei due riti (l’art. 435 prevedendo che «tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni», mentre il comma 52, richiamato dal comma 60 dell’art. 1 l.

92/2012 prevede che la notifica debba essere effettuata «almeno trenta giorni prima della data fissata» per la costituzione dell’appellato e, quindi, almeno quaranta giorni prima dell’udienza di discussione), che porterà alla necessità di rinnovare il termine per la notificazione all’udienza, su richiesta dell’appellante, in caso di mancata costituzione in giudizio dell’appellato o di costituzione dell’appellato che lamenti la violazione del termine a difesa, salva la sanatoria derivante da una costituzione in giudizio senza eccezioni.

Ferma restando la applicabilità del già ricordato principio di ultrattività del rito, da cui consegue che anche le pronunce di primo grado emesse a sensi del comma 57 su domande estranee all’ambito di applicazione del nuovo rito dovranno essere necessariamente impugnate con il «reclamo», è solo con riferimento a queste statuizioni, con le quali il giudice si sia erroneamente pronunciato con la sentenza conclusiva del primo grado (denegando od omettendo il provvedimento di separazione), che si pone il problema della adottabilità di un provvedimento di mutamento del rito.

Ad accogliere la tesi dell’applicabilità in via analogica al nuovo rito degli artt.

427 cpc e 4 D.Lgs. 150/2011, non sembra possa escludersi la configurabilità di un provvedimento di mutamento del rito, anche se lo stesso si configuri sostanzialmente come una ordinanza di separazione delle cause. Per quanto di minima entità, va, infatti, riscontrata una diversità di disciplina tra i due riti, consistente in un più

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circoscritto potere di ammissione di nuove prove nel «reclamo»32, oltre che nella possibile deformalizzazione dell’istruttoria (ivi inclusa quella già svolta nella precedente fase), profili che hanno comunque un’incidenza sul diritto di difesa delle parti.

Ne consegue che anche nel nuovo rito deve escludersi che la mancata adozione di un provvedimento di mutamento del rito e/o di separazione delle domande nel precedente grado costituisca vizio che determini la rimessione della causa al giudice di primo grado, bensì il mutamento del rito e la decisione della causa in secondo grado con l’ordinario rito lavoristico. E’, infatti, consolidato l’orientamento di legittimità che, in tema di censure per «mancata conversione del rito del lavoro in quello ordinario», ha affermato che «la trattazione dinanzi al giudice del lavoro col rito speciale di una causa non compresa fra quelle enumerate dall’art. 409 cpc non costituisce motivo di nullità, talchè l’omesso cambiamento di rito, anche in appello, non può costituire motivo di impugnazione, tranne che abbia inciso sul contraddittorio o sui diritti della difesa»33.

32 L’art. 1, comma 59 legge 92/2012, nel disciplinare lo ius novorum nella fase di «reclamo» riproduce entrambe le eccezioni al divieto di avere accesso a nuovi mezzi di prova e di produrre nuovi documenti ora sancite separatamente, nel rito lavoristico, dall’art. 437 cpc (indispensabilità) e, nel rito di cognizione ordinario, dall’art. 345 cpc (impossibilità non imputabile di proporre la prova in primo grado), eccezioni che, prima delle modifiche introdotte dalla legge 134/2012, erano entrambe previste dalla norma del rito ordinario. E’ evidente che l’intento del legislatore è, quindi, quello di ridimensionare, nel nuovo rito, i poteri d’ufficio del giudice d’appello, dovendo trovare applicazione l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza nella precedente vigenza dell’art. 345 cpc, ovvero che

«ove la parte dimostri di non aver potuto proporre la prova in primo grado per causa a lei non imputabile può ottenerne l’ammissione in appello indipendentemente dal requisito dell’indispensabilità (che è cosa diversa dalla rilevanza). Mentre qualora non dimostri che la preclusione in primo grado sia stata determinata da causa non imputabile non può ottenere l’ammissione della prova in appello, anche se il collegio la dovesse ritenere indispensabile. La valutazione d’indispensabilità della prova non può superare la preclusione nella quale è incorsa la parte in primo grado. Ed anzi, in questo caso, la prova richiesta in appello non può neppure considerarsi prova nuova, poiché è una prova dalla quale la parte è decaduta» (così Cass., sez. III, 19.8.2003, n. 12118; cfr. Cass. , sez. I, 13.12.2000, n. 15716).

33 Così Cass., sez. lav., 24.12.1997, n. 13038; cfr. Cass., sez. IIIa, 9.10.1998, n. 10030.

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